Classificazione e gestione clinica delle gammopatie monoclonali a significato renale

Abstract

Le gammopatie monoclonali di significato renale (MGRS) sono un gruppo complesso di patologie caratterizzate dalla produzione di proteine ​​monoclonali aberranti che interagiscono con le strutture renali, causando danni ai tessuti. A differenza delle forme neoplastiche, il danno renale nella MGRS non è correlato alla massa del clone o ai livelli circolanti di proteina monoclonale.

Questo manoscritto esplora l’eterogeneità delle proteine ​​monoclonali coinvolte, che variano dalle immunoglobuline complete alle catene leggere libere (FLC), e il modo in cui determinano uno spettro di lesioni renali con prognosi diverse. Approfondiremo inoltre le sfide diagnostiche, sottolineando il ruolo indispensabile della biopsia renale, comprese tecniche avanzate come la microdissezione laser e la spettrometria di massa (LMD/MS) per la caratterizzazione dei depositi, in particolare in casi ambigui o complessi. Vengono inoltre discusse considerazioni sulla gestione clinica e sul trattamento, inclusa la necessità dell’identificazione dei cloni.

Parole chiave: Discrasie plasmacellulari, Gammopatia monoclonale, Gammopatie monoclonali di significato renale, Biopsia renale

Classificazione delle MGRS

Le gammopatie monoclonali di significato renale (MGRS) sono definite dalla presenza di una proteina monoclonale che direttamente o indirettamente interagisce con le strutture renali, portando a danno tissutale. Il danno renale è esclusivamente espressione delle caratteristiche chimico-fisiche della proteina monoclonale. La massa del clone e la quantità di proteina monoclonale immessa nel circolo non influenzano il danno renale, contrariamente a quanto osservato nelle forme neoplastiche. Per tali motivi, i cloni responsabili delle MGRS hanno caratteristiche pre-neoplastiche o non neoplastiche. Infatti, le MGRS si caratterizzano per una sopravvivenza generale superiore alle forme neoplastiche (escluse alcune forme quali l’amiloidosi ad immunoglobuline), ma ciò che le contraddistingue è una sopravvivenza renale sensibilmente ridotta [1]. 

La produzione di proteine monoclonali aberranti è varia e può includere immunoglobuline complete (L+H chains), immunoglobuline con eccessiva produzione di catene leggere libere (free light chain (FLC)), esclusivamente FLC, oppure immunoglobuline incomplete (catene pesanti e leggere non integrate in una singola immunoglobulina, ma separate). Questa eterogeneità di proteine monoclonali è responsabile di un caleidoscopio di lesioni renali, la cui prevalenza è più o meno rara e talvolta unica.

Le caratteristiche chimico-fisiche della proteina monoclonale e la sede prevalente di danno renale sono responsabili di una prognosi renale che è differente tra i pattern istologici noti. Ad esempio, pazienti affetti da light chain deposition disease (LCDD) hanno una prognosi renale sensibilmente inferiore se paragonati agli affetti da glomerulonefrite proliferativa con depositi monoclonali di IgG (proliferative glomerulonephritis with monoclonal IgG deposits (PGNMID)), rispettivamente 57% e 17% di insufficienza renale terminale a 28 mesi di follow-up [1, 2].

Definite dall’International Kidney and Myeloma Group (IKMG) nel 2012, le MGRS possono essere classificate secondo criteri di danno diretto o indiretto della proteina monoclonale coinvolta e ulteriormente stratificate per caratteristiche dei depositi alla microscopia elettronica (Figura 1) [3].

Figura 1. Classificazione eziopatologica delle MGRS.
Figura 1. Classificazione eziopatologica delle MGRS.

Il danno diretto è dimostrabile documentando la restrizione monoclonale dei depositi all’immunofluorescenza (IF) /immunoistochimica (IHC) della biopsia renale; esempio più frequente è la positività all’IF esclusivamente per una catena leggera, anti-kappa o anti-lambda. L’assenza di restrizione monoclonale ed il sospetto clinico deve portare all’esecuzione dell’immunofluorescenza su tessuto paraffinato (non “a fresco”) con tecniche immunoenzimatiche, più efficaci nello smascherare gli epitopi delle catene leggere monoclonali.

I depositi possono essere suddivisi in organizzati o amorfi in relazione alla presenza o meno di una organizzazione quaternaria della proteina monoclonale in polimeri disfunzionali (e.g., fibrille, tubuli) o cristalli. Tale classificazione è possibile esclusivamente con l’osservazione dei depositi con il microscopio elettronico a trasmissione. 

Il danno indiretto è di più complessa definizione in quanto la proteina monoclonale non si osserva direttamente in sede tessutale.

Danno diretto: forme a depositi organizzati

  • Amiloidosi ad Immunoglobuline. Si definisce per la formazione di depositi di fibrille non orientate, di diametro compreso tra i 7 e i 13 nm, caratteristicamente positive alla colorazione Rosso Congo (con birifrangenza verde mela alla luce polarizzata) e alla Tioflavina T.  È una forma sistemica di amiloidosi, con maggiore interessamento renale, cardiaco e midollare. In sede renale, tutte le strutture possono essere interessate, con differenti presentazioni cliniche quali sindrome nefrosica (depositi in sede mesangiale e nell’ansa capillare in sede subendoteliale, intramembranosa e subepiteliale), insufficienza renale (interessamento interstiziale o vascolare), o entrambe. I depositi non causano reazione infiammatoria; differentemente da quanto osservato in altre patologie a depositi organizzati, la microscopia ottica non si caratterizza per un quadro di glomerulonefrite membranoproliferativa (MPGN). L’amiloidosi ad immunoglobuline rappresenta il 43% delle diagnosi di MGRS e tra queste è la condizione con la peggiore prognosi, specialmente quanto la presentazione sistemica è già clinicamente significativa (in tal caso, la sopravvivenza mediana è di 8,4 mesi) [4, 5]. I depositi di amiloide sono monotipici per l’immunoglobulina o per la sua porzione coinvolta. Distinguiamo tre sottotipi alla luce dello studio in immunofluorescenza o immunoistochimica: amiloidosi AL (singola catena leggera, kappa o lambda), AH (singola catena pesante) e ALH (immunoglobulina completa). Talvolta, la restrizione monoclonale dei depositi è di difficile interpretazione per il mascheramento degli epitopi; pertanto, le tecniche immunoenzimatiche (e.g., Pronase®) su paraffinato sono più sensibili.
  • Glomerulonefrite crioglobulinemica (tipo I). La forma di tipo I di crioglobulinemia si caratterizza per la presenza in circolo di una proteina monoclonale (IgG o IgM) che precipita nel siero e nel plasma a temperature inferiori ai 37 °C; le altre due forme descritte (tipo II e tipo III) presentano le medesime caratteristiche fisiche, ma contrariamente alla forma di tipo I precipitano con altre immunoglobuline non patologiche. Queste ultime sono note come crioglobulinemie “miste” in quanto i depositi presentano nel tipo II una IgM monoclonale con attività di fattore reumatoide diretta contro Ig policlonali (IgG, IgA), mentre nel tipo III depositi di IgG policlonali e IgM policlonali. Essendo una patologia dei piccoli vasi, essa assume una rilevanza sistemica con interessamento multiorgano (in primis cardiaco, neurologico, gastroenterico, cutaneo, articolare). Nei glomeruli, i depositi possono interessare tutte le sedi (mesangiale, subendoteliale, intramembranosa e subepiteliale) con aspetti talvolta grossolani in sede subendoteliale a formare “pseudotrombi” di immunoglobuline, monoclonali all’immunofluorescenza; i depositi sono flogogeni e cronicamente generano un pattern glomerulare tipo MPGN. Alla microscopia elettronica i depositi mostrano microtubuli di diametro superiore ai 40 nm, con o senza spazio vuoto centrale [6].
  • Glomerulonefrite fibrillare. È una patologia limitata al rene che si caratterizza per la presenza di depositi di fibrille con andamento non ordinato simile all’amiloidosi, ma con diametri superiori (16-25 nm). La negatività per il rosso congo e la positività della DnaJ heat shock protein family (Hsp40) member B9 (DNAJB9) sono le caratteristiche istologiche salienti; quest’ultima, descritta nel 2018, è altamente sensibile e specifica per la glomerulonefrite fibrillare, non essendo descritte altre forme ad esso positive di depositi organizzati o amorfi [7].
  • Glomerulonefrite da immunotattoidi. Questa rara forma di MPGN a depositi organizzati si caratterizza per fasci ordinati di microtubuli di diametro superiore ai 25 nanometri. I depositi sono caratteristicamente negativi per rosso congo, tioflavina T e DNAJB9. La patologia è limitata al rene e non sono dimostrabili crioprecipitati nel siero e nel plasma; pertanto l’assenza di manifestazioni cliniche sistemiche è il principale elemento di distinzione con le crioglobulinemie, essendo l’organizzazione dei depositi simile [6]. La forma monoclonale è infrequente se paragonata alla forma policlonale che si associa ad autoimmunità (e.g., lupus eritematoso sistemico) e infezioni croniche (e.g., epatiti virali). Tuttavia, la forma monoclonale si associa soventemente a forme pre-neoplastiche o neoplastiche linfoplasmocitoidi (e.g., leucemia linfatica cronica, CLL) [8].

Depositi cristallini

Seppur raro, ogni struttura renale coinvolta nel transito di catene leggere monoclonali (in particolare Kappa) può essere interessata dalla formazione di inclusi intracellulari (in particolare lisosomiali) con struttura cristallina. Essendo le strutture renali più esposte il tubulo prossimale, l’interstizio peritubulare (istiociti), e il glomerulo (podociti), queste possono sviluppare depositi intracitoplasmatici di cristalli con restrizione monoclonale rispettivamente note come tubulopatia prossimale da catene leggere, l’istiocitosi a depositi cristallini di catene leggere e la podocitopatia da cristalli. Le ultime due sono forme rare per cui, vista la similitudine del danno istologico alla microscopia ottica ed elettronica, si ipotizza una comune eziopatogenesi legata alla resistenza alla degradazione in sede lisosomiale del cristallo.

  • Tubulopatia prossimale da catene leggere (a depositi cristallini o amorfi). Il quadro renale più frequentemente osservato in questa categoria di lesioni istologiche consiste nella tubulopatia prossimale da catene leggere, variante cristallina. Essa si caratterizza per la presenza di inclusioni cristalline in sede lisosomiale a carico delle cellule tubulari prossimali, positive per kappa all’immunofluorescenza. Raramente, tali inclusioni non raggiungono un’organizzazione cristallina e permangono amorfe [9]. Ad oggi, il danno tubulare è chiarito da due meccanismi: 1) biochimico, secondario all’intrinseca resistenza delle mutazioni acquisite dal clone (sottogruppo VK1 della catena kappa monoclonale) [10]; 2) meccanico, secondario alla lisi delle membrane cellulari causato dai cristalli. L’elevato stress ossidativo intracitoplasmatico generato dalla persistenza dei cristalli in sede citoplasmatica porta ad apoptosi o necrosi della cellula tubulare prossimale [11]. Questo peculiare quadro istologico si caratterizza clinicamente per lo sviluppo di sindrome di Fanconi completa (glicosuria normoglicemica, acidosi tubulare prossimale, ipouricemia, aminoaciduria, ipofosfatemia), insufficienza renale e proteinuria di modesta entità.

Danno diretto: forme a depositi non organizzati

  • Malattie a deposizione di immunoglobuline monoclonali (MIDDs). Si definisce MIDDs un gruppo di patologie caratterizzate dalla precipitazione di una porzione o una immunoglobulina completa in sede di membrana basale glomerulare, tubulare e vascolare in depositi definiti di tipo “Randall” o “a grani di pepe”, che appaiono lineari all’immunofluorescenza e caratteristicamente granulari alla microscopia elettronica. Lo stimolo immunogeno si estrinseca in una espansione mesangiale (proliferazione + matrice) che determina un quadro glomerulopatia nodulare con aspetti di MPGN. In relazione alle caratteristiche dell’immunoglobulina monoclonale, possiamo distinguere tre tipi di MIDD: malattia da deposizione di catene leggere (LCDD), di catene pesanti (HCDD), di catene pesanti e leggere (LHCDD). La LCDD rappresenta circa l’80% di tutte le forme di MIDD, generalmente di tipo kappa (>70% di tutte le forme). È generalmente una forma limitata al rene.
  • Glomerulonefrite proliferativa a deposizione di immunoglobuline monoclonali (PGNMID). Tale condizione si caratterizza per la presenza di depositi granulari in sede esclusivamente glomerulare (preminentemente mesangiale e subendoteliale) con monoclonalità IgG3 kappa. La patologia è tipicamente limitata al rene. I depositi sono amorfi e non hanno caratteristiche peculiari. L’effetto pro-flogogeno dei depositi e la sede sono responsabili di un quadro di MPGN. Tuttavia, nonostante la floridità del quadro infiammatorio glomerulare, in >60% dei casi non si osserva una proteina monoclonale nel siero o nelle urine. Il riscontro di monoclonalità è sfavorevole in quanto associato con un maggiore rischio di evoluzione verso l’insufficienza renale terminale e “recurrence” su trapianto [12].
  • Forme similari ai pattern primitivi o secondari policlonali. Raramente le proteine monoclonali presentano affinità verso lo stesso epitopo degli anticorpi policlonali causa di alcune forme di nefropatia immuno-mediata. Alcuni esempi sono: 1) glomerulonefrite membranosa IgG3 Kappa positiva, descritta nel 2012, sovrapponibile ad una forma primitiva se non per la restrizione dei depositi verso una monoclonalità IgG3 Kappa e la recidiva su trapianto, atipica nelle forme policlonali [13]; 2) malattia da anticorpi anti-membrana basale glomerulare, monoclonale, IgA1 kappa, descritta nel 2005, caratterizzata da recidive nel tempo, diversamente dalle forme policlonali che si caratterizzano per una singola presentazione [14]; 3) nefropatia a depositi monotipici di IgA (IgA kappa), che nella più estesa esperienza pubblicata in letteratura può essere espressione di due pattern a depositi monoclonali di IgA, ovvero la alfa-HCDD o la IgA-PGNMID [15].

Danno indiretto

In questo gruppo rientrano i danni istologici renali in cui la proteina monoclonale non si osserva direttamente in sede tessutale ma, stabilizzando a monte la via alterna del complemento, essa è causa indiretta di: 1) consumo del C3 e cofattori per stabilizzazione della C3 convertasi in fase liquida, con deposizione di frammenti nelle strutture glomerulari (glomerulopatia da deposizione di C3, che include la glomerulonefrite a depositi di C3 (C3GN) e la malattia da depositi densi (DDD)), oppure 2) un danno citotossico secondario alla stabilizzazione della C3 convertasi in fase solida in sede endoteliale che si configura istologicamente e clinicamente con un danno microangiopatico (condizione nota a livello sistemico come sindrome emolitico-uremica complemento-mediata).

In letteratura sono riportati diversi epitopi cui le immunoglobuline monoclonali sono state descritte essere affini: 1) anticorpi anti-C3 convertasi della via alterna (APC3C) e anti-C5 convertasi, chiamati “fattori nefritogeni”; 2) anti fattore H, particolarmente interessanti dal punto di vista patogenetico in quanto in relazione al dominio coinvolto possono essere responsabili di forme patologiche differenti. Infatti, 1) se l’epitopo bersaglio è un dominio in sede carbossi-terminale (SCR 19-20), potremmo osservare una sindrome emolitico-uremico complemento mediata per stabilizzazione della APC3C in fase solida endoteliale mentre, 2) se diretti verso i domini amino-terminali (SCR1-4), si potrebbe osservare una stabilizzazione della APC3C della fase liquida con consumo massivo di C3 e fattori regolatori della via alterna; questi, depositandosi in sede glomerulare, originano delle forme proliferative glomerulari quali la C3GN e la DDD; 3) anti fattore B, che stabilizza la APC3C nella fase liquida, generando pattern tipo C3GN/DDD [16].

 

Management delle MGRS

Quando dovrebbe essere presa in considerazione la diagnosi di MGRS?

Le manifestazioni cliniche in corso di MGRS dipendono essenzialmente dal segmento del nefrone interessato dal processo patogenetico. L’interessamento glomerulare è caratterizzato da proteinuria di entità variabile (dalla proteinuria sub-nefrosica fino alla sindrome nefrosica conclamata) talora in associazione con microematuria (specialmente in presenza di lesioni glomerulari con aspetti proliferativi endocapillari o extracapillari). Il declino della funzione renale può essere osservato, con caratteristiche cliniche variabili dalla malattia renale cronica fino all’insufficienza renale rapidamente evolutiva. In presenza di una principale localizzazione tubulare del danno diretto o indiretto secondario alla proteina M, il quadro clinico è caratterizzato dal riscontro di elementi suggestivi di disfunzione tubulare: basso peso specifico urinario, glicosuria normoglicemica, iperfosfaturia con conseguente ipofosfatemia, proteinuria tubulare, aminoaciduria, iperuricosuria e perdita urinaria di bicarbonato. L’insieme di tali reperti identifica la sindrome di Fanconi: la presenza esclusivamente di alcuni di essi delinea una condizione di sindrome di Fanconi incompleta. Pertanto, una diagnosi di MGRS dovrebbe essere presa in considerazione in ogni paziente con manifestazioni cliniche indicative di malattia renale (comprendendo tutto lo spettro di sindrome cliniche nefrologiche) associate alla presenza di una proteina M. Il sospetto clinico di MGRS aumenta in assenza di altre condizioni cliniche potenzialmente responsabili di un danno renale (diabete mellito, ipertensione e aterosclerosi). Nella casistica della Mayo Clinic i principali fattori clinici associati ad un incremento della probabilità di porre diagnosi di MGRS in pazienti affetti da gammopatia monoclonale e sottoposti a biopsia renale sono risultati essere: presenza di proteinuria > 1,5 nelle 24 ore, presenza di microematuria e riscontro di un rapporto FLC kappa/FLC lambda alterato [4]. Una condizione di MGRS dovrebbe essere presa in considerazione anche nei pazienti con diagnosi istologica di C3 glomerulopathy o TMA, specie in soggetti di età superiore a 50 anni: i dati provenienti dalle casistiche della Mayo Clinic mostrano una prevalenza di gammopatia monoclonale nel 65% dei soggetti con età superiore a 50 anni e diagnosi istologica di C3G [17] e nel 21% dei soggetti di pari età con diagnosi istologica di TMA [18]. Manifestazioni extrarenali sono comuni nell’amiloidosi AL e nella MIDD, con il cuore e il fegato che rappresentano gli organi più frequentemente colpiti. Nella crioglobulinemia di tipo 1, la cute è l’organo più frequentemente colpito.

La diagnosi di MGRS si basa su due fasi di fondamentale importanza: 1) l’identificazione della proteina M circolante; 2) la dimostrazione di una correlazione causale tra la proteina M circolante e l’anomalia renale osservata, il cui strumento diagnostico fondamentale è la biopsia renale. 

Identificazione della componente monoclonale

Tipicamente, una condizione di MGRS è caratterizzata da bassi livelli di proteina M circolante che riflettono le piccole dimensioni del clone B-cellulare o plasmacellulare sottostante. Con un limite di rilevamento di 500-2000 mg/l, l’elettroforesi delle proteine ​​sieriche (SPE) ha una sensibilità insufficiente per rilevare livelli bassi di proteina M circolante, in particolare nel caso in cui questa sia costituita da catene leggere libere (FLC) in considerazione della loro emivita inferiore rispetto alle Ig intatte: in oltre il 50% dei casi di amiloidosi AL l’elettroforesi delle proteine sieriche non è in grado di rilevare la presenza di una componente monoclonale [19]. L’immunofissazione sierica (IFE) presenta una sensibilità circa 10 volte maggiore rispetto a quella della SPE, tuttavia in una proporzione elevata di casi il rilevamento della proteina M richiede l’esecuzione di immunofissazione urinaria e/o la determinazione delle catene leggere libere nel siero.

Il principio su cui si basano i test per la determinazione delle sFLC utilizza anticorpi diretti contro epitopi esposti nelle catene leggere “libere” ma nascosti nelle immunoglobuline intatte. Questo test fornisce una misurazione quantitativa delle FLC sia κ che λ con una sensibilità < 5 mg/l e il calcolo del rapporto κ/λ può dimostrare una sintesi di catene leggere sbilanciata, suggerendo la presenza di una gammopatia monoclonale. Gli studi che valutano le prestazioni diagnostiche di questo test hanno documentato il rilevamento di rapporti κ/λ anormali nel 76-98% dei pazienti con amiloidosi AL e nel 92-100% dei pazienti con LCDD [19, 20]. Da più di 10 anni, la quantificazione delle sFLC viene eseguita mediante un test immunonefelometrico basato su anticorpi policlonali (Freelite®, The Binding Site, Birmingham, UK). Negli ultimi anni, nuovi test basati su anticorpi monoclonali sono entrati nella pratica clinica. Il test Freelite FLC e uno dei nuovi test (N Latex FLC assay®, Siemens Healthcare Diagnostic Products GmbH, Marburg, Germania) sembrano avere prestazioni diagnostiche simili, sebbene i dati attuali indichino che non sono intercambiabili, soprattutto nel monitoraggio della risposta alla terapia. Gli intervalli di riferimento per le FLC sieriche di Freelite sono stati definiti da Katzmann et al. (intervallo normale κ: 3,3-19,4 mg/l; λ: 5,7-26,3 mg/l; rapporto κ/λ: 0,26-1,65) [21]. Poiché le FLC vengono filtrate dal glomerulo e metabolizzate nei tubuli prossimali, è necessaria cautela nell’interpretare questo test nel contesto dell’insufficienza renale. Quando la velocità di filtrazione glomerulare (GFR) diminuisce significativamente, la rimozione delle FLC mediante pinocitosi reticoloendoteliale diventa più importante, con conseguente prolungamento dell’emivita delle FLC e aumento policlonale delle FLC sia κ che λ. Nei pazienti con GFR normale, l’aumentata produzione fisiologica di LC policlonali κ (peso molecolare (MW) 22,5 kDa) è mascherata dalla più rapida eliminazione di queste LC monomeriche rispetto alle LC λ dimeriche e quindi di maggior dimensioni (MW 45-50 kDa). Poiché la capacità differenziale di eliminare le LC κ e λ da parte del rene viene persa con il deterioramento della funzione renale, il rapporto κ/λ può aumentare leggermente e, per questo motivo, l’adattamento dell’intervallo normale a 0,37-3,17 aumenta l’affidabilità del test FLC Freelite nei pazienti con insufficienza renale [22]. Al contrario, quando si utilizza il test N Latex FLC, non è necessario un intervallo di riferimento renale separato poiché il rapporto κ/λ nei pazienti con malattia renale non differisce dai valori normali nei controlli sani.

Biopsia renale

La biopsia renale è fondamentale per la diagnosi di MGRS al fine di determinare se la proteina M è uno spettatore innocente o la causa della sindrome clinica nefrologica. L’esame del campione bioptico non può prescindere da studi di immunofluorescenza (IF), immunoistochimici (IHC) e microscopia elettronica (EM) per identificare la composizione del deposito e il modello di organizzazione ultrastrutturale. A questo proposito, è importante sottolineare il ruolo dell’EM, che dovrebbe far parte del work-up standard, in quanto unico strumento in grado di porre diagnosi di FGN, ITG, CG di tipo 1 e LCPT. In casi selezionati, può rendersi necessario il ricorso a tecniche più sofisticate come microscopia elettronica in immunogold o analisi proteomica tramite microdissezione laser e spettrometria di massa (LMD/MS) per caratterizzare le proteine ​​componenti di depositi densi. LMD/MS non è solo considerato il gold standard per tipizzazione accurata dell’amiloidosi, ma si è rivelata estremamente utile anche per la corretta diagnosi e comprensione di altre MGRS. L’utilizzo di queste tecniche avanzate può richiedere l’invio del campione bioptico a un centro specializzato ed è quindi solitamente riservato a risultati equivoci o casi difficili.

Work-up ematologico

In un contesto di MGRS definita o sospetta, il ruolo dell’ematologo e degli ematopatologi è volto all’identificazione clonale, aspetto fondamentale per la gestione terapeutica dei pazienti con MGRS. L’identificazione clonale è essenziale poiché uno stesso quadro istologico renale può essere espressione di condizioni ematologiche differenti, con diverso trattamento e diversa prognosi.  Da notare che, sebbene un clone patologico possa essere identificato praticamente in ogni paziente con amiloidosi AL o MIDD, tali cloni sono spesso difficili da rilevare in altre forme di MGRS. Ad esempio, la possibilità di identificare il clone patologico scende al di sotto del 17% per i pazienti che non hanno un’immunoglobulina monoclonale rilevabile negli studi di immunofissazione, e solo il 20-30% dei pazienti con PGNMID ha un’immunoglobulina monoclonale rilevabile in circolo [23].

Poiché il trattamento varia a seconda del fatto che il clone abbia una natura plasmocitaria o linfocitaria, scegliere l’agente giusto è difficile se non è possibile identificare un clone. La valutazione ematologica richiede nella maggior parte dei pazienti l’esecuzione di aspirato e biopsia del midollo osseo, sebbene nei pazienti con cloni di leucemia linfatica cronica (CLL) la diagnosi potrebbe essere posta con l’utilizzo della citometria a flusso su sangue periferico. La valutazione morfologica dovrebbe includere la quantificazione della percentuale di plasmacellule (in presenza di plasmacellulari) e la valutazione della presenza di aggregati linfoidi o linfoplasmocitici atipici (in presenza di cloni linfocitari) nonché di depositi di amiloide. Inoltre, studi ausiliari – in particolare la immunofenotipizzazione con citometria a flusso, il rilevamento della malattia minima residua e la valutazione citogenetica e genetica dei cloni – sono utili per l’identificazione di piccoli cloni e per ricavare raccomandazioni terapeutiche.

Il pannello FISH (ibridazione fluorescente in situ) del mieloma ha dimostrato una crescente importanza nel guidare il trattamento dei pazienti con discrasie plasmacellulari. Ad esempio, i pazienti con amiloidosi AL con traslocazione t(11;14) hanno risposte inferiori alla terapia a base di bortezomib, mentre quelli con guadagno del cromosoma 1q21 mostrano risposte meno soddisfacenti al trattamento con melfalan più desametasone (rispetto ai pazienti senza queste varianti genetiche) [24]. Questi risultati evidenziano l’importanza di eseguire il pannello FISH per il mieloma su tutti i campioni bioptici del midollo osseo di pazienti con discrasia plasmacellulare. Se la valutazione del midollo osseo non rivela una malattia ematologica clonale, il passo successivo potrebbe essere quello di eseguire studi di imaging (come TC-total body, PET-CT) per cercare un plasmocitoma localizzato o una linfoadenopatia in linfoma di basso stadio e di basso grado [25]. Per i pazienti con sospetto di mieloma multiplo, è opportuno eseguire una TC total-body con specifiche scansioni per la ricerca di interessamento scheletrico [26]. Qualsiasi lesione sospetta dovrebbe essere sottoposta a biopsia e dovrebbe essere ottenuto materiale sufficiente per consentire studi diagnostici e prognostici. Nella misurazione della malattia residua minima è stata utilizzata la citometria a flusso di nuova generazione: questa tecnica potrebbe essere utile nei pazienti con sospetta MGRS che hanno risultati negativi alla citologia tradizionale o agli studi di citometria a flusso di campioni di midollo osseo.

Principi di terapia

Lo scopo del trattamento nella MGRS è preservare o migliorare la funzione renale con l’utilizzo di un approccio terapeutico mirato al clone di cellule B o plasmacellule responsabile della produzione della proteina M e del danno d’organo. Le evidenze attuali supportano fortemente la strategia della terapia diretta al clone, con il raggiungimento di una risposta ematologica completa quale obiettivo terapeutico finalizzato a ottenere un’adeguata risposta renale e prevenire la progressione del danno d’organo. I dati pubblicati da Sayed et al provenienti da una coorte di 53 pazienti affetti da LCDD mostrano come il raggiungimento una risposta ematologica (risposta completa o very good partial response) fosse associata ad una sopravvivenza renale nettamente superiore rispetto a quanto osservato in presenza di una risposta parziale o in assenza di risposta ematologica [27]. La scelta del protocollo terapeutico è espressione della natura del clone (plasamacellulare vs linfocitario), del metabolismo renale dei farmaci, della potenziale tossicità renale della terapia e della presenza di neuropatia nel paziente.

Discrasia plasmacellulare

In presenza di un clone di plasmacellule che producono IgG, IgA o LC (MGUS non IgM), deve essere presa in considerazione una terapia diretta all’eradicazione del clone di plasmacellule con agenti anti-mieloma. Il farmaco più importante nel trattamento della MGRS associata a un clone di plasmacellule è l’inibitore del proteasoma bortezomib. Bortezomib ha un metabolismo non renale e viene solitamente somministrato in combinazione con desametasone. Sono attualmente disponibili altri inibitori del proteasoma, ma bortezomib dispone dei dati più affidabili nel trattamento della MGRS. Cohen et al nel 2015 hanno pubblicato risultati relativi a 49 pazienti affetti da MIDD e trattati con regimi basati sull’utilizzo di bortezomib, mostrando il raggiungimento di una risposta renale in 26 casi: l’analisi multivariata identificava il raggiungimento di una risposta ematologica quale principale fattore associato all’ottenimento di una risposta renale [28]. Risultati analoghi sono stati riportati con l’utilizzo di bortezomib nel contesto di altre forme di MGRS, quali LCPT [29], PGNMID [12], C3 glomerulopathy [30]. Daratumumab è un anticorpo monoclonale umano IgGk anti-CD38 che ha dimostrato efficacia come agente singolo, o in combinazione con altri agenti, nel trattamento di pazienti con MM recidivante e di nuova diagnosi: negli ultimi anni un numero crescente di evidenze ha supportato l’utilizzo di tale molecola nel trattamento delle forme di MGRS associate alla presenza di un clone plasmacellulare. L’esperienza retrospettiva pubblicata dal gruppo di Kastritis nel 2020 ha analizzato i dati relativi a 25 pazienti trattati con daratumumab (20 casi di LCDD, 2 casi di HCDD, 2 casi di C3G e 1 caso di PGNMID): il 77% dei pazienti otteneva una risposta ematologica (48% dei casi risposta completa/very good partial remission) e il 55% dei pazienti mostrava a 6 mesi dall’inizio della terapia una riduzione della proteinuria > 30% con eGFR stabile [31]. Nel 2021 il gruppo della Mayo Clinic ha pubblicato i risultati di uno studio di fase II condotto su 11 pazienti affetti da PGNMID: il trattamento con daratumumab determinava una risposta renale, parziale o completa, in 10 pazienti dopo 12 mesi di follow-up [32].

Clone di cellule B con proteina M IgM

Poiché la MGUS IgM è rara, vi sono in letteratura poche evidenze che possano guidare la scelta del trattamento nella MGRS correlata alla proteina M di tipo IgM. Quando il clone midollare sottostante è un clone B-linfocitario o linfoplasmocitario IgM positivo che produce proteine ​​M ed esprime CD20, la terapia a base di rituximab (eventualmente in associazione con desametasone e ciclofosfoamide o bendamustina) è la prima scelta di trattamento. Il rituximab può essere somministrato in sicurezza senza modifiche della dose nei pazienti con funzionalità renale ridotta. Circa il 60% della ciclofosfamide viene eliminato attraverso i reni: gli studi descrivono un aumento dell’esposizione alla ciclofosfamide nei pazienti con malattia renale, tuttavia, gli aggiustamenti della dose in questi pazienti rimangono variabili in letteratura. La bendamustina non sembra alterare la farmacocinetica nell’insufficienza renale moderata, ma dati limitati suggeriscono aumenti di tossicità nei pazienti con GFR < 40 ml/min.

Risposta alla terapia

Nella MGRS, la valutazione della risposta ematologica al trattamento è cruciale perché la risposta renale dipende dalla risposta ematologica. Il tasso di risposta renale nell’amiloidosi AL è significativamente più alto nei pazienti con una soppressione > 90% della proteina M nefrotossica [33] e anche in corso di MIDD, il raggiungimento di una risposta ematologica completa ha mostrato benefici simili [34]. Nell’amiloidosi AL, la misurazione della sFLC è uno strumento essenziale per la valutazione di una risposta ematologica. I criteri di risposta utilizzati nell’amiloidosi AL sono riportati in Tabella 1; sembra logico utilizzare questi stessi criteri di risposta negli altri disturbi MGRS. L’uso del test sFLC per la risposta è stato suggerito per tutte le MGRS che coinvolgono solo LC. Nei casi di una proteina M non rilevabile o difficile da misurare, la risposta ematologica può essere valutata con esami ripetuti del midollo osseo utilizzando una citometria a flusso. In assenza di una componente monoclonale circolante e senza identificazione del clone cellulare, la GFR e la proteinuria possono essere gli unici parametri utilizzati per valutare l’attività della malattia.  È importante notare che la risposta renale è solitamente ritardata: nel lavoro pubblicato da Leung et al è stata necessaria una durata minima di 12 mesi di risposta ematologica prima che si osservasse l’insorgenza della risposta renale in pazienti con amiloidosi AL [35].

Risposta Criteri
Completa Normalizzazione dei livelli sierici di FLC e della ratio, immunofissazione sierica e urinaria negativa
Very good partial response Riduzione del dFLC < 40 mg/l
Paziale Riduzione del dFLC > 50%
Nessuna risposta Riduzione del dFLC < 50%
Progressione

In caso di CR, ricomparsa di proteine monoclonali su siero o urine o FLR ratio alterato In caso di PR, incremento della proteina M sierica del 50% (0,5 g/dl) o incremento della proteina

M urinaria del 50% (> 200 mg/die)

Incremento delle FLC > 50% (>100 mg/l)

Tabella 1. Valutazione della risposta ematologica in corso di MGRS (sulla base dei criteri IMWG per amiloidosi AL).

 

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Effetti avversi renali delle nuove terapie molecolari oncologiche

Abstract

L’introduzione delle nuove terapie oncologiche ha cambiato lo scenario delle complicanze. Un ritardo nel riconoscimento degli effetti avversi renali si è inizialmente dovuto al timing di comparsa del danno renale, che più frequentemente è successivo al periodo di osservazione previsto dagli studi di registrazione. La malattia renale ha un impatto significativo sulla gestione dei pazienti oncologici. La biopsia renale è fondamentale per la gestione delle tossicità renali e dovrebbe essere fortemente incoraggiata per i pazienti che mostrano effetti renali avversi da nuovi agenti antitumorali.

Recentemente abbiamo esaminato le caratteristiche istologiche di 42 pazienti trattati con nuovi agenti antitumorali (immunoterapia: 54,8%, trattamenti anti-angiogenetici: 45,2%) sottoposti a biopsia renale per insufficienza renale di nuova insorgenza e/o anomalie urinarie. Il quadro istologico più comune è risultata essere la nefrite tubulo-interstiziale nel primo gruppo e la microangiopatia trombotica nel secondo. Sulla base dei risultati istologici, la sospensione definitiva del trattamento si è resa necessaria in un numero molto limitato di pazienti. Tutti avevano una microangiopatia trombotica correlata agli anti-VEGF. In nessun paziente trattato con immunoterapia è stata necessaria la sospensione del farmaco. Nei pazienti trattati con terapia combinata, l’esame istologico ha permesso di identificare il peso della lesione specifica consentendo una modifica mirata del trattamento. Sulla base di questi dati, la biopsia renale dovrebbe essere presa in considerazione in ogni paziente oncologico che sviluppi anomalie urinarie o mostri un peggioramento della funzionalità renale durante il trattamento con immunoterapia o terapia mirata.

Parole chiave: Immunecheckpoint, Targeted Therapies, biopsia renale, microangiopatia trombotica, nefrite tubulo-interstiziale

Negli ultimi anni l’introduzione di terapie innovative, derivante dalla rivisitazione della malattia oncologica come disordine del sistema immunitario, ha cambiato lo scenario delle complicanze [1]. Le cosiddette target therapies in particolare hanno completamente cambiato il concetto di bersaglio terapeutico portando ad un significativo miglioramento della tolleranza, ma hanno anche obbligato i diversi specialisti a fronteggiare nuove complicanze e ad imparare a gestire situazioni differenti da quelle derivanti dall’utilizzo di chemioterapici tradizionali [2, 3]. Da un punto di vista teorico il target ideale dovrebbe essere essenziale per la sopravvivenza delle cellule maligne e non espresso sulle cellule normali. Di conseguenza la sua inibizione dovrebbe consentire la morte delle cellule neoplastiche con un effetto minimo sulle normali funzioni cellulari. Tuttavia, nella real life la selettività di queste molecole è incompleta. Ne derivano effetti collaterali che possono potenzialmente coinvolgere tutti gli organi. A distanza di alcuni anni dall’introduzione di questi nuovi agenti, è diventato chiaro che il rene costituisce uno dei bersagli di possibili tossicità [4]. Il ritardo nel riconoscimento degli effetti avversi sul rene è stato dovuto al timing dell’insorgenza di danno renale, che avviene di solito successivamente al periodo di osservazione previsto dagli studi di registrazione [5], ma anche all’esclusione dei pazienti con compromissione renale dai trial clinici.

La malattia renale ha un impatto significativo sulla gestione dei pazienti oncologici, in quanto può condizionare la sospensione temporanea o definitiva della terapia, la prescrizione di dosi inadeguate e l’uso di farmaci a dosi subottimali. Tutto ciò favorisce la crescita tumorale e lo sviluppo di metastasi.

Gli anti-VEGF ma anche gli anti-BRAF e ovviamente gli immunocheckpoint inibitori (ICI) sono tra le categorie di farmaci più coinvolti nell’insorgenza di eventi avversi renali.

Le complicanze renali delle target therapies dipendono da meccanismi patogenetici complessi che possono interessare varie parti del nefrone.

I farmaci anti-angiogenici possono indurre danni vascolari e/o glomerulari. Lo spettro delle possibili lesioni istologiche è in continua evoluzione e, oltre alla microangiopatia trombotica (TMA) e alla glomerulosclerosi segmentaria focale (GSFS), stanno emergendo molti quadri istologici differenti [6].

Esempi di farmaci anti-angiogenetici sono il bevacizumab e ranibizumab, anticorpi monoclonali (mAbs) diretti contro il VEGFA in grado di inibire l’angiogenesi attraverso l’interazione con tutte le sue isoforme. Aflibercept [7], una proteina di fusione costituita dalla combinazione dei domini di legame per VEGFR1 e VEGFR2 e la porzione Fc dell’IgG1 umana, agisce come recettore-esca solubile. Ramucirumab è un mAb IgG1 completamente umanizzato che inibisce specificamente il VEGFR2 prendendo di mira il suo dominio extracellulare [8].

Tra i farmaci bersaglio, gli inibitori della tirosin-chinasi (TKI) stanno assumendo un ruolo sempre più importante nell’ambito del trattamento di varie tipologie di tumori. I TKI sono proteine coinvolte nelle vie di trasduzione del segnale che regolano la proliferazione, la differenziazione, la migrazione, il metabolismo e i segnali anti-apoptotici delle cellule.

TKI come sunitinib, pazopanib, sorafenib e axitinib hanno come bersaglio il VEGFR2, ma interferiscono con l’attività di recettori aggiuntivi che condividono una struttura simile come il recettore PDGF, il recettore del fattore di crescita dei fibroblasti e il recettore EGF [9]. I meccanismi di danno renale degli anti VEGF sono noti. Sappiamo che il VEGF è secreto dai podociti e, legandosi ad un recettore sull’endotelio, induce la formazione delle fenestrature endoteliali nei capillari glomerulari. La produzione locale di VEGF è quindi indispensabile per mantenere l’integrità della barriera di filtrazione glomerulare. L’inibizione dell’attivazione del VEGF riduce l’espressione di nefrina e conduce al rigonfiamento, al distacco della cellula endoteliale e all’interruzione della barriera di filtrazione.

Durante il trattamento con il ligando anti-VEGF, il VEGFA secreto dai podociti viene sequestrato e non si lega né al VEGFR2 podocitario né a quello endoteliale. Questo può determinare la comparsa di proteinuria in una percentuale di pazienti che varia nei diversi studi dal 20% al 40% se trattati con basse dosi, ma aumenta fino al 64% nei pazienti trattati con alte dosi. Il quadro istologico è quello della microangiopatia trombotica.

Il trattamento con TKI consente bensì al VEGF di legarsi al suo recettore a livello endoteliale e podocitario, ma inibisce le vie di trasduzione a valle. Anche attraverso questa interferenza, l’inibizione si può associare alla comparsa di proteinuria, ma in questo caso i quadri istologici sono per lo più rappresentati da podocitopatie (minimal change disease (MCG) e la glomerulosclerosi focale e segmentaria (GSFS)) [10-12].

Un’altra molecola di trasduzione recentemente identificata come bersaglio è il B-raf la cui inibizione può essere ottenuta con TKI come vemurafenib e dabrafenib. Alcune segnalazioni ne riportano una la possibile associazione con proteinuria. Il B-raf interagisce con la proteina PLC1 dello slit diaphragm la cui espressione si riduce in corso di trattamento con il dabrafenib.  Ciò coincide con una parallela ridotta espressione di nefrina. L’esposizione a dabrafenib comporta un aumento della permeabilità all’albumina attraverso il monostrato di podociti [13, 14].

Gli immunocheckpoint sono regolatori di processi chiave del sistema immunitario. Questi modulatori dei processi di tolleranza immunologica costituiscono attualmente un bersaglio fondamentale dell’immunoterapia. I principali inibitori dei checkpoint immunitari agiscono bloccando le molecole CTLA4, PD-1 e PD-L1 [15].

L’organismo sin dalla nascita è dotato di un insieme di reattività autoimmuni, sia innate che adattative, che costituiscono l’omuncolo autoimmune. L’omuncolo autoimmune presenta, metaforicamente come Janus, due facce funzionali: un volto buono che genera un’infiammazione “terapeutica” e una faccia bellicosa che genera un’infiammazione “effettrice”. Entrambi i tipi di infiammazione sono necessari per mantenere e proteggere l’organismo sano. Le malattie autoimmuni conseguono ad un’illecita reattività contro cellule e tessuti normali. Lo stato tumorale, al contrario, è caratterizzato da una inappropriata soppressione della reattività contro le cellule tumorali [16]. La terapia ideale di una malattia autoimmune dovrebbe comportare il ripristino dell’inattivazione regolata dello “stato di guerra” contro il self e dal riemergere di uno stato di “pace omuncolare”. In questo delicato equilibrio un ruolo fondamentale è svolto dagli immunocheckpoint che sopprimono il sistema immunitario attraverso un’azione mediata da recettori inibitori. Nel contesto del cancro l’incremento di attività degli immunocheckpoint modulata da segnali di origine neoplastica comporta un “silenziamento” della risposta antitumorale da parte delle cellule T citotossiche. Le terapie di blocco del checkpoint contrastano la funzione inibitoria dei recettori promuovendo l’attivazione dei linfociti T citotossici rendendoli di nuovo capaci di uccidere le cellule tumorali. In condizioni di “equilibrio immunitario”, le risposte sono bilanciate: prevengono danni contro l’organismo, ma preservano l’aggressività necessaria ad eliminare gli agenti patogeni e le cellule tumorali. Quando però l’azione di contrasto alla funzione inibitoria supera il punto di equilibrio si scatena una malattia autoimmune [16]. Gli ICI sono anticorpi monoclonali che interagiscono con i ligandi delle cellule tumorali inibendone l’interazione con i linfociti che ricuperano la piena attività anti-tumorale. La loro azione tuttavia, seppur specifica, non è limitata alle cellule tumorali e può quindi determinare la comparsa di eventi avversi immuno-correlati (AEI). Negli ultimi anni, con la diffusione dell’utilizzo di questi farmaci, sono progressivamente aumentate le segnalazioni di danno renale con diverse estrinsecazioni cliniche: AKI [17], anomalie urinarie, alterazioni elettrolitiche. Il quadro più frequentemente descritto è sicuramente quello della nefrite tubulo-interstiziale (NTI) che può presentarsi da sola o in combinazione con altre lesioni renali [18].

Il rene costituisce un possibile target degli eventi avversi in quanto, come gli altri organi bersaglio periferici, esprime la molecola PD-1 in alcuni distretti, soprattutto a livello delle cellule epiteliali tubulari. È stato evidenziato come l’asse PD1-PDL1 a livello renale rivesta un ruolo fondamentale nel mantenere l’omeostasi immunologica. Una disregolazione dell’interazione PD-1/PD-L1 può essere responsabile della comparsa sia di glomerulopatie che di carcinomi renali [19].

Gli studi a disposizione hanno altresì evidenziato che l’uso combinato degli inibitori della via del VEGF e degli ICI consente un potenziamento da parte dei primi dell’attività antitumorale degli ICI bloccando le cellule immuno-soppressive indotte dal tumore e aumentando l’infiltrazione dei linfociti T nei tumori [20-22]. Sulla base di queste evidenze, sia la FDA che l’EMA hanno recentemente approvato l’utilizzo di axitinib in combinazione con avelumab o pembrolizumab per il trattamento di prima linea dei pazienti con carcinoma renale avanzato [23-25]. Tuttavia l’impiego delle terapie combinate complica ulteriormente la gestione delle tossicità, poiché alcuni degli eventi avversi (EA) degli ICI sono simili a quelli dati dalla terapia anti-angiogenica. L’identificazione istologica di ciascun EA, in particolare la caratterizzazione delle lesioni associate all’uno o all’altro farmaco, è fondamentale per ottimizzare non solo la gestione degli effetti collaterali ma anche la prosecuzione del trattamento [26]. Le raccomandazioni per la biopsia renale nei pazienti oncologici sono state recentemente aggiornate [27] ma rimangono limitate. La biopsia renale è stata raccomandata nei pazienti che presentano una proteinuria (≥1 g al giorno) di nuova insorgenza o un peggioramento della funzione renale quando la diagnosi di malattia renale non può essere altrimenti stabilita [28].

Nella nostra esperienza, limitare l’indagine istologica a questi specifici contesti clinici può portare non solo ad una mancata diagnosi ma anche a indicazioni terapeutiche scorrette che possono essere responsabili di ulteriori complicanze cliniche [18].

Recentemente il nostro gruppo ha rivalutato retrospettivamente tutte le diagnosi istologiche dei pazienti trattati con target therapies e/o immunoterapia, sottoposti a biopsia renale per peggioramento della funzione renale e/o comparsa di anomalie urinarie.

Sono stati valutati 23 pazienti trattati con immunoterapia (18 in monoterapia, 5 in terapia combinata con TKI o chemioterapici convenzionali) e 19 pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici (15 in monoterapia, 4 in terapia combinata con ICI o chemioterapici convenzionali).

Nel gruppo trattato con immunoterapia si sono ottenute le seguenti diagnosi istologiche: 8 NTI (34,8%), 4 NTA (17,4%), 3 NTI + NTA (13%), 2 microangiopatie trombtiche (MTA) (8,8%), 2 nefropatie diabetiche (8,8%), 1 GSFS + MTA (4,3%), 1 glomerulopatia membranosa (4,3%), 1 GSFS (4,3%), 1 glomerulonefrite IgA (4,3%) (Figura 1). Il 73,9% di questi pazienti ha proseguito la terapia oncologica in atto. Nel 13% dei casi si è resa necessaria una sospensione temporanea. Nel 8.7% è stato sospeso uno dei farmaci oncologici in corso e il 4.4% ha richiesto la sospensione definitiva del trattamento in corso. Sulla base dei risultati della biopsia nel 43,5% dei casi non sono state poste indicazioni ad interventi terapeutici specifici, nel 52,5% dei pazienti è stato effettuato un ciclo di terapia steroidea e 1 paziente è stato trattato con anticorpo monoclonale anti-CD20.

Figura 1. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con immunocheckopints inhibitor.
Figura 1. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con immunocheckopints inhibitor.

Nel gruppo trattato con anti-angiogenetici le diagnosi istologiche sono state: 7 MTA (36,7%), 2 GSFS + MTA (10,5%), 2 NTA (10,5%), 1 nefropatia diabetica (5,3%), 1 NTI (5,3%), 1 NTI + NTA (5,3%), 1 glomerulopatia membranosa (5,3%), 1 glomerulonefrite membranoproliferativa (5,3%), 1 nefroangiosclerosi (5,3%), 2 altre diagnosi (10.5%) (Figura 2). Il 59% di questi pazienti ha proseguito la terapia oncologica in atto, nel 17,5% è stata necessaria la sospensione di un farmaco e il 23,5% ha richiesto la sospensione definitiva del trattamento in corso (Figura 3a, 3b). Sulla base dei risultati della biopsia, nel 64,7% dei casi non sono state poste indicazioni a interventi terapeutici specifici, il 17,6% dei pazienti è stato trattato con un ciclo di terapia steroidea, l’11,8% è stato trattato con Eculizumab e 1 paziente è stato trattato con anticorpo monoclonale anti-CD20.

Figura 2. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici.
Figura 2. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici.
Figura 3. Distribuzione delle variazioni terapeutiche in base ai risultati istologici nei pazienti in trattamento con immunocheckpoint-inhibitor (a) e con farmaci anti-angiogenetici (b).
Figura 3. Distribuzione delle variazioni terapeutiche in base ai risultati istologici nei pazienti in trattamento con immunocheckpoint-inhibitor (a) e con farmaci anti-angiogenetici (b).

Sulla base dei risultati istologici l’interruzione definitiva del trattamento nella nostra coorte è stata indicata in un numero molto limitato di pazienti. Tutti avevano un quadro di TMA da farmaci anti-VEGF. L’interruzione definitiva del trattamento non è stata necessaria in nessuno dei pazienti trattati con immunoterapia. Nei pazienti trattati con farmaci in combinazione, i risultati istologici hanno permesso una correlazione della lesione specifica con il farmaco corrispondente consentendo modificazioni solo parziali dei protocolli terapeutici in atto.

Il trattamento ottimale per gli eventi avversi nei pazienti sottoposti a nuove terapie antitumorali rimane controverso. I glucocorticoidi rappresentano la principale opzione terapeutica degli EA. Tuttavia, la dose e la durata del trattamento restano da definire. Le linee guida raccomandano occasionalmente l’aggiunta di un secondo immunosoppressore [29-31]. Nella nostra coorte tutti i pazienti sottoposti a trattamento mirato hanno ottenuto una risposta renale e all’ultimo follow-up non si sono manifestate recidive. A questo riguardo è importante sottolineare che i pazienti che non mostrano un recupero funzionale completo presentano una mortalità a distanza più elevata [32]. L’aumento della mortalità associato al mancato recupero dall’AKI può almeno in parte essere spiegato dalla limitazione terapeutica a cui vanno incontro i pazienti con funzionalità renale compromessa e sottolinea l’importanza del timing diagnostico e dell’intervento terapeutico. Una diagnosi precoce consente un l’avvio di un trattamento immediato che può evitare l’instaurarsi di un danno irreversibile [32].

Nella nostra coorte, i risultati istologici hanno escluso un ruolo dell’agente oncologico in una porzione significativa di pazienti. Ciò ha permesso di evitare la prescrizione di glucocorticoidi che secondo le attuali linee guida sarebbe stata indicata ma sarebbe risultata inutile.

In due pazienti infine la biopsia renale ha rivelato rispettivamente una doppia e una tripla nefropatia. In quest’ultimo caso, il paziente ha avuto una diagnosi di malattia di Fabry confermata dai test genetici [33].

In conclusione, la rapida espansione dell’armamentario terapeutico oncologico richiede da parte dei clinici un continuo aggiornamento delle conoscenze che consenta una gestione ottimale della tossicità correlate ai farmaci. La sfida che i team multidisciplinari sono chiamati a vincere è di consentire ai pazienti la prosecuzione dei trattamenti salvavita attraverso una gestione efficace degli effetti avversi. In questo contesto la biopsia renale rappresenta uno strumento diagnostico e prognostico irrinunciabile. I dati della nostra coorte dimostrano che la biopsia renale dovrebbe essere presa in considerazione in ogni paziente oncologico che sviluppi anomalie urinarie o mostri un peggioramento della funzionalità renale durante il trattamento con immunoterapia o terapia mirata. Sulla base delle caratteristiche istologiche la sospensione del trattamento può essere limitata ad un numero ristretto di pazienti consentendo al tempo stesso di ottenere una risposta renale completa nei pazienti che ricevono un trattamento specifico.

La biopsia renale è quindi fondamentale nella gestione delle tossicità renali derivanti da nuovi agenti tumorali e, ad onta delle indicazioni attuali ancora limitate, dovrebbe essere incoraggiata.

 

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Metodologie per il calcolo del numero di nefroni da ecografie e biopsie renali ad uso dei nefrologi

Abstract

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando è stato messo a punto dal gruppo di Neal Bricker un importante metodo di laboratorio per la stima ex vivo del numero totale di nefroni nei reni. Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nel vivente. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare, la percentuale di glomeruli in sclerosi calcolate da campioni bioptici e il volume renale. Questo ultimo può essere misurato mediante risonanza magnetica o TAC o mediante particolari metodologie ecografiche. Dal momento che la riduzione del numero di nefroni funzionanti è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con proteinuria [20]) e di ipertensione, la sua introduzione nella pratica clinica potrebbe permettere una più precisa stratificazione del rischio evolutivo nei pazienti con malattia renale e una migliore comprensione dei meccanismi che contribuiscono alla perdita di nefroni funzionanti.

Parole chiave: numero di nefroni, biopsia renale, malattia renale cronica

Introduzione

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando Damadian, Shawayri e Bricker misero a punto il primo metodo di laboratorio per la determinazione del numero di nefroni nei reni [1]. L’unità funzionale del rene, il nefrone, varia in numerosità fra varie specie, con caratteristiche che sono determinate da un adeguato sviluppo fetale [2]. Nell’uomo il numero complessivo di nefroni varia a seconda della stima: da 850.000 nefroni [3] a 1.429.000 [4], con variazioni in base all’etnia [5]. L’effetto del genere (maschile/femminile) sul numero di nefroni è meno evidente: in alcuni modelli murini (topi B6) le femmine hanno più nefroni dei maschi, mentre in altri ceppi (C3H) non vi sono differenze fra i due sessi [6]. Inoltre, variazioni nel numero di nefroni sono state associate a diverse condizioni cliniche come l’ipertensione: gli adulti ipertesi hanno infatti una media di 702.000 nefroni, inferiore a quella di soggetti normotesi con una media di 1.429.000 [4].

In corso di malattia renale cronica si verifica una perdita della funzione renale dovuta al danno di singoli nefroni e una ipertrofia ed iperfiltrazione dei nefroni residui. Quest’ultimo fenomeno può causare danno ai nefroni superstiti. Un possibile meccanismo dovuto all’iperfiltrazione consiste in un maggior fabbisogno energetico dei nefroni superstiti, una inadeguatezza dell’apporto vascolare con ipossia, ischemia, acidosi [7] (Figura 1).

malattia renale cronica
Figura 1: Nella malattia renale cronica, l’insufficienza continua dei singoli nefroni porta alla progressiva perdita della funzione renale. Questo processo risulta in parte da una risposta cellulare e molecolare alla lesione che rappresenta un tentativo di mantenere l’omeostasi ma avvia invece un programma che danneggia il nefrone. Man mano che i nefroni vengono persi, la compensazione da parte dei nefroni rimanenti esacerba la fisiopatologia glomerulare. Il fabbisogno energetico dei nefroni iperfunzionanti supera il substrato metabolico a disposizione del tubulo renale e l’inadeguatezza dell’apporto vascolare locale promuove l’ipossia/ischemia e la conseguente acidosi. In questo modo, i meccanismi attivati per mantenere l’equilibrio biologico portano alla fine alla scomparsa del nefrone.

Conoscere il numero di nefroni di un soggetto è rilevante alla luce della correlazione tra basso numero di nefroni alla nascita e un aumentato rischio di malattia renale cronica e ipertensione [7, 8], aggravato da uno stile di vita sedentario [9]. Inoltre, l’obesità, insieme ad altre condizioni alla base di lesioni renali acute o croniche, provoca una riduzione del numero di nefroni funzionanti e di conseguenza progressione della malattia renale [10]. Anche il diabete determina un deterioramento progressivo della massa nefronica [11].

Con l’età il numero di nefroni diminuisce e questo è uno dei meccanismi che determina la diminuzione della funzione renale età-dipendente [12]. Sulla base di una serie di autopsie, il tasso di perdita di nefroni per rene è stato stimato a circa 6.800 nefroni per rene all’anno [13]. Da un ulteriore studio effettuato su donatori viventi di rene, il tasso di perdita di nefroni risulta essere di circa 6.200 nefroni per rene all’anno con una velocità di perdita che aumenta con l’età [14].

Numerose condizioni, oltre all’obesità, portano ad un ridotto numero di nefroni. Forme congenite di basso numero di nefroni sono causate da basso peso alla nascita, sesso femminile (anche se, come discusso, questo dato non è replicato in modelli animali), bassa statura da adulti, reni ipoplasici, nascita pretermine, ridotta crescita intrauterina [15, 16]. Tutte le forme di malattia renale cronica (inclusa quella diabetica) si associano a una perdita di nefroni. Altri aspetti, invece, come l’ipertensione hanno una relazione causa-effetto meno chiara, poiché se l’ipertensione causa danno glomerulare, è anche noto che un ridotto numero di nefroni può causare ipertensione.

Numerosi sono stati i progressi, fino ad oggi, sulla determinazione del numero di nefroni. La micro-TAC con mezzo di contrasto permette, ad esempio, di visualizzare i singoli glomeruli (e quindi contare i nefroni) [17]. Tuttavia, è possibile avere un’adeguata stima del numero di nefroni conoscendo la densità di glomeruli da biopsie renali e il volume della corticale renale. Questa ultima è conoscibile tramite risonanza magnetica [18], ecografia e tomografia computerizzata [19].

Con la risonanza magnetica, il volume renale viene calcolato misurando i tre assi del rene, la cui forma viene approssimata a quella di un ellissoide; per impostazione predefinita vengono misurati i diametri longitudinale e trasversale del rene, e il volume renale è calcolato applicando la formula di approssimazione: volume = lunghezza × larghezza × profondità media × 0,5 [18]. Per quanto riguarda le tecniche ecografiche di calcolo del volume renale, una delle formule utilizzate è l’equazione dell’ellissoide (lunghezza × larghezza × spessore × π/6) e un’equazione aggiustata (lunghezza × larghezza × spessore × 0,674). Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) tramite il conteggio dei voxel, che è considerato il criterio standard [19].

Partendo dal volume renale che quindi può essere calcolato anche semplicemente tramite l’ecografia renale, si può facilmente ricavare il numero di nefroni, integrando i dati acquisiti con parametri bioptici quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli sclerotici [20]. Il nostro scopo, infatti, è quello di chiarire l’importanza della determinazione di questo parametro e di proporne l’introduzione nella pratica clinica con il fine di avere un determinante in più, oltre al filtrato renale (eGFR) e ai marcatori di danno renale (proteinuria), per una più precisa stratificazione del rischio di pazienti affetti da malattia renale.

 

Storia del calcolo del numero di nefroni

Uno dei più antichi metodi per la conta dei nefroni fu messo a punto nel 1965 da Damadian, Shawayri e Bricker tramite un esperimento condotto su cani, allo scopo di quantificare i nefroni con glomeruli perfusi che non contribuiscono con il loro filtrato all’urina finale. Questi sfruttarono una tecnica a doppio marcatore per il rilevamento simultaneo in vivo della perfusione glomerulare e della filtrazione glomerulare. Come marcatore di perfusione è stato utilizzato l’inchiostro di china mentre l’emoglobina è stata usata come marcatore di filtrazione. I risultati con il metodo dell’inchiostro di china in vivo su reni normali sono stati confrontati strettamente con i valori ottenuti nei reni controlaterali con la tecnica standard di perfusione di ferrocianuro in vitro [1]. Nel 1972, Jean-Piere Bonvalet, Monique Champion, Frida Wanstok e Gu Berjal ripresero il metodo di Damadian: ratti sottoposti a un dosaggio letale di anestetico venivano nefrectomizzati, i reni venivano privati della capsula e successivamente macerati in una soluzione di acido cloridrico (HCl) al 50% a 37˚ C per 105 minuti, poi mantenuti in 250 ml di acqua distillata a 4˚ C per un giorno, prima di effettuare la conta. Il giorno seguente, ogni rene veniva posto in una fiala che veniva leggermente agitata a mano per ottenere una sospensione omogenea di glomeruli e frammenti di vasi e tubuli. Aliquote da 1 ml della sospensione venivano poi riposte in celle di plexiglas, e infine i glomeruli venivano contati con un microscopio a un ingrandimento di 40x.

Tale metodo è stato utilizzato con lo scopo di valutare se l’aumento del numero di nefroni fosse responsabile dell’ipertrofia compensatoria che si verificava in ratti nefrectomizzati. I risultati mostrano che l’aumento del numero di nefroni si verificava solo nei ratti nefrectomizzati nei primi 50 giorni di vita, suggerendo che la nefrogenesi sia conservata nei ratti più giovani ma non risulta più presente nei topi di maggiore età [21].

Il metodo di Damadian [1] per la conta del numero di nefroni è stato rivisitato con un protocollo sperimentale proposto da un gruppo dell’Università del Mississippi [22]. Entrambi i metodi si basano sulla tecnica di macerazione in acidi del tessuto renale. In breve, il rene viene sminuzzato e degradato mediante una soluzione di acido cloridrico. Questo porterà all’isolamento dei glomeruli che possono così essere diluiti in un volume noto, contati in un microscopio capovolto, così da poterne stimare infine il numero totale [22].

Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nei viventi [20]. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli in sclerosi, calcolate da campioni bioptici [23], e del volume renale che può essere stimato a partire dalla risonanza magnetica con la formula dell’ellissoide che si serve delle misure dei tre assi dell’organo. Si tratta solo di una delle metodiche effettuate per calcolare il volume renale e tale formula, anche se molto utilizzata, tende a sottostimare sistematicamente il volume renale [18]. Un’altra formula che si usa per calcolare il volume renale partendo da risonanza magnetica è l’ellissoide KV-3, messa a punto da Higashihara nel 2015 con l’intento di avere una precisa stima del volume di reni policistici: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [24]. Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) ed il principio di Cavalieri. In pratica, conoscendo la distanza (d) fra le scansioni assiali, si calcola su ciascuna scansione (i) l’area del rene (Ai), ed il volume viene stimato tramite la seguente formula (principio di Cavalieri):

V = d * Σi Ai

Si sommano quindi le aree nelle varie scansioni e si moltiplica il tutto per la distanza fra una sezione e la successiva [19]. La limitazione di questa metodologia è che richiede l’uso di raggi X, è più costosa, e richiede tempo per l’analisi perché è necessario delimitare manualmente il profilo del rene su ogni immagine. Normalmente almeno dieci immagini sono necessarie per avere una stima valida del volume renale usando questa tecnica. Inoltre è possibile stimare il volume del rene con l’ecografia [25], anche se si tratta di una metodica operatore-dipendente e quindi più difficilmente riproducibile, ma sicuramente meno dispendiosa per il paziente.

 

Calcolo del numero di nefroni

L’interesse per il calcolo del numero di nefroni deriva principalmente dall’ evidenza che esistono diverse condizioni patologiche renali, come la sindrome nefrosica, nell’ambito delle quali il decadimento della funzione renale è spiegato in larga parte dalla riduzione del numero di nefroni funzionanti [20].

Per effettuare tale calcolo bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC). È possibile calcolare questo parametro partendo dal volume renale totale (VRT) misurato tramite ecografia usando la formula dell’ellissoide KV-3 proposta da Higashihara nel 2015: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [25]. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) servendosi del modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 [26]. In questo modo è possibile avere una stima di informazioni tridimensionali partendo dalle immagini istologiche in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente:

TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81 (Figura 2)

dove il denominatore 1.81 rappresenta un fattore di correzione del restringimento subito dal tessuto istologico per la perdita della perfusione sanguigna [20].

calcolo del numero di nefroni
Figura 2: Per effettuare il calcolo del numero di nefroni bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC), calcolato con l’ecografia renale. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) con il modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 che permette di stimare informazioni tridimensionali partendo dalle immagini delle biopsie in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81.

 

Numero di nefroni in differenti patologie del glomerulo

La formula descritta è stata utilizzata in una ricerca svolta dal nostro team e pubblicata [20] per stimare il numero di nefroni in diverse glomerulopatie mediante uno studio pilota trasversale retrospettivo su un campione di 107 pazienti che hanno effettuato una biopsia renale. I criteri di inclusione erano: (i) diagnosi istologica di glomerulosclerosi focale e segmentale (GSFS), nefropatia membranosa (MN), nefropatia diabetica (DN), nefropatia a lesioni minime (MCD), nefropatia da IgM (IgMN), nefropatia da IgA (IgAN), nefrite lupica; (ii) età compresa tra 20 e 60 anni. Tramite esame ecografico dei reni è stato calcolato il VRC sfruttando la formula ellissoide KV-3 e, successivamente, applicando la formula per il calcolo del numero totale di nefroni riportata di seguito: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81. Dalle biopsie renali sono stati calcolati il Vnsg e la DglomNSG con la formula di Weibel-Gomez. I risultati mostrano che (i) il numero totale di nefroni è inversamente correlato alla pressione sistolica, (ii) nelle malattie caratterizzate da proteinuria, come la GSFS, MN e la DN, la variazione dell’eGFR è direttamente correlata al numero totale di glomeruli non sclerotici (NSG); (iii) di contro, nella sindrome nefritica, non abbiamo osservato una correlazione significativa tra il numero di nefroni e la diminuzione dell’eGFR. Ciò lascia quindi ipotizzare che le alterazioni dell’eGFR che si verificano nelle sindromi nefritiche come la nefropatia da IgA (IgAN) non possono essere spiegate sulla base del numero di NSG.

Probabilmente, la velocità di filtrazione glomerulare non è modificata in maniera significativa dal processo di fusione dei pedicelli dei podociti che si verifica tipicamente nelle malattie con proteinuria: quindi, nella sindrome nefrosica la variazione dell’eGFR dipende principalmente dal numero di nefroni funzionanti. D’altra parte, la riduzione della funzione renale che si verifica nelle sindromi nefritiche non può essere spiegata semplicemente sulla base del numero di NSG e probabilmente dipende soprattutto dal coinvolgimento dell’asse mesangiale.

 

Conclusioni

La riduzione del numero di nefroni funzionanti, che può essere connessa ad una nefrogenesi incompleta o a fattori ambientali, è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica) e di ipertensione [27]. Generalmente, quando i nefroni vanno incontro a perdita di funzione, i glomeruli dei nefroni residui subiscono una serie di modifiche disadattative diventando ipertrofici, un processo che può portare a un transitorio aumento dell’eGFR ma che, con il tempo, aumenta il rischio di progressione della malattia renale [8]. Il basso numero di nefroni alla nascita rappresenta quindi un chiaro fattore di rischio cardiovascolare nella vita adulta, e soprattutto di ipertensione. Tra i fattori che, durante la vita intrauterina, influenzano la nefrogenesi, ritroviamo fattori genetici e fattori ambientali, tra cui anche la dieta materna svolgerebbe un ruolo importante [28]. Anche la denutrizione materna, l’ipossia fetale e il basso peso alla nascita svolgono un ruolo importante nel determinare una nefrogenesi insufficiente e quindi basso numero di nefroni con aumentato rischio di sviluppare malattia renale cronica in età adulta [29].

Dal momento in cui il calcolo del numero di nefroni risulta essere poco dispendioso nei pazienti che vengono sottoposti a una biopsia renale e a un’ecografia renale, suggeriamo di introdurre nella pratica clinica il calcolo sistematico in questa popolazione con il fine di avere una più precisa stima del rischio di progressione della malattia renale in questi pazienti ed eventualmente mettere in atto strategie terapeutiche e/o preventive con tempistiche più adatte in modo di rallentare la progressione della malattia renale. Una strategia efficace potrebbe essere l’ottimizzazione della dieta e la riduzione al minimo dei fattori di stress ipossico/tossico nelle donne in gravidanza e nei bambini all’inizio dello sviluppo postnatale [29].

Le evidenze sulla popolazione adulta affetta da malattia renale cronica e/o ipertensione risultano, invece, ancora scarse. Sono necessari ulteriori studi per confermare l’efficacia del numero di nefroni come parametro utile per stratificare il rischio evolutivo in queste popolazioni e per elaborare scelte terapeutiche adeguate. Infine, sarebbe utile confermare con ulteriori trial clinici che la riduzione del numero di nefroni è un evento correlato soprattutto al danno podocitario, mentre sembra meno in relazione con le patologie renali non caratterizzate da sindrome nefrosica, come dimostrato da dati preliminari sull’argomento [20].

 

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La glomerulopatia da C3

Abstract

Il sistema del complemento, braccio fondamentale del sistema immunitario innato, negli ultimi anni ha catalizzato un rinnovato interesse da parte della comunità scientifica. Questo ha portato una rara patologia renale, la glomerulopatia da C3, al centro di una vera e propria rivoluzione che sta mettendo in luce le complesse interazioni tra genotipo, “triggers” ambientali e microambiente renale, che insieme contribuiscono al fenotipo finale della malattia. Al contempo, proliferano le sperimentazioni e gli studi clinici promossi dall’industria farmaceutica con i nuovi inibitori del complemento. È un momento storico molto promettente per i pazienti affetti dalla glomerulopatia da C3, che sino ad oggi non hanno avuto a disposizione farmaci realmente efficaci nell’impedire la progressione verso l’insufficienza renale e l’uremia.
Parole chiave: glomerulonefrite membranoploriferativa, glomerulopatia da C3, sistema del complemento, via alterna, biopsia renale

La glomerulopatia da C3 (C3G) è una rara malattia che si manifesta tipicamente in età pediatrica o nel giovane adulto, caratterizzata da intensi depositi di C3 alla biopsia renale. Essa è considerata un sottotipo di glomerulonefrite membranoproliferativa (MPGN) [1].

La classificazione storica della MPGN, basata sull’osservazione al microscopio elettronico (EM), prevedeva la seguente suddivisione in MPGN: di tipo I, caratterizzata da depositi elettrondensi subendoteliali; di tipo II, anche chiamata malattia a depositi densi (DDD), con depositi intensamente elettrondensi, in sede intramembranosa; di tipo III, con depositi sia sottoendoteliali che subepiteliali. Tuttavia questa classificazione della MPGN si è dimostrata essere limitata per l’assenza di una chiara connessione con la patogenesi della malattia, con scarsi risvolti clinici per il paziente.

Recentemente, in base al reperto alla immunofluorescenza (IF), Sethi S. e collaboratori hanno proposto un nuovo sistema classificativo della MPGN, che ha portato alla distinzione di due sottotipi [2]. Il primo, nel quale sono evidenziabili alla IF depositi glomerulari di immunoglobuline e complemento, è quello della MPGN mediata da immunocomplessi (IC-MPGN), causata dalla deposizione glomerulare di immunocomplessi o immunoglobuline nel contesto di malattie sistemiche o infettive, con prevalente attivazione della via classica del complemento. Il 20-30% di queste forme non riconosce una causa specifica ed è pertanto idiopatica. Il secondo sottotipo comprende la forma di MPGN mediata dalla disfunzione della via alterna del complemento, chiamata anche C3G, caratterizzata da deposizione glomerulare dominante di C3 (intensità del C3 all’IF di almeno due ordini di grandezza superiore alle altre immunoglobuline). Infine, sulla base dei reperti all’esame EM, la C3G è stata ulteriormente suddivisa in DDD e C3 glomerulonefrite (C3GN).

La presenza di depositi osmiofilici, intensamente elettrondensi e localizzati tipicamente all’interno della membrana basale glomerulare, caratterizza la DDD. Gli esperti di complemento hanno specificato che la C3G è molto eterogenea in quanto oltre ad un “pattern” di tipo membranoproliferativo può mostrare altri fenotipi glomerulari (ad esempio: proliferativo endocapillare, proliferativo mesangiale, necrotizzante ed extracapillare) [3]. Gli studi nell’animale e nell’uomo hanno permesso di identificare le anomalie biochimiche (es. consumo selettivo C3), genetiche (mutazioni nei geni che codificano per le proteine del sistema del complemento: C3, fattore B, fattore H, fattore I, MCP/CD46 e THBD, varianti di suscettibilità etc.) e i fattori acquisiti (C3Nef, C5Nef, anticorpi contro i fattori regolatori del complemento) che caratterizzano la malattia [4].

Va tuttavia sottolineato che alcuni gruppi di ricerca hanno dimostrato che anomalie genetiche a carico dei fattori regolatori della via alterna del complemento e peculiari anomalie biochimiche, quali ad esempio bassi livelli di C3 ed elevati livelli di sC5b9, sono presenti nella stessa proporzione di pazienti affetti da C3G e IC-MPGN idiopatica [5, 6]. Questa osservazione potrebbe mettere in discussione l’attuale classificazione della MPGN e ci induce a considerare queste patologie all’interno di uno spettro di condizioni cliniche, per le quali la via alterna del complemento è il principale meccanismo patogenetico.

Ma come funziona la cascata del complemento? Esistono tre vie di attivazione del sistema del complemento: classica, lectinica ed alterna [7]. La via classica è attivata dall’interazione fra C1q e gli immunocomplessi, mentre la via lectinica necessita di lectine e ficoline leganti gruppi mannosio, per poter identificare molecole di carboidrati che si trovano sulla superficie di una vasta gamma di microrganismi. Il trigger iniziale delle vie classica e lectinica porta alla conseguente attivazione delle componenti C2 e C4 e alla formazione di C3 convertasi, C4bC2a. Al contrario, la via alterna è continuamente attivata dall’idrolisi spontanea del C3 (meccanismo “tickover”), che risulta in un cambio conformazionale tale da consentire il legame del fattore B (CFB). Una volta legato, il fattore B diventa un substrato per una serino proteasi, detta fattore D (CFD). Il clivaggio del fattore B da parte del fattore D promuove la formazione della C3 convertasi propria della via alterna C3(H2O)Bb, che, in modo simile alla C3 convertasi della via classica, può clivare C3 in C3a e C3b. La generazione di C3b permette alla via alterna di essere pienamente attivata con la formazione del “loop” di amplificazione e del complesso C3bBb. Tutte e tre le vie convergono nel momento in cui C3 viene clivato dalla C3 convertasi per produrre il frammento C5a, un importante agente infiammatorio, e C5b, il componente iniziale della via terminale del complemento. Il legame in sequenza di C5b con C6, C7, C8 ed infine C9 risulta nell’assemblaggio di C5b-9 o complesso di attacco di membrana (MAC). La via alterna è fortemente controllata grazie all’esistenza di diversi regolatori che operano ancorati alla membrana oppure in fase fluida. Fra questi ultimi riconosciamo, ad esempio, il fattore I (CFI) ed il fattore H (CFH). Ci si può facilmente rendere conto che se i regolatori non funzionano correttamente, la conseguenza diretta è l’iperattivazione della via alterna. Era noto già dagli anni ’70 che esistessero glomerulonefriti ipocomplementemiche con pattern membranoproliferativo. Purtroppo, non abbiamo mai avuto a disposizione farmaci specifici per il trattamento di queste malattie. I comuni immunosoppressori si rivelano spesso scarsamente efficaci, ne consegue che la maggior parte dei pazienti progredisce verso l’uremia.

L’immunosoppressore che sembra consentire migliori risultati è il micofenolato, come mostrato da un’analisi retrospettiva del GLOSEN group spagnolo [8]. Si tratta di dati limitati. Il primo inibitore specifico del complemento ad essere utilizzato nelle C3G è l’eculizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato in grado di bloccare il C5 e prevenire la formazione di C5a e del complesso di attacco di membrana. Il razionale per utilizzare il farmaco nell’uomo deriva da studi nel modello animale, topi incapaci di produrre fattore H che sviluppano la glomerulonefrite in modo spontaneo [9]. Provocando la delezione genica del C5 lo stesso animale sviluppa una malattia molto più lieve.

Nel 2012, vengono pubblicati i primi casi aneddotici di giovani pazienti con C3G trattati con eculizumab, che hanno risposte convincenti in termini di riduzione della proteinuria e stabilizzazione della funzionalità renale [10, 11]. Nello stesso anno viene pubblicata la prima “case series” del gruppo di nefrologi della Columbia University [12]. Lo studio sembra suggerire che i pazienti con alti livelli di sC5b9 sono quelli che rispondono meglio all’anticorpo monoclonale. È sulla base di questi risultati che l’Istituto Mario Negri di Bergamo ha disegnato uno studio clinico che ha incluso 10 pazienti con C3G e IC-MPGN [13]. Il protocollo di trattamento prevedeva uno schema on-off-on-off. Nel primo anno di studio i livelli di sC5b9 si sono ridotti rapidamente e si è assistito ad un iniziale miglioramento della proteinuria. Tuttavia, durante il periodo di wash out, è stata osservata un’esacerbazione della malattia con peggioramento dei parametri laboratoristici, che non miglioravano in modo significativo nel successivo anno di trattamento. L’eculizumab è un farmaco molto costoso e che richiede ai pazienti di recarsi in ospedale ogni due settimane per la somministrazione. Inoltre, è un trattamento cronico che non può essere interrotto. Un’osservazione interessante è stata fatta a livello istologico. Nelle biopsie renali dopo due anni di terapia gli infiltrati di leucociti intracapillari sono drasticamente ridotti. A supporto del potente effetto anti infiammatorio dell’eculizumab esiste anche uno studio retrospettivo, che mostra come i pazienti con C3G che ottengono una risposta migliore dalla terapia sono quelli con una presentazione clinica rapidamente progressiva e con una maggior percentuale di semilune floride all’esordio [14].

Negli ultimi anni si è assistito ad un vertiginoso impulso nella ricerca e sperimentazione nel campo dei nuovi inibitori selettivi del complemento. Un caso esemplare riguarda l’inibitore orale del fattore D, danicopan, che blocca l’azione della C3 convertasi e che è stato oggetto di ricerca presso l’Istituto Maro Negri di Bergamo. I dati di questo studio non sono ancora stati pubblicati. Sono state osservate risposte molto variabili con questo farmaco nei pazienti affetti da C3G. In parte, la variabilità delle risposte è dipesa da un problema di tipo farmacocinetico/farmacodinamico. Infatti, il fattore D è molto difficile da inibire. Si pensi che sono sufficienti l’1,8% dei livelli di fattore D per mantenere attiva la via alterna del complemento. La company in oggetto sta cercando di produrre un inibitore più potente del fattore D, che speriamo essere disponibile a breve. Tuttavia, non sono mancate le sorprese incoraggianti. Vale la pena citare il caso di un giovane di 18 anni affetto da DDD, che all’esordio aveva una sindrome nefrosica con peggioramento della funzione renale. Ebbene, dopo poche settimane di trattamento con danicopan, il C3 plasmatico si è normalizzato, così come la proteinuria e la funzione renale. Dal punto di vista istologico si è assistito ad una regressione delle lesioni infiammatorie.

In conclusione, gli studi con questi nuove molecole sono molto difficili da condurre poiché si tratta di malattie rare, molto eterogenee, con un’importante variabilità nei meccanismi patogenetici tra un soggetto e l’altro. Queste malattie complesse ci insegnano che oggi è sempre più necessario adottare una medicina di precisione. L’analisi di cluster è un metodo biostatistico che potrebbe essere molto utile in tal senso. Questo metodo è stato applicato con successo al registro delle MPGN e C3G del Centro di Ricerca per le Malattie Rare dell’Istituto Mario Negri di Bergamo [15]. Utilizzando i dati di 173 pazienti del registro, è stato possibile identificare 4 clusters di malattia con caratteristiche comuni. Suddividendo i pazienti in clusters si sono ottenuti dei sottogruppi di pazienti omogenei dal punto di vista degli aspetti patogenetici. Rispetto alle curve di sopravvivenza dei pazienti suddivisi per gruppo istologico (IC-MPGN, C3GN, DDD), quelle dei pazienti suddivisi nei 4 clusters hanno una maggior rilevanza e significatività in termini prognostici. L’intento è quello di identificare sottogruppi di soggetti che possano beneficiare di specifiche terapie.

Questo è un momento storico molto promettente per i pazienti affetti da C3G. La comprensione dei meccanismi che generano la malattia e la disponibilità di nuovi farmaci capaci di inibire il sistema complemento a diversi livelli della cascata sta rivoluzionando il panorama di questa condizione. Tuttavia, le sfide aperte sono ancora molteplici. In particolare, tenuto conto dell’estrema variabilità genetica e biochimica della malattia, risulta difficile prevedere quale paziente potrà maggiormente beneficiare di un determinato farmaco. Le nuove tecnologie e i metodi biostatistici, come ad esempio l’analisi di cluster, potranno consentire di addentrarci nel campo di una medicina di precisione, che tenga in conto delle variabilità inter individuale dei pazienti.

 

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Stato dell’arte e prospettive future nella terapia di induzione delle vasculiti ANCA-associate con coinvolgimento renale: dall’istopatologia alla terapia

Abstract

Le AAV, vasculiti ANCA-associate (anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili), sono rare malattie autoimmuni sistemiche caratterizzate dall’infiammazione di piccoli e medi vasi. Il coinvolgimento renale vasculitico è una delle manifestazioni più severe di malattia, che comporta un’elevata mortalità in caso di ritardo diagnostico ed impatta significativamente sulla prognosi a lungo termine dei pazienti. Sono state recentemente individuate classificazioni e score istopatologici che meglio definiscono il coinvolgimento renale nelle AAV e correlano con la prognosi renale a lungo termine. Il regime terapeutico di induzione delle AAV è costituito da alte dosi di glucocorticoidi associati a farmaci immunosoppressori: ciclofosfamide (CYC), rituximab (RTX) o una combinazione dei precedenti. L’uso del RTX è in espansione: trial randomizzati e controllati ne hanno dimostrato la non-inferiorità rispetto alla terapia standard con CYC nelle AAV in generale, oltre ad un miglior profilo di sicurezza; inoltre, l’introduzione di biosimilari ha ridotto il costo del farmaco. Tuttavia, nei pazienti con coinvolgimento renale grave, l’equivalenza di RTX e CYC è ancora dibattuta.

La ricerca del regime di induzione ideale nelle AAV è volta ad una sempre maggiore personalizzazione: da una parte viene indagato l’uso più appropriato delle terapie già esistenti; dall’altra, le nuove scoperte in ambito patogenetico hanno permesso l’introduzione di nuovi target terapeutici, come il fattore C5a del complemento.

Grazie a questa nuova gestione delle AAV, la prognosi renale e la sopravvivenza in generale sono visibilmente migliorate. Saranno necessari ulteriori studi per ottenere una sempre maggiore personalizzazione dell’approccio terapeutico di induzione delle glomerulonefriti ANCA-associate e delle AAV in generale.

 

Parole chiave: ANCA, vasculiti, glomerulonefrite, rituximab, ciclofosfamide, biopsia renale

Introduzione

Le AAV, vasculiti ANCA-associate (anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili), sono rare vasculiti necrotizzanti autoimmuni che coinvolgono i vasi di medio e piccolo calibro. Le AAV includono tre patologie differenti: la granulomatosi con poliangioite (GPA, in passato nota come malattia di Wegener), la poliangioite microscopica (MPA) e la granulomatosi eosinofila con poliangioite (EGPA, in passato nota come sindrome di Churg Strauss) [1]. L’incidenza in Europa è rispettivamente di 2.1-14.4, 2.4-10.1 e 0.5-3.7 per milione e la prevalenza di 46-184 per milione. La sopravvivenza a 5 anni è intorno al 74-91% per la GPA, 45-76% per l’MPA e 60-76% per l’EGPA [2]. Il picco di incidenza si colloca fra i 65-75 anni, con una lieve prevalenza maschile.

Nel corso della malattia, circa il 90% dei pazienti sviluppa anticorpi ANCA, rivolti contro proteine contenute nel citoplasma dei neutrofili: sebbene esistano degli overlap, gli ANCA anti PR3 (anti-proteinasi 3) sono più frequenti nella GPA, mentre gli ANCA anti MPO (anti-mieloperossidasi) nella MPA; il 40% dei pazienti con EGPA sviluppa positività agli ANCA, in prevalenza MPO, spesso associata a forme con coinvolgimento vasculitico. Esistono alcune eccezioni: il 10% dei pazienti è ANCA negativo ed è possibile sviluppare entrambi gli anticorpi, prevalentemente nelle forme secondarie [3,4].

 

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Gammopatie monoclonali di interesse renale nell’anziano: diagnosi e terapia

Abstract

Le gammopatie monoclonali di significato indeterminato (MGUS) sono di comune riscontro nella popolazione generale e particolarmente frequenti tra gli anziani. Il termine “gammopatia monoclonale di significato renale (MGRS)” indica la presenza di una lesione renale direttamente attribuibile a una gammopatia monoclonale nell’ambito di un disordine proliferativo linfocitario o plasmacellulare che non soddisfa i criteri per il mieloma multiplo, la malattia di Waldenström, la leucemia linfatica cronica  o un linfoma. L’associazione fra MGUS e malattia renale nel paziente anziano è comune, ma solo raramente si tratta di MGRS. Nei casi sospetti la diagnosi richiede l’esecuzione di una biopsia renale per definire il tipo di lesione e una serie di esami ematologici per indentificare la componente monoclonale responsabile. A seconda del ruolo svolto dalla componente monoclonale, i meccanismi coinvolti nella patogenesi del danno renale possono essere schematicamente suddivisi in diretti e indiretti. Le lesioni sono inoltre classificate in base alla microscopia elettronica. Il trattamento, diretto all’eliminazione del clone sottostante, è indicato per evitare la progressione del danno renale e ridurre il rischio di recidiva nei pazienti candidati a trapianto.

Parole chiave: gammopatia monoclonale di significato renale (MGRS), proliferazione linfo-plasmacellulare, catene leggere, biopsia renale.

Introduzione

Le gammopatie monoclonali sono disordini linfoproliferativi cronici ovvero malattie immunoproliferative caratterizzate dalla presenza, nel sangue e/o nelle urine, di una componente monoclonale (componente M) costituita da immunoglobuline (Ig) o loro subunità (catene leggere e/o pesanti, componenti incomplete). 

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La biopsia renale nell’anziano

Abstract

La biopsia renale e l’esame istologico permettono una corretta diagnosi  e un adeguato trattamento di numerose malattie renali acute e croniche. Sebbene la tecnica della biopsia renale percutanea  sia stata migliorata dall’utilizzo di guida ecografica e di aghi automatici, essa resta ancora sottoutilizzata soprattutto nella popolazione anziana e nelle patologie associate quale il diabete mellito. Le indicazioni più frequenti nei vari studi su pazienti anziani sono rappresentate dal danno renale acuto e dalla sindrome nefrosica; le diagnosi più frequenti sono patologie suscettibili di terapie specifiche e mirate, quali  vasculiti, amiloidosi e nefropatia membranosa. Per quanto concerne il diabete mellito, non sempre la diagnosi istologica è rappresentata dalla tipica nefropatia diabetica, ma spesso possono essere presenti quadri di glomerulonefrite che possono giovarsi di terapie immunosoppressive. La stessa nefropatia diabetica presenta varie classi che hanno un forte impatto sull’outcome clinico della insufficienza renale terminale. Sebbene la biopsia renale non sia totalmente scevra di pericoli, alcune revisioni  sistematiche e studi di registro hanno mostrato che le complicanze emorragiche maggiori, quali macroematuria e necessità di emotrasfusione, sono rare e che l’età anagrafica non costituisce un fattore predittivo del rischio emorragico.

 

PAROLE CHIAVE: Biopsia renale, anziano, complicanze emorragiche.

INTRODUZIONE

Negli anni 50 molte nefropatie erano sconosciute ai nefrologi e agli anatomopatologi e tali sarebbero rimaste senza l’ausilio della biopsia renale,  la cui storia è strettamente legata alla nascita e allo sviluppo della Nefrologia. La biopsia renale permette una corretta diagnosi di numerose malattie renali acute e croniche, in quanto la diagnosi istologica cambia la diagnosi clinica in quasi la metà dei casi, guida il trattamento attraverso la determinazione di attività e cronicità delle lesioni e può cambiare la terapia nel 30-40% dei pazienti (1). 

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Gammopatia monoclonale ad interessamento renale (MGRS) e glomerulonefrite membranoproliferativa (GNMP): una relazione complessa con promettenti opportunità terapeutiche

Abstract

Negli ultimi anni l’evoluzione delle conoscenze relative alla complessa interazione tra componente monoclonale e danno renale ha determinato non solo una nuova classificazione dei disordini associati, denominata Monoclonal Gammopathy of Renal Significance (MGRS), ma ha contribuito ad enfatizzare l’importanza di formulare una diagnosi precoce di un interessamento renale, spesso subdolo, ma potenzialmente evolutivo verso l’uremia terminale; ha anche contribuito a mostrare la necessità di trattare con schemi terapeutici aggressivi patologie non neoplastiche in senso stretto.

Il caso qui descritto ha evidenziato un quadro di anomalie urinarie ed insufficienza renale secondarie ad una glomerulonefrite membranoproliferativa (GNMP), con immunofluorescenza (IF) intensamente positiva per catene k monoclonali e C3 in assenza di un disordine linfoproliferativo neoplastico documentabile alla biopsia osteomidollare (BOM), a confermare un quadro di MGRS. La paziente è stata sottoposta a diversi cicli di una triplice terapia con desametasone, ciclofosfamide e bortezomib, con buona risposta funzionale e clinica.

Parole chiave: gammopatia monoclonale ad interessamento renale, glomerulonefrite membranoproliferativa, biopsia renale

Introduzione

Negli ultimi anni l’interesse scientifico verso la conoscenza delle complesse interazioni tra le componenti monoclonali e il parenchima renale risulta in continua evoluzione, con risvolti di ordine classificativo e di approccio terapeutico. Nel 2012 è stato infatti coniato dall’International Kidney and Monoclonal Gammopathy Research Group l’acronimo MGRS, ovvero “Monoclonal Gammopathy of Renal Significance”, con l’obiettivo di raggruppare un multiforme spettro di patologie renali (con interessamento di glomerulo, tubulo e/o interstizio) accomunate dal meccanismo patogenetico secondario alla paraproteina secreta da un disordine linfoproliferativo di basso grado [1]. 

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Un caso di Amiloidosi AL a presentazione insolita

Abstract

Presentiamo il caso di un uomo di età avanzata con sindrome nefrosica e lieve insufficienza renale in cui le approfondite indagini laboratoristiche e strumentali effettuate non fornivano indizi utili per la diagnosi. Non era possibile identificare alcun segno o sintomo specifico della patologia poi identificata con analisi istologica e immunoistochimica su tessuto renale e midollare, l’amiloidosi primaria o AL. A questa era associata una discrasia linfoplasmacellulare che non aveva dato alcun segno di sé ai comuni esami laboratoristici quali l’elettroforesi delle sieroproteine e l’immunofissazione sierica e urinaria.

Il caso clinico descritto offre lo spunto per una disamina aggiornata della condizione nosologica diagnosticata e per considerare come, in contesti clinici e laboratoristici scarsamente orientativi, indagini tradizionalmente considerate di secondo livello, quali la biopsia renale, risultino unico strumento diagnostico.

Parole chiave: amiloidosi AL, bortezomib, biopsia renale

CASO CLINICO

Descriviamo il caso clinico di un uomo di 74 anni, giunto all’osservazione del Nefrologo per sindrome nefrosica in presenza di lieve insufficienza renale (sCr 1,5 mg/dL; eGFR sec. CKD-EPI 45 mL/min/1,73 mq, MDRD 48 mL/min/1,73 mq) e proteinuria in range nefrosico (4,22 g/24 ore). In anamnesi si segnalavano: trait talassemico, note di gastrite erosiva ed una pregressa frattura costale post-traumatica. Clinicamente si riscontravano habitus pletorico, incremento ponderale di nove chili nelle ultime dieci settimane, ipotensione arteriosa. Gli esami laboratoristici routinari evidenziavano stato anemico (Hb 10,7 g/dL), beta2-microglobulina al di sopra dell’intervallo di normalità (4,54 mg/L), elevazione di Nt-proBNP (1.419 pg/mL). Indici infiammatori ed autoimmunità: negativi. Elettroforesi e immunofissazione sierica e urinaria non segnalavano anomalie. All’Rx torace si notava una velatura del seno costo-frenico bilateralmente e un ingrandimento dell’ombra cardiaca. All’elettrocardiogramma erano presenti bassi voltaggi diffusi. L’ecocardiogramma rilevava segni di ipertrofia con disfunzione diastolica e aspetto di pattern restrittivo al Doppler transmitralico. 

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Rischio di danno renale a distanza in donne con preeclampsia

Abstract

La preeclampsia (PE) è una causa importante di insufficienza renale acuta e un importante marcatore di rischio di malattia renale cronica. Nella gravidanza normale vi sono spiccate variazioni del sistema renina-angiotensina (RAS), che comprendono livelli molto elevati di angiotensina II (ang II). Peraltro, le resistenze vascolari si riducono notevolmente durante la gravidanza, suggerendo che le donne gravide siano meno sensibili all’ang II rispetto alle donne in periodo non gravidico. In contrasto, durante la PE sono stati riportati ridotti livelli circolanti di componenti del RAS con maggiore sensibilità all’infusione di ang II. Pazienti con storia di PE hanno un aumentato rischio di microalbuminuria con una prevalenza simile a soggetti con diabete mellito tipo I. L’ipertensione gestazionale o cronica rappresenta una condizione di rischio elevato per l’uremia terminale (end-stage renal disease, ESRD) rispetto a soggetti normotesi, ma il rischio è maggiore in donne che hanno presentato episodi di PE o gestosi rispetto a quelle che hanno presentato soltanto ipertensione gestazionale. Un precedente episodio di PE dovrebbe suggerire un follow-up a lungo termine, specialmente riguardo alla possibilità di sviluppare ipertensione o microalbuminuria entro 6-8 settimane dal parto e auspicare un controllo nefrologico se questi problemi non tendono a risolversi. Anche il diabete pregestazionale è stato correlato a un aumentato rischio di ESRD e mortalità a lungo termine. Infine, è stato dimostrato che donne che hanno avuto un episodio di PE o che hanno avuto figli con basso peso alla nascita con gravidanze pretermine hanno un rischio aumentato di essere sottoposte a biopsia renale. Per tutti questi motivi è necessario un controllo della funzione renale a breve e a lungo termine in tutte le condizioni di gravidanze complicate.

PAROLE CHIAVE: Preeclampsia, microalbuminuria, uremia terminale, biopsia renale, diabete pregestazionale.

INTRODUZIONE

La gravidanza può essere considerata un periodo, pur se transitorio, di grande cambiamento della fisiologia dell’intero organismo che poi ritorna alle condizioni basali dopo l’espletamento del parto. Tra queste modificazioni fisiologiche, il cuore aumenta la gittata cardiaca dal 40 al 50%, si incrementa il volume plasmatico con conseguente diluizione della concentrazione di emoglobina (1). La frequenza respiratoria, il pH e il consumo di O2 aumentano causando una lieve e subclinica iperemia ed edema (2). L’aumento del progesterone può causare costipazione e reflusso gastroesofageo (3, 4). Gli elevati livelli di glucocorticoidi, estrogeni e progesterone possono causare un’alterazione del metabolismo del glucosio e aumentare il bisogno d’insulina (5). Infine, si verifica un aumento della velocità di filtrazione glomerulare che può comportare la presenza di bassi livelli di azoto e creatinina (6). In particolare, le alterazioni del tratto renale e urinario sono molto comuni durante la gravidanza. Tra queste spiccano le infezioni delle vie urinarie (IVU), la cui frequenza dipende dal numero delle gravidanze precedenti, dalla razza e dal profilo socio-economico (7). Diversi elementi possono essere responsabili di questo elevato tasso di IVU durante la gravidanza: circa il 90% delle donne durante questo periodo sviluppa dilatazione ureterale, aumento del volume e diminuzione del tono della vescica e riduzione del tono uretrale. Questi fattori possono contribuire ad aumentare la stasi urinaria e il reflusso vescico-ureterale (8). Inoltre, fino al 70% delle donne in gravidanza sviluppa una glicosuria (9) che favorisce la crescita batterica nelle urine. I microrganismi che causano IVU durante la gravidanza sono in gran parte uguali a quelli delle donne non gravide (10). L’Escherichia Coli rappresenta l’80-90% delle infezioni; altri organismi responsabili sono Staphylococcus, Klebsiella, Enterobacter e Proteus. Nella maggior parte dei casi l’IVU può essere gestita facilmente (11), ma diverse evidenze suggeriscono che è possibile lo sviluppo di pielonefrite, basso peso del feto alla nascita, travaglio prematuro, nascita pretermine, ipertensione, preeclampsia e aumentata incidenza di morte perinatale. Un altro elemento che svolge un ruolo dannoso sulla funzione renale è rappresentato dall’iperglicemia materna nelle donne diabetiche, sia in caso di diabete mellito gestazionale (GDM) sia nel diabete mellito preesistente. E’ stato dimostrato, infatti, che i bambini di madri diabetiche hanno livelli più alti di pressione sanguigna rispetto ai controlli (12). Nei modelli sperimentali che riproducono il diabete gestazionale o il diabete di tipo 1 è stato osservato che i figli di madri diabetiche, in età adulta, presentano ipertensione arteriosa, minore velocità di filtrazione glomerulare e ridotta capacità di escrezione di sodio quando sono sottoposti a un sovraccarico di questo ione (13). In particolare, in questo caso a livello della corticale del rene si osserva un’aumentata espressione dei canali del sodio e del sodio/potassio ATPasi (Na+/K+ATPasi) senza riduzione dello scambiatore di sodio/idrogeno (NHE3) o di altri trasportori di sodio. Per tale motivo, la ritenzione di sodio è dovuta all’aumento del riassorbimento di questo ione nei segmenti distali del nefrone.

La microalbuminuria si presenta spesso in gestanti con disfunzione renale come è stato ampiamente dimostrato (14). La microalbuminuria e la riduzione stimata della velocità di filtrazione glomerulare sono state proposte come indicatori integrati utili del danno subclinico di organi bersaglio e delle lesioni endoteliali renali, derivanti da danni vascolari locali o sistemici. Inoltre, la presenza di microalbuminuria in precedenti gravidanze è stata associata a un aumento del rischio di sviluppo di preeclampsia e a un severo outcome materno-fetale (15). Infine, particolare attenzione va posta in due condizioni che riguardano il rene in donne gravide, ovvero quelle che avvengono in corso di trapianto di rene (16) o di glomerulonefrite (17).

 

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