Nuove prospettive nel danno renale acuto post-chirurgico in corso di sepsi

Abstract

L’insufficienza renale acuta postoperatoria (PO-AKI) è una complicanza comune conseguente a chirurgia maggiore, strettamente associata a complicanze chirurgiche a breve termine e a esiti avversi a lungo termine. Fattori di rischio per la PO-AKI includono l’età avanzata e comorbidità come la malattia renale cronica e il diabete mellito. La sepsi è una complicanza comune nei pazienti sottoposti a interventi chirurgici, ed è un fattore di rischio importante per lo sviluppo di insufficienza renale acuta (SA-AKI). La prevenzione dell’AKI nei pazienti sottoposti a interventi chirurgici si basa principalmente sull’identificazione di un alto baseline risk , sul monitoraggio e sulla riduzione di insulti nefrotossici. L’identificazione precoce dei pazienti a rischio di AKI, o a rischio di progredire verso un’insufficienza renale acuta grave e/o persistente, è cruciale per l’avvio tempestivo di adeguate misure di supporto, compreso il limitare ulteriori danni al rene. Sebbene le opzioni terapeutiche siano limitate, diversi studi clinici hanno valutato l’uso di care bundle e di tecniche extracorporee come possibili approcci terapeutici.

Parole chiave: Insufficienza renale acuta (IRA), IRA post chirurgica, sepsi, biomarker, trattamenti sostitutivi

Introduzione

Il danno renale acuto post-chirurgico (PO-AKI) è associato ad un rischio elevato di mortalità e di sviluppo di altre complicanze post-operatorie [1].

La definizione adottata è sostanzialmente quella di danno renale acuto secondo le linee guida KDIGO 2012 (aumento della creatinina sierica di 0,3 mg/dl in 48 ore oppure di 1,5 volte rispetto al basale, oppure output urinario < 0,5 ml/kg/h per almeno sei ore), che si manifesta entro 7 giorni dall’intervento chirurgico [1].

L’obiettivo di questa revisione è quello di sintetizzare i dati presenti in letteratura e fornire una visione complessiva riguardo al danno renale acuto che si manifesta nel periodo post-chirurgico, soprattutto nei casi complicati da un evento infettivo, co-fattore nello sviluppo e nel mantenimento del danno renale.

STADIO Misure del danno renale acuto
Aumento della creatinina sierica Riduzione della diuresi
1 ≥ 0,3 mg/dl (26,52 micromol/l) o 1,5-1,9 volte il basale < 0,5 ml/kg/h per 6-12 h
2 2-2,9 volte il valore basale < 0,5 ml/kg/ora per ≥ 12 h
3 ≥ 4,0 mg/dl (353,60 micromol/l) o ≥ 3 volte il basale < 0,3 ml/kg/h per ≥ 24 h o anuria per ≥ 12 h
Tabella 1: Criteri di stadiazione del danno renale acuto (KDIGO, Kidney Disease Improving Global Outcomes 2012 [2]).

 

Epidemiologia

Va segnalato, però, che nell’immediato periodo post-chirurgico si può assistere ad una riduzione dell’output urinario, sebbene transitoria, come adattamento fisiologico allo stato di ipovolemia relativa, alla vasodilatazione o al rilascio di arginina-vasopressina in risposta all’insulto tissutale [3].

L’incidenza di AKI post-chirurgica varia dal 25% nella chirurgia traumatologica al 50% nella chirurgia dell’aorta o nel trapianto di fegato [4]. I pazienti più a rischio sono quelli con malattia renale cronica (proteinuria o alterazione della funzione renale), di sesso maschile, età > 50 anni, diabete, comorbidità cardiovascolari, elevato BMI [1].

 

Fisiopatologia

Danno renale acuto post-chirurgico
I meccanismi fisiopatologici alla base del PO-AKI non sono stati ancora del tutto chiariti; sicuramente l’eziologia del danno renale è complessa e multifattoriale.

Figura 1: L’eziologia del PO-AKI è multi-fattoriale – il danno renale è spesso dato dalla combinazione dei fattori pre-operatori e degli eventi intra- e post-operatori [1] (reprinted with permission).
Figura 1: L’eziologia del PO-AKI è multi-fattoriale – il danno renale è spesso dato dalla combinazione dei fattori pre-operatori e degli eventi intra- e post-operatori [1] (reprinted with permission).
Tra i principali fattori implicati vi sono l’insulto ischemia-riperfusione, nefrotossine endogene o esogene, fattori infiammatori, vasocostrizione e stress-ossidativo. Anche le tecniche anestesiologiche possono avere un ruolo, in quanto possono determinare vasodilatazione e ipotensione. Anche le tempistiche e il distretto coinvolto possono influire sul rischio, maggiore per gli interventi eseguiti in regime d’urgenza e per quelli eseguiti sul distretto cardiovascolare e intraperitoneale [1].

Nel 2019 ha avuto luogo una Consensus Conference con il fine di analizzare e valutare le evidenze scientifiche presenti riguardo il danno renale acuto in seguito ad interventi chirurgici (escludendo l’ambito cardiochirurgico). Di seguito sono riportati i punti salienti in merito ai meccanismi fisiopatologici ed epidemiologici.

EPIDEMIOLOGIA E PATOFISIOLOGIA DEL PO-AKI SECONDO IL “The Acute Disease Quality Initiative (ADQI)-24 and the PeriOperative Quality Initiative (POQI)-7 Conference”
Consensus Statement 1a: Il PO-AKI è una sindrome piuttosto che una singola patologia. Nella maggior parte dei casi l’eziologia è multifattoriale (ungraded).
Consensus Statement 1b: L’incidenza del PO-AKI (definita sulla base dell’aumento della creatinina) varia in base alle caratteristiche e al timing dell’intervento chiurgico.  L’incidenza del danno renale acuto in seguito ad interventi in regime ambulatoriale è incerta (ungraded).
Consensus Statement 1c: Il danno renale acuto definito da una condizione transitoria di oliguria è più comune nel periodo intra- e post-operatorio rispetto al danno renale acuto definito dall’aumento della creatinina sierica. L’oliguria severa e l’anuria, anche in assenza di un aumento della creatinina sierica si associano ad un rischio aumentato di morbidità e mortalità (ungraded).
Consensus Statement 1d: La maggioranza degli studi osservazionali si focalizzano sul danno renale acuto nell’immediato periodo post-operatorio. Minori sono le evidenze disponibili riguardo all’epidemiologia del danno renale acuto trascorsi i 7 giorni dall’intervento chiurgico (AKD) (ungraded).
Consensus Statement 1e: I fattori di rischio per il PO-AKI includono un’età > 50 anni, sesso maschile, tasso di filtrazione glomerulare < 60 ml/min/1,73 m2, diabete mellito, scompenso cardiaco, ascite, impertensione, interventi chirurgici in regime di emergenza, interventi intraperitoneali, numero di farmaci, utilizzo di ACEi o ARBs, high American Society of Anesthesiology Physical Status classification score e albuminuria. I pazienti con malattia renale cronica e/o diabete sono da considerarsi particolarmente a rischio di danno renale acuto (ungraded).
Tabella 2: Epidemiologia e patofisiologia del PO-AKI [1] (reprinted with permission).

Se in questo setting delicato si aggiungono il ricovero in terapia intensiva (dai dati presenti in letteratura, il danno renale acuto è presente in oltre il 50% dei pazienti ricoverati in terapia intensiva nel post-operatorio [5]), l’utilizzo di farmaci nefrotossici/mezzo di contrasto, sepsi e shock, il rischio di danno renale incrementa notevolmente [6].

Tra tutti questi fattori, quello più rilevante è la sepsi, intesa come una disfunzione d’organo dovuta a una risposta disregolata dell’ospite rispetto ad un evento infettivo [7], che rappresenta il 45-70% di tutte le cause di AKI nei pazienti critici [8].

Danno renale acuto associato alla sepsi

La sepsis-associated-AKI (SA-AKI) viene definita come una sindrome eterogenea che si instaura come conseguenza di meccanismi direttamente legati all’infezione o alla risposta messa in atto dall’ospite, oppure di meccanismi indiretti che sono conseguiti alla sepsi (es. antibiotici nefrotossici o la “abdominal compartment syndrome”) [8]. Il rischio è maggiore in presenza di shock settico che si esprime come quadro di sepsi severa che si associa a ipotensione refrattaria al riempimento volemico, con necessità di impiego di amine vasoattive per mantenere la pressione arteriosa media sopra i 65 mmHg e una concentrazione di lattati < 2 mmol/l [7], utilizzo di vasopressori o ventilazione meccanica, batteriemia sostenuta da germi gram-negativi [8].

I meccanismi che contribuiscono allo sviluppo di danno renale associato a sepsi sono molteplici, tra questi l’infiammazione sistemica e renale, l’attivazione del complemento, la disregolazione del sistema RAAS, la disfunzione mitocondriale e del microcircolo [8]. Anche per quanto riguarda la SA-AKI, vi è stata di recente una Consensus Conference con l’obiettivo di identificare i gap conoscitivi nella popolazione adulta, fornire raccomandazioni per la pratica clinica e sviluppare una struttura comune per la ricerca futura. Riassumiamo di seguito le principali dichiarazioni per quanto riguarda i meccanismi patofisiologici.

PATOFISIOLOGIA DEL SA-AKI SECONDO IL “Conference Chairs of the 28th ADQI consensus committee (L.G.F., A.Z., M.K.N. and C.R.)”
Consensus statement 2°: Il SA-AKI è una sindrome eterogenea in quanto molteplici meccanismi contribuiscono al danno renale con varia intensità nei pazienti in corso di sepsi (not graded).
Consensus statement 2b: Il contributo relativo di uno o più meccanismi specifici che determinano il danno renale definiscono distinti endotipi di danno renale acuto associato a sepsi (not graded).
Consensus statement 2c: Fattori modificabili e non conferiscono suscettibilità allo sviluppo di SA-AKI e determinano la severità del quadro e le possibilità di recupero (not graded).
Consensus statement 2d: L’integrazione di biomarcatori specifici con la clinica permetterà l’identificazione degli endotipi specifici di SA-AKI (not graded).
Consensus statement 2e: L’identificazione dei distinti endotipi di SA-AKI potrebbe fornire informazioni prognostiche cruciali, aiutare a definire la risposta al trattameto e arricchire la popolazione dei trial clinici (not graded).
Tabella 3: Patofisiologia del SA-AKI [8] (reprinted with permission).

Sebbene la sepsi si accompagni a uno stato di instabilità emodinamica e di bassa portata, in recenti studi su modelli animali e umani, in particolare nei pazienti con batteriemia da GRAM-, si è osservato, nella fase iniziale della sepsi, un incremento del flusso plasmatico renale rispetto ai controlli (fase iperdinamica, legata alla vasodilatazione sistemica), diversamente da quanto tradizionalmente concepito. Il declino del GFR in questi pazienti sarebbe quindi disgiunto dalle modifiche del flusso plasmatico renale e attribuibile invece ad altri fattori, quali la disfunzione endoteliale, le alterazioni del microcircolo e delle cellule epiteliali tubulari indotte dall’attivazione della cascata citochinica e coagulativa [9].

Figura 2: Alterazione del microcircolo e delle cellule epitaliali tubulare indotte dall’infiammazione [10] (reprinted with permission).
Figura 2: Alterazione del microcircolo e delle cellule epitaliali tubulare indotte dall’infiammazione [10] (reprinted with permission).
Gli antigeni esposti dal patogeno (PAMPs) e dalle cellule danneggiate dell’ospite (DAMPs) nel corso di un evento infettivo si legano ai recettori per l’antigene (TLRs o NODs) delle cellule circolanti del sistema immunitario e delle cellule epiteliali tubulari (TEC). Tale legame favorisce la produzione di citochine (mediatori infiammatori di peso molecolare < 40 kDa quali IL1-IL6-IL17-TNFalfa), radicali liberi (ROS), stress ossidativo e attivazione endoteliale. L’attivazione endoteliale promuove il rolling e l’adesione dei leucociti e piastrine, con aumentato rischio di formazione di microtrombi capillari [10].

Come già accennato, anche la nefrotossicità da antibiotici (in primis glicopeptidi e aminoglicosidi, con meccanismo dose-dipendente) svolge un ruolo fondamentale nell’eziopatogenesi dell’AKI nei pazienti settici. Vancomicina e gentamicina, impiegate rispettivamente nelle infezioni da batteri GRAM+ e GRAM-, agiscono sulle TEC attivando la produzione di ROS e di specifiche caspasi pro-apoptotiche; la vancomicina è associata anche alla formazione di cilindri tubulari ostruenti (tubular casts) e a un danno da ipersensibilità ritardata [11].

 

Fattori di rischio: il danno renale acuto nel post-operatorio degli interventi di artroprotesi d’anca

Nella nostra pratica clinica, abbiamo osservato come il danno renale acuto sia stato una complicanza relativamente frequente degli interventi di artroprotesi d’anca nei pazienti con sepsi/infezioni protesiche.

Oltre ai noti e già citati fattori di rischio di danno renale acuto post-operatorio, sono implicati nell’incidenza di AKI le procedure bilaterali, specie se sincrone (rispetto a quelle ravvicinate < 7gg o differite) [12], le revisioni di protesi, l’uso di ACE-inibitori, bassi valori di ematocrito e di albumina pre-operatori; i pazienti con albuminemia ridotta, rispetto ai controlli, sono infatti a maggior rischio di sviluppo di complicanze (infezioni, polmoniti, sepsi, infarto miocardico) a 30 giorni dall’intervento [1214].

I foci infettivi più frequenti sono rappresentati dalle infezioni delle vie urinarie (1/3 dei casi probabilmente legati alle manovre di cateterismo vescicale), infezioni del sito chirurgico (1/4), le polmoniti nosocomiali (1/7) [15], ma anche le infezioni periprotesiche (periprosthetic joint infection, PJI) di anca e ginocchio, la cui incidenza è in progressivo aumento (attualmente circa il 2%).

Oltre all’impatto clinico sul paziente (in termini di quantità e qualità della vita), le complicanze infettive determinano un significativo incremento dei costi della sanità: sulla base dei dati dei ricoveri ospedalieri nei primi 5 anni da una sostituzione totale di anca il costo di una revisione della protesi per infezione è 5 volte più alto di quello richiesto da una revisione per altre cause. Si stima che negli USA il costo delle cure ospedaliere per artroprotesi infette (anca e ginocchio) raggiungerà gli 1.85 miliardi entro il 2030.

I batteri aerobi GRAM+ (S. aureus, stafilococchi coagulasi negativi, Streptococchi ed Enterococchi) sono stati identificati quali principali agenti microbici nelle infezioni periprotesiche (82% dei casi); i batteri GRAM- contribuiscono per l’11% mentre i funghi per il 3%.

 

Early-onset

(< 3 mesi)

Delayed-onset

(3-12 mesi)

Late-onset

(> 12 mesi)

Sintomi locali e sistemici

Necrosi della ferita chirurgica, segni di flogosi locali (dolore, calore, eritema, tumefazione), deiscenza.

Febbre

Dolore persistente

Fistola cutanea

Mobilizzazione protesi

Segni di flogosi locali

Febbre

Patogeni S. aureus, GRAM-, polimicrobica Stafilococchi coagulasi-negativi (Staphylococcus lugdunensis), enterococchi, Propionibacterium S. aureus, GRAM-, streptococchi beta-emolitici
Tabella 4: Clinica e principali microrganismi coinvolti nelle infezioni periprotesiche, raggruppati in base al tempo di insorgenza.

 

Strategie terapeutiche

Tecniche di prevenzione e nuovi scenari farmacologici

La gestione e la terapia dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico con sepsi che hanno sviluppato danno renale acuto non sono del tutto state definite in quanto, in letteratura, mancano precise linee guida o trial clinici randomizzati.

Sicuramente le prime misure da adottare sono la sospensione di tutti gli agenti nefrotossici e l’ottimizzazione del profilo emodinamico [1], in associazione alla somministrazione di una terapia antibiotica adeguata per risolvere l’infezione. Nel caso specifico dell’infezione periprotesica è raccomandata la rimozione della stessa. Di seguito è riportato un esempio di protocollo che può essere adottato nelle fasi peri-operatorie dell’intervento di artroprotesi d’anca per ridurre lo sviluppo di danno renale acuto [16], che può essere applicato anche per le altre tipologie di interventi chirurgici in elezione.

Figura 3: Protocollo peri-operatorio per la prevenzione del danno renale acuto [16] (reprinted with permission).
Figura 3: Protocollo peri-operatorio per la prevenzione del danno renale acuto [16] (reprinted with permission).
Per quanto riguarda terapie specifiche nel trattamento del danno renale acuto, sono in corso degli studi che prevedono l’impiego di agenti farmacologici che agiscono sui meccanismi implicati nella sepsi: ad esempio l’utilizzo di desametasone è stato associato a una minore necessità di intraprendere la terapia sostitutiva nei pazienti sottoposti ad intervento cardiochirurgico [17]; un trial di fase 2 ha dimostrato i benefici a lungo termine sulla funzione renale e la minore mortalità nei pazienti trattati con la fosfatasi alcalina ricombinante umana nei pazienti con sepsi [18]; anche il levosimendan potrebbe avere un ruolo di protezione sulla funzione renale nei pazienti con AKI sottoposti ad intervento cardiochirurgico [19].

In considerazione del fatto che le strategie terapeutiche a disposizione restano limitate, è fondamentale identificare i pazienti a rischio prima dell’intervento e mettere in atto strategie preventive: è ragionevole sospendere ace-inibitori e sartani almeno 24 ore prima dell’intervento [1], ridurre l’utilizzo dei FANS e in generale di evitare farmaci nefrotossici (es. la gentamicina utilizzata in profilassi in caso di interventi ortopedici si associa ad aumento rischio di PO-AKI [20]).

Occorre però precisare che ad oggi non vi sono dati significativi a supporto di queste teorie [23], né è stato stabilito il timing per la ripresa di ace-inibitori e sartani nel post-operatorio.

Un altro aspetto importante è assicurare al paziente uno stato euvolemico, evitare l’iperglicemia e correggere i valori di emoglobina/ematocrito e albumina sia prima dell’intervento che nell’immediato post-operatorio [1].

Tecniche sostitutive dialitiche

Nel caso in cui l’adozione delle misure sopracitate non abbiano apportato un beneficio in termini di recupero della funzione renale, le tecniche di dialisi extracorporee (possibilmente in ambiente intensivo) rimangono l’opzione migliore non solo per contrastare il sovraccarico idrico e mantenere un buon controllo dell’equilibrio acido-base e degli elettroliti, ma anche per offrire un’ulteriore strategia di trattamento in corso di sepsi grazie alla rimozione di endotossine, citochine, patogeni e altri fattori pro-infiammatori circolanti [8].

Tra le tecniche più utilizzate vi sono l’emofiltrazione e l’emoadsorbimento; quest’ultima si basa sull’ipotesi del picco di concentrazione, cioè il meccanismo d’azione è quello di rimozione dei soluti con più alta concentrazione nel sangue. Per un funzionamento ottimale, è necessario l’utilizzo di membrane specifiche: nuove resine di polimeri sintetici dotate di elevata biocompatibilità sono state messe a punto per favorire l’emoadsorbimento di DAMPS e altri mediatori, la cui concentrazione è appunto elevata in corso di sepsi [8]. Di seguito sono rappresentate le caratteristiche dei trattamenti extracorporei utilizzati in corso di SA-AKI [8].

Figura 4: Caratteristiche dei trattamenti extracorporei disponibili per pazienti con sepsi e SA-AKI [8] (printed with permission).
Figura 4: Caratteristiche dei trattamenti extracorporei disponibili per pazienti con sepsi e SA-AKI [8] (printed with permission).
I trattamenti utilizzati sono l’emodialisi in continuo (CVVHD) con membrane ad alto cut-off efficaci nella rimozione dei mediatori pro-infiammatori (EMIC2 Fresenius Medical Care, cut-off 40 kDa, dimensione pori 10 millimicron, durata filtro 72h) ed emodialfiltrazione continua (CVVHDF) con l’aggiunta della cartuccia sorbente Cytosorb (AFERETICA – max 24 ore di utilizzo), che agisce su sostanze prevalentemente idrofobe, a basso e medio peso molecolare, in funzione della concentrazione plasmatica.

Si consideri inoltre l’utilizzo di filtri attivi verso batteri, virus e funghi quali Seraph 100 Microbind Affinity adsorber (Exthera Medical, CA, USA), (durata trattamento 4±1 ore) in grado di legare i patogeni circolanti nel circolo ematico, mimando la naturale superficie delle cellule endoteliali mediante la presenza di un glicocalice contenente eparan solfato [21].

Figura 5: Caratteristiche della superficie del filtro Seraph 100 confrontata con una cellula epiteliale con in superficie il glicocalice contenente eparan solfato (da scheda tecnica SERAPH 100, EXTERA MEDICAL).
Figura 5: Caratteristiche della superficie del filtro Seraph 100 confrontata con una cellula epiteliale con in superficie il glicocalice contenente eparan solfato (da scheda tecnica SERAPH 100, EXTERA MEDICAL).

Il timing con cui va iniziato il trattamento dialitico rimane tutt’ora controverso; sicuramente un aspetto importante da considerare sono le condizioni cliniche generali e la prognosi dei pazienti.

In un trial randomizzato controllato su coorte francese con shock settico e AKI severa (Failure sec-RIFLE, AKI stadio III sec-KDIGO), non è stato riscontrato beneficio in termini di mortalità nell’inizio precoce (entro 12h dall’esordio) del trattamento sostitutivo emodialitico rispetto al braccio di pazienti sottoposti a dialisi dopo 48h [22]. Nessun vantaggio sulla sopravvivenza del paziente è stato inoltre dimostrato con l’incremento della dose dialitica > 20/25 ml/kg/h raccomandata nel paziente critico [23].

Di seguito sono sintetizzate le informazioni emerse dalla recentissima Consensus Conference sulla SA-AKI per quanto riguarda le tecniche di trattamento extracoporeo.

Terapie extracorporee e nuove strategie nella SA-AKI
Consensus statement 5a: Tecniche extracorporee di purificazione del sangue (EBP) possono essere utilizzate per la rimozione di patogeni, tossine microbiche, mediatori infiammatori e metaboliti tossici (grade 1A). Consensus statement 5d: L’inizio di EBP in corso di sepsi può essere considerato a scopo di supporto immuno-modulatorio nei pazienti che rispettano i criteri clinici e/o biologici, come la concentrazione di DAMPS e PAMPS, o di altri componenti dell’infiammazione sistemica (not graded).
Consensus statement 5b: Le terpapie sostitutive della funzione renale supportano la funzione dell’organo mediante il controllo dei soluti, la rimozione delle tossine ematiche e il bilancio dei fludi tramite i meccanismi di diffusione, convezione e adsorbimento. La dialisi peritoneale potrebbe essere utilizzata quando le tecniche extracorporee non sono disponibili (grade 1A). Consensus statement 5e: L’ottimizzazione del trattamento extracorporeo è determinata da fattori quali l’inizo tempestivo e in sicurezza, la durata del trattamento, l’utilizzo di un accesso vascolare appropriato, la dose dialitica personalizzata per il singolo paziente, la corretta strategia di anticoagulazione, il corretto utilizzo di farmaci concomitanti (antibiotici, vasopressori, …) e nutrienti, una giusta prescrizione del trattamento e della quota di ultrafiltrazione (not graded).
Consensus statement 5c: Le indicazioni sull’inizio del trattamento sostitutivo nel corso di SA-AKI non differiscono rispetto a quelle per il trattamento del danno renale acuto in generale (grade 1A). Consensus statement 5f: Trattamenti sicuri ed efficacy richiedono marcatori oggettivi di risposta al trattamento, che possono essere valutati durante il corso del trattamento, con focus sugli obiettivi di cura “patient-centred” (grade 1B).
Tabella 5: Terapie extracorporee e nuove strategie nella SA-AKI [8].

 

Utilizzo di nuovi marcatori

Negli anni si è tentato di mettere a punto una serie di score in associazione all’uso di marcatori per stimare il rischio di sviluppo di danno renale acuto nei pazienti da sottoporre ad intervento chirurgico.

Ad esempio, è raccomandato l’utilizzo del risk-based kidney health assessment (KHA) nel periodo pre- e post-operatorio: si tratta di una valutazione che include la storia nefrologica del paziente, la terapia, le comorbidità cardiovascolari, lo stato emodinamico e i marcatori di danno renale (es. creatininemia, proteinuria) [1].

Altri studi hanno validato score prognostici che possono essere presi in considerazione per stratificare il rischio di danno renale acuto post-TJA secondo un sistema di calcolo; il “web-based risk assessment system” si basa ad esempio sulla classe ASA, sesso del paziente, valori di creatininemia pre-operatori, tipo di anestesia, uso di RAASi e di acido tranexamico peri-operatorio [24]; un Norton scale score basso (ampiamente utilizzato in ortopedia per la stratificazione del rischio di sviluppo di ulcere da pressione, che tiene in considerazione fattori fisici, mentali, il grado di attività, mobilità e incontinenza) è risultato un fattore predittivo di AKI post-artroplastica totale di anca (THA) [25].

In tale ambito il riconoscimento precoce dell’AKI è fondamentale per fornire un trattamento ottimale ed evitare ulteriori lesioni renali.

Allo stesso modo, il rilevamento di AKI nel contesto dell’infezione è fondamentale perché può definire la sepsi in un determinato paziente [26].

Figura 6: Decorso clinico e prognosi nei pazienti con SA-AKI [10] (printed with permission).
Figura 6: Decorso clinico e prognosi nei pazienti con SA-AKI [10] (printed with permission).
Biomarker Sede di ricerca Sede di rilascio tubulare Funzione fisiologica Utilizzo
NGAL Plasma e urine Tratto spesso ansa di Henle e dotto collettore Proteina antinfiammatoria e antiapoptotica che è coinvolta nella sintesi e nel trasporto del ferro nell’epitelio tubulare renale. NGAL conferisce un effetto batteriostatico limitando l’assorbimento batterico del ferro. L’NGAL urinario è più specifico dell’NGAL plasmatico. Tuttavia, è stato dimostrato che l’NGAL plasmatico predice il recupero di S-AKI
KIM-1

 

Plasma e urine Tubulo prossimale Glicoproteina transmembrana di tipo 1 che ha un effetto antinfiammatorio sul rene. Partecipa al recupero renale e alla rigenerazione tubulare KIM-1 nelle prime 24 ore dopo il ricovero presenta una AUC di 0,91 per la diagnosi di S-AKI.
L-FABP

 

Urine Tubulo prossimale Della famiglia delle lipocaline, coinvolte nel legame e nel trasporto degli acidi grassi a catena lunga ai perossisomi e ai mitocondri da metabolizzare. Svolge un ruolo antiossidante riducendo lo stress ossidativo cellulare dovuto al legame dei prodotti di ossidazione degli acidi grassi i livelli urinari di L-FABP al momento del ricovero sono solitamente più alti nei non sopravvissuti con S-AKI e avevano un punteggio AUC più alto rispetto al punteggio APACHE II e SOFA.93 Ha anche dimostrato di essere un predittore di mortalità nei bambini settici.
TIMP 2- IGFBP7

 

Urine Tubulo prossimale Entrambe le proteine regolano la crescita cellulare e l’apoptosi. In presenza di danno cellulare, TIMP 2 e IGFBP7 sono sovraregolati e possono portare all’arresto del ciclo cellulare G1 attraverso l’induzione di p27 e p21, rispettivamente.

Biomarcatore approvato dalla FDA per lo strumento di valutazione del rischio di AKI nella sepsi. L’urina TIMP2/IGFBP7 ha la più alta specificità per il danno renale, in quanto vi è un’elevazione minima in presenza di altre lesioni d’organo. Alti livelli di TIMP2 e IGFBP7 nella fase iniziale dello shock settico sono fattori di rischio indipendenti per la progressione verso l’AKI grave nelle successive 24 ore.

Angiopoietina

 

Plasma Fattori angiogenici per lo sviluppo vascolare; Ang-1 è stato trovato per essere protettivo stabilizzando l’endotelio, mentre Ang-2 promuove la perdita vascolare, che può peggiorare la sepsi Nei pazienti con S-AKI, l’Ang-1 plasmatico è significativamente inferiore rispetto ai pazienti con sepsi ma senza AKI. Livelli più elevati di Ang-1 sono associati a un minor rischio di AKI e livelli più elevati di Ang-2 erano associati a un rischio più elevato di AKI e sono un predittore indipendente di mortalità a 28 giorni nei pazienti in terapia intensiva con AKI che richiedevano RRT
VE-cadherin

 

Plasma Una glicoproteina transmembrana endoteliale che forma giunzioni aderenti Il livello plasmatico di VE-caderina al momento dell’arruolamento è stato associato a AKI grave che richiede RRT (OR: 6,44 per log di aumento del VE-cadhe plasmatico)
Soluble
thrombomodulin
 
Plasma La trombomodulina è un recettore della trombina che viene espresso sulla superficie delle cellule endoteliali e viene rilasciato nel flusso sanguigno quando vengono attivate le cellule endoteliali. La trombomodulina PSoluble in un paziente con sepsi al ricovero in terapia intensiva è un predittore indipendente per S-AKI con AUC di 0,758
Interleukina-6 Plasma Una citochina con una vasta

gamma di attività biologiche; aiuta a controllare l’induzione della risposta di fase acuta; un mediatore per il cambio di classe delle immunoglobuline

 

L’interleuchina-6 al basale al momento del ricovero ha previsto l’AKI nei pazienti con sepsi grave
sTREM-1

 

Urine/

plasma

TREM-1 è un recettore attivante espresso selettivamente sulla superficie dei neutrofili e dei monociti e associato alla risposta infiammatoria innescata dall’infezione batterica. (È quasi non rilevabile nell’infiammazione non infettiva). sTREM-1 può essere prodotto localmente dalle cellule endoteliali, dalle cellule epiteliali tubulari o dalle cellule infiammatorie infiltranti durante la necrosi tubulare acuta.105,106 Nei pazienti con sepsi, sTREM-1 nelle urine al ricovero in terapia intensiva ha previsto AKI a 48 h con AUC di 0,922,107 Valore diagnostico per S-AKI: AUC di 0,794 per il plasma e 0,707 per le urine; valore predittivo 24 ore prima della diagnosi di S-AKI: AUC di 0,746 per il plasma e 0,778 per l’urina
 Tabella 6: Biomarcatori studiati in S-AKI [10].

A tal riguardo l’uso di marcatori e del loro andamento nel contesto della AKI può fornire ulteriori fondamentali informazioni utili a una diagnosi precoce di danno renale.

In futuro, il dosaggio dei nuovi biomarcatori di danno renale, ad oggi non ancora routinario, potrebbe essere utilizzato per stimare la progressione del danno renale; tra questi si citano il tissue inhibitor of metalloproteinases 2 (TIMP2) e l’insulin-like growth factor binding protein 7 (IGFBP7) urinari, dei quali è stato studiato il rapporto maggiore di 2 [26].

Figura 7: Andamento nel tempo dei biomarkers rispetto all’evento acuto. Clin J Am Soc Nephrol 10: 147–155, 2015 [28].
Figura 7: Andamento nel tempo dei biomarkers rispetto all’evento acuto. Clin J Am Soc Nephrol 10: 147–155, 2015 [28].
Figura 8: Sede di produzione di biomarkers in vari setting di danno tubulare [27].
Figura 8: Sede di produzione di biomarkers in vari setting di danno tubulare [27].
 

Conclusioni

In conclusione, il PO-AKI è una complicanza comune degli interventi di chirurgia maggiore che si associa ad una prognosi peggiore nel lungo termine, per la maggiore insorgenza di malattia renale cronica, eventi cardiovascolari e morte. Se nel post-operatorio il paziente va incontro a sepsi, il rischio di danno renale acuto incrementa notevolmente (SA-AKI). La prevenzione del danno renale acuto nel contesto peri-operatorio si basa sull’identificazione dei pazienti a rischio di AKI, nella riduzione degli agenti nefrotossici e nel trattamento delle cause sottostanti. Nel contesto del SA-AKI vi è la possibilità di utilizzare trattamenti extracorporei, che oltre ad una funzione di supporto della funzione renale facilitano la risoluzione del quadro.

Le prospettive prognostiche del paziente che nel post-operatorio sviluppa sepsi con danno renale acuto dipendono dalla tempestiva messa in atto di misure terapeutiche e dalla personalizzazione del trattamento.

 

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Danno renale acuto da funghi: un caso secondario ad ingestione di Amanita echinocephala

Abstract

Le intossicazioni da funghi possono rappresentare un evento acuto con cui il nefrologo clinico deve approcciarsi e che spesso determinano il ricorso ad un trattamento dialitico in urgenza. Attraverso il caso clinico esposto, descriviamo le manifestazioni cliniche secondarie ad un’intossicazione acuta sostenuta da Amanita echinocephalae e forniremo una panoramica sulle principali intossicazioni fungine di interesse renale, la loro presentazione clinica, le strategie diagnostiche ed il successivo trattamento.
Parole chiave: intossicazione da funghi, AKI, Amanita echinocephala

Introduzione

L’ingestione di funghi non commestibili o velenosi si presenta, spesso, con quadri sintomatici variabili a seconda del tipo di fungo consumato e delle tossine eventualmente presenti che possono determinare un coinvolgimento multisistemico, in particolar modo epatico, ma anche neurologico, muscolare e renale.

Focalizzando l’attenzione sul danno renale è possibile evidenziare come numerose specie fungine siano responsabili di eventi particolarmente acuti che, sovente, determinano il ricorso al trattamento emodialitico urgente e talvolta provocano un danno d’organo irreversibile con necessità di trattamenti dialitici cronici o di trapianto renale.

I funghi appartenenti al genere Cortinarius, in particolare le specie orellanus e orellanoides (noti anche come C. speciosissimus o C. rubellus), sono potenzialmente mortali e sono responsabili della sindrome orellanica, una condizione clinica secondaria ad una tossina (orellanina) in essi contenuta. Il meccanismo di tossicità dell’orellanina non è ancora del tutto compreso sebbene la somiglianza chimica tra questa tossina ed alcuni erbicidi, come il dipiridilici diquat (1,1′-etilene-2,2′-bipiridilio) e il paraquat (1,1′-dimetil-4,4′-bipiridilio), faccia ipotizzare che alla base del danno vi possa essere un meccanismo ossidativo cellulare con successiva sintesi di radicali liberi [1]. Questa teoria è stata confermata in sede sperimentale, essendo stati evidenziati a livello delle cellule tubulari, dei danni compatibili con uno stress ossidativo acuto [2]. Alla base di questo processo vi sarebbe, quindi, l’accumulo in sede renale dell’orellanina cui consegue la produzione di radicali anionici orto-semichinonici responsabili della produzione di radicali superossido, e la successiva induzione di stress ossidativo. Questo processo chimico determina un notevole consumo di ossigeno con conseguente ipossia secondaria, successivo esaurimento sia del glutatione che dell’ascorbato, oltre che il mancato ripristino degli agenti anti ossidanti tissutali [3]. I sintomi dell’avvelenamento da orellanina sono variabili. In generale, dopo un iniziale interessamento gastro intestinale (con vomito, diarrea, dolore addominale) si osserva un danno renale acuto (AKI) che si realizza in un arco temporale compreso tra i tre giorni e le due settimane e che, in una percentuale compresa tra il 30% e il 70% dei casi, richiede il ricorso al trattamento emodialitico sostitutivo che può diventare permanente fino a due terzi dei casi [4].

Anche il genere Amanita, che può essere suddiviso in sette gruppi [5], la cui commestibilità passa per la determinazione delle singole specie o dei gruppi di specie, è coinvolto nel determinismo di un danno renale acuto. I funghi appartenenti al gruppo delle Caesareae (A. caesaria) e delle Vaginatae (grisette) sono commestibili senza particolari limitazioni, mentre le altre specie devono essere necessariamente considerate velenose. I cosiddetti “death caps”, anche noti come “angeli distruttori” per via del cappuccio biancastro, ovvero l’A. phalloides, l’A. virosa e l’A. verna (sezione Phalloideae), risultano particolarmente velenosi poiché contengono ciclopeptidi epatotossici (amatossine, falloidina) che causano insufficienza epatica e renale fulminante curabili solo sintomaticamente, ma per cui non esiste una cura completa [6]. Rientra in questo gruppo anche l’A. porrinensis finora segnalata molto raramente nel bacino del Mediterraneo, principalmente in Italia e Spagna [7]. La principale tossina della specie A. phalloides è rappresentata dall’alfa-amanitina, un ottapeptide ciclico potente inibitore delle RNA polimerasi che, bloccando la produzione di m-RNA, determina l’arresto della sintesi proteica sia nelle cellule epatiche che renali [8].

Anche l’A. muscaria e l’A. pantherina sono da considerare specie velenose e sono responsabili della cosiddetta sindrome “panterinica,” nonostante le loro tossine (acido ibotenico, muscimolo, muscarina) siano idrosolubili e pertanto facilmente eliminabili mediante bollitura ed eliminazione dell’acqua. Le tossine si comportano come alcaloidi psicoattivi, in particolare l’acido ibotenico e il muscimolo che sono strutturalmente simili all’acido gamma-aminobutirrico (GABA), ed agiscono come neurotrasmettitori nel sistema nervoso centrale (SNC), stimolando i recettori per il glutammato [9]. Dopo l’ingestione, l’acido ibotenico e il muscimolo vengono rapidamente assorbiti nel tratto gastrointestinale e attraversano la barriera emato-encefalica per mezzo di un sistema di trasporto attivo. Nel SNC l’acido ibotenico viene rapidamente decarbossilato a muscimolo, che sembra essere l’agente responsabile della maggior parte dei sintomi. L’alternanza dei livelli sierici tra muscimolo e acido ibotenico è responsabile della fluttuazione dei sintomi del SNC [10]. Tali funghi, tuttavia, pur presentando notevole coinvolgimento sistemico, non determinano particolare interessamento renale.

Negli ultimi decenni è stata posta attenzione alle Amanite appartenenti alle specie delle Amidelle e Lepidelle come: A. proxima, A. smithiana, A. Echinocephala, A. boudieri e A. gracilior, che sarebbero tutte in grado di determinare un interessamento renale reversibile detto sindrome norleucinica [11]. Altre specie fungine di interesse renale, sono rappresentate dai generi Tricholoma (T.equestre e T. Terreum), Russula (subnigricans), Leccinum spp. e Boletus spp. che attraverso le micotossine Acido carbossilico cicloprop-2-ene e Saponaceolide B e M, determinano una rabdomiolisi acuta e danno renale secondario [12].

 

Epidemiologia

Si stima che delle circa 100.000 specie fungine presenti nel mondo, più di 100 siano tossiche. Negli Stati Uniti il National Poison Data System riporta che, nel periodo compreso tra il 1999 e il 2016, sono stati segnalati 33.700 casi (7428/anno) di avvelenamento da funghi, principalmente in seguito ad ingestione, generalmente non intenzionale (83%, P < 0,001), che si manifestano o senza danno o con danni minori (86%, P < 0,001) sovente limitati al distretto gastroenterico. Oltre agli anziani, risultano colpiti anche i bambini con età < 6 anni (62%, P < 0,001) e circa 704 esposizioni hanno determinato gravi danni sistemici [13]. In Italia i dati forniti dall’ Istituto Superiore di Santità e relativi al centro antiveleni (CAV) di Milano riportano come, nel periodo compreso tra il 1998 e il 2017, siano state segnalate 15.864 richieste di consulenza per intossicazione da funghi; di queste, 12.813 relative a casi clinici, mentre le restanti per l’ottenimento di informazioni aggiuntive o a richiami per follow-up da parte dei medici. Anche nel nostro paese le fasce d’età maggiormente interessate includono i pazienti con età compresa tra i 15 ed i 50 anni (39% del totale delle intossicazioni) e le cause principali sono secondarie ad ingestione volontaria associata alla scarsa conoscenza micologica [14].

Si riportano nella Figura 1 le percentuali di provenienza delle richieste di consulenza trattate dal CAV di Milano suddivise per regione.

Figura 1: Provenienza delle richieste al Centro Antiveleni di Milano per casi di intossicazione fungina dal 01.01.1998 al 31.12.2017 [14].
Figura 1: Provenienza delle richieste al Centro Antiveleni di Milano per casi di intossicazione fungina dal 01.01.1998 al 31.12.2017 [14].

Caso clinico

Descriviamo il caso clinico di un maschio caucasico di 68 anni che, nell’ottobre 2022, accedeva presso il pronto soccorso del nostro ospedale lamentando: nausea, astenia profonda, alvo diarroico da circa quattro giorni, mialgie diffuse e dolore in sede retrosternale. Dall’anamnesi patologica prossima, si apprendeva del consumo di funghi, da lui stesso raccolti nei terreni circostanti la propria abitazione, avvenuto cinque giorni prima dell’accesso in pronto soccorso e del successivo sviluppo dei sintomi precedentemente descritti dopo circa dieci ore dall’ingestione, cui si era associata oliguria nelle quarantotto ore antecedenti l’accesso. Agli esami ematologici eseguiti in regime di urgenza, si evidenziava un quadro di AKI (creatinina sierica 19,84 mg/dl, Azotemia 372 mg/dl) in assenza di precedenti quadri di nefropatia noti, essendo l’ultimo valore della creatinina sierica disponibile, risalente a febbraio 2022, pari a 0,98 mg/dl. Gli altri esami ematochimici mostravano un incremento della alanina amino transferasi (124 U/I) normalità dell’aspartato aminotransferasi (31 U/I), ed un incremento sia della lattica deidrogenasi (1210 U/I) che degli enzimi pancreatici (amilasi: 120 U/I; lipasi 131 U/I). Nella norma gli elettroliti sierici (Na+ 136 mmol/l; K+4,9 mmol/l). Si eseguiva inoltre un’emogasanalisi che documentava una lieve acidosi metabolica (pH 7,35 PCo2 28 mmHg Po2 82,9 mmHg HCO3-15,7 mmol/l EB -9,7mmol/l).

Dall’anamnesi patologica remota, si apprendeva di una pregressa cardiopatia ischemica (nel 2011) con necessità di by-pass aortocoronarico. Per il riscontro di elevati livelli sierici di NT-proBNP (15681 pg/ml), ed in considerazione dei pregressi anamnestici, veniva eseguita una consulenza cardiologica con ecocardiogramma in cui si documentava la presenza di acinesia del setto interventricolare (SIV) inferiore medio basale e della parete inferiore che appariva iperecogena. Nel sospetto di embolia polmonare, si propendeva per l’esecuzione di angio TC con mezzo di contrasto (MDC) e successivo avvio del trattamento emodialitico. Lo studio angio TC documentava la presenza di alcuni minimi difetti di opacizzazione di verosimile significato tromboembolico a carico di alcuni rami arteriosi polmonari tributari per il segmento postero-basale del lobo inferiore di destra, non si osservavano franchi addensamenti parenchimali con i caratteri della flogosi bilateralmente mentre erano evidenti alcune aree di disventilazione a carico di entrambe le piramidi basali. Le cavità pleuriche apparivano libere da versamento.

Una volta eseguito l’esame contrastografico e in considerazione del quadro di grave insufficienza renale, previa acquisizione del consenso informato, si provvedeva al posizionamento sotto guida ecografica, di catetere venoso centrale (CVC) temporaneo 24 cm in vena femorale sinistra e all’avvio di trattamento emodialitico sostitutivo. Al termine del trattamento emodialitico urgente, il paziente veniva ricoverato presso il reparto di medicina interna del nostro ospedale per il proseguimento dell’iter diagnostico e terapeutico.

All’ ingresso in reparto le condizioni cliniche generali apparivano in lieve miglioramento rispetto alla precedente valutazione eseguita in regime di urgenza, infatti, pur evidenziandosi un quadro di oliguria (200 ml di urine ipercromiche), non si segnalavano particolari alterazioni alle principali obiettività cliniche. L’esame chimico-fisico delle urine documentava presenza di lieve proteinuria, cilindruria ed ematuria. Assenza di batteriuria.

Nei tre giorni successivi all’accesso, sono stati eseguiti quotidiani trattamenti emodialitici della durata di quattro ore ciascuno senza impostare calo del peso giacché non si riscontravano condizioni di sovraccarico sistemico (vena cava inferiore valutata ecograficamente 13 mm). I principali distretti venosi sono stati valutati tramite ecocolordoppler che ha escluso presenza di trombosi venosa profonda e superficiale a livello degli arti inferiori, mentre tramite ecocolordoppler dei trochi sovraortici (TSA) sono state documentate bilateralmente aree di minima patologia ateromasica di parete in sede di biforcazione e bulbo carotideo, pervie le arterie vertebrali.

Dal terzo giorno di ricovero si assisteva a una progressiva ripresa della diuresi (inizialmente 1700 ml) e all’instaurarsi di poliuria a partire dalla quinta giornata (2700 ml di urine chiare) che si manteneva per quattro giorni. Successivamente la diuresi si è attestata su valori medi giornalieri di 1500 ml. In seguito a questi eventi e all’ulteriore riduzione dei valori della creatinina sierica e dell’azotemia si impostava una dialisi trisettimanale.

Grafico 1: andamento della creatinina sierica del paziente.
Grafico 1: andamento della creatinina sierica del paziente.

Come evidenziato dal Grafico 1 il ricovero è durato venti giorni, in cui si sono rese necessarie complessivamente otto sedute emodialitiche, di cui quattro consecutive, per ottenere un miglioramento clinico tale da poter sospendere il trattamento emodialitico e rimuovere l’accesso vascolare provvisorio. L’analisi micologica del fungo (riportato nelle immagini successive) ha confermato che si trattava di una Amanita e nello specifico dell’echinocephala che come l’amanita proxima determina dei sintomi principalmente renali con conseguente insufficienza renale acuta, oligo-anuria e lieve danno tubulare, mentre l’interessamento epatico risulta abbastanza modesto caratterizzandosi per un lieve incremento delle transaminasi solitamente reversibile.

Figura 2A-2B: Fungo assunto dal paziente; visione superiore e inferiore.
Figura 2A-2B: Fungo assunto dal paziente; visione superiore e inferiore.

Attualmente il paziente presenta lieve insufficienza renale residua (Crs 1,4 mg/dl; azotemia 40 mg/dl) e prosegue periodico follow-up presso i nostri ambulatori nefrologici.

 

Discussione

L’Amanita echinocephala è un fungo normalmente presente nelle regioni centrali del nostro paese e che cresce generalmente nei pressi di boschi di latifoglie nel periodo tardo estivo e autunnale. Come evidenziato dal nome, sia di derivazione greca (echìnos: porcospino) che latina (cephalus: capo), l’elemento che lo contraddistingue è rappresentato dalla presenza di formazioni spinose localizzate prevalentemente sul cappello (da 6 a 15 cm di diametro) che assume sostanzialmente una forma dapprima emisferica, quindi convessa, piano-convessa e che si presenta generalmente di colore grigio chiaro o grigio-argentato, ma talvolta anche grigio-brunastro chiaro. Tipicamente questo fungo presenta un gambo cilindrico, bianco, attenuato all’apice e bulboso alla base con la presenza di un anello pendulo. Caratteristicamente può essere confuso con la commestibile Amanita ovoidea specie nelle prime fasi di sviluppo [15] e con la Macrolepiota procera (comunemente noto come mazza di tamburo), per la presenza delle caratteristiche scaglie sul cappello.

Figura 3: Esemplari di Macrolepiota procera. Foto tratta da Rivista italiana di Agraria [16].
Figura 3: Esemplari di Macrolepiota procera. Foto tratta da Rivista italiana di Agraria [16].
Il danno renale determinato da questa particolare classe di funghi rientra in una sindrome recentemente definita “norleucinica” o nefrotossica che, almeno inizialmente, insorge con nausea e vomito, 10-12 ore dopo l’ingestione, e che successivamente determina una grave insufficienza renale acuta e lieve epatite associata [11].

La presenza di una tossina simil smithiana anche nell’A. Echinocephala, è stata dimostrata attraverso l’uso della cromatografia su strato sottile (TLC) e analisi diretta del materiale. La determinazione delle amatossine è stata eseguita su piastra di silice e successiva TLC di 2μl di estratto di corpo fruttifero (gel di silice 60, Merck 105721), trattato con 2-butossietanolo-idrossido di ammonio acquoso al 25% (7:3) e aldeide cinnamica allo 0,2% v/v come sistema solvente. Le amatossine sono apparse come macchie viola a R f = 0,39 (α-amanitina) o R f = 0,33 (ß-amanitina) dopo l’esposizione del cromatogramma al vapore di HCl [17]. La tossina di A. smithiana è rilevabile applicando il sistema sopra descritto ad un R f di 0,44, e si colora di rosso arancio con ninidrina e di giallo con reagente di Morgan-Elson e Ehrlich [1118]. Lo spot a R f = 0,4 degli estratti del materiale campione, utilizzato per identificare la tossina A. smithiana, ha mostrato reazioni identiche anche per i corpi fruttiferi di tutte le specie imparentate con il genere Lepidella come A. gracilior, A. boudieri e A. echinocephala che pertanto devono essere considerate tossiche per la presenza di amatossina smithiana.

L’esatto meccanismo alla base dell’insufficienza renale non è del tutto conosciuto. Alcuni autori attribuiscono l’insufficienza renale alla massiva infiltrazione linfocitaria, alla conseguente formazione di cilindri cellulari e successiva ostruzione tubulare; mentre per altri, alla base del danno vi sarebbe l’accumulo nel lume tubulare, di materiale cellulare proveniente dalla citolisi epatica. Attualmente pochi casi sono stati sottoposti a biopsia e, in generale, mostrano un quadro di nefrite tubulo-interstiziale con marcata infiltrazione linfocitaria, cilindri eosinofili intratubulari e necrosi tubulare con assenza di interessamento vascolare e glomerulare. L’immunofluorescenza è negativa per depositi di complemento e immunoglobuline [1119].

In generale, la sindrome norleucinica tende a determinare un quadro di insufficienza renale transitoria, tuttavia l’analisi del fungo e una valutazione micologica risultano fondamentali per porre diagnosi differenziale tra questa sindrome e la sindrome orellanica ben più grave e spesso responsabile di un danno irreversibile [20]. Un indizio in tal senso, può essere fornito dalla differente latenza clinica esistente tra le due sindromi, infatti la sindrome orellanica presenta un’insorgenza generalmente più tardiva rispetto alla sindrome norleucinica [21].

La presentazione clinica dei pazienti che hanno assunto funghi contenenti norleucina si caratterizza da una sintomatologia subdola che insorge generalmente dopo 10-12 ore dall’ ingestione.

I primi sintomi sono perlopiù gastrointestinali e si caratterizzano per nausea, vomito, diarrea, crampi addominali e diaforesi [22]. Dopo un periodo variabile compreso tra le 6 e le 24 ore, la nausea e il vomito in genere si risolvono o si autolimitano [23]. Generalmente dai tre ai sei giorni l’ingestione dei funghi, i pazienti iniziano a sviluppare sintomi di insufficienza renale, che si manifesta di solito con contrazione della diuresi fino all’anuria e sono proprio questi sintomi a spingere il paziente a richiedere un’assistenza medica, essendo i sintomi iniziali autolimitanti. L’insufficienza renale che ne consegue si risolverà gradualmente nell’arco di diverse settimane o mesi con un’adeguata terapia di supporto. La diagnosi è solitamente clinica e allo stato attuale non esistono test per l’identificazione delle tossine norleuciniche; pertanto, l’identicazione micologica riveste un ruolo cruciale. Nei casi in cui non sia stata possibile l’osservazione diretta del fungo, sono state impiegate con successo identificazioni digitali tramite l’ausilio di fotografie, al fine di i escludere quei funghi che possono determinare intossicazioni particolarmente aggressive ed orientare il trattamento clinico [24].

Come trattamento di prima linea, se possibile, è utile tentare entro un’ora una decontaminazione dall’ingestione del fungo tramite l’utilizzo di carbone attivo (1 g/kg, dose massima: 50 g), poiché i funghi, come la maggior parte degli xenobiotici complessi, sono in grado di legarsi a tale sostanza ed essere quindi inattivati ed eliminati [23].

La necessità del ricorso ad un trattamento emodialitico deve essere considerata in tutti i casi in cui si determina una grave insufficienza renale acuta, specie in presenza di anuria, o di alterazioni elettrolitiche o dell’equilibrio acido base tali non essere immediatamente correggibili o che possano rappresentare un pericolo immediato per la vita del paziente.

 

Conclusioni

Possiamo affermare che il danno renale acuto sostenuto dal consumo di funghi è più frequente di quanto si possa pensare e che spesso si associa ad un interessamento sistemico. Particolarmente importante è la conoscenza della specie fungina che può associarsi a un danno renale acuto; pertanto, risulta di primaria importanza una valutazione micologica per definire un corretto iter terapeutico. Inoltre è assolutamente sconsigliabile ai pazienti il consumo di funghi di dubbia provenienza essendo, come evidenziato dai dati epidemiologici, proprio l’ignoranza micologica la prima causa dei gravi danni secondari a questi alimenti.

 

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Campylobacter: un patogeno “vintage” alla ribalta

Abstract

La campylobatteriosi è causata da batteri Gram. Le specie più frequenti sono C. jejuni e C. coli. Rara causa di sepsi nei pazienti immunocompromessi, negli ultimi anni il tasso di incidenza della campylobatteriosi ha superato in alcuni Paesi europei quello relativo alle salmonellosi, diventando un concreto problema di salute pubblica.
Abbiamo trattato un uomo di 66 anni, iperteso, cardiopatico ischemico, in attesa di coronarografia, che veniva ricoverato con insufficienza renale acuta in stato di shock dopo alcuni giorni di diarrea profusa.
Data la stagionalità del patogeno e le caratteristiche cliniche del paziente, oltre alle comuni coprocolture veniva richiesta la ricerca del Campylobacter, che risultava positiva. Avviata replezione volemica e terapia antibiotica, nell’arco di una settimana si assisteva a ripristino della normofunzione renale. Il paziente a una settimana dalla dimissione è stato sottoposto alla coronarografia programmata.

Parola chiave: Campylobatteriosi, insufficienza renale acuta, diarrea

Introduzione

La campylobatteriosi è causata da batteri GRAM-negativi, pleomorfi, spesso di forma incurvata (dal greco Kampylos, cioè curvo) a S, elicoidale, spiraliforme o ad “ala di gabbiano”, della lunghezza di 2-5 μm e del diametro di 0,2-0,9 μm.

Inizialmente descritta come rara causa di sepsi nei pazienti immunodepressi, nel 1972 è stata inclusa tra le cause di malattie diarroiche. Le specie più frequenti (oltre il 90% delle infezioni) sono C. jejuni e C. coli.

Negli ultimi anni il tasso di incidenza della campilobatteriosi ha superato in alcuni paesi europei quello relativo alle salmonellosi, diventando un concreto problema di salute pubblica [7].

Ha un andamento stagionale e risulta più frequente nel periodo giugno-settembre. Le fasce di età più colpite sono 0-5 anni e > 65 anni. 

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AKI in pazienti ospedalizzati con COVID-19: l’esperienza di un singolo centro

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Dear Editor,

since December 2019, the COVID-19 pandemic is straining hospitals and nephrology services worldwide. Although this disease manifests mostly with pneumonia, acute kidney injury (AKI) is recognized as a common complication in patients with severe manifestations of COVID-19. The pathogenesis of COVID-19 is still unclear but recent evidence supports a multifactorial etiology [1]. Generally, kidney involvement following SARS-CoV-2 infection is proportionate to the gravity of the infection and is commonly diagnosed in hospitalized patients with lung involvement [2]. As in another clinical scenarios, kidney injury is independently associated with morbidity and mortality in patients with SARS-CoV-2 infection [3,4].

The distribution of AKI in patients with COVID-19 is extremely variable across countries [5]. The first reports from China described a low prevalence of AKI in hospitalized patients [6] but subsequent evidence, coming from the USA and Europe, suggested a higher kidney involvement, especially in the intensive care setting [7] and among vulnerable patients [8]. Few studies have estimated the rate of AKI in hospitalized patients admitted to non-intensive care units in Italy. It ranges between 13.7-22.6% [911] and is similar to the prevalence detected in other European countries (4.5-22%) [1214]. In order to broaden the knowledge of this phenomenon, we report the data on the prevalence and clinical characteristics of AKI in COVID-19 patients.

We evaluated a cohort of 792 COVID-19 patients hospitalized at the University Hospital of Modena, Italy, between February 25 and December 14, 2020 for severe symptoms of COVID-19. The diagnosis of COVID-19 was performed through reverse transcriptase-polymerase chain reaction (RT-PCR). We excluded patients aged <18 years (n=2), patients on dialysis (n=5), and patients without serum creatinine on admission (n=19). The diagnosis of AKI was defined according to the Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) criteria [15], without considering the urine output criteria. Baseline serum creatinine (sCr) coincided with sCr at admission. All the enrolled patients were discharged or died at the end of the follow-up.

According to the Istituto Superiore di Sanità (ISS), the coronavirus pandemic in Italy can be subdivided in three waves during 2020: first wave (February-May), transitional period (June-August) and second wave (September- December) [16]. As a result, the study population was subdivided into three groups: wave-1 (n=389), transitional period (n=57) and wave-2 (n=346).

Data are expressed as mean ± standard deviation or a percentage (%). Statistical differences were tested using Student’s t-test or Chi-square as appropriate. Cox regression analysis evaluated the influence of AKI on the hazard of death. The study was approved by the regional ethical committee of Emilia Romagna (n. 0013376/20).

In a cohort of 792 hospitalized patients, 122  cases (15.4%) of AKI were diagnosed. Patients with AKI were older (77.4 vs 64.3 years; P=<0.001) and had a higher baseline sCr (1.37 vs 0.96 mg/dl; P=0.004) than non-AKI patients (Table I). As expected, patients with AKI showed increased levels of inflammatory markers (CRP; P=0.001), tissue damage (LDH; P=0.01) and hypoxia (PO2/Fi02;P=<0.001). We detected a higher burden of morbidity and comorbidity compared to non-AKI patients, as indicated by a higher SOFA (P=<0.001) and Charlson score (P=<0.001), respectively. In particular, AKI patients had a high rate of non-invasive ventilation (NIV; P=0.001), high flow nasal oxygen (HFNO; P=<0.001), mechanical ventilation (P=0.001) and, consequently, ICU admission (P=0.01). Given the burden of multiorgan dysfunction, AKI patients experienced a prolonged hospital stay (22.4 vs 13.2 days; P=0.008).

AKI stage 1 was the most frequent event (n=82; 67.2%) followed by AKI stage 2 (n=15; 12.2%) and AKI stage 3 (n=25; 20.4%). In this latter group, renal replacement therapy was necessary for 11 patients (44%).

The overall mortality rate was 19.1% and it increased up to 61.5% in patients with an acute worsening of kidney function (Figure 1). AKI was an independent risk factor for death after adjustment for age, sex, PO2/FiO2, baseline creatinine, BMI, LDH, CRP, diabetes and cardiovascular disease (HR, 3.39; CI95% 1.032-11.1; P=0.04). Of the survivors with AKI, 40.4% did not recover kidney function at discharge.

Variable All patients (n=792) No AKI (n=670) AKI patients (n=122) p-value
Age 66.3±16.1 64.3±16.18 77.4±10.92 0.012
Males (%) 511 (64.5) 425 (63.4) 86 (70.5) 0.15
White blood cells (cell/mm3) 8587±7170 7657.1±5696.6 9737.7±7380.5 0.053
Hemoglobin (gr/dl) 12.7±1.8 12.6±1.8 13.1±1.6 0.084
Platelets (103/mm3) 253.7±116.3 261.8±111.2 207.8±133.5 0.85
CRP (mg/dl) 8.9±8.2 8.3±7.89 12.3±9.6 0.001
LDH (U/L) 648.9±991.9 592±283.4 950±238.9 0.01
Baseline sCr (mg/dl) 1±0.71 0.96±0.25 1.37±0.08 0.004
sCr peak (mg/dl) 1.2±1.1 1.01±0.65 2.72±1.76 <0.001
sCr at discharge (mg/dl) 1±0.89 0.84±0.44 2.23±1.57 <0.001
MAP 90.3±13.2 88.8±12.2 95.5±14.2 0.12
PO2/FO2 250.6±105.2 261.11±101.3 184.87±106 <0.001
SOFA score 2±2 1.7±1.6 3.5±2.7 <0.001
Charston score 3.4±2.9 3 ±2.8 5.1±3.1 <0.001
Comorbidities§ (%)
COPD (%) 32 (14.5) 22 (12.1) 10 (26.3) 0.04
Diabetes (%) 75 (31.9) 61 (31.1) 14 (35.9) 0.576
Hypertension (%) 182 (65.9) 150 (64.7) 32 (72.6) 0.386
CVD (%) 50 (22.5) 30 (16.5) 20 (50) <0.001
CKD (%) 35 (15.8) 24 (13.1) 11 (28.9) 0.025
BMI>30 (%) 113 (32.2) 99 (33.6) 14 (25) 0.275
ACE inibitors (%) 102 (12.9) 90 (13.4) 12 (9.8) 0.307
FANS (%) 21 (2.7) 17 (2.5) 4 (3.3) 0.550
Nephrotoxic antibiotic (%) 20 (2.5) 15 (2.2) 5 (4.1) 0.216
Use of chonic diuretic therapy (pre-AKI) (%) 259 (32.7) 182 (27.2) 77 (63.1) 0.001
Antiviral (%) 253 (31.9) 215 (32.1) 38 (31.1) 0.91
IV hydratation with cystalloids pre-AKI (%) 233 (29.4) 189 (28.2) 44 (36.1) 0.085
Steroid (%) 287 (38.5) 232 (36.7) 55 (48.7) 0.021
Immunotherapy  (%) 326 (43.4) 275 (43.4) 326 (43.7) 0.758
O2 therapy (%) 537 (67.8) 454 (67.8) 83 (68) 1
HFNO (%) 101 (18.5) 71 (15.4) 30 (35.7) <0.001
NIV (%) 172 (31.3) 128 (27.8) 44 (49.4) 0.001
Mechanical ventilation (%) 91 (12.2) 59 (9.3) 32 (28.3) 0.001
ICU admission (%) 153 (20.5) 111 (7.5) 42 (37.2) 0.001
BMI 28.5±5.3 28.5±5.1 28.1±6.2 0.109
Time elapsed from admission to AKI (day) 11.8±9.34 NA 11.8±9.34 0.063
Hospitalization (day) 14.7±13.7 13.28±11.3 22.45±21.38 0.008
Death (%) 151 (19.1) 76 (11.3) 75 (61.5) <0.001
Legend: CRP, C-reactive protein; LDH, lactate dehydrogenase; MAP, mean arterial pressure; sCr, serum creatinine; SOFA, Sequential Organ Failure Assessment; COPD, chronic obstructive pulmonary disease; CVD, cardiovascular disease; CKD, chronic kidney disease; BMI, body mass index; HFNO, high-flow nasal oxygen; NIV, noninvasive ventilation; AKI, acute kidney injury; ICU, intensive care unit.
Table I: Demographics and clinical manifestation of COVID-19 patients
Figure 1: Kaplan Mayer curves showing survival of AKI and non-AKI patients with COVID-19
Figure 1: Kaplan Mayer curves showing survival of AKI and non-AKI patients with COVID-19

From an epidemiological point of view, the prevalence of AKI remained similar during the first (15.9%) and the second wave (14.7%) (P=0.89) (see Figure 2). The rate of ICU admission (P=0.42) was similar in these two groups but during the second wave AKI patients were more frequently treated with steroids (P=0.007), HFNO (P=0.001) and required less mechanical ventilation (P=0.019) compared to patients admitted during the first wave. Nevertheless, the mortality of AKI patients did not change between the first (59.7%) and the second (70.6%) wave of COVID-19 (P=0.243).

Figure 2: AKI prevalence during the first wave, the trasitional period and the second wave
Figure 2: AKI prevalence during the first wave, the trasitional period and the second wave

The findings of this study provide new information on the epidemiology of AKI in COVID-19. We found that the overall rate of AKI in unvaccinated hospitalized patients with COVID-19 accounted for 15.4% and that the prevalence of AKI remained relatively steady (about 15%) during the three phases of the COVID-19 pandemic that hit Italy and Europe during 2020. These data are in line with the results of a recent metanalysis, reporting a comparable pooled incidence (15.4%) among 25,566 patients, enrolled in 39 studies [17]. However, the distribution of AKI is not homogeneous among the published studies, where prevalence ranged from 0.5%-60%. Multiple factors may have affected this epidemiological variability including the surge capacity of the healthcare system, how the care was delivered (publicly or privately) and the method of patients selection (e.g. criteria for hospital admission).

In our study, subjects with AKI showed different demographic and clinical characteristics compared to non-AKI patients. Kidney injury was indeed experienced by elder patients affected by a more severe disease than non-AKI patients. COVID-19 patients with kidney involvement had a higher rate of morbidity (lung involvement, ICU admission, length of stay) and a 3.4-fold increase in mortality than non-AKI patients. No clear differences were detected in terms of AKI prevalence between the first and second wave, despite some therapeutic improvements (steroids, remdesivir, immunomodulant) were made in the management of these patients.

Since AKI is an independent risk factor  in COVID-19, many efforts should be made to identify and correct predisposing factors for kidney injury. From a practical point of view, the prevention measures that we put in place were not different from those we follow for AKI from other causes in critically ill patients [15,16]. These were based mainly on surveillance of kidney function, maintenance of normovolemia and avoidance of nephrotoxic agents.

In conclusion, our study confirms that AKI is a common event (15.4%) in COVID-19 and its prevalence was stable through 2020. AKI was more common in older patients who experienced a severe COVID-19. The outcome of patients with AKI was poor, as more than half died at the end of the follow-up and 40% of survivors had not recovered kidney function at hospital discharge. The heterogeneity of COVID-19-associated AKI in terms of incidence and etiology presents many challenges to its prevention and management. Further studies are required to investigate the effects of new virulent SARS-CoV-2 variants on the development of AKI, the impact of vaccination in the prevention of kidney involvement and the long term consequences of AKI.

 

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Panoramica del danno renale acuto nella COVID-19

Abstract

L’infezione da SARS-CoV-2 è responsabile della malattia sistemica da coronavirus 2019 (COVID-19). Nel complesso quadro della COVID-19 è possibile riscontrare anche un danno renale dalla patogenesi non univoca e multifattoriale che clinicamente si può presentare con alterazioni urinarie come proteinuria ed ematuria, accompagnate o meno ad una riduzione della funzionalità renale. Il danno renale acuto (AKI) non è infrequente, soprattutto nei pazienti critici ospedalizzati in terapia intensiva. L’AKI è un fattore prognostico negativo ed è gravato da una elevata mortalità intraospedaliera. La diagnosi tempestiva di danno renale acuto e la valutazione dei fattori di rischio eventualmente presenti, permetterà al nefrologo di attuare strategie terapeutiche adeguate del tipo farmacologico o di supporto extracorporeo. La mortalità nei pazienti con AKI in corso della COVID-19 rimane ancora elevata. La COVID-19 AKI è una area di studio tuttora in evoluzione.

Parole chiave: COVID-19, AKI, Cotugno, CRRT, terapie di purificazione extracorporee

Introduzione

La malattia causata dal nuovo ceppo di coronavirus SARS-CoV-2 (Covid-19) [1,2,3] è caratterizzata nella maggior parte dei pazienti da una lieve sintomatologia respiratoria simil influenzale ma, nel 5% dei casi può evolvere in una sintomatologia severa con polmonite interstiziale atipica, sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), shock settico, sindrome da disfunzione multiorgano (MOF) e morte [4,5]. Nella Figura 1 sono sintetizzate le fasi della COVID-19.

Il nuovo coronavirus presenta un indice di letalità del 3% e una contagiosità intorno al 5% [6,7,8]. Nella nostra popolazione, il SARS-CoV-2 appare almeno in un ordine di dieci volte più pericoloso dell’influenza e un poco più contagioso [8]. I pazienti più gravi necessitano di ospedalizzazione e di supporto, talvolta multiorgano. Circa il 4% dei malati richiede il ricovero in terapia intensiva (T.I.) [6,7].

In Italia, dall’inizio della pandemia al 15 giugno 2020, sono stati registrati 237.290 casi totali [9], mentre in Campania se ne sono registrati 4.613, di cui 2.640 nella provincia di Napoli [9]. Nello stesso arco temporale (1/3/2020-15/6/2020) il numero dei pazienti ospedalizzati in Italia è risultato pari a 3.696, di cui 207 in T.I. [9]; 382 pazienti sono stati ospedalizzati nella Regione Campania, e in particolare nella provincia di Napoli, e tutti presso il Presidio Ospedaliero (P.O.) Domenico Cotugno di Napoli.

Nell’ambito di una riesamina della letteratura, vogliamo fornire il nostro contributo descrivendo la popolazione di pazienti affetti dalla COVID-19 ospedalizzata presso il nostro P.O. durante la prima ondata pandemica (1/3/2020-15/6/2020) che hanno riportato un danno renale acuto (AKI), con un focus sulle strategie terapeutiche nefrologiche adottate.

Schematizzazione delle fasi della COVID-19
Figura 1: Schematizzazione delle fasi della COVID-19: prima fase caratterizzata da asintomaticità oppure da sintomatologia lieve; seconda fase contraddistinta da sintomatologia moderata e dall’interessamento respiratorio; terza fase rappresentata dalla sintomatologia severa che può evolvere fino alla criticità con disfunzione multiorgano, compreso il danno renale

 

Patogenesi del danno renale indotto da SARS-CoV2

I reni sono frequentemente coinvolti nella COVID-19, sebbene l’esatto meccanismo del danno renale indotto dal SARS-CoV-2 non sia completamente chiarito.

Il SARS-CoV-2, una volta penetrato nell’organismo, entra nelle cellule ospiti legandosi tramite il dominio di legame della sua proteina spike ai recettori umani dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE 2) [10,11], coadiuvato da alcune proteasi situate sulla superficie cellulare, in particolare, la transmembrane protease serine 2 (TMPRSS2) [10]. A livello renale, gli ubiquitari ACE 2 [12,13,14] sono espressi sulla superficie apicale delle cellule tubulari prossimali e sulla superficie dei podociti [15], mentre la TMPRSS2 è maggiormente espressa a livello delle cellule tubulari sia distali che prossimali [16,17,18].

La patogenesi dell’AKI nei pazienti con COVID-19 (COVID-19 AKI) è probabilmente multifattoriale, coinvolgendo sia gli effetti diretti del virus SARS-CoV-2 sul rene sia i meccanismi indiretti derivanti dalle conseguenze sistemiche dell’infezione virale o dagli effetti del virus su organi distanti compreso il polmone [19]. Tra i meccanismi patogenetici diretti annoveriamo: il danno cellulare a livello tubulare e podocitario, il danno endoteliale, la coagulopatia e la microtrombosi, l’attivazione del complemento e l’infiammazione; mentre, tra i meccanismi patogenetici indiretti riportiamo: l’AKI pre-renale da ipovolemia e secondaria a febbre e/o diarrea, l’AKI iatrogena dall’uso di farmaci nefrotossici, la sepsi, la ventilazione meccanica, il crosstalk tra gli organi [5,1937] (Figura 2).

Figura 2: Meccanismi patogenetici dell’AKI in corso di COVID-19.
Figura 2: Meccanismi patogenetici dell’AKI in corso di COVID-19

Le prove del danno renale a causa del tropismo diretto del nuovo coronavirus sono state fornite da vari studi autoptici ed in vivo. I quadri istopatologici renali riscontrati consistono in necrosi tubulare acuta (ATN), prevalentemente prossimale, di vario grado senza infiltrati cellulari tubulo interstiziale [38], ATN di vario grado con infiltrati cellulari tubulo interstiziali [39], e collapsing glomerulopathy, quest’ultima riscontrata inizialmente in tre pazienti neri africani, due dei quali portatori dell’allele G1 del gene APOL1 [40,41,42]. Inoltre, la carica virale del SARS-CoV-2 è stata identificata in tutti i compartimenti renali esaminati, con target preferenziale delle cellule glomerulari [23].

Il ruolo della trombosi e della microangiopatia a livello renale deve essere ulteriormente documentato, come è già avvenuto per il polmone. La disfunzione endoteliale, caratterizzata da alti livelli di D-dimero e danno microvascolare, rappresenta un fattore di rischio chiave per la coagulopatia associata alla COVID-19. Altre condizioni pro-trombotiche come la porpora trombotica trombocitopenica e la sindrome emolitica uremica atipica, o l’attivazione virale diretta del complemento potrebbero contribuire alla disfunzione endoteliale e alla coagulopatia in questi pazienti [19,24,25,26].

L’infezione da SARS-CoV-2 è associata all’attivazione di una risposta infiammatoria definita “tempesta citochinica”, che potrebbe contribuire alla patogenesi della disfunzione multiorgano associata alla COVID-19. Rispetto ad altre patologie da coronavirus come la Sindrome Respiratoria Acuta Grave (SARS) e la Sindrome Respiratoria Medio Orientale (MERS), le citochine sono solo moderatamente elevate; pertanto, potrebbero non essere direttamente patogene, ma potrebbero riflettere la malattia critica sottostante [19,2730]. Gli individui che sviluppano infezioni secondarie (indipendentemente dal fatto che siano batteriche, fungine o virali) sono a maggior rischio di AKI associato a sepsi secondaria [31].

I pazienti con polmonite grave associata a COVID-19 e/o ARDS sono ad alto rischio di AKI come complicanza della ventilazione meccanica. La pressione positiva di fine espirazione (PEEP), porta ad un aumento della pressione intratoracica, con conseguente aumento della pressione venosa renale e una ridotta filtrazione renale. Inoltre, tutte le forme di ventilazione a pressione positiva possono aumentare il tono simpatico, portando all’attivazione secondaria del sistema renina-angiotensina (RASS) [19,34,35].

Altro meccanismo di danno renale acuto indiretto da SARS-CoV-2 è associato al crosstalk tra gli organi, cioè un danno renale amplificato dal rilascio di Damage-Associated Molecular Patterns (DAMPs), citochine, chemochine e sostanze vasoattive o patogene da parte del polmone o di altri organi già danneggiati. Un esempio di danno da crosstalk può essere la rabdomiolisi in corso della COVID-19 come conseguenza di un danno muscolare [19,36,37,43].

 

Epidemiologia e diagnosi della COVID-19 AKI

Inizialmente, l’incidenza di AKI riportata in corso di infezione da SARS-CoV-2 oscillava da 0,9 a 29% [38]. Da studi successivi è emersa un’incidenza variabile, maggiore in Europa, nel Regno Unito e negli Stati Uniti rispetto alla Cina.

La maggior parte degli studi cinesi sono stati condotti su un singolo centro ed il numero di pazienti valutati è compreso tra 52 e 1392, riportando un tasso di AKI dallo 0,5% al 50% [4,7,4457]. Negli Stati Uniti, dove le regioni di New York City e New Orleans in Louisiana sono state particolarmente colpite dalla COVID-19, il numero di pazienti valutati è compreso tra 21 e 5700. Negli studi statunitensi, il tasso di AKI è stato superiore del 20% (range 19%-57%), con una maggiore percentuale di pazienti affetti da CKD rispetto ai dati cinesi ed europei [5866]. Tra gli studi europei consideriamo quelli del Regno Unito, Francia e Spagna, condotti su un numero di pazienti compreso tra 71 e 20133. Il tasso di AKI riscontrato è tra il 21% e 80%, anche se questo dato non è stato valutato in tutti gli studi, e sono stati considerati prevalentemente pazienti ospedalizzati nelle T.I. [6770].

La variabilità nell’incidenza di AKI è attribuibile ai diversi criteri utilizzati per la diagnosi, ma anche ai diversi metodi utilizzati per considerare la creatinina basale mancante e la valutazione dell’output urinario, oltre che alle dissimili etnie, sistemi sanitari nazionali, politiche di ospedalizzazione e criteri di assegnazione dei livelli di cura presi in esame [19,52,72,73,74].

Nel P.O. Domenico Cotugno, dei 382 pazienti ospedalizzati per la Covid-19, n=16 (4,2%) hanno presentato COVID-19 AKI da patogenesi non univoca. All’ingresso, la creatinina mediana ed il range interquartile (IQR) sono stati di 1 mg/dl (0,7-1,3). Presso il nostro centro la diagnosi di AKI è stata posta utilizzando la classificazione Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) [71]. Dopo aver valutato l’anamnesi patologica per insufficienza renale cronica, abbiamo fatto riferimento al valore di creatinina dell’ingresso come creatinina basale. L’output urinario è stato monitorato nelle 24 ore.

In particolare, dei 16 pazienti con diagnosi di AKI, n=1 (6,3%) è rientrato nello stadio 1 KDIGO, mentre n=15 (93,7%) nello stadio 3 KDIGO; di questi ultimi n=10 (66,6%) hanno necessitato di terapia renale sostitutiva (RRT). Tutti i pazienti soddisfacevano i criteri KDIGO per la creatinina, mentre 12 pazienti (75%) soddisfacevano i criteri sia per la creatinina che per l’output urinario. Prenderemo qui in considerazione solo la coorte dei pazienti con COVID-19 AKI stadio 3 KDIGO, il gruppo più numeroso.

Lo sviluppo dell’AKI ha avuto un timing variabile nella nostra coorte di acuti: n=2 (13,3%) presentavano già AKI al momento dell’ospedalizzazione, n=2 (13,3%) hanno sviluppato AKI nelle prime 48h di ospedalizzazione, mentre n=11 (73,4%) hanno manifestato AKI più avanti nel corso dell’ospedalizzazione.

Abbiamo classificato le patogenesi dell’AKI nei nostri 15 pazienti come funzionale (n=5, 33,3%), organica (n=8, 53,3%) e mista (n=2, 13,3%). Tale classificazione è stata basata sulle valutazioni cliniche (anamnesi, esame obiettivo, parametri vitali, decorso clinico e risposta alla terapia medica dell’AKI), laboratoristiche (indici di funzionalità renale, elettroliti sierici ed urinari in particolare escrezione urinaria del sodio e potassio, frazione di escrezione del sodio, osmolarità urinaria, peso specifico urinario, esame delle urine) e strumentale (ecografia renale, vie urinarie, vena cava ed ecocardiogramma). Non è stato possibile effettuare biopsie renali.

L’AKI, di fatto, è prevalente tra i pazienti COVID-19 positivi; in particolare, si riscontra in più del 50% dei pazienti in terapia intensiva [19,53,48]. All’atto del ricovero, i nostri pazienti sono stati ospedalizzati come segue: n=7 (46,7%) in degenza ordinaria, n= 3 (20%) in sub-intensiva e n=5 (33,3%) in T.I. Nel corso del ricovero, n=3 (20%) sono rimasti sempre in degenza ordinaria e n=2 (13,3%) in T.I., mentre gli altri n= 10 (66,7%) sono stati trasferiti rispettivamente: da degenza ordinaria a T.I. (n= 4, 40%), da sub-intensiva a T.I. (n=3, 30%), e da T.I. a sub-intensiva (n=3, 30%). Sintetizzando, n=12 pazienti (80%) con COVID-19 AKI sono stati trattati in T.I.

 

Caratteristiche demografiche dei pazienti con COVID-19 AKI

L’età mediana dei pazienti con COVID-19 AKI riportata dagli studi è risultata più bassa nei cinesi che negli europei ed americani, ossia rispettivamente pari a 55,5 anni [4,7,4457], 64,5 anni [6770], e 64,3 anni [5866]. Nella nostra popolazione di COVID-19 AKI stadio 3, invece, l’età mediana e l’IQR sono stati di 60 anni [5, 5669], con età massima 88 ed età minima 52 anni (Tabella I).

Svariati studi riportano una maggiore frequenza di pazienti di sesso maschile tra gli affetti da COVID-19 AKI. Per alcuni studi, non per tutti, il sesso maschile e la pelle nera sono stati considerati fattori di rischio per COVID-19 AKI [48,60,80]. Anche nella nostra casistica di acuti COVID-19 positivi il sesso maschile è predominante: 80% (n=12), contro il 20% (n=3) è di sesso femminile. Tutti i pazienti sono di “pelle bianca” (Tabella I).

 

COVID-19 AKI fattori di rischio e comorbidità

La stratificazione del rischio è importante per personalizzare il monitoraggio e avviare strategie di prevenzione e/o terapie precoci. Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato che i pazienti con comorbidità (come sesso maschile, età avanzata, pelle nera, diabete mellito, malattia renale cronica, ipertensione, malattie cardiovascolari, obesità, malattia polmonare cronica ostruttiva) sono più frequentemente associati non solo a COVID-19 AKI, ma anche ad un aumentato rischio di progressione della COVID-19 in forma grave [7,19,45,60,66,67,7578]. In base alla nostra esperienza, oltre ai fattori di rischio sopra menzionati, la comparsa di AKI è fortemente influenzata dalla condizione di ipovolemia, ascrivibile a diverse concause tra cui la terapia di supporto respiratorio ad alti flussi, così come nei pazienti in terapia intensiva, nei quali l’ipovolemia è riconosciuta come importante fattore di rischio per lo sviluppo di AKI.

Nella nostra casistica solo 5 pazienti non presentavano comorbidità. Gli altri pazienti presentavano comorbidità tra cui riportiamo ipertensione (n = 10, 66,7%), diabete (n = 2, 13,3%), malattie cardiovascolari (n=4, 26,7%) e malattia renale cronica (n = 2, 13,3%). Una paziente (6,7%) era affetta da neoplasia (Tabella I).

 

Quadro clinico-laboratoristico di danno renale nella COVID-19

Sebbene i dati urinari dei pazienti con la COVID-19 siano scarsi, l’esame delle urine ed i biomarcatori dell’AKI sono frequentemente alterati [19,53,77]. Dati preliminari indicano che il 40% dei pazienti presenta proteinuria, mentre il 20-40% del danno renale può evolvere in AKI [5]. Lo studio di Naiker ha riportato basse concentrazioni di sodio urinario al momento della diagnosi di AKI (2/3 dei pazienti), proteinuria significativa (42,1%), leucocituraia (36,5%), ematuria (40,9%) [77].

Dei pazienti ospedalizzati presso il nostro P.O., solo in n=4 (26,7%) è stata riscontrata proteinuria quale anomalia urinaria e solo n=1 (6,7%) ha presentato ematuria, mentre negli altri casi non sono state riscontrate anomalie urinarie.

Il ruolo dei markers urinari nella diagnosi di COVID-19 AKI rimane ancora poco chiaro. I pazienti con COVID-19 AKI e alti livelli di inibitore tissutale delle metalloproteinasi-2 (TIMP-2) x proteina legante il fattore di crescita insulino-simile-7 (IGFBP-7) hanno maggiori probabilità di progredire verso la renal replacement therapy (RRT) rispetto ai pazienti con AKI ma con bassi livelli di TIMP-2 x IGFBP-7. Il riscontro di elevati valori di alfa1-microglobulina urinaria nei pazienti ospedalizzati è stato associato al successivo sviluppo di AKI [79].

I biomarcatori precoci di danno e di funzione renale sopra citati si alterano parallelamente al peggioramento delle condizioni cliniche, a differenza dei comuni marcatori di danno renale, i quali notoriamente si modificano in ritardo. Allo stato attuale, tali biomarcatori non sono disponibili nella nostra pratica clinica e non è possibile stabilire un timing per instaurare una strategia di prevenzione precoce della COVID-19 AKI. Tuttavia, la ricerca delle anomalie urinarie (proteinuria, ematuria e leucocituria) in assenza di alterazioni dei comuni marcatori di danno renale, come suggerito da evidenze in letteratura [53], potrebbe permettere l’individuazione precoce dei pazienti a più alto rischio di sviluppare la COVID-19 AKI e l’avvio di uno stretto monitoraggio al fine di prevenirne lo sviluppo.

I pazienti con la COVID-19 AKI hanno livelli più elevati di marcatori sistemici di infiammazione, in particolare ferritina, proteina C reattiva (PCR), procalcitonina e lattato deidrogenasi (LDH), rispetto ai pazienti con la COVID-19 e funzione renale normale [60].

Anche nella nostra popolazione di COVID-19 AKI sono emersi livelli elevati di marcatori sistemici di infiammazione. Riportiamo qui di seguito (Tabella I) le mediane ed i IQR di alcuni esami di laboratorio caratteristici dell’ingresso e dell’uscita.

AKI STADIO 3 CRRT
CARATTERISTICHE DEMOGRAFICHE
Numerosità pazienti 15 10
Età mediana -anni e (IQR) 60 (56 – 69,5) 59,5 (55,5-63,8)
Sesso 12 M 3F 8 M 2F
Colore della pelle Bianco Bianco
Comorbidità

Ipertensione – n° (%)

Diabete – n° (%)

Malattie cardiovascolari – n° (%)

CKD – n° (%)

Neoplasia – n° (%)

 

10 (66,7%)

2 (13,3%)

4 (26,7%)

2 (13,3%)

1 (6,7%)

 

6 (60%)

1 (10%)

1 (10%)

1 (10%)

CARATTERISTICHE ANALITICHE ingresso
Creatinina mediana (IQR) – mg/dl [v.n.0,6-1.1] 1 (0,75-1,3) 0,85 (0,75-1)
LDH mediana (IQR) – U/L [v.n.100-246] 468 (350-588,5) 513,9 (371-634)
PCR mediana (IQR) – mg/dl [v.n.<1.0] 13,5 (8,95-23,2) 11,9 (8,2-15,4)
Ferritina mediana (IQR) – ng/ml [v.n.30-400] 966(462,3-1622) 436 (416,5-1218)
IL-6 mediana (IQR) – mg/dl [v.n.0 -5] 54,5 (40,3-188,5) 46,1 (36,6-82,8)
Procalcitonina mediana (IQR) – pg/ml [v.n.<0.5] 0,2(0,08-0,4) 0,11 (0,08-0,3)
Globuli Bianchi mediana (IQR) – /uL [v.n. 4500-11000] 9340 (5585-10790) 9455 (6063-10980)
Linfociti mediana (IQR) – /uL 832 (1460,4-1210) 843 (793-1120,5)
APTT mediana (IQR) – sec [v.n.22-38] 35,8 (32,1-37,3) 34,4 (31,8-36)
Fibrinogeno mediana (IQR) – mg/dl [v.n.175-417] 611 (539-824) 561 (539-824)
D-Dimero mediana (IQR) – ng/ml [v.n.<250] 3712 (981,7-14759) 11638 (4205,2-22022,7)
CARATTERISTICHE ANALITICHE uscita
Creatinina mediana (IQR) – mg/dl [v.n.0,6-1.1] 1,8 (1,2-2,8) 2 (1,7-3,4)
LDH mediana (IQR) – U/L [v.n.100-246] 380 (263,5-585,9) 438 (249-525)
PCR mediana (IQR) – mg/dl [v.n.<1.0] 7,4 (2,1-21,5) 13,4 (1,8-21,5)
Ferritina mediana (IQR) – ng/ml [v.n.30-400] 3128 (2564-3500) 3500(2564-3500)
IL-6 mediana (IQR) – mg/dl [v.n.0 -5] 136,2 (35-805,3) 221 (46-415,8)
Procalcitonina mediana (IQR) – pg/ml [v.n.<0.5] 1,8 (0,3-5,3) 4 (0,3-5,13)
Globuli Bianchi mediana (IQR) – /uL [v.n. 4.5-11.0] 11670 (8130-14235) 13480 (9475-23313)
Linfociti mediana (IQR) – /uL 997 (421-1672,5) 1056,8(461-2318,3)
APTT mediana (IQR) – sec [v.n.22-38] 35,3 (32,2-40,7) 38,3 (33-40,7)
Fibrinogeno mediana (IQR) – mg/dl [v.n.175-417] 660 (507,5-702,5) 660 (393,5-681,3)
D-Dimero mediana (IQR) – ng/ml [v.n.<250] 1889 (1131-1917) 2816 (1524-2816)
TERAPIA MEDICA COVID-19
Antivirali – n° (%)

Antimalarici – n° (%)

Antibiotici – n° (%)

Eparina – n° (%)

Cortisonici – n° (%)

Ab Monoclonali – n° (%)

14 (93,3%)

15 (100%)

15 (100%)

15 (100%)

10 (66,7%)

6 (40%)

9 (90%)

10 (100%)

10 (100%)

10 (100%)

7 (70%)

4 (40%)

TERAPIA NEFROLOGICA EXTRACORPOREA CONTINUA
Numerosità pazienti – n° (%) 10 10
Membrane CRRT

AN69/PEI/Eparina (oXiris®) – n° (%)

AN69 – n° (%)

Polimixina B (Toraymyxin®) e AN69/PEI/Eparina (oXiris®) – n° (%)

Polimixina B (Toraymyxin®) e AN69/PEI/Eparina (oXiris®) e AN69 – n° (%)

AN69/PEI/Eparina (oXiris®) e AN69 – n° (%)

 

4 (40%)

3 (30%)

1 (10%)

1 (10%)

 

1 (10%)

 

4 (40%)

3 (30%)

1 (10%)

1 (10%)

 

1 (10%)

Dose dialitica CRRT – ml/kg/h 25-30 25-30
Esito:

Guarigione – n° (%)

Decesso – n° (%)

 

5 (33,3%)

10 (66,7%)

 

2 (20%)

8 (80%)

Tabella I: Caratteristiche demografiche, analitiche e terapeutiche di tutti i pazienti COVID-19 AKI stadio 3 ricoverati presso il P.O. Cotugno e dei pazienti COVID-19 AKI stadio 3 sottoposti a CRRT. [v.n.]= valori normali di riferimento del laboratorio ospedaliero

 

Cenni di danno polmonare nella COVID-19 AKI

Il quadro clinico polmonare caratteristico della COVID-19 è la polmonite interstiziale atipica bilaterale che si manifesta con dispnea e/o ipossiemia. Nei pazienti critici, la compromissione polmonare può evolvere fino alla sindrome da distress respiratorio acuto. L’ARDS è associato anche ad outcome peggiori [61,8082]. I pazienti con la COVID-19 che sviluppano AKI hanno maggiori probabilità di essere ricoverati in T.I. e di richiedere ventilazione meccanica e vasopressori rispetto ai pazienti che non sviluppano AKI [19]. Inoltre, è stata osservata un’associazione temporale tra COVID-19 AKI ed intubazione [60, 66] ed è emersa l’importanza di minimizzare i volutraumi e i barotraumi mediante ventilazione polmonare protettiva al fine di ridurre il rischio di insorgenza e di progressione di AKI [5,51]. Ulteriormente, il riscontro di AKI è associato ad aumento della mortalità nei pazienti con ADRS nella COVID-19 [83].

Tutti i nostri pazienti con COVID-19 AKI avevano un grave interessamento polmonare con ARDS e necessità di supporto ventilatorio di tipo invasivo (VMI) e/o non invasivo (NIV). In particolare: n=8  (53,3%) perennemente in VMI per rapporto PaO2/FiO2 <180, n=2 (13,3%) persistentemente in NIV per parametri respiratori PaO2/FiO2 <200, mentre n= 4 (26,7%) sono passati da NIV a VMI per peggioramento del rapporto PaO2/FiO2 <180 e n= 2 (13,3%) sono passati da VMI a NIV per miglioramento del rapporto PaO2/FiO2 >200. Sottoponendo tutti i pazienti in VMI al lavaggio broncoalveolare durante la broncoscopia è emerso un quadro macroscopico ischemico emorragico broncoalveolare, verosimilmente come da microangiopatia trombotica in corso di COVID-19.

 

Terapie farmacologiche COVID-19

I pazienti ospedalizzati per la COVID-19 vengono sottoposti a trattamenti farmacologici prescritti in base alla gravità del quadro clinico, alla necessità e al tipo di supporto ventilatorio. All’inizio della pandemia non erano presenti linee guida farmacologiche ben definite, che sono emerse successivamente [84].

Originariamente, sono stati adoperati antivirali come lopinavir/ritonavir, antimalarici quali clorochina o idrossiclorochina, antibiotici macrolidi e/o ad ampio spettro. L’utilizzo degli anticorpi monoclonali quale tocilizumab, così come dell’antivirale remdesivir, è stato valutato in base alle necessità. Altri farmaci fondamentali per la gestione farmacologica dei pazienti sintomatici si sono dimostrati il cortisone e l’eparina.

Dal consensus statement pubblicato a dicembre 2020 emergono delle raccomandazioni per la gestione della COVID-19 AKI che riportiamo in Tabella II con il loro grado di evidenza [19].

Rimane ancora non completamente chiarito il ruolo degli antivirali, degli agenti immunomodulatori (compresi i corticosteroidi), degli inibitori del RASS, delle statine e degli anticoagulanti nella prevenzione e/o mitigazione della COVID-19 AKI [19,49,8590] (Tabella II).

Lo studio RCT Recovery, seppur non abbia riportato effetti sulla funzione renale, è da riportare perché ha dimostrato che l’uso del desametasone riduce la mortalità a 28 giorni tra gli ospedalizzati per la COVID-19, in particolare nei pazienti sottoposti a VMI o ad ossigenoterapia [91].

Durante il primo picco pandemico, in base al protocollo terapeutico COVID-19 del P.O. Cotugno, i pazienti COVID-19 AKI sono stati trattati con antivirali (n=14, 93,3%) (lopinavir e ritonavir n=13, darunavir n=1), antibiotici (n=15, 100%) (azitromicina n=2, azitromicina e antibiotici ad ampio spettro n=6, antibiotici ad ampio spettro n=7), antimalarici (n=15, 100%) (idrossicolorochina), anticoagulanti (enoxaparina) (n=15, 100%). È stato valutato l’uso dei corticosteroidi (n=10, 66,7%) (metilprednisolone) e degli anticorpi monoclonali (n=6, 40%) (sarilumab n=1, tocilizumab n=5) (Tabella I). Il metilprednisolone è stato introdotto in 3 pazienti per peggioramento dei parametri respiratori, mentre in 7 soggetti come terapia della polmonite interstiziale. Tra gli eventi avversi riportiamo intolleranza gastrointestinale con diarrea in 2 pazienti sottoposti ad antivirali, allungamento dell’intervallo QT in 2 pazienti trattati con idrossiclorochina, emorragia in 2 pazienti trattati con enoxaparina.

 

COVID-19 AKI e terapie nefrologiche conservative

Durante la prima ondata pandemica le linee guida validate dedicate al trattamento del danno renale da SARS-CoV2 erano assenti e, pertanto, la terapia era pressoché di supporto [5]. Fondamentale era l’intervento precoce, ma il management dell’AKI in corso della COVID-19 dipendeva poi dalle esigenze di ogni singolo paziente. Attualmente, disponiamo di maggiori evidenze e consensus [19,84], ma sono in ogni caso poche le raccomandazioni per la COVID-19 AKI specifiche per eziologia; pertanto, bisogna considerare le raccomandazioni già validate per pazienti critici, quali le KDIGO per l’AKI e le linee guida per la COVID-19, senza mai dimenticare la sottostante patogenesi della COVID-19 stessa [19, 71, 92] (Tabella II).

L’ipovolemia è comune all’inizio della COVID-19 e quindi la gestione personalizzata dei liquidi è fondamentale [93]. Uno studio clinico randomizzato ha dimostrato che la somministrazione di liquidi e vasopressori basata sulla valutazione emodinamica del paziente può ridurre il rischio di AKI e insufficienza respiratoria in pazienti con shock settico [94]. Questa strategia può essere utile nei pazienti con la COVID-19 per ridurre il rischio di COVID-19 AKI. È fondamentale, però evitare il sovraccarico idrico [5,19]. Dalla letteratura sono emerse prove che l’uso di cristalloidi equilibrati, rispetto alla soluzione fisiologica, diminuisce l’esito composito di morte, di nuova RRT, o di disfunzione renale persistente tra gli adulti in condizioni critiche, con il maggiore effetto osservato tra i pazienti con sepsi [95], ma anche in pazienti non critici e nel contesto perioperatorio [96, 97]. Eppure, in tre revisioni sistematiche in analisi aggregate il ridotto tasso di AKI o di mortalità non è stato confermato [98, 99,100] (Tabella II).

Nell’ambito della terapia conservativa della COVID-19 AKI i diuretici possono essere utilizzati in presenza di sovraccarico idrico ed oligoanuria, secondo le indicazioni normalmente fornite dalle linee guida AKI KDIGO e come da normale pratica clinica nefrologica [71]. Il bicarbonato di sodio endovenoso per la correzione dell’acidosi metabolica e le resine a scambio ionico per la correzione dell’iperpotassiemia dovrebbero essere utilizzate in maniera giudiziosa, secondo le raccomandazioni delle linee guida internazionali [71], al fine di procrastinare e/o prevenire, se possibile, l’inizio della RRT.

Si raccomanda, inoltre, di gestire adeguatamente i farmaci al fine di prevenire o limitare la COVID-19 AKI, seppure purtroppo l’utilizzo di farmaci nefrotossici, anche in combinazione tra loro, sia comune in questi pazienti [19]. Bisogna porre attenzione al fatto che diversi farmaci, o i loro metaboliti, proposti per l’uso della COVID-19 vengono escreti e/o metabolizzati per via renale e richiedono un aggiustamento della dose, oppure sono controindicati nei pazienti con funzionalità renale compromessa o durante la RRT. Così come altre terapie convenzionali, come antibiotici o anticoagulanti, la farmacocinetica risulta alterata nei pazienti con AKI [19] (Tabella II).

Rientra altresì nelle stime nefrologiche la valutazione nutrizionale. I pazienti con COVID-19 sono a rischio di malnutrizione a causa di vari fattori quali l’immobilizzazione prolungata, i cambiamenti catabolici e la ridotta assunzione di cibo [101, 102]. Non esistendo studi dedicati alla gestione nutrizionale in pazienti con COVID-19 AKI, dovrebbero essere seguite le attuali raccomandazioni per la gestione nutrizionale dei pazienti critici [71,103105]. L’assunzione di proteine dovrebbe essere gradualmente aumentata rispettivamente a 1,3-1,5 g/kg al giorno nei pazienti con AKI che non sono in RRT, a 1,0-1,5 g/kg/die per i pazienti in RRT intermittente e fino a 1,7 g/kg/die per i pazienti in RRT continua (CRRT). La nutrizione enterale precoce è preferibile alla nutrizione parenterale, e la posizione prona per il trattamento dell’ARDS non è una controindicazione all’alimentazione enterale [71, 106] (Tabella II). Non ci soffermiamo su tutte le altre prescrizioni di pertinenza nefrologica che non richiedono approcci difformi da quelli classicamente adottati nella pratica clinica, non ritrovando in letteratura precise indicazioni a riguardo.

In caso di fallimento della terapia conservativa o in caso di grave peggioramento clinico è necessario supportare la funzione renale mediante le terapie extracorporee [5].

La nostra corte di pazienti COVID-19 AKI è stata sottoposta, oltre al protocollo terapeutico ospedaliero COVID-19, anche a terapia nefrologica sia conservativa che sostitutiva della funzione renale con CRRT. Tra le principali terapie nefrologiche prescritte, singolarmente o in associazione, annoveriamo: i cristalloidi endovena (e.v.), i diuretici e le CRRT. I cristalloidi e.v. sono stati prescritti prevalentemente ai ricoverati in degenza ordinaria in presenza di AKI funzionale da disidratazione. I diuretici sono stati somministrati a pazienti clinicamente più gravi, tanto da necessitare, per un periodo variabile, di cure intensive in T.I, che presentavano sovraccarico idrico e contrazione della diuresi. La terapia diuretica è stata articolata sull’utilizzo combinato, laddove opportuno, di diuretici dell’ansa e di risparmiatori del potassio, modulando il dosaggio in considerazione della funzione renale e della diuresi. La nostra coorte di pazienti ha richiesto i seguenti dosaggi:

  • diuretico dell’ansa: 500-1000mg/die
  • risparmiatori di potassio: 100-200mg/die.

Le CRRT sono state indicate in 10 pazienti critici (66,7%) ricoverati in T.I., in cui è stata indispensabile la terapia renale sostitutiva. Nessun paziente acuto COVID-19 positivo della nostra coorte è stato sottoposto ad emodialisi intermittente.

Raccomandazioni terapeutiche: misure standard  Grado di evidenza
Misure standard basate sul rischio e sullo stadio dell’AKI Le strategie basate sulle KDIGO e sulle altre linee guida rilevanti sono appropriate per la prevenzione e la gestione della COVID-19 AKI basata sul rischio e sullo stadio. (non classificata)
Misurazione della funzione renale Si raccomanda di monitorare la funzione renale utilizzando come minimo una creatinina sierica e l’output urinario con un’attenta considerazione dei limiti di entrambi. 1B
Ottimizzazione emodinamica Si raccomanda la gestione personalizzata dei fluidi e dell’emodinamica basata sulla valutazione dinamica dello stato cardiovascolare. 1B
Gestione dei fluidi Si raccomanda di utilizzare cristalloidi equilibrati come gestione iniziale per l’espansione del volume intravascolare nei pazienti a rischio o con COVID-19 AKI a meno che non esista un’indicazione specifica per l’uso di altri fluidi. 1A
Gestione glicemica Si suggerisce il monitoraggio per l’iperglicemia e l’uso di strategie intensive di riduzione della glicemia nei pazienti ad alto rischio 2C
Gestione dei farmaci nefrotossici Si raccomanda di limitare l’esposizione a farmaci nefrotossici ove possibile e un attento monitoraggio quando i farmaci nefrotossici sono necessari. 1B
Uso del mezzo di contrasto Si raccomanda l’ottimizzazione dello stato del volume intravascolare come unico intervento specifico per prevenire l’AKI associato a mezzo di contrasto. 1A
Raccomandazioni terapeutiche: misure specifiche COVID-19 Grado di evidenza
I pazienti con AKI Covid-19 dovrebbero essere trattati utilizzando lo standard di cura delle KDIGO. (non classificata)
Si raccomanda che le strategie ventilatorie nei pazienti con la Covid-19 siano selezionate per ridurre il rischio di AKI quando possibile. 2 C
Si raccomanda di prendere in considerazione la farmacocinetica alterata e gli effetti renali delle terapie specifiche della Covid-19, quando si prescrivono farmaci e si aggiusta il dosaggio. 1C
La Covid-19 è associata a malnutrizione; tuttavia, non è chiaro se i pazienti con COVID-19 AKI abbiano requisiti nutrizionali specifici. (non classificata)
Tabella II:  Raccomandazioni terapeutiche COVID-19 AKI tratte dal “Consesus statement COVID-19-associated acute kidney injury: consensus report of the 25th Acute Disease Quality Initiative (ADQI) Workgroup” [19]

 

COVID-19 AKI e RRT

La necessità di supportare con RRT i pazienti COVID-19 AKI si verifica in circa il 22% dei ricoverati in unità di terapia intensiva [61]. Anche i tassi di RRT riportati variano ampiamente, con tassi complessivi del 2-73% nel contesto di terapia intensiva [44, 49, 64, 67]. Le evidenze relative alla RRT in pazienti con la COVID-19 sono scarse, ma fino ad allora si suggerisce di utilizzare le stesse indicazioni per pazienti critici [75,84,107].

Dal consensus statement pubblicato a dicembre 2020, emergono altresì delle raccomandazioni per la gestione della RRT nella COVID-19 AKI che riportiamo in Tabella III con il loro grado di evidenza [19]. Dalla letteratura non si evince alcuna differenza nella mortalità o nel recupero renale associato all’inizio della RRT in assenza di indicazioni di emergenza [108111]. La decisione di iniziare una RRT acuta in pazienti con COVID-19 AKI deve pertanto essere personalizzata e non basata esclusivamente sullo stadio AKI o sul grado di funzione renale fornito dai valori di BUN e creatinina [19,71,112]. Nel paziente critico con COVID-19 l’inizio precoce di RRT è da ascrivere all’intento di prevenire il peggioramento e attenuare la progressione della malattia rimuovendo persino mediatori pro e antinfiammatori (Tabella III).

La selezione della modalità di RRT dipenderà dalla disponibilità e dalle risorse locali, poiché non si riscontrano benefici precisi con una specifica modalità di RRT. Nei pazienti critici con la COVID-19 le modalità di RRT da preferire sono le forme continue (CRRT): sono meglio tollerate dai pazienti con instabilità emodinamica, facilitano la gestione dei volumi delle infusioni, dei farmaci e della nutrizione, ottimizzano la dose dialitica, e riducono al minimo il rischio di trasmissione virale agli operatori sanitari, non richiedendo la presenza costante del personale [71, 84].

La dose di RRT dovrebbe essere basata sulle raccomandazioni KDIGO ed essere aggiustata in risposta ai cambiamenti nello stato clinico, fisiologico e/o metabolico [19, 71]. Nelle metodiche di CRRT bisognerebbe prescrivere una dose di 25-30ml/Kg/h, al fine di ottenere almeno una dose pari a 20-25ml/Kg/h [19]. È fondamentale considerare il down-time ed apportare le eventuali correzioni della dose depurativa. La dose dialitica prescritta alla nostra coorte di acuti COVID-19 positivi sottoposta a CRRT è stata di 25-30ml/Kg/h, come raccomandato dalle linee guida internazionali [71], mentre la membrana usata è stata l’AN69 (Tabella I). Sono stati anche usati AN69/PEI/Eparina (oXiris®) e Polimixina B (Toraymyxin®), come descritto nel prossimo paragrafo.

Nei pazienti con la COVID-19 si osserva uno stato di ipercoagulabilità [113]; ciò può portare alla coagulazione del circuito, con necessità di interrompere sessioni di RRT prolungate, e influenzare sostanzialmente la dose erogata, che deve pertanto essere aggiustata [19]. Le linee guida KDIGO raccomandano l’uso di anticoagulanti per la CRRT, a meno che non sia controindicato o che il paziente stia già ricevendo anticoagulanti sistemici [71]. Sono richiesti regimi anticoagulanti più aggressivi in questa categoria di pazienti [19]. Nella CRRT l’anticoagulazione regionale con citrato si è mostrata più efficace di altri metodi di anticoagulazione sia nel prolungamento della vita del filtro sia nel ridurre il rischio di emorragia [5] (Tabella III).

Nei pazienti con coagulazione persistente del circuito durante CRRT nonostante l’anticoagulazione, dovrebbe essere considerata la modifica della modalità RRT in emodialisi intermittente (IHD), RRT intermittente prolungata (PIRRT) o dialisi peritoneale (PD) acuta [19] (Tabella III). Rispetto alla CRRT, l’IHD e la PIRRT consentirebbero di sottoporre più pazienti a RRT con lo stesso macchinario nella stessa giornata e permetterebbero inoltre dosi inferiori di anticoagulanti, visti i flussi ematici maggiori e il minor rischio di coagulazione del circuito extracorporeo. Al tempo stesso, però, esacerberebbero l’instabilità emodinamica. L’IHD o la PIRRT andrebbero praticate a giorni alterni o come minimo tre giorni a settimana [19]. La DP acuta potrebbe anche essere un’opzione efficace per i pazienti che non sono in grado di ricevere anticoagulanti [114117].

Raccomandazioni RRT in COVID-19 AKI Grado di evidenza
Si raccomanda che l’uso di ultrasuoni per l’inserimento dell’accesso vascolare e la prescrizione della dose di RRT rimangono basati sulle linee guida AKI delle KDIGO. 1A
La tempistica dell’inizio della RRT, il sito dell’accesso vascolare e la modalità della RRT in acuto devono essere basati sulle esigenze del paziente, le competenze locali e le disponibilità del personale e delle attrezzature. (non classificata)
Si suggerisce l’uso come CRRT dell’emodialisi continua veno-venoso o dell’emodiafiltrazione continua veno-venosa per ridurre la frazione di filtrazione e ridurre il rischio di coagulazione del circuito. 2C
Si raccomanda che i pazienti con Covid-19 AKI ricevano anticoagulanti durante la RRT extracorporea. 1 C
Si raccomanda che le prestazioni del circuito di RRT siano monitorate strettamente per garantire il massimo successo del circuito in quanto la strategia iniziale dell’anticoagulazione potrebbe non essere efficace in tutti i pazienti; inoltre, si raccomanda che ogni centro debba stabilire una riduzione graduale e / o piani alternativi per l’anticoagulazione della RRT. 2 C
Gli adattamenti alle modalità di RRT, alle indicazioni, all’anticoagulazione e alla dose terapeutica devono essere considerati in caso di divario tra fornitura e / o domanda al fine di conservare le scarse risorse locali e fornire una terapia efficace al maggior numero di pazienti. (non classificata)
Tabella III: Raccomandazioni relative alla RRT in COVID-19 AKI tratte dal consesus statement “COVID-19-associated acute kidney injury: consensus report of the 25th Acute Disease Quality Initiative (ADQI) Workgroup” [19]

 

COVID -19 AKI e tecniche di depurazione extracorporee

Le tecniche di depurazione extracorporee (EBP) rimuovono citochine, DAMPs e Pathogen Associated Molecular Patterns (PAMPs), comprese le endotossine e le particelle virali circolanti. Pertanto, in presenza di sindrome da rilascio citochinico, le metodiche extracorporee troverebbero una indicazione anche in assenza di AKI [5]. Nella COVID-19, inoltre, si possono osservare sovrainfezioni batteriche con una sindrome sepsi-like. In tal caso, idealmente, si potrebbe considerare l’utilizzo di terapie extracorporee sequenziali al fine di eliminare contestualmente endotossine, citochine e patogeni e sfruttando positivamente anche l’effetto di immunomodulazione che deriva dal loro impiego [5]. Alcuni autori propongono le EBP come possibili terapie aggiuntive per i pazienti critici con la COVID-19 sulla base del fatto che la rimozione dei mediatori circolanti potrebbe prevenire danni d’organo o insufficienza multiorgano nell’ambito di un quadro che può progredire rapidamente e richiedere diversi e contestuali approcci terapeutici [5,107,118121].

Tuttavia, allo stato attuale, non esistono raccomandazioni di linee guida evidence based. Dalla letteratura i pareri emersi sono comunque divergenti e l’esperienza dell’applicazione delle EBP nella COVID-19 AKI è esigua. Dal momento che i benefici e gli effetti avversi dell’EBP nella COVID-19 non sono stati studiati formalmente, sono ancora dibattuti ed in fase assolutamente sperimentale e di verifica teorica, si suggerisce di selezionare molto attentamente i pazienti che ne potrebbero eventualmente giovare [5,107].

Le tecniche EBP che possono essere potenzialmente utilizzate per rimuovere le molecole implicate nella fisiopatologia della COVID-19 sono le tecniche di emoperfusione, la plasma exchange (TPE) e la CRRT con AN69 modificato [19]. L’emoperfusione con filtri a base di Polimixina B (Toraymyxin®) o di polistirene-divenilbenzene e polivinilpirrolidone (CytoSorb®) non è stata ancora formalmente studiata nella popolazione COVID-19, ma è stata studiata in passato, nei pazienti in shock settico e con elevati livelli di endotossine [122127]. La TPE può rimuovere mediatori infiammatori, proteine associate ad ipercoagulabilità e può migliorare l’emodinamica [128130]. La CRRT con membrane a medio e alto cut-off o adsorbenti, possono rimuovere le citochine o la mioglobina e potenzialmente prevenire l’AKI da rabdomiolisi [131,132]. Non esiste consenso sull’uso o sulle soglie di criteri biologici e clinici specifici per l’avvio, il monitoraggio o l’interruzione dell’EBP in pazienti critici con la COVID-19 [19].

Nella nostra casistica dei pazienti con COVID-19AKI sottoposti a CRRT nove su dieci presentavano una sovrapposta sepsi. Le membrane e quindi i filtri utilizzati durante le CRRT sono stati AN69/PEI/Eparina (oXiris®), Polimixina B (Toraymyxin®) e AN69. Il Toraymyxin® è stato utilizzato in presenza di sepsi da gram negativi ed endotossinemia. L’oXiris® è stato utilizzato per contenere la sindrome da rilascio citochinico in corso della COVID-19, al fine di aumentare la rimozione di citochine proinfiammatorie. La sostituzione dei circuiti con oXiris® è avvenuta ogni 48 ore. L’efficacia terapeutica è stata basata sul monitoraggio dell’andamento dell’IL-6. Nelle procedure di CRRT è stato talvolta utilizzato uno solo di questi presidi, mentre altre volte sono stati utilizzati tutti, a seconda delle necessità cliniche. In particolare, riportiamo che il solo filtro oXiris® è stato utilizzato in 4 pazienti (40%) e la sola AN69 in 3 pazienti (30%). Tutti e tre i presidi Toraymyxin®, oXiris® e AN69 sono stati usati in un solo paziente (10%). Due pazienti hanno usato due presidi: Toraymyxin® e AN69 (n=1, 10%) e oXiris® e AN69 (n=1, 10%) rispettivamente (si veda anche Tabella I).

 

Prognosi e mortalità

La malattia renale correlata alla COVID-19 è associata ad indice prognostico negativo ed a morte intraospedaliera [52]. La durata della COVID-19 AKI è scarsamente compresa e solo uno studio ha riportato il recupero della funzione renale. La mortalità della COVID-19 AKI è stata segnalata tra il 35% e l’80%, con tassi fino al 75-90% tra i pazienti che richiedono RRT [52,53,60,66,67].

Nella nostra coorte di ospedalizzati presso il Cotugno, il 66,7% dei pazienti con COVID-19 AKI è deceduto, mentre il 33,3% è guarito completamente. Nello specifico, sono deceduti 2 dei pazienti ricoverati in degenza ordinaria (66,6%) e 8 dei pazienti ricoverati in T.I. (88,9%). Tutti i pazienti ricoverati in subintensiva, un paziente ricoverato in degenza ordinaria (33%) ed un paziente in T.I (11,1%) sono guariti. Si precisa che 2 pazienti (20%) sottoposti a CRRT sono guariti e hanno recuperato la funzione renale. Di questi, uno è stato trattato con tre filtri (Toraymyxin® oXiris® e AN69) e l’altro solo con oXiris®. Tutti gli altri pazienti sottoposti a CRRT sono deceduti (Tabella I).

 

Conclusione

L’infezione virale da SARS-CoV2 di per sé può essere causa di AKI e può peggiorare la risposta infiammatoria renale. L’AKI di fatto è prevalente tra i pazienti COVID-19 positivi. In particolare, si riscontra in più del 50% dei pazienti in terapia intensiva. Fondamentale è la diagnosi precoce di COVID-19 AKI al fine di iniziare tempestivamente la terapia nefrologica conservativa o la depurazione extracorporea. L’uso di tecniche depurative extracorporee potrebbe limitare la risposta infiammatoria sistemica e locale oltre alle complicanze tromboemboliche che in parte potrebbero essere causa di MOF. Le terapie EBP idealmente potrebbero essere considerate complementari al supporto farmacologico. In base alle prove attuali e alla fisiopatologia, le terapie EBP potrebbero anche essere vagliate in sequenza o come entità separate. Ulteriori studi sono necessari nell’ambito della COVID-19 AKI al fine di fornire al nefrologo maggiori evidenze per cercare di limitare l’elevata mortalità che perdura in questi pazienti.

 

Ringraziamenti

Si ringrazia per la collaborazione Raffaele Garzia.

 

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Tossicità renale da farmaci antineoplastici

Abstract

L’onconefrologia è una recente disciplina sorta in campo nefrologico e oncologico, volta ad esplorare le numerose connessioni tra patologie neoplastiche e renali. Tra i numerosi campi di applicazione dell’onconefrologia, un ruolo significativo è ricoperto dalla gestione degli eventi avversi in corso di terapia antineoplastica attraverso una analisi individualizzata dei fattori di rischio del paziente, delle caratteristiche dei farmaci oncologici prescritti e l’instaurazione di un preciso follow-up che spesso prosegue anche al termine del trattamento oncologico. Lo scopo di questa revisione è, oltre che descrivere i fattori di rischio per la nefrotossicità da farmaci antitumorali, analizzare le principali criticità onco-nefrologiche legate alle specifiche classi di farmaci. I chemioterapici classici presentano un profilo variabile di tossicità renale, per la maggior parte dei casi ben definito, che consente di mettere in campo delle collaudate strategie terapeutiche per la gestione degli eventi avversi renali. Le terapie a bersaglio molecolare e i farmaci immunoterapici nonostante abbiano dimostrato di migliorare significativamente la prognosi a breve e lungo termine in numerose neoplasie presentano un ampio profilo di tossicità renale ancora in fase di definizione. La costante analisi dei report relativi alle specifiche molecole, associata ad un a condotta proattiva per la definizione istologica delle lesioni renali in questo contesto clinico, è la chiave per completare rapidamente la definizione del profilo di sicurezza ampliando contestualmente la platea dei pazienti che potranno beneficiare  dei nuovi farmaci antineoplastici.

Parole chiave: Danno renale acuto, AKI, cisplatino, gemcitabina, anti-VEGF, immunoterapia, bevacizumab

Introduzione

L’onconefrologia è una recente disciplina nata in campo nefrologico che studia le numerose interrelazioni tra malattie renali e patologie oncologiche [1].  I recenti progressi a livello di diagnosi e terapia hanno infatti portato ad un significativo incremento della sopravvivenza dei pazienti affetti da patologie oncologiche; contestualmente è emerso l’impatto che le patologie renali esercitano in senso prognostico e terapeutico in questa categoria di pazienti. Il danno renale acuto (acute kidney injury [AKI]), sia esso di natura pre -post o intra-renale è sicuramente la sindrome clinica nefrologica maggiormente riscontrata nei pazienti oncologici. Frequentemente, questa sindrome clinica si inserisce in un contesto complesso, caratterizzato dalla presenza di altre sindromi cliniche nefrologiche, quali una preesistente malattia renale cronica o quadri di sindrome nefrosica e/o nefritica riconducibili ad un danno glomerulare. (figura 1). Tra le cause di AKI, un ruolo preminente è esercitato dalla terapia antineoplastica: in tale ottica un’attenta analisi onco-nefrologica risulta imprescindibile, al fine di minimizzare il potenziale impatto negativo a livello multi-organo, al momento della prescrizione, durante il trattamento e, in alcuni casi, al termine del ciclo terapeutico. In questa sede, sono analizzati gli effetti renali a breve e a lungo termine conseguenti alla terapia con farmaci chemioterapici classici, farmaci a bersaglio molecolare e farmaci immunoterapici.

Figura 1. Spettro dei meccanismi di danno renale in corso di patologia neoplastica
Figura 1. Spettro dei meccanismi di danno renale in corso di patologia neoplastica

 

Fattori di rischio per danno renale in corso di terapia con farmaci antineoplastici

Non tutti i pazienti trattati con farmaci antineoplastici nefrotossici presentano danno renale; ciò può dipendere da numerosi fattori che, se presenti, incrementano il rischio di nefrotossicità. In generale, è possibile identificare: 1) fattori dipendenti dalla neoplasia; 2) fattori legati alla tossicità innata del farmaco; 3) fattori dipendenti dal paziente; 4) fattori legati al metabolismo renale dei farmaci oncologici (figura 2) [2].

Fattori di rischio per nefrotossicità da famaci antitumorali
Figura 2. Fattori di rischio per nefrotossicità da famaci antitumorali

Fattori dipendenti dalla neoplasia. Alcune neoplasie possono esercitare un effetto nefrotossico diretto; come avviene nel mieloma multiplo, nei casi di infiltrazione renale in corso di linfomi, del danno intra-renale nel corso delle GN paraneoplastiche o post-renale in corso di neoplasie del tratto urinario. È inoltre frequente un effetto nefrotossico indiretto di alcune neoplasie che possono causare AKI pre-renale per deplezione di volume vera (es. disidratazione conseguente a vomito, diarrea o eccessiva diuresi), o relativa, (es. insufficienza epatica). Infine alcune neoplasie possono causare alterazioni metaboliche come iper/ipocalcemia e iperuricemia, potenziando l’effetto nefrotossico del trattamento oncologico.

Fattori legati alla tossicità innata del farmaco. Il potenziale nefrotossico dei farmaci può dipendere da un effetto diretto, da una prolungata esposizione o da un’elevata dose cumulativa, anche in assenza di altri fattori di rischio. Ad esempio, successivamente alla somministrazione di alcuni trattamenti oncologici (es. methotrexate) è possibile osservare un danno diretto per precipitazione del farmaco o diretto tossico per azione dei metaboliti a livello tubulare. Infine, il danno indotto della molecola anti-tumorale può sommarsi agli effetti di altri nefrotossici noti, su tutti i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), gli aminoglicosidi e i mezzi di contrasto iodati.

Fattori dipendenti dal paziente. Alcuni pazienti, a parità di esposizione a nefrotossici, hanno un maggior rischio di sviluppare danno renale. Le categorie maggiormente a rischio sono soggetti anziani (età superiore a 65 anni) e quelli affetti da malattia renale cronica (chronic kidney disease [CKD]) o che già hanno presentato episodi di AKI. E’ possibile che la presenza di un background genetico sfavorevole sia un ulteriore fattore di rischio. In particolare, è noto che la presenza di polimorfismi a carico del citrocromo P-450 renale, possa causare una ridotta attività metabolica intra-renale e contestuale accumulo di farmaci nefrotossici. Una ridotta escrezione cellulare dei farmaci a seguito di mutazioni causanti ridotta attività dei trasportatori apicali e delle proteine carrier, può favorire l’accumulo intra-cellulare di molecole nefrotossiche. Infine, le differenze individuali su base genetica, in termini di iperreattività del sistema immunitario, possono in parte spiegare la maggiore predisposizione di alcuni pazienti allo sviluppo di danno immunomediato in corso di trattamento oncologico.

Fattori legati al metabolismo renale dei farmaci oncologici. Il metabolismo renale dei farmaci rappresenta un ulteriore fattore che può incrementarne la tossicità. I reni, a causa dell’elevato apporto di sangue che ricevono (circa il 25% della gittata cardiaca) sono contestualmente esposti in maniera superiore rispetto agli altri organi ai potenziali effetti tossici dei farmaci. In particolare, l’ansa di Henle e il tubulo collettore sono particolarmente vulnerabili al danno tossico ischemico come conseguenza di un ambiente cellulare ed extracellulare relativamente ipossico e dell’elevata attività concentrante che innalza i livelli locali dei farmaci e dei loro metaboliti. L’elevata attività metabolica espone inoltre ad un incremento della produzione di specie reattive dell’ossigeno che contribuiscono al mantenimento del danno d’organo attraverso meccanismi di alchilazione degli acidi nucleici, degenerazione proteica, perossidazione lipidica e danno strutturale del DNA. Il tubulo prossimale è interessato da danno tossico successivamente all’uptake cellulare del farmaco dal circolo peritubulare.

Dall’analisi dei sopracitati meccanismi di danno renale in corso di terapia oncologica emerge come l’effetto nefrotossico sia spesso multifattoriale. Dal momento che una quota rilevante di questi effetti dipende da fattori non modificabili legati ai pazienti, anche l’efficacia degli interventi messi in atto con il fine di ridurre o regredire il danno renale, sarà limitata.

 

Danno renale in corso di terapia con chemioterapici classici

La trattazione organica degli effetti avversi renali dei chemioterapici classici non è possibile in questa sede; suggeriamo pertanto alcune risorse specifiche [3, 4]. In questo contesto ci concentreremo sui composti a base di platino, ifosfamide, e gemcitabina.

 

Cisplatino

Il cisplatino è un potente chemioterapico utilizzato per il trattamento di un elevato numero di neoplasie. La nefrotossicità rappresenta un effetto avverso frequente e spesso può limitare il proseguo della terapia oncologica, oltre che determinare conseguenze negative a carico della funzione renale a breve e a lungo termine. Il danno renale acuto si osserva nel 30% dei pazienti [5] ed è conseguente a un principale interessamento del tubulo prossimale, (in particolare il suo segmento S3). Ciò che sottende al danno tubulare sono prevalentemente effetti tossici diretti, l’induzione di ischemia tubulare per diminuita vascolarizzazione tubulare, l’accumulo di metaboliti cellulari tossici e lo stato infiammatorio locale [6]. In oltre metà dei pazienti che presentano AKI in corso di terapia con cisplatino si riscontra ipomagnesemia, che a sua volta può potenziare l’entità del danno renale. Altre possibili manifestazioni del danno renale sono la sindrome di Fanconi, la acidosi tubulare renale di tipo 1 e nefropatia sodio disperdente; in alcuni pazienti è stato descritto un quadro clinico ed istologico di microangiopatia trombotica.

Tra i principali fattori che hanno dimostrato di poter incrementare il rischio del danno renale si annoverano 1) l’incremento del picco di concentrazione libera del farmaco a livello sierico, 2) aver praticato precedentemente dei cicli di chemioterapia a base di platino, 3) la presenza di una malattia renale cronica già al momento dell’inizio del trattamento chemioterapico, e 4) l’uso concomitante di altri agenti nefrotossici.

Alla luce dei fattori di rischio prima citati, sono stati proposti diversi approcci che sottendono a ridurre la concentrazione libera di farmaco [6], in particolare l’idratazione con soluzione salina nel danno renale acuto e l’utilizzo di dosi inferiori di farmaco (o la sostituzione con analoghi del cisplatino) nelle forme con evidenza di danno cronico. Tra gli analoghi del cisplatino, il carboplatino ha dimostrato di avere un potenziale nefrotossico significativamente ridotto se la dose è adattata alla funzione renale (formula di Calvert )[7].

 

Ifosfamide

L’ifosfamide è una mostarda azotata che, al pari del cisplatino, è utilizzata nel trattamento di un gran numero di neoplasie solide, in particolare tumori della linea germinale, sarcomi e linfomi non Hodgkin. Noti effetti collaterali del trattamento con ifosfamide sono la cistite emorragica, la sindrome da inappropriata secrezione di ADH e la tossicità diretta a carico del tubulo prossimale.

Le principali manifestazioni cliniche comprendono AKI associata a ipofosfatemia, sindrome di Fanconi (glicosuria, bicarbonaturia, aminoaciduria, proteinuria tubulare) e acidosi tubulare renale distale o prossimale [8].

Il maggiore determinante del danno renale è costituito dalla dose cumulativa del farmaco: per dosi cumulative inferiori a 60 g/m2, l’insorgenza di AKI è possibile ma le conseguenze nel lungo termine sono rare. Nei pazienti che invece hanno ricevuto una dose cumulativa superiore a 120 g/m2, oltre ad un danno renale acuto è frequente il riscontro di compromissione persistente della funzione renale [9].

La riduzione della dose cumulativa, l’assicurazione di una corretta idratazione e l’abolizione dell’esposizione ad altri farmaci nefrotossici noti, rappresentano al momento gli unici strumenti per limitare l’insorgenza e l’entità del danno renale nei pazienti trattati con ifosfamide.

 

Gemcitabina

La Gemcitabina è un antagonista delle pirimidine utilizzato come antitumorale in particolare nei carcinomi della vescica, mammella, polmone (non a piccole cellule), ovaio e pancreas. Il principale evento avverso renale è il danno renale acuto, nella maggior parte dei casi conseguente all’insorgenza di microangiopatia trombotica (TMA), che è preceduto da ipertensione arteriosa resistente e, successivamente, si palesa con segni di interessamento sistemico quali alterazioni neurologiche e lesioni ischemiche periferiche; secondo alcune casistiche, la TMA in corso di gemcitabina si osserva in circa 1% dei pazienti [10]. Tra i fattori di rischio si annovera la pregressa esposizione a mitomicina C, la presenza di CKD ed il superamento di una dose cumulativa di 20000 mg/m2 [11].

Nonostante il rischio incrementato di presentare eventi avversi, il trattamento con Gemcitabina è stato proposto, con opportuna riduzione di dosaggio, anche nei pazienti con CKD avanzata e talvolta in end stage renal disease (ESRD) in emodialisi. Plasmasferesi, rituximab ed eculizumab sono stati proposti per il trattamento della TMA [12,13], ma allo stato attuale la sospensione del farmaco e la terapia di supporto restano le uniche misure di provata efficacia [14].

 

Danno renale in corso di terapia con farmaci a bersaglio molecolare

Il miglioramento delle conoscenze relative alla fisiopatologia dei tumori, ha permesso negli ultimi due decenni, di sviluppare dei farmaci diretti contro i meccanismi molecolari alla base della crescita, della progressione e della diffusione metastatica delle neoplasie. Questi agenti antineoplastici, definiti collettivamente come “farmaci a bersaglio molecolare” o “target therapy” hanno radicalmente migliorato la prognosi a breve e lungo termine dei pazienti affetti da neoplasie solide e ematologiche [15]. Nonostante l’ampia diffusione dei farmaci a bersaglio molecolare, il profilo di sicurezza degli stessi è in corso di definizione a seguito di un numero crescente di eventi avversi riportati a seguito del loro estensivo utilizzo. Gli eventi avversi renali sono un’evenienza che è stata frequentemente riportata in studi osservazionali, principalmente nella fase post marketing. Ciò può essere una conseguenza dell’esclusione dai trial randomizzati controllati di fase 3 dei pazienti con funzione renale ridotta, in particolare dei pazienti anziani che rappresentano metà dei malati oncologici [15]. Come i chemioterapici tradizionali, la nefrotossicità da farmaci a bersaglio molecolare può coinvolgere tutti i segmenti del nefrone. Concentreremo la nostra attenzione sugli effetti renali dei farmaci antiangiogenetici riferendo i lettori alla pubblicazione di Porta e colleghi per l’analisi sistematica degli effetti avversi renali dei farmaci a bersaglio molecolare [15].

 

Farmaci antiangiogenetici

L’iperespressione del vascular endothelial growth factor (VEGF) o del suo recettore (VEGFr) sono elementi chiave della neo-angiogenesi tumorale. Gli inibitori del VEGF (es. bevacizumab, afilbercept), o dell’attività delle tirosin-kinasi associate al VEGFr (TKi) (es. sunitinib, sorafenib, pazopanib) sono i principali anti tumorali in uso ad azione anti neoangiogenetica. Essi riducono la perfusione tumorale attraverso una inibizione del microcircolo e della proliferazione endoteliale neoplastica.

La forma A del VEGF (VEGF-A) è abbondantemente prodotta a livello dei podociti, delle cellule mesangiali e tubulari, mentre il VEGFr è espresso a livello delle cellule mesangiali e tubulari [16]. Il VEGF-A esercita un ruolo fondamentale nella formazione e mantenimento della barriera di filtrazione glomerulare; in sua assenza i podociti e le cellule endoteliali sono incapaci di maturare e proliferare. L’inibizione eccessiva del VEGF-A è causa di tossicità  podocitaria e mesangiolisi [17].

Dall’alterazione dell’omeostasi glomerulare derivano verosimilmente le principali lesioni istologiche; la TMA è maggiormente descritta in corso di terapia con i ligandi del VEGF, mentre le podocitopatie (es. malattia a lesioni minime e glomerulosclerosi focale e segmentaria variante “collapsing”) sono state osservate principalmente in corso di terapia con TKi [18-19].

Dal punto di vista clinico, si osservano proteinuria, ipertensione arteriosa di nuovo riscontro (o esacerbazione di ipertensione preesistente), AKI (con o senza proteinuria) e raramente alterazioni elettrolitiche come ipofosfatemia, ipocalcemia e iponatremia [15]. Tali alterazioni renali, se persistenti, possono causare una riduzione persistente del filtrato glomerulare, fino alla malattia renale cronica terminale. Il riscontro di proteinuria è un’evenienza frequente nei pazienti trattati con Bevacizumab (circa il 13%); solo nel 2% dei casi si tratta di proteinuria ad alto grado (> 3,5 g/24h o ³ 4+ al dipstick urinario o riscontro di sindrome nefrosica) [20].

Allo stato attuale il trattamento della proteinuria in corso di farmaci antiangiogenetici non è sostenuto da evidenze di qualità; appare tuttavia importante monitorare questo dato prima, durante e dopo ogni ciclo terapeutico, preferendo la raccolta delle urine delle 24 ore all’esame su stick urinario. Un approccio iniziale consiste nell’introduzione o nel potenziamento della terapia con ACEi o ARBs al fine di ridurre i fenomeni di ipertensione glomerulare. Tuttavia, in caso di riscontro di proteinuria >2 g/24h, è necessario valutare la prosecuzione della terapia oncologica o la sua sospensione temporanea; d’altra parte, la sindrome nefrosica rappresenta un’indicazione assoluta alla sospensione definitiva del farmaco.

Le alterazioni microvascolari in corso di farmaci antiangiogenetici possono comparire in qualsiasi momento del ciclo terapeutico e non sono dose correlate, contrariamente a quanto si osserva nei pazienti trattati con chemioterapici classici. Le lesioni istologiche sono solitamente limitate al rene con pattern di microangiopatia trombotica (trombosi glomerulare) mentre le arteriole sono solitamente risparmiate o presentano modesti segni di endoteliosi. Il danno renale è solitamente autolimitante e reversibile con la sospensione del farmaco. Alcuni autori hanno suggerito, in alcuni casi, la ripresa della terapia ad un dosaggio inferiore con stretto monitoraggio clinico [19].

La terapia con farmaci antiangiogenetici causa ipertensione arteriosa nel 30-80% dei pazienti. Il legame del VEGF con il suo recettore a livello endoteliale media infatti effetti di vasodilatazione attraverso l’incrementata produzione di ossido nitrico e il rilascio di prostaclina-12 e causa inoltre un incremento della permeabilità vascolare; questi effetti vengono inibiti in corso di terapia con inibitori dell’angiogenesi [15].

Contrariamente al riscontro di proteinuria e TMA che possono essere considerati effetti off-target, l’ipertensione è espressione di un effetto terapeutico diretto a livello del blocco della cascata del segnale VEGF-dipendente ed è diretta espressione dell’entità dell’effetto antineoplastico della terapia [21], osservabile nella quasi totalità dei pazienti. Appare pertanto fondamentale, prima dell’inizio della terapia con farmaci inibitori dell’angiogenesi, raggiungere un ottimale controllo pressorio. Sebbene non siano al momento presenti delle linee guida condivise in merito al trattamento dell’ipertensione in corso di terapia con farmaci antiangiogenetici, i calcio antagonisti associati o meno con ARBs e ACEi sono una ragionevole prima scelta [22].

 

Danno renale in corso di terapia con farmaci immunoterapici

Gli inibitori dell’immuno-checkpoint (Immuno Check Point Inhibitors, [ICIs]) rappresentano una nuova classe di farmaci immunoterapici che ha profondamente rivoluzionato la terapia di diverse forme di neoplasie (sia solide che ematologiche), migliorandone significativamente la prognosi, risultando efficace in circa un quarto dei pazienti affetti da neoplasia avanzata [23]. Gli anticorpi monoclonali appartenenti a questa classe di farmaci esplicano la loro azione attraverso l’inibizione dell’attività di alcune specifiche molecole coinvolte nella downregulation del sistema immunitario, i cosidetti “immuno checkpoint”, e la conseguente attivazione della risposta immunitaria specifica diretta verso gli antigeni tumorali. I due target di questa classe di farmaci sono rappresentati dal cytotoxic T-lymphocyte–associated antigen 4 (CTLA-4) a dal programmed death 1 pathway (PD-1/PD-Ligand-1[PD-L1]), espressi su diversi tipi di cellule quali linfociti T e cellule presentanti l’antigene [APCs]. Il ruolo fisiologico di tali pathway molecolari è quello di regolare in maniera negativa l’attivazione del sistema immunitario, con il fine mantenere la self-tolerance e prevenire il danno tissutale secondario ad un’incontrollata attività del sistema immunitario. CTLA-4 è responsabile dell’inibizione dei linfociti T antigene-specifici espressi a livello linfonodale, attraverso il legame competitivo con il recettore co-stimolatore CD28 sulla superficie dei T linfociti e con la molecola B7 (CD80/86) sulle superficie dell’APCs.  PD-1 è una molecola con attività co-inibitoria espressa sulla superficie dei linfociti T, attivata dall’interazione con PD-L1, in seguito alla presentazione dell’antigene da parte delle APCs. L’iperespressione di PD-L1 è stata descritta quale meccanismo di evasione della risposta immunitaria dell’ospite da parte cellule tumorali. Attualmente, sette differenti molecole con azione sul sistema dell’immunocheckpoint sono state approvate dalla Food and Drugs Aministration statunitense: un anticorpo monoclonale anti CTLA-4, tre anticorpi monoclonali anti PD-1 e tre anticorpi monoclonali antiPD-L1.

Il medesimo meccanismo d’azione alla base dell’efficacia terapeutica degli ICIs è verosimilmente responsabile della nefrotossicità osservata in una percentuale compresa tra 3 e 17% dei pazienti trattati con tali terapie. Una prima ipotesi patogenetica ipotizza una perdita di tolleranza nei confronti di antigeni self espressi a livello renale [24], mentre una seconda ipotesi patogenetica chiama in causa l’attivazione di una risposta immunitaria cellulo-mediata innescata dall’esposizione ad antigeni non-self (principalmente farmaci) con conseguente danno tissutale cellulo-mediato a livello renale [25].

Il più comune quadro istopatologico descritto nei casi di AKI osservati in corso di terapia con ICIs è la TIN: in un recente studio multicentrico, Cortazar et al descrivono un quadro istologico di AIN nel 93% dei pazienti con evidenza di AKI sottoposti ad agobiopsia renale [26]. Il restante 7% dei casi descritti, coerentemente con quanto riportato in precedenti case report e case series, era rappresentato da necrosi tubulare acuta e da una varietà di quadri di danno glomerulare (GN necrotico-crescentica paucimmune ANCA-negativa, C3 glomerulopathy, anti-GBM disease).

I dati presenti in letteratura permettono di identificare fattori di rischio per lo sviluppo di AKI nei pazienti in terapia con ICIs: l’utilizzo di farmaci noti quali responsabili di TIN (i.e. FANS, inibitori di pompa protonica), la combinazione di più farmaci che agiscono sul sistema dell’immuno check-point (anti CTLA-4 in associazione con inibitori di PD-1/PD-L1) e la presenza di un quadro di malattia renale cronica al momento dell’inizio della terapia con ICIs [27].

Le caratteristiche cliniche della nefrotossicità in corso di terapia con ICIs mostrano, nella maggior parte dei casi, le stesse peculiarità cliniche osservate nei casi di nefrite interstiziale acuta da farmaci con evidenza di danno renale acuto associato a piuria sterile e proteinuria subnefrosica [26, 28]. Il danno tubulare in corso di terapia con ICIs può manifestarsi anche con un quadro di acidosi tubulare renale distale, in assenza di danno renale acuto: tale quadro clinico è stato correlato ad un’attività autoimmunitaria diretta contro le cellule intercalate di tipo A del tubulo contorto distale, con conseguente alterazione della funzione dell’H+-ATPasi e della Cl-/HCO3- ATPasi [29-30]. Nei casi di interessamento glomerulare è possibile, invece, osservare differenti sindrome cliniche nefrologiche, in relazione allo specifico quadro istologico descritto: sindrome nefrosica, sindrome nefritica o insufficienza renale rapidamente evolutiva [27].

Il ruolo della biopsia renale nella nefrotossicità da ICIs è attualmente oggetto di un profondo dibattito. Le Linee Guida della Società America di Oncologia Clinica indicano l’inizio della terapia immunosoppressiva nei casi di AKI in pazienti trattati con ICIs (una volta escluse cause prerenali e postrenali di AKI) senza porre indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale [31].

Per quanto la nefrite interstiziale acuta sia il danno istologico più frequentemente osservato nei casi di nefrotossicità da ICIs, tale approccio diagnostico-terapeutico espone una percentuale non trascurabile di pazienti ad un trattamento immunosoppressivo non necessario. In tale ottica la biopsia renale, qualora non controindicata, appare uno strumento imprescindibile per la gestione della nefrotossicità da ICIs.

La sospensione della terapia con ICIs e la terapia steroidea rappresentano i capisaldi del trattamento della AIN associata ad inibitori dell’immuno checkpoint. L’utilizzo di dosi di prednisone pari a 0.8-1 mg/kg/die (o equivalenti), fino ad un massimo di 60-80 mg/die ha mostrato un’eccellente prognosi nei pazienti con AKI stadio I e II; nei pazienti con AKI stadio III l’inizio della terapia orale è generalmente preceduto dall’utilizzo di corticosteroidi per via endovenosa (fino a 3 dosi consecutive).

I dati presenti in Letteratura suggeriscono una correlazione tra la risposta clinica e la durata della terapia steroidea: la durata raccomandata della terapia è compresa tra 8 e 12 settimane, con un lento scalaggio della terapia steroidea, finalizzato a ridurre il rischio di recidive.

Accanto alla durata della terapia steroidea, anche la dose iniziale sembrerebbe essere associata alla prognosi renale dei pazienti con AIN indotta da ICIs. Un recente lavoro pubblicato da Manohar et alii mostra come i pazienti con risposta completa presentassero dosi iniziali di prednisone significativamente superiori rispetto a coloro che mostravano una risposta parziale (2.79 mg/kg/mese vs 1.74 mg/kg/mese) [28].

La possibilità di riprendere la terapia con ICIs, una volta risoltosi l’episodio di danno renale acuto, è stata valutata in diversi Studi, partendo dall’evidenza che, spesso, tale terapia è l’unica disponibile per la gestione della patologia neoplastica. I dati recentemente pubblicati da Cortazar et al, mostrano una bassa percentuale (23%) di recidive di danno renale acuto in seguito alla ripresa della terapia con inibitori dell’immuno checkpoint. Il principale fattore di rischio per recidiva di AKi sembra essere riconducibile alla durata dell’intervallo tra l’episodio di danno renale acuto e la ripresa della terapia con ICIs (2.05 mesi nei soggetti che non mostravano recidiva di AKI vs 1.4 mesi nei soggetti con recidiva di AKI). È interessante sottolineare, tuttavia, come solo un soggetto tra coloro che avevano presentato una recidiva di AKI non abbia presentato una risposta completa alla terapia steroidea [26].

 

Conclusioni

La nefrotossicità da farmaci antineoplastici rappresenta una delle maggiori sfide dell’onconefrologia, sintetizzando al meglio quella che è la natura multidisciplinare della gestione del paziente oncologico.
La costante espansione dell’armamentario di farmaci antitumorali a disposizione per la gestione del paziente oncologico, ha sicuramente contribuito ad ampliare il concetto di “nefrotossicità da farmaci antitumorali” che, attualmente, abbraccia un eterogeneo gruppo di meccanismi patogenetici e un’importante variabilità di sindromi cliniche nefrologiche. Alla luce di tale complessità, la gestione di tali eventi avversi, rende imprescindibile la figura dello specialista nefrologo, quale riferimento nella diagnosi (es. indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale) e nella terapia (es. indicazione alla terapia steroidea, indicazione alla terapia sostitutiva della funzione renale).
Il ruolo del nefrologo diventa di essenziale importanza in un percorso personalizzato, che parte dalla valutazione preliminare volta a inquadrare i fattori di rischio (sia quelli relativi allo schema terapeutico proposto sia quelli intrinseci dello specifico paziente), coadiuva l’oncologo nella scelta di farmaci e schemi terapeutici adeguati alla funzione renale del paziente, prosegue con il monitoraggio durante il trattamento e, spesso, si prolunga in un follow-up nel lungo periodo, anche successivo alla conclusione del ciclo terapeutico.

 

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Mieloma multiplo, discrasie plasmacellulari e rene: pochi sintomi ma gravi danni

Abstract

Il mieloma multiplo rappresenta una delle principali patologie oncologiche universali e per le sue caratteristiche cliniche, spesso risulta diagnosticato solo tardivamente quando ha già determinato effetti sistemici con conseguente maggiore difficoltà terapeutica e minori risultati prognostici. Attraverso il caso clinico discusso in questo articolo, vogliamo porre l’attenzione sulle manifestazioni, spesso aspecifiche, di questa patologia e sulla necessità di un corretto inquadramento clinico e diagnostico. Verranno inoltre esaminate le principali manifestazioni renali secondarie al deposito di immunoglobuline sia in sede glomerulare che tubulare.

Parole chiave: AKI, mieloma multiplo, discrasie plasmacellulari, danno renale

Introduzione

Il mieloma multiplo (MM) è una patologia che rientra nel gruppo delle neoplasie ematologiche associate a discrasie plasmacellulari (PCD). È la diretta conseguenza di una proliferazione incontrollata di un clone plasmacellulare cui consegue l’anomala produzione di immunoglobuline monoclonali (Ig) o di catene leggere libere (free light chain, FLC) che, una volta eliminate dalla circolazione ematica attraverso l’emuntorio renale, determinano sovente un danno d’organo [1]. Le PCD comprendono uno spettro relativamente ampio di malattie come: il mieloma multiplo, l’amiloidosi AL, il plasmocitoma solitario e la gammopatie monoclonale di incerto significato (MGUS). La distinzione tra le varie forme di mieloma dipende da alcune caratteristiche quali la quantità di proteina monoclonale sierica, la percentuale di plasmacellule nel midollo osseo e la presenza di danno d’organo.

Recentemente è stato introdotto il termine di gammopatia monoclonale a significato renale (MGRS) che sottolinea il ruolo diretto che le immunoglobuline hanno sull’eziopatogenesi del danno d’organo anche in assenza dei criteri necessari per la diagnosi di mieloma multiplo [2].

 

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Gestione multidisciplinare di un tipico caso di insufficienza renale acuta in corso di infezione da COVID-19

Abstract

Riportiamo il caso di un paziente di 68 anni, giunto in ospedale con febbre e tosse da 7 giorni, in anamnesi, ipertensione arteriosa e insufficienza renale cronica stadio 2 secondo CKD-EPI (GFR: 62 ml/min con una creatinina di 1.2 mg/dl). La terapia domiciliare include lercanidipina e clonidina. La radiografia del torace eseguita in pronto soccorso mostra subito immagini suggestive di polmonite da Covid-19, confermata nei giorni successivi da tampone positivo per coronavirus; i parametri di funzione renale peggiorano progressivamente sino a raggiungere, al quindicesimo giorno, insufficienza renale acuta severa con valori di creatinina di 6.6 mg/dl e di urea di 210 mg/dl. Essa verrà gestita prima in rianimazione tramite cicli di CRRT (terapia renale sostitutiva continua) e poi nell’“area gialla” della medicina COVID-19, dove il paziente sarà dializzato dai nefrologi tramite cicli più brevi di CRRT. Nella nostra breve esperienza abbiamo utilizzato le tecniche continue di CRRT nei pazienti con Covid-19 emodinamicamente instabili e la IRRT (dialisi intermittente) nei nostri pazienti cronici affetti da Covid-19 ma stabili e asintomatici o paucisintomatici. Abbiamo riscontrato la superiorità della CRRT sull’IRRT nei pazienti emodinamicamente instabili ricoverati in rianimazione o in area gialla Covid. La dialisi continua con filtri ad alto cut-off, iniziata precocemente in rianimazione e poi proseguita in area gialla sino a normalizzazione della funzione renale, e la terapia medica di supporto hanno permesso di migliorare la severità del decorso della patologia e hanno contribuito all’esito favorevole per il nostro paziente. Durante la pandemia, il nostro Gruppo dell’ospedale San Paolo di Savona ha riorganizzato il Reparto, in modo da gestire al meglio sia i pazienti dializzati cronici che acuti affetti da nuovo coronavirus.

Parole chiave: COVID-19, “area gialla”, AKI, ACE 2, particelle virali, CRRT

Introduzione

Il danno renale acuto (Acute Kidney Injury, AKI) è una condizione patologica possibile tra i pazienti con Covid-19. Colpendo il 20-40 % dei pazienti ammessi in rianimazione, secondo l’esperienza in Europa e in USA, è considerato un marker di severità della patologia e un fattore prognostico negativo per la sopravvivenza [1].

Studi recenti riportano una più alta frequenza di anomalie urinarie nei pazienti con Covid-19. Nello studio cinese di Cheng et al. su 710 pazienti ospedalizzati con Covid-19, il 44% aveva proteinuria e ematuria ed il 27% aveva ematuria all’ingresso in ospedale. La prevalenza di elevati valori di creatinina sierica e di urea all’ingresso erano del 15,5% e del 14.1% [2,3]. La gran parte dei pazienti presentava quindi anomalie urinarie in assenza di dati clinici e laboratoristici di insufficienza renale acuta, presentando dunque un danno subclinico.

Secondo un altro studio cinese, l’incidenza di AKI in Covid-19 variava tra 0,9% e 29% in diversi centri [4], mostrando la minor frequenza di coinvolgimento renale nelle popolazioni orientali.

Lo stesso studio ci rivela vari quadri istopatologici renali dall’osservazione e studio di 26 autopsie di pazienti con Covid-19. I pazienti, 19 maschi e 7 femmine, alla morte avevano un’età media di 69 anni. La causa di morte era insufficienza respiratoria con sindrome da disfunzione multiorgano. Nove dei 26 pazienti mostravano segni di danno renale acuto, quali incremento della creatinina sierica o comparsa di proteinuria.

I quadri osservati furono i seguenti:

  1. Con microscopia ottica: danno diffuso del tubulo prossimale con degenerazione vacuolare, necrosi franca, dilatazione del lume tubulare con detriti cellulari. In due pazienti, erano osservati segni di pielonefrite acuta con batteri e polimorfonucleati nel lume dei tubuli. I tubuli distali e dotti collettori mostravano solo occasionale rigonfiamento cellulare ed espansione edematosa dell’interstizio senza grande infiammazione.
  2. Con microscopia elettronica, particelle simil-coronavirus sono state osservate nell’epitelio dei tubuli prossimali renali, nei podociti, e meno anche nei dotti distali, di diametro tra 65 e 136 nm con spike distintivi che assumevano l’aspetto di una corona. Aggregati di eritrociti sono stati osservati nel lume dei capillari peritubulari e anche nei capillari glomerulari. Depositi di emosiderina, danno endoteliale con trombi determinanti collasso ischemico e altri pigmenti relativi ad una rabdomiolisi sono stati rilevati.
  3. L’immunofluorescenza diretta o indiretta ha mostrato la presenza di IgM e C3. In particolare, una biopsia ha mostrato IgG granulari lungo la parete capillare e in un caso sono state osservate IgA in area mesangiale e sulla parete capillare, associati a corrispondenti depositi mesangiali e sottoendoteliali alla microscopia elettronica.

Lo stato di ipercoagulabilità presente nei pazienti con SARS-COV2 potrebbe essere responsabile in alcuni casi del passaggio da necrosi tubulare acuta a necrosi corticale acuta, determinando un danno renale irreversibile [5].

Circa il 20% dei pazienti positivi al Covid-19 ricoverati in rianimazione necessitava di tecniche CRRT (Terapia Sostitutiva Renale Continua) a una media di 15 giorni dall’inizio della malattia per l’insorgenza di AKI non rispondente alla terapia medica.

L’AKI viene definita da un incremento dei valori di creatinina sierica di 0.3 mg/dl in 48 ore e del 50% rispetto al valore basale entro 7 giorni [6]. Il valore basale è il valore della creatinina all’ingresso del paziente in ospedale.

Il danno renale acuto è classificabile in vari stadi:

  1. AKI stadio 1: la creatinina è 1,5-1,9 volte il valore iniziale. La produzione di urina è <0,5 ml/kg/h per 6-12 ore.
  2. AKI stadio 2: la creatinina è 2-2,9 volte il valore iniziale. La produzione di urina è <0,5 ml/kg/h per >12 ore.
  3. AKI stadio 3: la creatinina è 3 volte il valore iniziale oppure c’è un aumento di creatinina fino a valori >4 mg/dl. La produzione di urina è <0,3 ml/kg/h per >24h o c’è anuria per >24h.

I meccanismi fisiopatologici alla base dell’AKI in Covid-19 sono molteplici. Alcuni dati autoptici [7] indicano che viene colpito sia l’endotelio dei polmoni che quello del rene. SARS-CoV-2, inoltre, può direttamente infettare le cellule dell’epitelio tubulare e i podociti attraverso il legame con ACE2 (Angiotensin Converting Enzyme 2), causando disfunzione mitocondriale, necrosi tubulare acuta, glomerulopatia collassante. L’espressione di ACE2 è stata riportata in diversi organi, tra cui rene, cuore e intestino [8].

Le ultime ricerche indicano che l’AKI, il danno cardiaco e il dolore addominale sono le più comuni comorbidità di Covid-19, suggerendo che SARS-CoV-2 può avere un tropismo per questi organi.

 

Ingresso del Covid-19 nella cellula

Il SARS-CoV-2 entra nelle cellule del nostro organismo attraverso i recettori ACE2. Il recettore ACE2 è pressoché ubiquitario: è stato isolato sulla mucosa orale e nasale, nel nasofaringe, polmoni, stomaco, intestino tenue, colon, linfonodi, timo, midollo osseo, milza, fegato, reni e cervello, vasi, cuore. Tuttavia, l’83% delle cellule che esprimono ACE2 sembrano essere pneumociti di tipo 2. Il recettore ACE2 è anche espresso sul versante luminale dell’epitelio intestinale. Gli pneumociti di tipo 2 sono cellule cilindriche che rivestono gli alveoli occupando solo il 5% della superficie alveolare. Le infezioni severe causate dal virus Covid-19 interessano principalmente i polmoni, nonostante l’ubiquitarietà dei recettori ACE2. È vero però che i pazienti con infezione grave da SARS-CoV-2 presentano spesso anche danni miocardici, o anche lesioni multiorgano; comunque sia, i danni principali sembrano avvenire a livello polmonare.

È stato studiato che una mutazione della proteina Spike di SARS-CoV2 (proteina S situata sulla superficie esterna del virus) conferisce al virus affinità per una sequenza proteica complementare localizzata sulla regione carbossipeptidasica del recettore umano ACE2, un recettore che metabolizza l’angiotensina II per generare angiotensina 1-7. Il legame con il recettore è necessario affinché un altro enzima, TMPRSS2 (Transmembrane Protease Serine 2, un membro della sottofamiglia Hepsin-TMPRSS), separi la sequenza S1 da S2 di Spike. La porzione S2 della proteina, una volta esposta, aggancia la membrana cellulare dell’ospite dando inizio al meccanismo molecolare di ingresso del virus. In particolare, la proteina S si lega al recettore ACE2. Il legame sembra avvenire tra i residui 272 e 537 della proteina S virale 16. La proteina S del virus SARS-CoV-2 è strutturalmente identica alla proteina S dei virus SARS-CoV e MERS-CoV per la maggior parte. Questi dati potrebbero giustificare il fatto che una precedente esposizione ai coronavirus possa essere almeno in parte protettiva verso l’attuale SARS-CoV-2.

L’ingresso del virus nella cellula attraverso il recettore ACE2 viene mediato da alcune proteasi situate sulla superficie cellulare, in stretta vicinanza con il recettore ACE2, facilitando l’ingresso del virus nella cellula. Altre proteasi facilitano la diffusione del virus una volta che questo è penetrato all’interno della cellula. In particolare, la serin-proteasi TMPRSS2 è un enzima proteolitico transmembrana, che strutturalmente e funzionalmente fa parte del recettore ACE2. È proprio il TMPRSS2 che “attacca” l’unità S1 della proteina S virale e, grazie alla sua attività enzimatica, la distacca dall’unità S2. A distacco avvenuto, l’unità S2 virale si fonde con la cellula e, attraverso tale fusione, avviene il trasferimento del contenuto virale all’interno della cellula [9,10]. Tale attività enzimatica (distacco dell’unità S1) aumenta di quasi 100 volte l’ingresso del virus nella cellula attraverso il recettore ACE2.

Oltre alla spike protein hanno un ruolo nell’ingresso di SARS-COV2 nelle cellule:

  • Proteina M: la proteina di membrana (M) attraversa il rivestimento (envelope) interagendo all’interno del virione con il complesso RNA-proteina.
  • Dimero emagglutinina-esterasi (HE): questa proteina del rivestimento, più piccola della glicoproteina S, svolge una funzione importante durante la fase di rilascio del virus all’interno della cellula ospite.
  • Proteina E: l’espressione di questa proteina aiuta la glicoproteina S (e quindi il virus) ad attaccarsi alla membrana della cellula bersaglio.
  • Envelope: è il rivestimento del virus, costituito da una membrana che il virus “eredita” dalla cellula ospite dopo averla infettata.

Gli inibitori delle proteasi di superficie e di altri tipi di proteasi sono in grado di frenare l’ingresso dei coronavirus nella cellula. Non è dunque stato dimostrato che la maggiore espressione dei recettori ACE2 specificamente indotta da ACE-inibitori e sartani sia un fattore determinante, indipendente di maggiore penetranza e diffusione locale del virus.

Paradossalmente alcuni studi recenti evidenziano che l’up-regulation degli ACE2 indotta da ARB (recettori bloccanti dell’angiotensina) sarebbe protettiva durante l’infezione da SARS-CoV-2 [9]. L’espressione incrementata di ACE2 da ARB potrebbe indurre il sequestro di SARS-CoV-2 sulla membrana cellulare, senza incremento di TMPRSS2, limitando l’infezione virale [10].

Altre cause di Danno renale acuto:

Causa alternativa del danno renale acuto potrebbe essere una congestione renale e successiva AKI secondaria a insufficienza ventricolare destra da polmonite. Parallelamente, l’insufficienza ventricolare sinistra potrebbe portare a riduzione della gittata cardiaca e ipoperfusione renale.

Altri potenziali meccanismi di AKI sono: la disregolazione della risposta immunitaria con linfopenia e sindrome da rilascio di citochine, la rabdomiolisi, la sindrome da attivazione di macrofagi, lo sviluppo di microemboli e microtrombi e, quindi, una microangiopatia trombotica.

 

Figura 1: Struttura di SARS COV 2 della glicoproteina S. (A) La virulenza di SARS COV-2 dipende dall’attività di 16 proteine non strutturali e di 4 proteine strutturali (M, E, N e S). La proteina M regola il trasporto dei nutrienti attraverso la membrana e interagisce con il complesso RNA-proteine.La proteina E aiuta la proteina S ad ancorarsi alla cellula ospite. La proteina N aumenta la stabilità del singolo filamento a RNA. (B) La glicoproteina S è composta da due subunità S1 e S2. S1 svolge una funzione di legame al recettore mentre S2 svolge le funzioni di fusione tra virus e cellula e l’internalizzazione del virus. Gli omotrimeri della proteina S formano le spike che si attivano grazie alla presenza di una proteasi TMPRSSD2 sulla superfice della cellula ospite, e poi, tramite il dominio di legame per il recettore (RBD) si legano al dominio peptidasico sul recettore ACE2. Fonte: Basta G, Del Turco S, Caselli C, Meloni L, Vianello A. “È guerra Mondiale al Covid-19. Decisiva la prima battaglia sul fronte dell’invasione virale contro l’exitus per polmonite interstiziale”. Recenti Prog Med 2020 111(4):238-252.

 

Terapie sostitutive nel danno renale da Covid-19

Per prevenire e curare l’AKI in pazienti con Covid-19, sono state prese in considerazione la terapia medica conservativa e la terapia sostitutiva: CRRT o IRRT (terapia sostitutiva renale intermittente).

La terapia medica conservativa è importante per tenere in equilibrio il bilancio idrico, evitare il sovraccarico di volume e ridurre il rischio di edema polmonare e successivo sovraccarico ventricolare destro, congestione e danno renale acuto [11]. D’altra parte, i pazienti con Covid-19 spesso presentano febbre e ipovolemia per diversi giorni prima dell’ingresso in ospedale e, all’inizio della degenza, tale deplezione di volume dovrebbe essere corretta per prevenire l’AKI da ipoperfusione renale.

La CRRT è la modalità di dialisi preferita in pazienti emodinamicamente instabili colpiti da Covid-19. La CRRT si divide a sua volta in tecniche diverse:

  1. CVVHD (Continuous Haemodialisis). Utilizza membrane a bassa permeabilità con un flusso di dialisato in controcorrente. La clearance delle molecole avviene per diffusione ed è efficace per la rimozione delle piccole molecole.
  2. CVVHDF (Continuous Haemodiafiltration). Utilizza membrane ad alta permeabilità con flusso di dialisato in controcorrente. La clearance delle molecole viene ottenuta per convezione e diffusione con efficacia sulle molecole più grandi.
  3. CPFA (Continuous Plasma Filtration Coupled with Adsorption). Utilizza un plasmafiltro e il plasmafiltrato ottenuto è spinto in una cartuccia con sostanze assorbenti (resine o carboni); utile per la rimozione di citochine proinfiammatorie. Il plasma rigenerato viene reinfuso.
  4. Pex (Plasma Exchange). Separa la parte corpuscolata del sangue dal plasma, con sua rimozione (di solito il 15%) e sostituzione con plasma da donatore o albumina. Lo scopo è la rimozione di sostanze a peso molecolare elevato, liposolubili o legate a proteine.

Nella nostra breve esperienza abbiamo utilizzato le tecniche continue di CRRT nei pazienti con Covid-19 emodinamicamente instabili e la IRRT nei nostri pazienti cronici affetti da Covid-19 ma stabili e asintomatici o paucisintomatici. Abbiamo riscontrato la superiorità della CRRT sull’IRRT nei pazienti emodinamicamente instabili ricoverati in rianimazione o in area gialla Covid. Probabilmente, ci sono diverse ragioni che fanno preferire le tecniche continue:

  • L’emodialisi intermittente determina più facilmente ipotensione con danno ischemico e ritardo nel recupero funzionale renale.
  • Le membrane cellulosiche usate in dialisi convenzionale sono meno biocompatibili e possono attivare i mediatori dell’infiammazione e i neutrofili.
  • Le tecniche continue permettono un miglior controllo dell’azotemia e quindi una migliore terapia nutrizionale (introito proteico >2g/kg/die).
  • Le tecniche continue permettono un miglior controllo ionico e acido-base.
  • La CRRT permette una migliore perfusione cerebrale e coronarica.

La nostra esperienza ha evidenziato che il precoce inizio di CRRT in pazienti in rianimazione con Covid-19 e AKI previene la progressione della severità della malattia. Questo perché esiste una “finestra di opportunità” per pazienti con grave compromissione da Covid-19. La combinazione di alti livelli di IL-6 (>24,3 pg/ml) e di D-dimero (>0,28 mcg/l) sono stati predittivi di una polmonite severa in pazienti con Covid-19 con una sensibilità del 93% e una specificità del 96%. Il tempo medio dall’inizio della malattia all’entrata in rianimazione è stato di circa 10,5 giorni dopo una media di 1,5 giorni dalla diagnosi di ARDS (Sindrome da Distress Respiratorio Acuto). La vita media dei fattori dell’infiammazione nel sangue è di pochi minuti. Questo suggerisce che i trattamenti di purificazione del sangue devono essere iniziati precocemente: se si innesca la cascata dei mediatori dell’infiammazione, l’efficienza nella rimozione può essere limitata [12].

Il razionale nel trattamento extracorporeo è l’uso di membrane ad alto o medio cut-off per aumentare la rimozione di citochine e quindi ridurre l’infiammazione, oltre a migliorare lo stato di sovraccarico idrico [13]. Le membrane ad alto cut-off possono rimuovere efficacemente molecole di 20-60 KD [14]. Alcune membrane riescono a rimuovere molecole a medio e alto peso molecolare attraverso l’interazione di cariche ioniche. Un esempio è il filtro oXiris, quello utilizzato per eseguire la dialisi continua al paziente protagonista del caso clinico descritto nella prossima sezione.

La membrana oXiris è strutturata in 3 strati:

  1. Una membrana AN69, costituita da una struttura hydrogel idrofilica capace di rimuovere le citochine per convezione attraverso i pori delle membrane (cut-off 40 KD).
  2. Più strati di PEI che è un polimero cationico di polietilenimina capace di assorbire quelle citochine che hanno cariche negative sulla superficie.
  3. Rivestimento di eparina che riduce la trombogenicità e fa in modo che la membrana possa essere usata senza anticoagulazione in pazienti con incrementato rischio di sanguinamento [15].

Uno studio multicentrico francese retrospettivo, in cui erano stati arruolati 31 pazienti con AKI e sepsi, ha dimostrato che dopo il trattamento con la membrana oXiris, la mortalità ospedaliera era ridotta del 30% [16].

 

Figura 2: Struttura del filtro oXiris. Fonte: Monard C, Rimmelè T, Ronco C. “Extracorporeal Blood Purification Therapies for Sepsis”. Blood Purif 2019; 47(suppl 3):2-15.

Un’altra membrana utilizzata da vari centri di rianimazione e dalle Nefrologie nel massimo periodo di pandemia da Covid-19 è stato il cytosorb: cartuccia sorbente a struttura porosa, formato da sfere di polisirene-divinilbenzene e polivinilpirrolidone, assorbe citochine, mioglobina, bilirubina, e altri fattori dell’infiammazione. Può essere usato nell’emodialisi standard, nelle CRRT, nell’ECMO e altre metodiche [17].

 

Metodologia e presentazione caso clinico

Presentiamo e discutiamo in questo manoscritto un caso di AKI insorta in un paziente ricoverato nella nostra rianimazione con polmonite da Covid-19.

Premettiamo che nel nostro ospedale c’è stata, all’inizio dell’epidemia, una riorganizzazione dei reparti, che sono stati organizzati in aree di degenza medica per pazienti Covid: “aree gialle” distribuite dal quarto all’ottavo piano e “aree rosse” comprendenti la rianimazione; ancora tra le aree gialle c’era la medicina d’urgenza, mentre il pronto soccorso è stato suddiviso in un percorso Covid e un altro Covid-free. I reparti rimanenti erano tutti Covid-free.

La nostra Nefrologia si è organizzata per dializzare i pazienti ricoverati positivi al Covid-19 in area gialla attraverso un rene artificiale prismaflex con metodica di CRRT o anche attraverso una mono-osmosina portatile con metodica di dialisi intermittente. Per i nostri pazienti cronici asintomatici positivi abbiamo allestito un’area gialla dialitica al piano -1, vicino alla Rianimazione e al Pronto soccorso e lontana dal Reparto di Dialisi del nostro ospedale, che è sempre rimasto Covid-free.

Tra l’inizio di marzo e l’inizio di giugno 2020, abbiamo osservato un unico caso di insufficienza renale acuta severa, tale da richiedere l’intervento con CRRT, in un paziente ricoverato in rianimazione per severa polmonite da Covid-19.

Il nostro paziente ha 68 anni, anamnesi di ipertensione arteriosa, in duplice terapia con lercanidipina e clonidina, un valore di creatinina di 1,2 mg/dl da almeno 10 anni in assenza di proteinuria, dunque insufficienza renale cronica stadio G2A1. Non c’è menzione che il paziente abbia avuto contatti con altre persone positive al Covid-19 precedentemente al suo arrivo in pronto soccorso, né che abbia fatto viaggi in zone rosse.

Viene ricoverato per febbre e tosse da 7 giorni con un quadro clinico che è apparso quasi subito aggressivo e rapidamente peggiorativo. In pronto soccorso il paziente giunge il 09/03/2020: l’ecoscopia mostra subito un pattern polmonare a linee b diffuso bilateralmente; in parallelo la Tac torace HR mostra estesi addensamenti parenchimali con aspetto “a vetro smerigliato ” in corrispondenza del lobo inferiore, bilateralmente, a prevalente distribuzione declive e di maggiore entità a destra, con associato broncogramma aereo, e ispessimento dei setti inter- intralobulari (crazy-paving). Ulteriori sfumate aree di consolidazione parenchimale “a vetro smerigliato “si rilevano a livello segmentario apicale del lobo superiore di sinistra a disposizione basale parascissurale, ed in corrispondenza del lobo superiore di destra in sede anteriore basale sottocostale.

 

Figura 3: Linee B all’ecoscopia

 

Figura 4: Tac Torace del nostro paziente agli inizi di marzo

 

Il quadro TC appare suggestivo per polmonite interstiziale, di verosimile espressione Covid-19. Tale quadro è stato poi in seguito confermato dalla positività al tampone.

Dunque, il paziente viene ricoverato e inizia terapia medica con farmaci antivirali (norvir, darunavir, tamiflu, plaquenil) e antibatterici e terapia ventilatoria con CPAP (peep:10 cm H20 e FiO2:0,6). Dopo 24 ore, per intolleranza alla CPAP, viene ventilato con reservoir ma di nuovo, dopo poche ore, per desaturazione e un rapporto all’EGA P02/FiO2 di 69, viene intubato e trasferito in rianimazione.

Gli esami ematici al 12/03 evidenziano: rialzo della PCR e della procalcitonina (392mg/L; 2,8ng/mL), creatininemia 1,2 mg/dl e urea 51 mg/dl, linfocitopenia, aumento di LDH, aumento di fibrinogeno. L’ecografia renale mostra reni normali con dimensioni e spessore parenchimale nei range, assenza di dilatazione calico-pielica, buona vascolarizzazione parenchimale e IR (Indici di Resistenza) intrarenali di 0.65 circa in media. Nei giorni successivi si palesa alla misurazione delle 24h una proteinuria di circa 1g. Diversi reports hanno segnalato l’alta incidenza di proteinuria nefritica e ematuria nei pazienti affetti da SARS-CoV-2 [18].

Nei primi dieci giorni di degenza in rianimazione i parametri di funzione renale subiscono un progressivo peggioramento sino a valori di creatinina di 6.6 mg/dl e urea 209 mg/dl; il bilancio idrico si positivizza e insorge oligoanuria. Viene così avviato il primo ciclo di CRRT il 19/03, dopo 10 giorni dall’ingresso del paziente. Il ciclo ha una durata di 72 ore, viene utilizzato il filtro oXiris e le impostazioni iniziali sono le seguenti: Qb: 120ml/min, PBP: 1200ml/h, dialisato: 1200 ml/h, reinfusione: 500 ml/h, UF: 150 ml/h. Come anticoagulante viene utilizzato il citrato.

In tale data ripetiamo una radiografia del torace che mostra un peggioramento del quadro con incremento delle aree di disventilazione a carattere interstiziale. Tale quadro polmonare, ad una Tac di controllo successiva, risulterà ancora peggiorato, con incremento dell’estensione degli addensamenti parenchimali interstiziali a vetro smerigliato. Viene poi chiesta dai colleghi rianimatori una consulenza nefrologica, in cui riconosciamo una situazione abbastanza in linea con un quadro di danno renale acuto strettamente correlato al Novel Coronavirus.

Vengono eseguiti altri due cicli di CRRT il 24/03 e il 27/03; il 31/03 il paziente viene estubato e riventilato con CPAP. A questo punto viene trasferito in area gialla, dove noi nefrologi prendiamo in carico il paziente per proseguire la terapia sostitutiva con cicli di CRRT ad un Qb più alto, in media 250 ml/min. Dopo qualche giorno, il 04/04, il paziente viene colpito da una crisi epilettica e va in carbonarcosi a seguito di stato di male epilettico per cui viene ritrasferito in rianimazione, intubato e sottoposto a due cicli di CRRT di 72 ore, il 05/04 e il 15/04. Durante la degenza, inoltre, il paziente presenta emocolture positive per cocchi Gram positivi e miceti, per cui viene modificata la terapia antibiotica e aggiunta una terapia antimicotica. Il 07/04 il paziente viene nuovamente estubato e il 22/04 viene definitivamente trasferito in area gialla. A questo punto, l’evoluzione favorevole della malattia renale ci permette di non dializzare più il paziente; modulando la terapia diuretica e le infusioni elettrolitiche, gli indici di funzione renale subiscono un progressivo miglioramento sino ad ottenere un valore di 1,2 mg/dl di creatinina alla dimissione, sovrapponibile al valore precedente al ricovero (Tabella I).

Una Tac Torace eseguita qualche giorno prima della dimissione, ad inizi maggio, evidenzia una completa detersione dei noti multipli disomogenei addensamenti parenchimali a carattere prevalentemente ground-glass precedentemente localizzati nel contesto di entrambi i lobi superiori, del lobo medio e della lingula. Consensualmente, si apprezza una sostanziale risoluzione degli estesi consolidamenti con immagini di broncogramma aereo nel contesto localizzati ai lobi inferiori, nella sede dei quali sono presenti attualmente esclusivamente plurime bande dense di natura fibrotica, cui si associano multiple bronchiectasie da trazione. In considerazione anche dell’assenza di versamento pleurico, consegue una relativa riespansione del parenchima dei lobi inferiori stessi.

 

Figura 5: Tac torace del nostro paziente agli inizi di maggio

 

Sangue Range di riferimento 1°giorno ospedaliero 30°giorno ospedaliero Giorno della dimissione
Emoglobina(g/dl) 12-16 12,2 9,2 11,5
Globuli Bianchi (per ml) 4500-11000 11000 13000 8000
Neutrofili 1800-7700 9500 9800 6000
Linfociti 1000-4800 500 700 1200
Urea (mg/dl) 8-25 60 280 65
Creatinina (mg/dl) 0,6-1,2 1,2 6,8 1,2
D-dimero (ng/ml) <500 1200 6000 1600
Ferritina (mg/l) 20-300 400 930 214
Proteina C reattiva (mg/L) <5 163 300 1,7
LDH (U/l) 110-210 500 350 300
Sodio (mEq/l) 135-143 135 142 138
Potassio (mEq/l) 3,5-5 5,2 3,6 4,5
Glucosio (mg/dl) 70-110 100 155 90
Urine
Proteinuria (g/24h) <150 mg 200 mg/24h 1,2 g/24h 250 mg/24h
Tampone rino-faringeo Covid-19 POSITIVO INCONCLUSIVO NON RILEVATO
Tabella I: Evoluzione dei principali dati laboratoristici del paziente nel corso della degenza.

 

Discussione

Il nostro paziente ha presentato un’insufficienza renale acuta nel contesto di una sindrome respiratoria acuta severa da SARS-CoV-2. Tale danno renale ha raggiunto la massima espressione alla seconda settimana di infezione, come riscontrato già in diversi altri studi [19].

La gestione complessiva del nostro paziente, prima in rianimazione e poi in area gialla, ha preso in considerazione diversi aspetti:

  1. Garantire un’adeguata pressione arteriosa necessaria alla perfusione degli organi, in particolare del rene.
  2. Mantenere un bilancio idrico adeguato a consentire un buon compenso respiratorio e, parallelamente, una sufficiente perfusione ematica renale. Spesso nei pazienti con SARS-CoV-2 diversi fattori contribuiscono a mantenere un bilancio idrico negativo:
    • Scarso introito di liquidi in quanto il paziente è ventilato con C-PAP o addirittura intubato.
    • Perdita di fluidi associata a febbre.
    • Viene somministrata una quantità modesta di liquidi dai colleghi rianimatori per il rischio di scompenso respiratorio.
    • La ventilazione con alta pressione espiratoria positiva può ridurre il ritorno venoso e dunque la perfusione renale, condizionando il blocco della diuresi.
    • La lunga dipendenza da un ventilatore peggiora i fattori sopra descritti che condizionano un bilancio negativo e una scarsa risposta renale.

    Il ruolo del nefrologo è stato anche quello di bilanciare la giusta infusione dei liquidi da dare al paziente con la somministrazione di un’adeguata quantità di diuretico, che hanno consentito da un lato la ripresa della funzione renale e dall’altro un’adeguata pressione venosa centrale, tra 4 e 8 mmHg, necessaria per non incorrere in uno scompenso respiratorio.

  3. Aggiustare di volta in volta la posologia dei farmaci antivirali e antibatterici per il filtrato renale.
  4. Eseguire precocemente sedute di CRRT che hanno permesso di gestire la fase critica dell’AKI grazie all’utilizzo di filtri capaci di rimuovere frammenti di endotossina e citochine per assorbimento, o filtri a base di acrilonitrile e policarbonato ad alto cut-off. L’utilizzo del filtro oXiris, dell’eparina a basso peso molecolare per via sistemica e del citrato hanno permesso inoltre di ridurre al massimo il problema tecnico della coagulazione del filtro. Tale problema, riscontrato di frequente nei pazienti Covid-19, era stato responsabile della riduzione dei tempi di trattamento dialitico, di uno spreco di risorse per la frequente sostituzione dei filtri coagulati, e sovente dell’anemizzazione del paziente in CRRT.

 

Conclusioni

La pandemia da Covid-19 ha posto ai nefrologi una serie di domande sulla fisiopatologia, prognosi e trattamento dell’insufficienza renale acuta dovuta a Covid-19, alcune in parte chiarite, altre ancora non risolte.

Ad esempio, non è noto se la terapia antivirale (idrossiclorochina, remdesivir, lopinavir ecc) antiinfiammatoria o con anticorpi monoclonali, tipo il tocilizumab, possa ridurre l’insorgenza o mitigare la severità dell’insufficienza renale acuta che si manifesta nei pazienti con SARS-CoV-2.

I dati sembrano dar per certo che il danno renale acuto non si è manifestato frequentemente nei pazienti ospedalizzati per Covid-19. L’AKI si manifestava di più nei pazienti ricoverati in rianimazione, soprattutto nei più anziani e con anamnesi di ipertensione e diabete, e comunque in percentuale bassa.

Nella nostra rianimazione, su 30 pazienti ricoverati, 2 hanno manifestato AKI, ossia il 6,6%; di questi, 1 ha necessitato di tecniche di CRRT.

Le tecniche di CRRT, d’altra parte, sono state utilizzate in rianimazione, a scopo antiinfettivo e ultrafiltrativo, in almeno 5 pazienti che non erano stati colpiti da insufficienza renale acuta.

La comparsa di AKI ha peggiorato la prognosi e la mortalità dei ricoverati per Covid-19. Nel caso clinico discusso, l’inizio precoce della terapia sostitutiva renale e la prosecuzione delle sedute di CVVHDF anche al di fuori della rianimazione, in area clinica Covid, a carico dei nefrologi, sino a completa normalizzazione dei valori di funzione renale e insieme alla terapia medica di supporto, hanno consentito la risoluzione della patologia. L’attenzione ad evitare farmaci nefrotossici, a modulare la posologia dei vari antibiotici e antivirali per il valore di GFR, ad evitare l’utilizzo di mezzi di contrasto iodato ha contribuito a proteggere da un ulteriore danno renale indipendente.

Di grande impatto è stata, nell’emergenza, la collaborazione tra diverse figure professionali (rianimatori, nefrologi, infettivologi, infermieri della dialisi, della rianimazione ecc.) che hanno dovuto affrontare sfide emotive, gestionali, etiche e anche fisiche comprendenti la riorganizzazione dei reparti, dei turni, reperibilità e turni aggiuntivi, la scelta dell’autoisolamento dalle proprie famiglie, la condivisione di conoscenze e percorsi terapeutici.

 

 

Bibliografia

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Leptospirosi e rene: un caso clinico

Abstract

Descriviamo il caso clinico di un giovane paziente impiegato come bracciante agricolo che si presentava in pronto soccorso con febbre, cefalea, ematuria e peggioramento della funzione renale a cui si diagnosticava leptospirosi con interessamento renale. Il paziente si è presentato alla nostra attenzione lamentando dei sintomi del tutto aspecifici e la raccolta anamnestica è stata fondamentale per inquadrare il paziente, orientando verso una genesi infettiva della patologia in atto e consentendo l’esecuzione degli esami laboratoristici e di ricerca anticorpale adatti per formulare la diagnosi corretta di una patologia poco presente nel nostro paese.

Parole chiave: case report, leptospirosi, danno renale acuto, AKI

Introduzione

La leptospirosi umana è considerata una delle più diffuse e potenzialmente fatali zoonosi, è determinata da un batterio Gram negativo appartenente alla famiglia delle Spirochetales ordine Leptospiracee e si associa ad elevata morbilità e mortalità, in particolare nei pazienti di età superiore ai 60 anni [1]. 

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La gestione dei farmaci in corso di AKI in terapia intensiva: tra inefficacia e tossicità

Abstract

Le modificazioni della microbiologia e delle tecniche dialitiche in terapia intensiva hanno reso più complesso l’uso degli antibiotici in particolare nei pazienti nefropatici. Numerosi studi recenti hanno modificato la nostra conoscenza dell’utilizzo degli antibiotici nel paziente critico, mettendo in evidenza la frequenza dell’utilizzo improprio di questi farmaci con rischio sia di sottodosaggio e scarsa efficacia, sia di sovradosaggio con aumento della tossicità. Il rene, organo di escrezione e metabolismo, è potenziale bersaglio della tossicità farmacologica. La terapia sostitutiva extracorporea è anch’essa una possibile via di eliminazione dei farmaci. L’insieme di questi aspetti, che possiamo chiamare di nefrofarmacologia, rappresenta un argomento complesso e intrecciato di interesse multi specialistico in rapida evoluzione. Abbiamo qui rivisto una parte dell’ampia letteratura recente di interesse nefrologico sull’appropriatezza dell’uso degli antibiotici.

 

Parole chiave: AKI, antibiotici, CRRT, farmacocinetica

Introduzione

Il nefrologo ha quotidiana esperienza della difficoltà di prescrizione dei farmaci ai nefropatici. I reni rappresentano un a via privilegiata di eliminazione dei farmaci e nello stesso tempo sono un frequente bersaglio di tossicità. I problemi legati ai farmaci sono differenti nei diversi contesti clinici e le precauzioni, ormai codificate, che utilizziamo nella prescrizione dei farmaci nel danno renale cronico (CKD) stabilizzato non sono valide nei pazienti con una nefropatia acuta (AKD) [1], caratterizzata invece dall’evolutività, con una prima fase di danno renale in progressione (AKI) seguita o meno da un recupero funzionale e dal coinvolgimento frequente di altri organi ed apparati. 

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