Gli obblighi di sicurezza nelle strutture sanitarie

Abstract

Il Decreto legislativo n.81/2008 raccoglie le norme sulla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Prevede inoltre, in particolare a carico del datore di lavoro, l’obbligo di valutazione dei rischi, l’obbligo di nomina di un responsabile del servizio di protezione e prevenzione e di un medico competente per la sorveglianza sanitaria degli operatori e degli ambienti di lavoro, l’obbligo di formazione specifica di tutti gli operatori e dirigenti, dipendenti e convenzionati.
Nell’ambito delle strutture sanitarie si possono distinguere principalmente rischi per la sicurezza dell’operatore (infortuni sul lavoro) e rischi per la salute dell’operatore (malattie professionali). Ma l’art.43 del decreto prevede l’obbligo di garantire la sicurezza non solo degli operatori ma anche di altre persone presenti nei luoghi di lavoro, gli assistiti nel caso delle strutture sanitarie. La legge n.24/2017 ha infatti poi riaffermato all’art.1 che la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute.

PAROLE CHIAVE: sicurezza, assistenza sanitaria

Introduzione

La legge n.24/2017 afferma all’art.1 che la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute e si realizza mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie con il concorso del personale.

L’art. 5 della legge n.24/2017 prevede che i sanitari si attengano nell’esercizio professionale, salve le specificità del caso concreto, alle buone pratiche clinico-assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida accreditate presso l’Istituto Superiore di Sanità, oltre che alle leggi specifiche del settore.

Il D.Lgs n.81/2008 trova applicazione anche nelle strutture sanitarie per la tutela della sicurezza e della salute degli operatori e degli utenti nei luoghi di lavoro. Il medico titolare o responsabile di struttura si configura come datore di lavoro con gli obblighi di tutela connessi (artt. 17 e 18) a cui corrispondono obblighi per gli operatori dipendenti (art.20) e autonomi (art.21 e 26) ed i lavoratori eventualmente preposti alla vigilanza (art.19).
 

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Qualità di vita, ansia e distress nei pazienti affetti da malattia renale cronica: predialisi ed inizio del trattamento dialitico

Abstract

L’impatto psicologico della Malattia Renale Cronica (MRC) è ben noto e diversi sono i fattori che comportano una riduzione della qualità di vita, un aumento delle quote di ansia e di distress psicologico nei pazienti che ne sono affetti. L’intervento psicologico si sta sempre più consolidando all’interno dei Reparti di Nefrologia, ma la letteratura è carente riguardo le specificità dell’intervento psicologico, in particolare rispetto alla fase dialitica e predialitica. L’obiettivo dello studio è quello di individuare i momenti maggiormente critici per i pazienti dializzati in termini di ansia e distress ed indagare l’impatto della presa in carico medica nel periodo predialitico sulla qualità di vita. Lo studio ha carattere multicentrico, il campione è raccolto in tre Centri Dialisi: l’IRCCS San Raffaele, l’IRCCS Multimedica e l’A.O. Fatebenefratelli. Gli strumenti utilizzati sono il KDQOL-SF, specifico per la qualità di vita del paziente dializzato, PDI, per la valutazione del distress, STAI, per la valutazione dell’ansia. I dati evidenziano la presenza di un malessere psichico maggiore all’inizio del trattamento emodialitico ed una migliore percezione della qualità di vita in coloro che hanno avuto una presa in carico medica già nella fase predialitica rispetto a coloro che non l’hanno avuta. Tali risultati evidenziano l’importanza che assume dal punto di vista psicologico una presa in carico medica del paziente già nella fase predialitica e la strutturazione di interventi psicologici specifici per il periodo iniziale di trattamento sostitutivo.

Parole chiave: ansia, distress, intervento psicologico, pazienti dializzati, pre-dialisi, qualità di vita

 

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Soggetti aggregatori e spending review negli acquisti in sanità

Abstract

L’obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare il nuovo modello di centralizzazione degli acquisti in Italia a seguito dell’approvazione della Legge di Stabilità 2016 con particolare riferimento al settore sanitario. Il processo di revisione della spesa pubblica in Italia nel settore sanitario ha avuto, infatti, una decisa evoluzione con la legge di stabilità 2016, che ha introdotto l’obbligo per gli enti del Servizio sanitario nazionale di approvvigionarsi, per determinate categorie merceologiche del settore sanitario, avvalendosi, in via esclusiva, dei soggetti aggregatori. Il legislatore, che negli anni era principalmente intervenuto con misure di riduzione dei tetti di spesa per acquisti di beni e servizi o attraverso la rimodulazione dei corrispettivi, anche attraverso la previsione di un obbligo di rinegoziazione dei contratti di beni e servizi sanitari, al fine di garantire la effettiva realizzazione degli interventi di razionalizzazione della spesa mediante aggregazione degli acquisti di beni e servizi, ha previsto un modello di centralizzazione degli acquisti basato su un nuovo modello di governance a rete su più livelli, nazionale e regionale, che dovrebbe garantire un efficientamento dei processi di approvvigionamento. Il corretto funzionamento del modello di governance adottato può essere un importante volano di politica economica secondo l’idea di non spendere solo meno, ma spendere meglio, attraverso un processo di forte innovazione nella PA e di forte investimento in competenze, garantendo per quanto riguarda il settore sanitario una maggiore uniformità in termini di qualità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale.

Parole chiave: Public governance, Revisione della spesa, sistema sanitario nazionale, Soggetti aggregatori

 

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Documento guida per l’assistenza al fine vita

Abstract

In Italia è vacante la legge che norma il fine vita, il medico deve trarre insegnamento dalla giurisprudenza. di merito.

Presa come guida la Sentenza Suprema Corte Cassazione, 16/10/2007, n° 21748 è presentato un modulo pratico ed utilizzabile per il Paziente, per il Tutore ed il Medico che guida il percorso di assistenza del fine vita.

Il documento rispetta e tutela la volontà, la dignità e l’informazione del Paziente, si oppone agli accanimenti e conferma la sacralità della vita. Permette di registrare la cura dei sintomi che avvicinano la morte, pone il rapporto medico-paziente su valori di intelligenza e di fiducia.

Parole chiave: assistenza fine vita, sentenza cassazione 21748/2007

 

Premessa

Molte volte ho pensato a come desidero morire, sapendo che a tutti è impossibile conoscere data, luogo e modalità.

Io vorrei la mia morte così; ho cercato di renderla possibile ad altri.

  • Essere certo della diagnosi (sostengo che il “secondo parere” è un diritto per tutti, la medicina pubblica lo dovrebbe garantire a tutti).
  • Essere informato sulla prognosi in valori percentuali e di sopravvivenza per alimentare la speranza sempre.
  • Essere certo che chi mi fornirà assistenza è a conoscenza della legge e/o della giurisprudenza dello Stato in cui ho vissuto.
  • Scegliere il luogo, se possibile (ospedale, hospice, o casa).
  • Scegliere il medico di fiducia.
  • Sapere che al medico scelto è attribuita la responsabilità diretta della mia cura; questi si avvale di altri “consulenti”.
  • Avere vicino il fiduciario unico che controlli siano rispettate le mie volontà, scegliendo la persona che ho amato e mi ama.
  • Avere garanzia della terapia palliativa iniziata secondo il percorso che sarà documentabile in cartella clinica.
  • Avere sempre vita, fino a quando è presente vita di relazione.
  • Evitare tutti gli accanimenti terapeutici con dichiarazioni anticipate, in presenza di sintomi che minano la qualità della vita stabilita secondo i miei criteri.
  • Rendere utile il mio caso “unico” agli altri con una raccolta dei miei dati.
  • Avere tutto il percorso documentato.
  • Avere applicati i Diritti del malato terminale (allegati).

Nota “Per i credenti la vita non finisce con la morte, ma continua. É la morte che fa parte della vita.”

I punti sopra indicati riportano principi ed emozioni personali originanti dall’esperienza di 40 anni di attività in Nefrologia e dall’assistenza a migliaia di pazienti morti, sono privi di valore scientifico, ma seguono insegnamenti ricevuti dalla lettura della Sentenza Corte Suprema Cassazione del 16 ottobre 2007, n° 21748

Il nefrologo assiste i Pazienti per moltissimi anni, pare doveroso che lo stesso medico trovi un percorso razionale, vicino alla scienza, rigoroso alle leggi e al servizio dell’Uomo per il fine vita di coloro che ha assistito.

Il Documento il “Foglio della vita” cerca di soddisfare queste esigenze.

1) Percorso razionale. Il documento è steso come modulo, suscettibile di modifica o miglioramento, pertanto ha una propria razionalità di percorso ed è il punto di partenza per Paziente, medico e tutore.

2) Vicino alla scienza. Il nefrologo ha il compito, come tutti i medici, di dovere gestire il fine vita avvalendosi dello specialista in cure palliative, la terapia palliativa intesa come cura dei sintomi è reperibile nella letteratura e non necessita di ulteriori ricerche. Il documento fa riferimento ai sintomi che intervengono più frequentemente prima della morte.

3) Rispettoso delle le leggi. Il Medico deve rispettare le Leggi della Nazione in cui vive. In Italia non è presente legge sul fine vita. In vacanza di legge, i Medici debbono prendere insegnamento dalla Sentenza Suprema Corte Cassazione, 16/10/2007, n° 21748.

Il documento presentato riprende, seppure parzialmente, i punti della Sentenza. La Sentenza guida l’attività del medico nell’assistenza al fine vita.

4) A servizio dell’Uomo. Il documento pone al centro delle decisioni l’Uomo malato, di cui tutela la dignità, il diritto all’informazione e alle scelte.

Il documento non riprende volutamente temi etici e non utilizza calcolatori o “domande sorprendenti” privilegia l’intelligenza dell’Uomo, il rispetto della volontà del Paziente e la sacralità della vita.

Il protocollo è diviso in quattro parti.

  1. Documento per il Paziente è il documento che deve essere firmato dal Paziente, in qualunque stato di salute o malattia. Deve essere letto e firmato (Allegato 1).
  2. Documento per il Tutore o Fiduciario. è il documento che deve essere firmato dal tutore. Deve essere letto e firmato (Allegato 2).
  3. Documento per il Medico di fiducia. è il documento che deve essere firmato dal Medico di fiducia. Deve essere letto e firmato (Allegato 3).
  4. Documento per la cartella clinica della Struttura ove è in carico assistenziale il Paziente (Allegato 4).

Nei quattro documenti sono presenti parti comuni, sono le molte ripetizioni di citazioni della Sentenza della Corte Suprema Cassazione del 16 ottobre 2007, n° 21748.

Al fine di presentare un protocollo applicabile, pratico e scaricabile i quattro documenti sono presentati separatamente in formato PDF e sono i documenti che debbono essere presentati al Tutore, al Paziente e alla cartella clinica.

Ricopiamo, in continuo, solo la parte del Medico di fiducia nefrologo, lasciando alla facoltà del lettore, ai pazienti, ai possibili Tutori l’apertura degli altri documenti.

L’Autore giudica necessaria al Medico la lettura del 1 Documento per il Paziente ed il 4 Documento per cartella clinica.

Articolo 32 della Costituzione italiana

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Estratti dalla Sentenza Suprema Corte di Cassazione 16 ottobre 2007, n° 21748

Obblighi del medico

La vita è indispensabile presupposto per il godimento di qualunque libertà dell’uomo e, proprio per questo, non può ammettersi che la persona alieni ad altri la decisione sulla propria sopravvivenza o che il diritto si estingua con la rinuncia. Il diritto alla vita, proprio perché irrinunciabile ed indisponibile, non spetti che al suo titolare e non possa essere trasferito ad altri, che lo costringano a vivere come essi vorrebbero

Non è la vita in sé, che è un dono, a potere essere mai indegna; ad essere indegno può essere solo il protrarre artificialmente il vivere, oltre quel che altrimenti avverrebbe, solo grazie all’intervento del medico o comunque di un altro, che non è la persona che si costringe alla vita.

Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza.

É costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.

Il modo normale di garantire l’individualità di un uomo è l’autodeterminazione; ma quando l’autodeterminazione non è più possibile, perché la persona ha perso irreversibilmente coscienza e volontà, bisogna perlomeno assicurarsi che ciò che resta dell’individualità umana, in cui si ripone la dignità di cui discorrono gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione, non vada perduta. E tale individualità andrebbe perduta qualora un’altra persona, diversa da quella che deve vivere, potesse illimitatamente ingerirsi nella sfera personale dell’incapace per manipolarla fin nell’intimo, fino al punto di imporre il mantenimento di funzioni vitali altrimenti perdute.

Il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. In questo si rispecchiano l’idea di non accanirsi in trattamenti futili, di sospendere e non erogare, a titolo di ostinazione irragionevole, trattamenti inutili, sproporzionati o non aventi altro effetto che il solo mantenimento artificiale della vita.

Certamente non ci si deve permettere, neppure ed anzi a maggior ragione per chi sia incapace o abbia minorazioni, di distinguere tra vite degne e non degne di essere vissute. Il che non toglie, tuttavia, che vi siano casi in cui, per il prolungamento artificiale della vita, non si dia riscontro di utilità o beneficio alcuno ed in cui, quindi, l’unico risultato prodotto dal trattamento o dalla cura è di sancire il trionfo della scienza medica nel vincere l’esito naturale della morte. Tale trionfo è però un trionfo vacuo, ribaltabile in disfatta, se per il paziente e la sua salute non c’è altro effetto o vantaggio.

Si sostiene che, quando il trattamento è inutile, futile e non serve alla salute, sicuramente esso esula da ogni più ampio concetto di cura e di pratica della medicina, ed il medico, come professionista, non può praticarlo, se non invadendo ingiustificatamente la sfera personale del paziente.

Non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche.

Rifiuto delle cure

Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.

La soluzione, tratta dai principi costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di astenersi da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del paziente, anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma nelle prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art. 35, «in presenza di documentato rifiuto di persona capace», il medico deve «in ogni caso» «desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».

Tali limiti sono connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extra giuridiche, quindi squisitamente soggettive.
Il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza.

Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.

Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.

Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’alleanza terapeutica che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.

Lo si ricava dallo stesso testo dell’art. 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte costituzionale sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996).

É costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.

Potere di rappresentanza tutore o fiduciario

Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.

La funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi:

  • quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione (tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso) sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona;
  • quando la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.

Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve dare incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa.

Da quanto sopra deriva che, in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell’autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza – proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità – si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita.

Il quadro compositivo dei valori in gioco fin qui descritto, essenzialmente fondato sulla libera disponibilità del bene salute da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di volere, si presenta in modo diverso quando il soggetto adulto non è in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza.

In caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono l’effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente.
E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l’urgenza dell’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati.

Assodato che i doveri di cura della persona in capo al tutore si sostanziano nel prestare il consenso informato al trattamento medico avente come destinatario la persona in stato di incapacità, si tratta di stabilire i limiti dell’intervento del rappresentante legale.

Ad avviso del Collegio, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non al posto dell’incapace né per l’incapace, ma con l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.

Non v’è dubbio che la scelta del tutore deve essere a garanzia del soggetto incapace, e quindi rivolta, oggettivamente, a preservarne e a tutelarne la vita.

Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l’idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte.

Nella sentenza 17 marzo 2003, il Bundesgerichtshof – dopo avere premesso che se un paziente non è capace di prestare il consenso e la sua malattia ha iniziato un decorso mortale irreversibile devono essere evitate misure atte a prolungargli la vita o a mantenerlo in vita qualora tali cure siano contrarie alla sua volontà espressa in precedenza sotto forma di cosiddetta disposizione del paziente (e ciò in considerazione del fatto che la dignità dell’essere umano impone di rispettare il suo diritto di autodeterminarsi, esercitato in situazione di capacità di esprimere il suo consenso, anche nel momento in cui questi non è più in grado di prendere decisioni consapevoli) – afferma che, allorché non è possibile accertare tale chiara volontà del paziente, si può valutare l’ammissibilità di tali misure secondo la presunta volontà del paziente, la quale deve, quindi, essere identificata, di volta in volta, anche sulla base delle decisioni del paziente stesso in merito alla sua vita, ai suoi valori e alle sue convinzioni.

Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.

La tragicità estrema di tale stato patologico – che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano – non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il Servizio sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte. La comunità deve mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure e i presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive. Lo reclamano tanto l’idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l’altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili.

Dignità e qualità della vita

Ma – accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza – c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno.

Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta.
All’individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l’ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale.

Ad avviso del Collegio, la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione – tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso – sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona.

Per altro verso, la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Il tutore ha quindi il compito di completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace; e, in questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e più genuina voce.

Da quanto sopra deriva che, in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell’autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza – proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità – si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita.

Nota. Il presente documento è costituito da Estratti di sentenza, pertanto, non corrisponde in toto alla Sentenza Suprema Corte di Cassazione 16 ottobre 2007, n° 21748, la cui conoscenza può derivare esclusivamente dalla lettura completa della Sentenza stessa.

La sedazione palliativa profonda continua nel Parere approvato dal Comitato nazionale per la bioetica italiano il 29 gennaio 2016 (sedazione palliativa profonda)

Abstract

L’Autore analizza criticamente il Parere espresso dal Comitato nazionale per la bioetica italiano sulla sedazione palliativa profonda. Ne esamina, in particolare, i punti di forza e le zone d’ombra che testimoniano le incrostazioni ideologiche del Parere che, ancora una volta, si oppongono al diritto che ha ogni persona umana di poter morire con dignità.

Parole chiave: autonomia, dignità, fine della vita, sedazione palliativa profonda continua

 

Introduzione

Il Comitato nazionale per la bioetica (CNB) ha, di recente, nuovamente affrontato il tema del fine della vita e lo ha fatto con il parere Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte approvato, non all’unanimità ma con due pareri contrari espressi da esponenti del mondo della laicità, il 29 gennaio 2016. Questo tema, segnalato inizialmente all’attenzione del CNB da Francesco d’Agostino, è stato poi oggetto di uno specifico quesito posto al Comitato stesso dall’On. Paola Binetti la quale, prendendo le mosse dalla legge 15 marzo 2010, n. 38 che avrebbe dovuto (il condizionale è d’obbligo vista la cronica situazione a macchia di leopardo della realtà italiana) garantire l’accesso alle cure palliative ed alla terapia del dolore, ha chiesto “prima che si ritorni formalmente a calendarizzare disegni di legge che oltre a parlare del cosiddetto testamento biologico avanzino precise richieste in senso eutanasico”: (1) di “chiarire i confini che separano la somministrazione di farmaci, così come previsto dalla legge 38, per un pieno controllo del dolore, spinto fino alla sua soppressione, da possibili forme di eutanasia che puntano invece in modo chiaro e diretto alla soppressione del malato”; (2) di precisare “le ragioni etiche della sedazione profonda con particolare attenzione al consenso informato del paziente e alle modalità decisionali quando il consenso non sia stato o non possa essere espresso”.

Queste le premesse che, dopo alcune audizioni, hanno poi motivato il CNB ad approvare il Parere di cui si vogliono qui esaminare le (poche) luci e le (molte) zone d’ombra per poi provare a trarne un bilancio complessivo volto a verificare se le argomentazioni del Comitato siano o meno condivisibili e, soprattutto, se esse siano o meno in grado di dare una risposta ai malati bisognosi di cure appropriate nel fine della vita (per il controllo il dolore) e qualche soluzione pratica ai molti problemi con cui i medici si confrontano in queste non rare situazioni, senza temere le ripercussioni a livello giudiziario delle loro scelte (astensive e non).

Le raccomandazioni del CNB sulla sedazione palliativa profonda continua

Il parere del CNB, oltre all’introduzione del Suo presidente, consta di sette brevi paragrafi, di due appendici (una normativa, l’altra tecnico-medica), di una postilla di Carlo Flamigni, di una dichiarazione che spiega il voto contrario di Demetrio Neri e del quesito posto al Comitato stesso dall’On. Paola Binetti.

Nel primo paragrafo (Premessa) il CNB, dopo aver ricordato l’”impatto decisivo sulla modifica della normativa che regola in Italia le cure palliative e la terapia del dolore” impressa dal parere La terapia del dolore (2001), fa uno sfumato cenno alla eterogenea situazione italiana che emerge dal Rapporto al Parlamento sullo stato di attuazione della legge n. 38/2010 per l’anno 2015 e al sotto-utilizzo di farmaci oppioidi nel nostro Paese pur dando atto che, nel 2014, l’Organizzazione mondiale della sanità ha impegnato tutti gli Stati a sviluppare le cure palliative[1]: ritenute “un diritto umano fondamentale” esistendo 19 milioni di adulti che, ogni anno, ne avrebbero necessità [2] a causa dell’intervenuto cambiamento dello scenario epidemiologico registrato in tutti i Paesi industrializzati. Questi accenni, ove si condivida la loro pertinenza con il tema trattato, richiedevano però di essere meglio sviluppati perché l’ingiustizia (e la disuguaglianza) nei livelli di accesso alle prestazioni è un capitolo di straordinaria importanza nel dibattito bioetico contemporaneo; che avrebbe richiesto una maggior attenzione da parte del CNB il quale, in questa parte del Parere, afferma testualmente che “la sedazione profonda ha caratteristiche specifiche rispetto alle cure palliative ed alla terapia del dolore” che sarà poi smentita più avanti, quando nella parte dedicata al consenso, il Comitato afferma che la sedazione profonda è “parte della medicina palliativa”. Essendo chiaro che ogni forma di cura dedicata all’essere umano ha caratteristiche specifiche (proprie) le quali, tuttavia, non possono portare alla scomposizione delle aree disciplinari se non a costo di produrre pericolosissime e difficilmente trattabili fratture.

Il secondo paragrafo (Terminologia e definizione della pratica) si concentra sui termini e sul loro significato. Precisato che l’oggetti del Parere è “la sedazione profonda, continua, nell’imminenza della morte”, il CNB chiarire l’equivocità del termine sedazione terminale proponendo il suo definitivo abbandono linguistico e la sua sostituzione con sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte. Rappresentandola “come la somministrazione intenzionale di farmaci ipnotici, alla dose necessaria richiesta, per ridurre il livello di coscienza fino ad annullarla, allo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo, senza controllo, refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile per il paziente, in condizioni di malattia terminale inguaribile in prossimità della morte”: con la conseguenza che la terminalità, inizialmente bandita dal Comitato, fa la sua improvvisa ricomparsa rientrando sul palcoscenico attraverso la finestra della situazione clinica (malattia).

Un’ulteriore precisazione semantica operata dal CNB riguarda la refrattarietà del sintomo che deve essere verificata “valutando che: a) il suo controllo non possa avvenire attraverso un dosaggio adeguato e proporzionato di farmaci (il più basso livello di sedazione in grado di risolvere il sintomo refrattario, con le minime conseguenze collaterali negative); b) ogni diverso o ulteriore intervento terapeutico non farmacologico non è in grado di assicurare entro un tempo accettabile sollievo al paziente o un sollievo tale da rendere tollerabile la sofferenza”. La proposta del CNB, in piena sintonia con quella espressa dalla Società italiana di Cure palliative[3], è convincente anche se qualche imbarazzo pone l’affermazione che “lo stato di refrattarietà di un sintomo deve essere accertato e monitorato da una équipe esperta in cure palliative di cui facciano parte medici, infermieri, psicoterapeuti”. Se l’expertise in cure palliative è fuori discussione, sostenere che essa richiede la copresenza di medici, infermieri e psicoterapeuti (rectius, psicologi visto che la psicoterapia è una disciplina autonoma) è una affermazione che ci fa capire come il CNB voglia mantenere una congrua distanza di sicurezza dalla realtà della sanità pubblica italiana che, purtroppo, risente delle misure di spending review, del decremento delle risorse umane e dell’intervenuto razionamento dei servizi.

Dopo tali precisazioni linguistiche, due sono le questioni nodali affrontate in questa parte del Parere dal CNB.

La prima prova a dare una risposta ad uno dei due quesiti posti dall’On. Binetti indicando quali sono le “circostanze” che devono essere contestualmente presenti “per legittimare eticamente il trattamento”: indicate dal Comitato nel consenso informato del paziente, in una malattia inguaribile giunta ad uno stadio avanzato, nella morte imminente attesa entro poche ore o pochi giorni e nella presenza di uno o più sintomi refrattari o di eventi acuti terminali con sofferenza intollerabile per il paziente. Solo in presente di queste situazioni cardine, il Comitato ritiene “si possa adottare un protocollo di sedazione profonda e continua” ma non in altre in cui essa diventerebbe una pratica medica moralmente illecita.

La seconda riguarda, invece, i rapporti e le relazioni tra la sedazione profonda e la sospensione delle cure di supporto “che costituiscono la continuità terapeutica propria dell’assistenza al malato terminale, garantita attraverso la continuità delle funzioni vitali sostenute artificialmente (es. ossigenoterapia, idratazione, alimentazione artificiali, ecc.)”. Ritiene, al riguardo, il CNB che non esiste una regola generale, che “si dovrà giudicare caso per caso, tenuto conto che molte di queste cure sono sintomatiche e necessarie per alleviare la sofferenza” e che, nel caso di persone che si trovano nella imminenza della morte, “la nutrizione/idratazione artificiale non trova indicazione per le gravi concomitanti alterazioni del metabolismo”. Queste scelte suscitano, naturalmente, un profondo imbarazzo a chi di noi ha esperienza del fine della vita e della morte accertata secondo le modalità di legge. Affermare che le misure di sostegno vitale devono essere garantite a pazienti che dovranno essere sedati nelle condizioni cardine indicate dal Comitato, sostenendo che esse hanno una finalità antalgica, è una vera e propria assurdità visto che la sedazione profonda continua si propone proprio lo scopo di annullare la coscienza della persona e – dunque – la possibilità di provare dolore. A meno che il CNB, con questa contraddizione, abbia voluto guardarsi dai pericoli dell’anticipazione della morte laddove non si condivida l’idea che la sedazione profonda e continua non modifica in alcuna maniera la naturalità della cascata biologica. E distinguere da questi trattamenti di sostegno vitale l’alimentazione e la nutrizione forzata che, a giudizio del  CNB, sembrano non farne parte ed essere un qualcosa di diverso dalle misure di prosecuzione della vita. Convince, invece, l’idea espressa in questo parte del Parere dal CNB che la persona sedata debba essere monitorata periodicamente e che il grado di sedazione ottenuta debba essere annotato in Cartella (o scheda) clinica come impone, peraltro, l’art. 7 della legge n. 38/2010.

Nel brevissimo paragrafo 3, contestato decisamente da Demetrio Neri che in sede di discussione ne aveva chiesto l’eliminazione, il CNB affronta le relazioni tra la sedazione profonda continua e l’eutanasia. La premessa da cui muove il Comitato non convince pur nella sua elegante artificialità: in essa si precisa che il CNB “non intende […] affrontare il problema etico che suscita l’eutanasia o il suicidio assistito o l’omicidio del consenziente” limitandosi ad affrontare, “limitatamente al piano descrittivo, se l’uso di farmaci sedativi fino alla perdita dello stato di coscienza per dare sollievo a sofferenze insopportabili nelle ultime ore o giorni di vita (sedazione profonda continua nell’imminenza della morte) possa essere considerato atto eutanasico”. La posizione del Comitato è che sedazione profonda ed eutanasia sono da collocare, sul piano almeno descrittivo, su piani diversi come confermerebbero i dati della letteratura internazionale[4] [5] avendo gli stessi dimostrato che la durata media della sopravvivenza dei pazienti sedati in fase terminale non differisce da quella dei pazienti non sedati [6] [7] anche se, sulla questione, Carlo Flamigni ha espresso il suo dissenso. Sul piano almeno descrittivo (senza così discutere il giudizio di valore che dovrebbe essere il nucleo centrale di ogni deliberazione etica), la sedazione è, così, “ un atto terapeutico che ha come finalità per il paziente alla fine della vita quella di alleviare o eliminare lo stress e la sofferenza attraverso il controllo dei sintomi refrattari, mentre l’eutanasia […] consiste nella somministrazione di farmaci che ha come scopo quello di provocare con il consenso del paziente la sua morte immediata”: la prima non abbrevia la vita, la seconda la seziona bruscamente, interrompendola.

Nel paragrafo 4, il CNB esamina la questione del consenso (non affrontata dalla legge n. 38/2010) con uno sviluppo argomentativo complessivamente poco incisivo, spesso confuso e che conferma la decisione del Comitato di voler mantenere un’ampia distanza di sicurezza dalla pratica clinica. La partenza da cui muove il CNB è, sul piano almeno teorico, convincente anche se con alcune specifiche su cui ritornerò più avanti: anche per “la sedazione profonda, parte della medicina palliativa, non si può rinunciare ad un modello di approccio terapeutico incentrato sul paziente come protagonista delle cure e il consenso informato appare, dunque, un elemento fondamentale del rapporto di cura”. Il principio personalistico dell’autonomia della persona viene, così, confermato dal CNB come il cardine su cui poggia la relazione di cura anche se molte sono le zone d’ombra e le incertezze che si colgono nello sviluppo argomentativo. Se è, infatti, condivisibile l’affermazione che il consenso non può esaurirsi nella firma di un documento cartaceo, ampie perplessità suscitano due affermazioni del Comitato: che il “processo decisionale va declinato nell’ambito dell’alleanza terapeutica, tra paziente/famiglia del paziente/personale sanitario e tale alleanza dovrebbe condurre verso un consenso non solo informato, ma anche condiviso”; e che “più che l’acquisizione del consenso a specifici trattamenti antidolore, si ritiene fondamentale il raggiungimento di un accordo di fondo, ovvero la ricerca di una fiducia condivisa sulla base di alcuni desideri, scelte di vita, valori manifestati dal paziente e maturati nell’ambito della relazione con i curanti”. Un consenso condiviso con i familiari della persona, garantito “da una pluralità di voci in una decisione partecipata, e presa al termine di una esauriente informazione sulla gravità evolutiva dei sintomi della fase terminale, sugli obiettivi e sulle modalità della sedazione, fornendo spiegazioni sia sul piano clinico che etico” urta, infatti, l’autonomia della stessa laddove si consideri l’ampiezza dei condizionamenti parentali che incidono sulle nostre scelte biografiche e le scomposizioni identitarie che si verificano sempre nel caso (purtroppo frequente) di opinioni antitetiche. Peraltro, confondere la relazione fiduciaria con un “accordo di fondo” riapre la porta al paternalismo medico come ha giustamente evidenziato Demetrio Neri motivando il suo parere negativo e non risolve certo le difficoltà pur ammesse dal Comitato. Al di la di ciò, il CNB dimostra avere consapevolezza sul diritto della persona a rifiutare la sedazione profonda condividendo l’idea che al dolore ed alla sofferenza “il singolo possa attribuire un senso religioso o comunque un significato personale o che voglia conservare un contatto con il mondo che lo circonda o vivere fino in fondo anche il momento della morte”, che il diritto a non soffrire valga anche per il paziente “che rifiuta un trattamento o più trattamenti sanitari o rifiuta di fare uso di tecniche strumentali di sostegno delle funzioni vitali” e che sia davvero difficile accertare la reale volontà ed i desiderata della persona nell’imminenza della morte quando, di norma, alla stessa sono stati somministrati principi attivi (analgesici narcotici) che interferiscono sempre la moral agency. Che non può essere confusa, come fa purtroppo il Comitato, con la capacità di intendere e di volere perché, come si vedrà, questa capacità e l’agency (o la competence) non sono un’endiadi.

Discutibile appare poi l’idea che nel caso di compromissione di questa capacità il ruolo vicario possa essere esercitato dai familiari della persona che, come si sa, non hanno alcun potere di rappresentanza come il mondo medico continua purtroppo ostinatamente a ritenere..

Le oggettive difficoltà del processo decisionale attuato nell’imminenza della morte quando la persona è logorata da sintomi refrattari al trattamento medico tradizionale sono riconosciute dal CNB ma non affrontate se non attraverso il richiamo alle dichiarazioni (rectius, direttive) anticipate di trattamento anche alla luce della recente presa di posizione assunta dal Consiglio d’Europa nella Guida al processo decisionale nell’ambito del trattamento medico nelle situazioni di fine vita (DH-BIO, 2005), ed a prescindere, dunque, dal loro riconoscimento giuridico che registra in Italia un colpevole ritardo. Dichiarazioni anticipate di trattamento che il Comitato confonde però con la pianificazione anticipata delle cure anche sulla scia di un recente documento approvato dalla Società Italiana di Cure Palliative [8]. Perché, come si vedrà, anche la volontà anticipata e la pianificazione anticipata delle cure non sono un’endiadi.

Superflua sembra essere poi l’affermazione del CNB sull’esigenza che “la decisione di ricorrere alla sedazione deve pur sempre rimanere una decisione terapeutica condivisa dai sanitari che, pertanto, se ne assumono le relative responsabilità professionali al pari di tutte le altre decisioni terapeutiche prese nel corso dell’assistenza” che, tuttavia, trascura di affrontare la questione del come si debbano affrontare e dirimere le sempre possibili posizioni discordi.

Nel paragrafo 5, il CNB affronta la delicatissima questione della sedazione profonda nel minore dimostrando consapevolezza sul fatto che, nel bambino, “la fase di supposta terminalità non sempre è identificabile con certezza” e che il dolore, in questi pazienti, può condizionare negativamente l’aspettativa di vita. Da ciò l’esigenza, condivisibile, di trattare sempre il dolore in maniera appropriata ed in sicurezza con terapie che, purtroppo, sono spesso non label e riguardo alle quali era auspicabile una decisa presa di posizione da parte del Comitato per le molte e controverse questioni disattese ed irrisolte; anche perché, su questa delicatissima questione, non esiste purtroppo specularità tra le regole cautelari giuridiche e quelle imposte dalla deontologia medica che, come è noto, impone la raccolta del consenso in modalità scritta. Riguardo al processo decisionale nel minore, il Comitato raccomanda il suo costante coinvolgimento attivo auspicando, nell’ipotesi in cui la sedazione profonda sia rifiutata dai genitori, il ricorso al Comitato etico pediatrico locale trascurando, però, che questa è una realtà poco diffusa a livello locale e che l’interesse del minore deve essere comunque perseguito avvalendosi, doverosamente, della competente Autorità giudiziaria. Come conferma peraltro l’art. 37 del Codice di deontologia medica; sempre che, naturalmente, la sedazione profonda sia un trattamento proporzionato che persegua il best interest del minore e non un rimedio di comodo per sopire le coscienze professionali e genitoriali.

Nel paragrafo 6, il CNB affronta il tema dell’Hospice e quello della formazione professionale auspicando che la formazione del personale dedicato alle cure palliative “dovrebbe incoraggiare approcci interdisciplinari collegando scienze umane e medicina e favorendo lo sviluppo di competenze etiche”. Perché la dimensione delle cure palliative si confronta “con i tradizionali principi etici che guidano le dimensioni cliniche: non maleficienza, beneficienza, consenso informato, equità” nella dichiarata consapevolezza “che i problemi di ordine etico, deontologico e sociale sono tanto più delicati e complessi quanto più si ha a che fare con persone fortemente vulnerabili che stanno tra la vita e la morte”.

Nel paragrafo 7, il CNB formula, infine, le nove Raccomandazioni finali che sintetizzano, peraltro, quanto già in precedenza affermato.

Note critiche al Parere del CNB

C’è subito da chiedersi se il Parere recentemente approvato dal Comitato nazionale per la bioetica sia un (dotto) “escamotage” che “con ammiccante ipocrisia […] consente a molti medici che operano nelle istituzioni di terapia intensiva di poter lavorare senza temere l’intervento della giustizia” come affermato da Carlo Flamigni in sede di postilla o se, al contrario, esso sia un’opportunità che, nella condivisione generale, consenta di fare davvero un passo in avanti a garanzia della raggiunta maturità della cura.

Il mio pensiero è che il Parere, pur esplorando una questione davvero complessa – vorrei dire quasi di frontiera – non affronta volutamente le molte questioni controverse lasciando irrisolte le incertezze di chi si trova quotidianamente ad affrontare le ampie zone d’ombra del fine della vita e della dignità della morte. Che, anzi, prendono la forma di un cono d’ombra ancora più ampio soprattutto perché il CNB dimostra, ancora una volta, di voler osservare da lontano le questioni difficili della pratica clinica mantenendo una prudente distanza di sicurezza. Scontentando però alla fine tutti, senza dimenticare i molti di noi che guardano ancora con fiducia al CNB per avere chiarezza sull’eticità dei comportamenti professionali sapendo cogliere le opportunità offerte dai valichi di frontiere che si sono progressivamente creati tra l’etica ed il diritto: funzionali ad entrambi perché se l’etica chiede al diritto il suo legittimo riconoscimento, il diritto chiede contestualmente ad essa l’osservanza consapevole (non supina) dei suoi obblighi e dei suoi vincoli.

Spiego le ragioni della mia delusione e del mio imbarazzo contestualizzandoli non già in astratto ma a partire dalla realtà italiana per come la stessa è stata di recente fotografata [9] (full text) in un’indagine trasversale condotta su 8.950 medici ospedalieri di 14 province diverse. L’indagine, finalizzata ad indagare l’atteggiamento dei medici italiani nel fine della vita, ha confermato l’alta prevalenza di pazienti che muoiono dopo essere stati sedati profondamente pur avendo evidenziato che scelte cliniche tra di loro molte diverse possono convergere sotto la stessa etichetta: essa ha, infatti, dimostrato che, sul totale dei 1.855 decessi segnalati dagli intervistati, il 79,2% degli stessi erano stati classificati come morti previste, che il 18,2% di questi decessi si era verificato in sedazione profonda praticata prevalentemente su indicazione dell’anestesista e che nell’8% dei casi la morte si era verificata a latere del brusco incremento del dosaggio degli oppioidi nell’ultimo giorno di vita somministrati al paziente non con finalità eutanasica ma dopo la sospensione delle terapie di sostegno vitale decisa dai familiari della persona non più competence.

La mia prima critica muove dalla scelta dei criteri operata dal CNB a qualificare l’eticità della sedazione continua e profonda. Perché, se si può essere d’accordo sull’esistenza di una malattia inguaribile giunta oramai in fase avanzata e con la presenza di uno o più sintomi refrattari alle cure mediche tradizionali, grande imbarazzo suscita il richiamo all’imminenza della morte: imminenza circoscritta dal Comitato addirittura a poche ore o a pochi giorni (ma quanti e con quale limite?). Perchè questo richiamo temporale è (a)tecnico non esistendo, al momento, nessun criterio scientifico di certezza che è in grado di prospettare come imminente la realtà della morte (come ha giustamente osservato Carlo Flamigni) e perché, anche laddove ne disponessimo, un tale criterio di subordinazione cronologica per iniziare la sedazione continua profonda è destinato a creare una irragionevole frattura tra chi è nell’imminenza della morte e chi non lo, pur essendo comunque affetto da una malattia inguaribile e con una non trattabile espressività clinica. Questa previsione, oltre che (a)tecnica) e così foriera di una profonda disuguaglianza considerato che, come sembra anche ammettere anche il CNB, il trattamento del dolore è un diritto inalienabile dell’essere umano che può incrinare e minare la sua stessa dignità. Non è così accettabile indicare un limite artificiale (disumano) alla progressione della malattia inguaribile per dar inizio alla sedazione palliativa a patto di non discriminare gli esseri umani ed a patto di voler proseguire su quella strada della cura che si confronta con la nostra stessa identità di genere: farlo significa disprezzare la persona e renderla ancor più vulnerabile rispetto alla sua umana vulnerabilità storicizzata da ogni malattia inguaribile.

La seconda critica che devo muovere al CNB riguarda l’aver confuso le dichiarazioni anticipate di trattamento con la pianificazione anticipata delle cure indicate come se le stesse fossero un’endiadi. Perché si tratta di realtà diverse pur essendo interferite dalle tante insufficienze che attraversano i diversi modelli antropologici su cui può essere fondata la relazione di cura.

Se è vero, infatti, che il paternalismo medico ha qualche indiscutibile peccato originale, altrettanto vero è che il modello che afferma la supremazia del principio di autonomia della persona finisce con lo spostare le asimmetrie e le solitudini, senza però comporle e risolverle. Con un ulteriore pericolo insito in questo modello rinvigorito dall’avvenuta costituzionalizzazione dei diritti inviolabili dell’essere umano: quello di convincere il medico ad agire comportamenti burocraticamente poco virtuosi, realizzati al di fuori degli standard ottimali della relazione dialogica a e con l’obiettivo di non avere/evitare guai. Pur convenendo sul fatto che il nostro ordinamento sancisce il legittimo diritto della persona umana di rifiutare un trattamento sanitario salvo le riserve di legge (artt. 13 e 32 Cost.), ciò non significa che esso possa essere preteso dalla persona o da chi per essa al di fuori (ed in spregio) delle prassi che qualificano il prudente esercizio dell’arte della cura ed il diligente rispetto delle sue regole cautelari. Regole che devono essere rispettose degli standard scientifici riconosciuti dalla comunità professionale e saper conto del principio di giustizia distributiva ; valutandone, dunque, l’impatto sulla collettività e sulla sostenibilità dei costi se si vuole, naturalmente, riconoscere a questo principio-cardine dell’etica medica il suo più autentico significato pratico. Con la conseguenza che ciò che è giusto e beneficiale fare sottostà a precise regole di comportamento che devono saper bilanciare tra loro questi principi senza riconoscere all’uno o all’altro il primato ed una supremazia per così dire dal carattere egemone. Anche se autorevoli interpreti del liberalismo politico [10] e [11] hanno enunciato una teoria della giustizia affermando la priorità del giusto sul buono in una prospettiva deontologica di matrice kantiana: con la conseguenza che le sue esigenze prevalgono su tutti gli altri interessi e che il bene viene subordinato dal diritto che ne fissa anche i limiti.

Se è, dunque, la persona l’indiscusso protagonista di ogni scelta nel campo della cura, questa libertà non può essere né illimitata né incondizionata perché il diritto al rifiuto non può trasformarsi nel diritto a ricevere quelle cure scientificamente non validate e, quindi, inappropriate e futili; anche a salvaguardia della responsabilità del medico, della sua indipendenza, integrità e libertà professionale che, come la libertà individuale, sono pure principi di rango costituzionale.

È in questa prospettiva che, a mio modo di vedere, occorre ripensare al paradigma fondante la relazione di cura, a patto che si voglia affrontare in termini compositivi le asimmetrie, i vuoti, i pieni, le solitudini e gli inevitabili conflitti che ne possono sempre conseguire. Nella direzione auspicata da quelle guideline internazionali che sviluppano il modello shared decision-making: un modello in cui le maturità dei protagonisti si incontrano non solo sul versante delle informazioni ma su quello biopsicosociale ed in cui la decisione condivisa non è il frutto di una mediazione o di un compromesso ma un vero e proprio riconoscimento reciproco in cui il sapere scientifico incrocia le diverse umanità, della persona, della sua famiglia ed anche del professionista. Con lo spostamento dell’asse comunicativo che risulta essere oggi prevalentemente focalizzato sui ‘pro’ e sui ‘contro’ di ogni trattamento, espressi, molto spesso, in termini di freddo rischio predittivo espresso in percentuale statistica. Di cui la persona viene informata non già con l’obiettivo di metterla nelle condizioni di assumere una decisione libera ed autentica ma, in non rari casi, allo scopo di precostituire quelle cause di giustificazione cui aggrapparsi nell’ipotesi malaugurata di comparsa di effetti collaterali gravi. In quella prospettiva difensivistica cui, purtroppo, si ispirano molti modelli di consenso (poco) informato che si chiede di documentare per iscritto, spesso anche alla presenza di testimoni.

Certo, il cambiamento di prospettiva che mi sento di proporre è radicale. Perché essa, sviluppata nel nostro Paese con la forma dell’empowerment, è centrata non già sui rischi ma sugli effetti del trattamento medico proposto sulla vita quotidiana della persona, mai fatta non di spesso ampi range numerici percentuali e di fredde statistiche alimentandosi di quelle piccole cose che ci consentono di essere persone umane in senso pieno, di sviluppare la nostra dimensione affettiva, personologica e relazionale e di percorrere la nostra parabola di vita che è costantemente messa alla prova dalla variabile tempo messo a nostra disposizione. In quella struttura identitaria che ci caratterizza e che ci fa essere persone umane uguali pur nella loro significativa diversità fenotipica (biografica) e che pretende il possesso di informazioni ampie, non già in astratto e fornite in prospettiva tecnica ed uni-direzionale dal professionista. Con l’obiettivo di tessere relazioni umane forti e significative per il tramite di quell’agire comunicativo [12] che deve saper guardare, lealmente e seriamente, ad una persona concreta e reale, inserita in quell’altrettanto ambiente reale che tesse la sua umanità, la sua identità, la sua biografia e la sua stessa dignità. Sapendo anche cogliere le opportunità che ci sono date dal processo della pianificazione anticipata delle cure discutendo, con la persona (e con chi ne ha eventualmente la rappresentanza giuridica), la possibile traiettoria della malattia ed i provvedimenti terapeutici che potranno essere presi in esame anche quando la stessa non avrà più voce. Per tenere comunque in considerazione i desideri, le sue preferenze e la sua volontà che, naturalmente, può riguardare anche la sedazione continua e profonda. Dunque, non con la sottoscrizione di uno tra i tanti documenti prestampati e disponibili anche on-line che fanno oramai parte di quel qualcosa ambiguamente noto come testamento biologico di cui qualche Autore ha segnalato l’esplicito fallimento [13]. Ma con la costruzione, graduale e progressiva, di una advance care planning che alcune guideline nordamericane indicano di documentare con l’utilizzo dei moduli MOLST (Medical Orders for Life Sustaining Treatment) non ancora entrati, purtroppo, in uso nel nostro Paese, che hanno il pregio di standardizzare le definizioni, di qualificare quei trattamenti che non possono essere genericamente definiti con la formula ambigua del sostegno vitale (o dei mezzi di prosecuzione artificiale della vita] e di seguire, passo a passo, il processo di formazione dinamica della volontà che può anche cambiare e modificarsi nel tempo.

Terza questione: confondere, come fa il CNB, la moral agency (o competence) con la capacità di intendere e di volere è un imperdonabile errore che deve essere segnalato auspicando un rapido intervento correttivo.

Capacità di intendere e di volere e moral agency sono, infatti, costrutti categoriali diversi, non sovrapponibili e non confondibili [14].

La prima è, infatti, un’attitudine della persona giuridica risultando dal combinato funzionamento di due diverse capacità: quella di intendere (di rappresentare il valore ed il disvalore giuridico delle azioni) e quella di volere, di determinarsi, cioè, in modo coerente con le rappresentazioni mentali: una capacità, la prima, di carattere sostanzialmente razionale ed una capacità, la seconda, di mantenere saldo il controllo razionale sulle emozioni, sui sentimenti e sulle passioni per agire comportamenti ritenuti doverosi (e legittimi) dall’ordinamento. Pacificamente, essa presuppone un mondo di obblighi fissati e predeterminati dall’ordinamento giuridico che fornisce un insuperabile (tassativo) elenco delle infrazioni e delle sanzioni previste nell’ipotesi di una loro violazione. Da ciò una libertà di azione limitata e condizionata dalla lex poli che è il tessuto vitale all’interno del quale prende forma e dimensione la capacità di intendere e di volere. Capacità che è così chiamata a confrontarsi con questo mondo esterno, popolato da libertà di tipo sostanzialmente negativo, che vive, in questa prospettiva, indipendentemente da ogni nostra biografia personale, dai nostri valori di riferimento, dai principi educativi che ci sono stati dati, dalle attese, dai nostri desideri, dalla parabola di vita che ciascuno di noi ha scelto responsabilmente di percorrere, dalla nostra umanità identitaria e, in ultima analisi, dalla nostra stessa idea di dignità. In termini ancor più ampi, dalla nostra memoria personale e dalla promessa che ciascuno di noi storicizza in ogni scelta di vita; da una biografia identitaria che è pur fatta di carne, di umanità, da un ‘io’ irripetibile che si confronta con il ‘noi’ delle relazioni personali e dei nostri affetti o, con una parola spesso abusata, da una coscienza individuale continuamente lacerata, quotidianamente e faticosamente ricostruita per dare ad essa una qualche forma di coerenza: cosa che richiede l’integrità della memoria, di ricordare ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare nel nostro arco di vita per realizzare, di conseguenza, quei progetti che ci siamo dati come obiettivo da realizzare. Anche se quest’idea può essere considerata alla sola condizione (teorica) che la parabola di vita sia di tipo lineare e che la nostra vicenda umana non sia interferita da difetti o rotture che incidono la nostra percezione del sé e quell’identità narrativa che è la base di ogni progetto di vita.

In questa chiave interpretativa, la persona umana capace di intendere e di volere è una maschera che l’ordinamento giuridico disumanizza proprio riguardo ai principi ed ai valori personali ponendola in relazione ad una sola parte del mondo esterno: quella della legalità e dell’ordine costituito che, naturalmente, tiene in principale conto gli interessi comuni e quelli collettivi. E non certo in modalità soft viste le sanzioni previste dall’ordinamento per ogni nostra infrazione alla legge scritta, finalizzate, evidentemente, a far soffrire il colpevole per la colpa commessa ma con una responsabilità, per così dire, ridotta ed amputata, considerata nella sua sola prospettiva negativa; come impedimento che lo Stato di diritto impone a ciascun cittadino e che lo pone di fronte alla sola ed esclusiva violazione della norma.

Diversamente, la moral agency. Perché essa, al di là dei diversi orientamenti filosofici che pur ci sono, è un’attitudine della persona umana che chiama in causa le sue libertà positive che non sono né illi positive che non sono né illimitate nè incondizionate. Libertà che, pur condizionate dall’ordinamento, esprimono la capacità della persona di avere, oltre agli interessi critici, anche interessi di esperienza, di provare gioia e dolere, di avere sentimenti e di formulare giudizi di valore indipendentemente dalla loro coerenza sul piano della biografia personale. Assumendo decisioni che – diversamente dalla capacità di intendere e di volere che pur le condiziona attraverso i divieti e le sanzioni – supportano ogni nostro processo di individuazione e di coscientizzazione anche simbolica; con una espressione della libertà in direzione aperta, costruttiva e coerente con ciò che siamo, pur con i condizionamenti provenienti dal mondo esterno, dai legami sociali ed affettivi, nel rispetto dei nostri valori di riferimento e della nostra stessa idea di dignità. In una prospettiva ampia che, pur nel rispetto delle prescrizioni date dall’ordinamento, ci consente di esprimerci per ciò che siamo e di sviluppare gradualmente e progressivamente la nostra stessa identità e personalità. Lungo un arco di vita che non è quasi mai di tipo lineare, per le sue variabili cronologiche ed esperienziali ed all’interno del quale la persona umana sviluppa il suo processo di individuazione e di coscientizzazione; non solo per il tramite delle esperienze provenienti dal mondo sensibile ma, soprattutto, grazie alla memoria ed alla promessa. Perché la memoria ci consente di dare un sostegno all’identità personale nonostante le sue trappole ed i fenomeni di oblio che sono giunti al punto estremo di negare i crimini e le atrocità commesse contro l’umanità nel secondo conflitto bellico nei lager nazisti; e perché la promessa, nonostante i sempre possibili tradimenti, ci permette di rivolgere lo sguardo al futuro e di mantenere l’integrità di quel sé che si genera nella fedeltà alla parola data, nell’affidabilità che ci consegna a noi stessi in quella dimensione fiduciaria che ci riappacifica con la concezione agostiniana del tempo recuperandone, soprattutto, gli spunti non metafisici. Dato che la memoria crea sempre un ponte con il passato, mentre la promessa è la piattaforma e la base di lancio del futuro. In questa dimensione, straordinariamente umana, vitale, non astratta e non condizionata dai soli precetti prescrittivi deve essere collocata la moral agency della persona umana. Rappresentando, essa, la capacità di autodeterminazione che dobbiamo valorizzare come una scelta sostanzialmente e prioritariamente morale.

Capacità di intendere e di volere e moral agency non sono, dunque, un’endiadi pur dovendo ammettere l’esistenza di qualche punto di contatto tra queste categorie concettuali. Perché le libertà positive della persona umana non possono certo prescindere dai divieti fissati dall’ordinamento giuridico e perché entrambe prevedono un doppio binario di giudizio. Il primo, uguale ad ambedue, è di tipo descrittivo essendo finalizzato ad individuare l’esistenza di una infermità che non è sempre e solo di mente. Il secondo è di tipo esplicativo, con una prospettiva però diversa: di tipo psichiatrico-forense nel caso della capacità di intendere e di volere che deve sviluppare il profilo criminodinamico e quello criminogenetico; in prospettiva biografica, invece, per la moral agency che richiede di essere considerata (ed esplorata) in riferimento all’identità di quella specifica persona posta in quel determinato contesto di vita. Investendo, quest’esplorazione, tutta una serie di luoghi o di abilità funzionali sulle quali esiste un sufficiente accordo nella letteratura internazionale [15] (full text) che le ha indicate: (a) nella capacità di manifestare una scelta; (b) nella capacità di comprendere le informazioni, (c) nella capacità di dare un giusto peso alle medesime, (d) e nella capacità di utilizzare razionalmente le informazioni. Suggerendo, di conseguenza, l’utilizzo di strumenti standardizzati, come ad es., la MacCAT-T e MacCAT-CR specifica per l’arruolamento delle persone in trials clinici sperimentali impiegati per ridurre la soggettività clinica anche se questi strumenti faticano a trovare un ampio utilizzo nel contesto clinico italiano anche perché non ancora validati. Per ragioni che non sono in grado di esprimere anche se, probabilmente, la causa di ciò è da ascrivere alla circostanza che essi non hanno score o livelli soglia al di sotto dei quali la moral agency della persona umana è sempre e comunque compromessa. Si tratta, infatti, di interviste semi-strutturate, di relativamente facile somministrazione, in tempi sufficientemente contenuti (15-30 m’), validate non con l’obiettivo di essere uno strumento esaustivo ma come un ausilio nella valutazione. Valutazione che, oltre agli aspetti clinici, deve indagare quelli personologici e biografici di quella specifica persona avendo la moral agency una dimensione individuale ed una valenza assiologica sostanzialmente umana. Abbandonando definitivamente quei pregiudizi che la confondono con la capacità di intendere e di volere, quegli stigmi in ragione dei quali esisterebbero malattie (ad es. le demenze) la comprometterebbero sempre e comunque e quelle becere ed (a)tecniche prassi purtroppo diffuse che la esplorano con batterie neuro-testistiche elaborate per altre finalità (il MMSE) riconoscendo ad esse un potere, per così dire, taumaturgico nel differenziare la capacità dall’incapacità sulla base di discutibilissimi valori soglia (pre)definiti non si capisce bene sulla base di che cosa.

Quarta questione che suscita imbarazzo: l’idea che la sospensione delle cure di sostegno vitale debba essere valutata, caso per caso e con ampia prudenza, dopo che la persona sedata in maniera continua e profonda eccezion fatta per l’idratazione e l’alimentazione che, a giudizio del CNB, sono terapie mediche che devono essere sempre sospese.

Questa tesi non mi convince per due ordini di ragioni.

Differenziare, anzitutto, per l’ennesima volta, l’idratazione e l’alimentazione forzata dalle altre terapie di sostegno vitale è un rischio gravissimo che pur corregge l’impostazione che lo stesso CNB aveva in precedenza seguito quando aveva ritenuto che queste ultime dovevano essere considerate come mezzi ordinari di prosecuzione della vita. L’affermare poi che le terapie di sostegno vitale non devono essere sospese affermando che esse riducono il dolore e la sofferenza è un controsenso che sembra mettere in secondo piano lo scopo reale della sedazione che è quello di sospendere la coscienza. A meno che il CNB non abbia voluto lanciare il sasso per poi nascondere la mano appellandosi alla necessità del sostegno senza però toccare la questione di fondo che è quella della anche quando è proporzionalità del trattamento. Che nella Guida al processo decisionale nell’ambito del trattamento medico nelle situazioni di fine vita approvata nel 2012 dal Comitato di Bioetica del Consiglio d’Europa (DH-BIO) viene ponderato in relazione: (a) ai benefici, ai rischi ed ai limiti del trattamento medico in base ai risultati attesi sulla salute del paziente; (b) alle aspettative della persona. Dal ponderato bilanciamento di questi aspetti deriva la valutazione del beneficio complessivo per la persona “non solo con riferimento ai risultati del trattamento della patologia o dei sintomi, ma anche alla qualità della vita del paziente e al suo benessere psicologico ed alle esigenze spirituali”. Quando il trattamento è sproporzionato ed irragionevole in relazione alla situazione globale della persona, allo sviluppo della patologia di base “il medico può legittimamente decidere, nel dialogo con il suo paziente, di non iniziare il trattamento o di interromperlo». anche se, in via generale, «non esiste alcun mezzo evidente per misurare a priori la sproporzione di un trattamento che possa applicarsi a tutte le situazioni individuali”. Con una difficoltà di base che deve essere depotenziata con “la relazione di fiducia tra medici, persone che si prendono cura dei malati (carers) e pazienti […]” nel non sempre facile bilanciamento tra l’autonomia della persona ed il rispetto della dignità di quelle persone vulnerabili e non più in grado di esprimere autenticamente la loro voce ed i loro desiderata. La Guida suggerisce, a questo riguardo, un particolare modo pratico di operare per decidere sulla proporzionalità o meno delle terapie di sostegno vitale prevedendo i seguenti steep: “definire le modalità pratiche della discussione (luogo, numero dei partecipanti, numero degli incontri previsti, ecc.); stabilire un arco temporale, tenendo conto, se necessario, dell’urgenza; identificare chi prenderà parte alla discussione, specificando ruolo e obblighi (colui che prenderà la decisione, relatore, verbalizzatore, coordinatore/ moderatore, ecc.); richiamare l’attenzione di tutti i partecipanti al fatto che essi devono essere pronti a cambiare le loro idee quando hanno ascoltato le visioni delle altre persone che prendono parte alla deliberazione”.

Merita riflettere su questa condivisione nell’assunzione di una decisione che non significa, per chi deve assumerla, abdicare alla propria personale responsabilità, ma decidere di non assumerla in piena solitudine e nella penombra delle stanze di degenza. Ma sotto la luce dei riflettori di chi può anche esprimere idee contrario alle nostre dandoci così l’occasione di sottoporle al vaglio critico della ragione e, se necessario, di rivederle anche per intero. Sempre lasciando traccia nella documentazioine clinica di ciò che si fa nell’interesse di quella persona e nella consapevolezza che la sostituzione vicaria, ovverosia il prendere sulle nostre spalle il peso delle persone più vulnerabili significa assumerci davvero la responsabilità di ciò che facciamo e la consapevolezza dei rischi che ci assumiamo. Sempre nel rispetto della dignità umana che resta.

Quinta ed ultima questione: il colpevole silenzio del CNB sull’uso di farmaci in modalità non label pur nella consapevolezza che la sospensione della coscienza nei minori si realizza, molto spesso, con questa modalità sulla quale poco si è riflettuto se non con qualche rara eccezione nel panorama italiano [16].

È da dire, a questo riguardo, che i vincoli normativi che limitano l’autonomia tecnico-professionale del medico non sono, almeno nel nostro Paese, una novità recente anche se l’interesse mediatico su questa questione è esploso dopo l’approvazione del Decreto ministeriale 9 dicembre 2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 15 del 20 gennaio 2016) che, in buona sostanza, ha esplicitato le condizioni di erogabilità a carico del Servizio sanitario nazionale e di appropriatezza prescrittiva di oltre 200 prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale (diagnostica e strumentale) prevendendo, per i medici inadempienti, sanzioni non certo modeste a carico degli stessi e, addirittura, del Direttore generale dell’ ASL. Questa libertà era già stata, infatti, negativamente interferita anche da interventi legislativi precedenti anche se gli stessi avevano riguardato la sola prescrizione farmaceutica per contenere quella specifica voce di spesa. Sulla questione, oltre all’Agenzia regolatoria italiana (AIFA) era, infatti, ripetutamente intervenuto il legislatore dell’urgenza a partire dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648 (‘Conversione in legge del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, recante misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996’) che ha disciplinato (art. 1, comma 4) il regime di rimborsabilità delle prescrizioni di farmaci non label: rimborsabilità che è stata circoscritta, da quella norma, all’inserimento dei “medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale», di quelli «sottoposti a sperimentazione clinica» e di quelli “da impiegare per un’indicazione diversa da quella autorizzata” in un £apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione Unica del farmaco conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa”.

La finalità generale di quella norma del 1996 è evidente e non è certo in discussione: essa si proponeva non già di limitare l’autonomia professionale del medico che è e resta un principio di rango costituzionale ma quello di contenere la spesa farmaceutica sostenuta dall’erario pubblico (con un tetto massimo allora indicato in 30 miliardi di vecchie lire).

A quella norma ha poi fatto seguito, in un periodo di grandissima turbolenza mediatica innescato dal diritto reclamato da molti pazienti oncologici di potersi curare gratuitamente con la multiterapia Di Bella, l’approvazione della legge n. 94 del 1998 (‘Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, recante disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria’). Questa legge, all’art. 3 (rubricato “Osservanza delle indicazioni terapeutiche autorizzate”), nel confermare una regola generale (quella che impone al medico di attenersi, in fase prescrittiva, alle “indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità”), ha tuttavia previsto che, “in singoli casi», si può da essa derogare potendo il medico stesso «prescrivere specialità medicinali per scopi terapeutici diversi da quelli riportati nell’autorizzazione d’immissione in commercio o per altra via o modalità di somministrazione”. Con un regime derogatorio non già incondizionato essendo lo stesso stato circoscritto dal legislatore a “singoli casi” selezionati non già astrattamente ma in “base a dati documentabili” dimostrativi che “il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purchè tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”, impegnando la “diretta responsabilità (del medico) […] previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso”.

La legge conferma, dunque, la regola generale anche se nella sola prospettiva del regime di rimborsabilità del medicinale e circoscrive, al tempo stesso, il perimetro dell’eccezione che deve essere rispettosa non solo delle conoscenze scientifiche consolidate a livello internazionale dovendo essere, anche, validata dalla manifestazione di volontà della persona previamente informata secondo la classica prospettiva personalistica data dalla nostra Costituzione (artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.). Dunque, la regola generale confermata da questa legge ordinaria è che il medico “nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente”, si debba attenere “alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità” sia pur con l’eccezione derogatoria di cui si è detto, dettata, naturalmente, ai fini della sua sola rimborsabilità.

Con una deroga non incondizionata visto che essa è stata subordinata dal legislatore dell’urgenza ad una serie di regole di tipo cautelare. Perché, in sintesi: (1) la prescrizione off-label è ammessa in singoli casi, dunque in situazioni circoscritte e non ordinarie; (2) previo consenso dell’interessato adeguatamente informato; (3) quando il medico ritenga, in base a dati documentabili di letteratura, che il paziente non può essere utilmente trattato in label; (4) purchè l’impiego off label sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo scientifico internazionale; (5) con oneri a carico del Servizio sanitario nazionale nell’ipotesi in cui il medicamento sia stato inserito nell’elenco approvato dall’Autorità regolatoria italiana come indicato dalla precedente legge del 1996.

La legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007’) è, poi, intervenuta ulteriormente sulla questione con una severità disarmante. Essa conferma che l’uso off-label di farmaci non è consentito quando quest’uso assuma “carattere diffuso e sistematico e si configuri, al di fuori delle condizioni di autorizzazione all’immissione in commercio, quale alternativa terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie per le quali risultino autorizzati farmaci recanti specifica indicazione al trattamento” circoscrivendolo ai soli trials sperimentali ed imponendo alle Regioni (ed alle Province autonome) la messa in campo di un rigido sistema di controllo interno per scoprire il “ricorso improprio” a questa pratica clinica individuando i “responsabili dei procedimenti applicativi” anche al fine della responsabilità amministrativa sotto il profilo del danno erariale. Quasi a confermare l’insufficienza di quelle regole cautelari precedentemente imposte con il richiamo ad una “diretta responsabilità” del medico confermata dal Codice di deontologia medica che, in queste situazioni, prevede addirittura la raccolta del consenso in forma scritta della persona ad ulteriore burocratizzazione ed appesantimento della relazione di cura.

Conclusioni

Il mio personale giudizio sul Parere recentemente approvato dal CNB sulla sedazione continua e profonda nell’imminenza della morte non è positivo.

Poche sono le luci e molti i coni d’ombra che restano tali e che sono stati anzi allargati da alcune idee che non convincono e che, alla fine, scontentano tutti, soprattutto le persone che soffrono. Peccato davvero e peccato che il CNB persegua la strada del non prendere una posizione chiara e definitiva sulle scelte etiche del fine della vita e sulle diverse opzioni individuali possibili. Perché una scelta di valore la si deve oggi pur fare anche se ciò non significare perseguire irresponsabilmente la rotta insidiosa della deriva eutanasica, a tutti i costi e con ogni mezzo.

A patto che si voglia davvero dare un volto espressivo a quella “decenza” [17] pubblica che non sembra più oggi essere un valore ed un’esigenza collettiva condivisa.

Bibliografia

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[17] M. Avischai, (1998), La società decente, Milano, 1998.

That is the question (ripensare i fondamentali della relazione di cura per arginare i pericoli e le derive della McDonaldizzazione della salute)

Abstract

L’autore riflette sulla crisi dell’arte della cura e lo fa a partire dalla globalizzazione della società moderna, dalla sua liquidità, dalle sue evidenti contraddizioni, dal successo ottenuto dai fast food di McDonald’s e dalla sua filosofia di base (efficienza, produttività, riduzione dei costi, standardizzazione procedurale e controllo) che si vorrebbe trasferire anche all’organizzazione sanitaria. Di qui evidenza le insufficienze, le derive e le facili strumentalizzazioni pur nella consapevolezza che in una società globalizzata, poco attenta alla qualità del prodotto, iper-consumistica e facilmente condizionabile, questo modello economico profit è vincente. Si focalizza, in particolare, sulla standardizzazione procedurale della cura sulla quale è intervenuta anche la legislazione italiana con il principale obiettivo di contenere i costi della medicina difensiva, evidenziando che essa definisce le azioni, dimenticando però che l’agire umano si realizza soprattutto con il linguaggio, con i gesti e con la creazione di opere. E propone, così, di rivedere il modello antropologico della relazione di cura fondandolo sulla responsabilità dell’impegno e sulla giustizia distributiva.

Parole chiave: arte della cura, giustizia distributiva, impegno, McDonaldizzazione, responsabilità, standardizzazione

 

Premessa

Fino a poco tempo fa, pochi di noi avrebbero dubitato sul fatto che, avendo «l’uomo […] imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti» [1] la scienza (in generale) e l’arte della cura (più in particolare) avessero raggiunto il loro massimo apice di sviluppo e, soprattutto, il traguardo della loro adulta maturità. Che, nella vita di ogni essere umano, rappresenta quella fase dello sviluppo in cui si esprime la pienezza delle sue capacità intellettuali, affettive, sociali e morali, l’attitudine a governarsi in forma autonoma senza bisogno di ricorrere ai vincoli genitoriali, parentali o di altre autorità esterne e la capacità di affrontare i problemi della vita reale con la prudenza e la saggezza consegnatagli dall’esperienza. E così intendendola come una condizione raggiunta gradualmente e faticosamente nell’arco della vita che, per ciò che qui conta, ci ha fatto credere che la scienza era in grado di bastare a se stessa avendo trovato al suo interno le regole-base di un autogoverno definitivamente liberato dalla trascendenza del sacro, di affrontare con successo la finitezza umana, di debellare le malattie, di contribuire a massimizzare la felicita dell’uomo, di assumersi le sue responsabilità, di ammettere i suoi limiti, di riconoscere i suoi errori e di affrontare le incertezze del domani con quella capacità critica che si riconosce solo a chi è diventato davvero adulto.

Così ingenuamente credevano molti di noi ammaliati e (probabilmente) illusi dallo sviluppo delle conoscenze, dal potere artificiale della tecnica e dalla sua straordinaria potenzialità di plasmare la finitezza biologica, di intervenire sulla riproduttività, di condizionare la vita, di prolungare la morte e di modificare la nostra stessa identità di genere con gli interventi sul genoma [2].

Quella convinzione, della cui solidità oggi dobbiamo seriamente dubitare, è stata però messa in crisi e sottoposta al vaglio della ragione da tutta una serie di fattori – economici, sociali e generazionali – sui quali, come medici, poco abbiamo riflettuto dimostrando, ancora una volta, la nostra superba immaturità. Avendo dimenticato che la conoscenza non può mai essere separata dal pensiero se non vogliamo diventare esseri-schiavi delle nostre competenze [3] e che la scienza ed i bisogni delle persone non sono mai realtà separate. Nel senso che la prima, senza i secondi, smarrisce il suo orizzonte, le sue connessioni storiche e quelle antropologiche al punto da perdere qualsiasi suo significato. Non è, infatti, pensabile né una scienza senza l’uomo, né una scienza contro l’uomo anche se questa diade ripropone, ancora una volta, la difficile dialettica tra umanesimo e scientismo che, pur accettando il rischio di essere criticati quali sostenitori di un umanesimo radicale, occorre risolvere senza alcun tentennamento assegnando il primato alla dignità dell’essere umano, oggi messa in continua tensione dal potere della tecnica, dagli interessi finanziari, dal consumismo e dalla liquidità della modernità.

La scienza non è, infatti, in grado di vivere senza l’uomo ed indipendentemente dai suoi bisogni ed essa non ha una sua artificiale autosufficienza o, usando una metafora, una sua luce di brillantezza interna bastevole ad autolegittimarla essendo un prodotto del progresso ed un mezzo che l’umanità ha a sua disposizione per migliorare le condizioni della vita e per (de)tendere le disequità che ancora esistono su scala planetaria. Così, le sue coordinate epistemiche non sono castelli o fortezze inattaccabili ed invincibili avendo essi dimostrando la loro debolezza anche se siamo spesso restii a non riconoscere l’insufficienza del modello sperimentale e la sua falsificabilità. E con essi anche i fallimenti del modello biologico di molte malattie dopo anni di ricerca e di investimenti miliardari da parte dell’industria (si pensi, ad es. al modello delle placche amiloidi nelle malattie dementigene); così anche i modelli predittivi avendo essi evidenziato le loro pecche ponendo, tra l’altro, non trascurabili questioni di natura etica perché non siamo ancora in grado di dire se la persona si ammalerà e quando ciò succederà; e così, ancora, l’epidemiologia che, ancorché basata su modelli matematici, non è in grado di spiegare ad es. il perché negli Stati Uniti d’America sia stia registrando un aumento di mortalità nella fascia della popolazione tra i 45 ed i 55 anni. Per non parlare anche delle insufficienze dell’economia sanitaria e di altre branche del sapere che, nonostante la linearità dei loro modelli teorici, hanno dimostrato di non essere in grado di stare al passo con le variabili di un cambiamento che si oppone ad ogni linearità e che ha la caratteristica di essere straordinariamente imprevedibile e veloce.

La verità è che se abbiamo creduto nella raggiunta maturità del nostro sapere ci siamo sbagliati e sarebbe davvero perverso non ammettere oggi che quella convinzione è stata condizionata non dal desiderio umano di conoscere ma dal miraggio consegnatoci dal disumanesimo prepotente dell’artificiale che, se riflettiamo con serenità, ci ha abituato ad aggrapparsi alle tristi e pericolosissime regole del non-pensiero che ha già consegnato la storia dell’uomo al male radicale [3]. Trasformandoci in creature alla mercé di ogni meccanismo tecnicamente possibile, in derivati della tecnica o in esseri professionali più o meno bionici cui è affidato il ruolo di selezionare, di imputare e di standardizzare nonostante l’arte della cura sia, molto probabilmente, una tra le più straordinarie espressioni dell’ingegno umano essendo finalizzata (non dimentichiamolo) a migliorare le condizioni di vita di ogni essere umano e ad occupare responsabilmente la socialità. Da strumento, la tecnica è così diventata un fine che sempre più pretende la sua auto-giustificazione: in altre parole, l’attore di cartello che, sempre più frequentemente, pretende di assumere un ruolo egemone, non certo coerente con quello che gli era stato affidato dal regista e la cui robustezza è dimostrata dal fatto che le comparse si adattano a questa scelta in forza di una riconosciuta autorità su cui è però il caso di riflettere seriamente. A patto che anche noi medici vogliamo davvero credere in una dignità umana immune dal potere della tecnica ed a condizione che il primato sia ancora riconosciuto nella nostra identità di genere pur accettando la sua naturale finitezza quando la tecnica ha, invece, un potere illimitato ed a nulla subordinato.

La crisi di identità della medicina

Che la medicina moderna sia, oggi, attraversata da una profonda crisi di identità non è una novità o un’idea che può essere contrastata con la forza della ragione. Molte sono le conferme di questa crisi e le testimonianze della sua straordinaria profondità: le drammatiche insufficienze del modello scientistico sperimentale, il definitivo tramonto di quel modello antropologico (il paternalismo) che per millenni è stato l’architrave portante della relazione di cura, i fallimenti dei modelli previsionali epidemiologici, l’insufficienza del modello biologico delle malattie vista la loro straordinaria variabilità fenotipica (che ha messo in discussione il nostro dizionario enciclopedico), la perdita della credibilità e del ruolo sociale del medico e l’esplosione del contenzioso giudiziario per presunta colpa medica sono alcune testimonianze di questa crisi che, quasi sicuramente, invece che stabilizzarsi continua ad acuirsi. Anche a causa delle sollecitazioni imposte dalla crisi economica internazionale che è stata particolarmente violenta in tutti i Paesi dell’Eurozona ed alla quale si sono affiancate altre emergenze internazionali: tra queste la povertà, la migrazione di masse di profughi disperati provenienti dal continente africano e asiatico che si cerca di contrastare con la creazione di nuove muraglie, la riaccensione dei conflitti bellici quando la fine della Guerra fredda ci aveva illuso nella pace perpetua, la nascita del nuovo Stato islamico ed il terrorismo di matrice jihadista che ha ripetutamente colpito anche l’Europa facendoci perdere la speranza nel domani.

Queste emergenze (umanitarie, economiche e di sicurezza internazionale) hanno profondamente cambiato la nostra vita ed hanno riacceso i nazionalismi per la difesa dei confini degli Stati con la creazione di nuove barriere protettive di filo spinato dopo la caduta del muro di Berlino nonostante quell’idea di Europa unita che ci era stata consegnata con il documento di Ventotene del 1941. Animando i nostri vissuti con la paura dell’oggi e colorando i nostri incubi con la profonda diffidenza verso i nostri simili, con un nuovo nemico indicato in tutto ciò che è diverso da noi e con l’esigenza di armarci per difenderci in ogni modo e con ogni mezzo così da non perdere definitivamente la speranza nel futuro. E così, in un’epoca sempre più dominata dalle logiche del profitto e dalla globalizzazione alla McDonald’s dei mercati, è prepotentemente (ri)emersa l’esigenza di difendere le nostre individualità non già per riconoscere la nostra storia per dare ad essa una qualche continuità quanto per combattere (anche con l’arma del razzismo) chi è diverso da noi, nella convinzione che la diversità è un qualcosa di estrema pericolosità e che chi non fa parte della nostra società locale è sempre da considerare un potenziale nemico.

Tutto ciò ha prodotto una tra le tante macroscopiche contraddizioni che testimoniano la complessità del nostro tempo, la sua profonda instabilità e la sua sempre più opaca liquidità. Abbienza e povertà, opulenza e mancanza di acqua e di cibo, sovrabbondanza e mancanza dei beni primari, cultura ed ignoranza, diritti agiti e diritti negati, pace e guerra sono tra le tante contraddizioni di un trafelato presente che storicizza la nostra condanna a vivere in un’incertezza permanente ed in una vita sempre più liquida che ha disintegrato quei corpi solidi che le società avevano gradualmente e faticosamente costruito: non solo l’idea di una entità trascendente che ha pur per millenni dato un senso anche etico all’umanità ma, a ben osservare, anche i nostri valori culturali e la nostra stessa libertà che, richiedendo il bilanciamento tra i diritti individuali ed i doveri inderogabili, è il fondamento del vivere collettivo, della solidarietà, del mutuo riconoscimento e della reciprocità. E, con essi, della democrazia che, pur avendo alzato la sua asticella con la costituzionalizzazione dei diritti della persona umana, sembra essere stata minata nelle sue stesse fondamenta per gli attacchi che le sono stati sferrati dal mercato e dal consumismo che, nella sovrabbondanza del mondo occidentale, sono divenuti strumenti non più finalizzati a soddisfare le esigenze di base ma al solo appagamento dei nostri desideri individuali. Anche perché la liquidità della post-modernità e l’incertezza dei tempi in cui viviamo, oltre alla crisi dei valori, ha portato all’emergere di una cultura dell’individualismo dell’adesso che mi sembra essere la causa principale della perdita delle nostre costruzioni sociali e della nostra stessa identità.

Globalizzazione e McDonaldizzazione

Il nostro è un mondo ed un tempo sempre più piatto e grigio o, come direbbero gli economisti molto più attenti di noi alle logiche, ai meccanismi ed agli interessi del mercato, globalizzato.

Tuttavia, la globalizzazione non riguarda solo i consumi essendosi essa spinta ad uniformare (ibridare) le culture e ad omogeneizzare il nostro modo di pensare e le tradizioni grazie all’estrema facilità di spostarsi nel mondo ed a quel continuo flusso di scambio reso possibile dalle nuove forme di comunicazione affidate ad Internet; non più ai libri ed alle biblioteche ma alla facilità del Web che, da casa nostra, ci mette nelle condizioni di entrare a nostro piacimento in collegamento con tutto e con tutti e con una facilità e velocità straordinariamente disarmanti anche se sulla qualità delle informazioni trasmesse dal mondo del virtuale qualche ragionevole dubbio lo dobbiamo continuare a nutrire. Con un iper-consumo di generi e di informazioni che non ha interessato la sola soddisfazione dei nostri interessi primari visto che esso si è gradualmente insinuato nelle pieghe della soddisfazione dell’effimero se non addirittura nell’inutile, avendo trovato grandissimi alleati nell’acquisto on line e nelle carte di credito di cui ci serviamo nella quotidianità per appagare le nostre frustrazioni che attraversano anche il bisogno di conoscenza. Diventato, anch’esso, vittima sacrificale di quei processi di omologazione e di spersonalizzazione che sono una caratteristica dominante della globalizzazione [4] e, usando una felicissima metafora proveniente dalle catene di ristorazione globale alla fast food, sempre più pervase dagli strumenti della McDonaldizzazione: un allettante e vincente sistema produttivo in cui le diversità vengono appiattite, i prodotti razionalizzati ed omologati al solo scopo di renderli accettabili a tutti in nome di un consumo globale, fruibili cioè da chicchessia, in ogni luogo e in ogni momento, anche per il loro basso costo. Efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo del servizio affidato a tecnologie non umane ne sono le travi portanti che, purtroppo, si sono radicate anche in un certo modello di salute che, sotto la spinta delle esigenze imposte dal rigore economico e delle logiche di profitto, insegue la produttività, l’efficienza, l’abbattimento e la standardizzazione dei costi ed il controllo procedurale.

Non dubito sulla razionalità economica di questi sistemi e sulla loro efficienza riguardo al profitto (visto il successo che essi hanno avuto su scala planetaria) anche mi chiedo se essi non siano l’espressione del nostro trafelato presente che pretende di pranzare velocemente ed a costi contenuti ingurgitando, in piedi ed in fretta. Un Big Mc anonimo ed uguale in ogni parte del mondo; e di una cultura dell’adesso e della fretta che hanno messo in crisi le stesse dimensioni costitutive della personalità e del comportamento, le aspirazioni e le potenzialità di diventare persone mature capaci di pensare autonomamente riconoscendo i condizionamenti esterni, di aderire a principi e a obiettivi di autoregolazione e di soddisfazione autentica, di instaurare relazioni interpersonali costruttive e positive e di partecipare alla costruzione di un bene comune. Nutro, invece, forti perplessità sul fatto che questo sia un modello vincente per l’arte della cura anche se posso capire che, per il privato o per le Compagnie di assicurazione che si stanno diffondendo in tutto il mondo cercando il profit anche nella salute, la tentazione è straordinariamente grande come dimostrano, negli Stati Uniti d’America, la diffusione e lo sviluppo di centri chirurgici o di Pronto soccorso walk in/walk out (McDoctors o Docs-in-the-box) limitati ad un circoscritto numero di problemi clinici o, in Italia, la selezione delle patologie o delle scelte di trattamento in base al sistema dei Raggruppamenti omogenei di diagnosi (DRG) da parte delle strutture ospedaliere private convenzionate. Con una disomogeneità di accesso alle prestazioni che è di tutta evidenza in alcuni settori della cura per cui il trattamento emodialitico ha tassi percentuali molto più elevati di quelli della media nazionale nelle nostre Regioni del Sud che, se guardiamo alla salute riproduttiva della donna, prediligono ancora il raschiamento uterino rispetto all’istero-suzione.

In questa confusa situazione capisco però che c’è un problema di competitività tra il sistema sanitario pubblico e quello privato e che l’efficienza produttiva non è una questione secondaria se vogliamo dare una risposta a quelle ampie sacche di inefficienza che si registrano, purtroppo, nel nostro Paese e che non si possono unicamente attribuire ai “furbetti del cartellino” della pubblica amministrazione o agli scandali che, in tempi più recenti, hanno coinvolto i patrimoni immobiliari comunali pubblici (la cd. “affittopoli romana”) sui quali si è oggi prevalentemente concentrata l’attenzione dei media anche in vista delle prossime elezioni amministrative. Essendo convinto che la competitività del sistema sanitario pubblico deve percorrere altre coordinate rispetto a quelle del modello alla McDonald’s ed a quello, con esso imparentato, che seleziona categorie di pazienti omogenei quanto a caratteristiche cliniche e assistenziali rispetto al profilo di trattamento atteso per esclusive ragioni di profit. Opponendomi a quella oramai diffusa prepotenza (violenza) della medicina moderna che pretende di efficientare, selezionare, standardizzare e ibridare la persona che soffre calmierandone i bisogni in un contenitore vuoto ed astratto, privandola del possesso di un corpo e di un’anima e annullandone così la sua stessa identità e dignità.

I pericoli e le insidie della McDonaldizzazione della cura

La McDonaldizzazione della medicina o, meglio, il trasferimento nell’arte della cura dei suoi principi-base (efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo del servizio affidato a tecnologie non umane) è un pericolo concreto sul quale poco abbiamo riflettuto, forse anche a causa dell’aziendalizzazione del Servizio sanitario nazionale e delle politiche di rigore imposte dalla Banca centrale europea e della Commissione europea che, nel nostro Paese, hanno convinto i nostri decisori politici ad intervenire pesantemente sulla finanza pubblica con quel pacchetto di interventi che si ricomprende, generalmente, nelle misure di spending review e che avrebbero dovuto contenere il debito pubblico. Cosa che non è avvenuta nonostante il prezzo salatissimo pagato dal nostro sistema di welfare sul quale i diversi Governi sono pesantemente intervenuti con la riforma del sistema pensionistico, il blocco del turnover nel pubblico impiego, il congelamento dei contratti, i tagli al finanziamento del S.S.N. ed i tagli, ancora più drammatici, al bilancio destinato agli interventi socio-assistenziali. Chi di noi ha un ruolo di responsabilità gestionale conosce le conseguenze di tutto ciò: la classe medica è una categoria di persone anziane con poco ricambio generazionale per il blocco delle assunzioni, lo stop forzato imposto al turnover del personale dell’area di comparto ci ha ripetutamente messo in difficoltà e costretti a razionalizzare (e razionare) i servizi, i carichi di lavoro sono aumentati per gli effetti dell’incremento dell’attesa di vita e così, all’improvviso, si scopre, a fronte di una Direttiva europea sull’orario di lavoro dei medici non di oggi ma del 2003 in cui (fino alla fine) gli amministratori locali confidavano in uno spostamento dei termini di entrata in vigore, che il S.S.N. manca di migliaia di medici o meglio che i medici in servizio hanno lavorato un surplus di ore lavoro togliendo spazio ai giovani e, molto probabilmente, non migliorando la qualità del sistema per i noti effetti prodotti dallo stress [5]. Anche se conosciamo la miopia ed il fallimento di queste politiche, testimoniato dal fatto che il nostro deficit pubblico non è diminuito pur essendosi attestato sui 2.200 miliardi di Euro, dal non decremento della disoccupazione giovanile nonostante gli enormi sgravi fiscali concessi agli imprenditori, dalle dimissioni dei vari Commissari nominati dal Governo per la spending review, dall’inerzia della macchina pubblica edalla pochezza dei risultati raggiunti da queste politiche di austerity nonostante i roboanti annunci tipici dell’attuale maniera di fare politica che, da un lato, afferma di ridurre il parco delle macchine di rappresentanza e, dall’altra, modernizza l’airbus presidenziale per le trasferte istituzionali senza scalo con un leasing milionario contratto con la società degli Emirati che ha da poco rilevato la Compagnia di Stato italiana. Perché la spesa pubblica non è, purtroppo, diminuita come di recente denunciato dalla Corte dei Conti e perché sugli sprechi (come sull’evasione fiscale) non si è ancora intervenuti in maniera strutturale anche se la sanità ed i servizi socio-assistenziali dedicati alle persone più fragili hanno pagato un prezzo elevatissimo con risparmi sulla spesa corrente che sono però serviti solo a compensare altri sprechi: un efficientamento ed un razionamento settoriale che è così servito solo a contro-bilanciare altri sprechi ed altre inefficienze dello Stato e degli Enti Locali sulle quali è stata costruita una buona parte del consenso elettorale, specie nelle Regioni a statuto speciale.

Ripensare il modello antropologico della relazione di cura

Per contrastare le derive, le strumentalizzazioni e i pericoli della McDonaldizzazione della medicina [6] [7] occorre, a mio modo di vedere, tornare a riflettere sulla relazione di cura per provare a ripensare il suo modello antropologico nonostante molti di noi continuino a pensare a questa questione attribuendole una priorità marginale e di poco importanza. Il che non è, perché la globalizzazione ha subdolamente condizionato i modelli assiologici di questa relazione accelerando la loro trasformazione, avvenuta a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, quando l’autonomia della persona ha messo definitivamente da parte il paternalismo medico con la sua diffusa critica mossa a partire dall’intervenuta costituzionalizzazione dei diritti della persona anche se la stessa era avvenuta mezzo secolo prima in tutte le tradizioni democratiche occidentali.

A ben guardare, la relazione di cura può essere indicata, in prima approssimazione, come quel particolare ambito del vivere collettivo e della socialità in cui si incontrano (dovendosi in qualche modo riconoscere) istanze ed esigenze molteplici, in parte simili ed in parte diverse. Le diversità sono ampiamente note e su di esse non vale la pena di dilungarsi se non sottolineando l’asimmetria dei ruoli assunti dai diversi protagonisti anche per non perdere di vista l’idea che in questa relazione si incontrano istanze similari che pur hanno luoghi di partenza diversi: prime tra tutte, le autonomie e le responsabilità che appartengono direttamente alla sfera della persona ed a quella del medico che necessitano, per la loro stessa sussistenza, di un reciproco riconoscimento e, soprattutto, di trovare un punto di equilibrio. Senza il riconoscimento dell’altro ogni nostra azione è, infatti, destinata a restare nel regno dell’astrattezza ed il nostro agire, se non cerca un preventivo punto di equilibrio con la libertà degli altri, esprimerebbe l’usurpazione violenta di questa libertà trasformando i nostri simili in mezzi quando essi devono essere sempre considerati come un fine come ci ha insegnato sia la prospettiva cristiana che quella kantiana.

La relazione di cura è così, usando una felicissima e fortunata metafora, un crocevia davvero trafficato attraversato dall’autonomia del medico e da quella della persona, dai diritti inviolabili e dai doveri inderogabili, dalle responsabilità e dalle libertà individuali e da quelle collettive. Che devono, in primo luogo, riconoscersi per potersi in qualche modo incontrare senza collidere frontalmente nel rispetto delle regole della socialità umana, dei suoi vincoli segnaletici spesso scanditi dall’alternarsi dei colori delle lanterne semaforiche, dei segnali di alt e dei doveri di precedenza che pur ci siamo dati, nella disciplina del traffico, per evitare i contatti sempre possibili nella circolazione veicolare della modernità. Resa sempre più densa da quei mezzi pesanti che non trasportano nessuna di quelle obbligazioni che, per oltre due millenni, hanno risparmiato la relazione di cura dalle sollecitazioni del diritto visto e considerato che i doveri che ciascuno si assumeva restavano confinati in un piano sostanzialmente morale. Da un diritto che non ha solo costituzionalizzato i diritti personalissimi ma che ha gradualmente trasformato le relazioni umane riconducendole (e riducendole) ai vincoli del contratto; e da un progresso delle conoscenze che ha progressivamente trasformato la finitezza umana in un qualcos’altro (di cui si può mettere in discussione l’appartenenza e la coerenza con la nostra identità di genere) attraverso quelle opzioni della tecnica che ci consentono di intervenire dall’esterno sui processi del nascere, del vivere e del morire e, così, di modificare artificialmente i ritmi della naturalità biologica. Con una miope e pericolosissima pervasività della tecnica e con la sua non innocente invadenza essendo essa influenzata anche dalle logiche del mercato e del contratto. Spesso espressa con due non sovrapponibili diadi (quella dell’ordinario/straordinario e quello del proporzionato/sproporzionato) anche se il problema centrale resta quello di accordarci su chi l’autorità è chiamata a valutare il superamento delle relative asticelle. Che la tecnica ha posizionato in termini performanti e senza interrogarsi su quali sono i limiti dell’intervento della tecnica anche se sugli stessi sembra oggi premere la crisi economica e la riduzione delle risorse. Nonostante, a mio modo di vedere, non siano questi i volani che dobbiamo prudentemente azionare perché la dignità dell’essere umano è il solo asse di trasmissione che può garantire la sopravvivenza dell’umano e della nostra stessa identità di genere. Mantenendo salda la consapevolezza sul fatto che le brusche accelerazioni e le improvvise sterzate non sono per nulla funzionali alla stabilità del genere umano ed al mondo che responsabilmente dobbiamo consegnare ai nostri figli, ai nostri nipoti ed a chi lo abiterà dopo di noi.

Tutto ciò ha provocato la crisi della relazione di cura e del suo tradizionale paradigma assiologico (il paternalismo medico) che ha ceduto sotto la spinta progressiva di molti fattori usuranti e, soprattutto, per l’artificialità, la pervasività, la potenza e l’illimitatezza della tecnica. A questo modello teorico si è sostituita, come guida assiologica della relazione di cura, l’autonomia della persona che non ha però risolto nessuna delle segnalate criticità nonostante l’ottimismo espresso dai molti giuristi e bioeticisti che lo hanno promosso, denunciando le tante insufficienze di quel primordiale paradigma. Quell’ottimismo, nonostante il sostegno che ad esso è stato dato dall’avvenuta costituzionalizzazione dei diritti personalissimi dell’essere umano (artt. 2, 13 e 32 Cost.), si è però rivelato ingenuo non solo per quella debolezza dell’autonomia ripetutamente segnalata dalla filosofia morale ma soprattutto perché non si è a sufficienza considerato che questo nuovo modello antropologico della relazione di cura avrebbe finito con il solo spostare le asimmetrie e le solitudini decisionali (dal medico alla persona). Così ampliando e radicalizzando il ventaglio delle situazioni critiche per cui chi sa deve informare chi non sa per far maturare liberamente la sua scelta decisionale quando può essere sempre messa in discussione la sua moral agency. Anche perché, in linea almeno teorica, l’affermare il primato morale di chi non sa rispetto a chi sa, ritenere che chi non sa possa comunque condizionare chi sa e modulare a piacimento il comportamento atteso e pensare che chi sa non riesca mai ad interferire l’autonomia e la responsabilità di chi sa è una assurdità non solo in linea teorica. Senza considerare che il sapere di chi sa è sempre condizionato dai limiti del sapere scientifico e dalle insufficienze del suo modello sperimentale, che l’autonomia è sempre condizionata dalle caratteristiche quali-quantitative dell’informazione (non solo verbale) che riceviamo con modalità più o meno lecite e non intrusive della nostra privacy (oltre che dai nostri valori personali e dall’integrità della nostra struttura mentale), che la nostra libertà non è mai assoluta essendo essa storicamente determinata e condizionata, che nel gioco delle autonomie di ogni relazione umana non può mai esistere un’autonomia assoluta in grado di gerarchizzare tutte le altre e che in ogni storia di vita decodificata dall’esterno e spesso ricostruita anche da noi stessi c’è molto spesso un’altra storia visto che il nostro ipse e l’idem non sono sempre strutture regolari e simmetriche.

Il grossolano limite dell’autonomia della persona è, così, l’aver considerato che l’autonomia personale sia un qualcosa di staticamente definito e ben individualizzato, che il suo decorso sia sempre quello di una linea retta rispetto al teorico atteso e che il tentativo di decodifica e di disambiguazione della narrazione personale effettuato da noi stessi e da chi abita il nostro stesso mondo viaggino sempre su due piani paralleli. Dunque che l’identità sia una ed una soltanto, che di essa non ci siano né interruzioni né vuoti né salti e che la sua robustezza sia intonsa e, quindi, in grado di resistere ai condizionamenti della globalizzazione economica quando il fenomeno della McDonaldizzazione ha dimostrato la nostra debolezza identitaria, il suo facile controllo e la sua attitudine ad essere facilmente colonizzata. Quando il paternalismo medico, pur con i suoi limiti, riconosceva il ruolo di garanzia esercitato dal medico.

A ben riflettere, è stata la pervasività dell’antropologia fondante l’autonomia della persona che ha amplificato e reso evidenti i pericoli della globalizzazione alla McDonald’s della medicina. Chi non sa è, infatti, facilmente controllabile dall’esterno e ciò è dimostrato dai condizionamenti esercitati da una certa pseudo-cultura scientifica che, per scopi puramente commerciali, ha trasformato in patologico ciò che non è assolutamente tale, usando tutti i mezzi possibili della propaganda mediatica. Al punto tale che qualsiasi (presunto) inestetismo deve essere affrontato dalla chirurgia estetica, che la cellulite è una malattia da cui si deve assolutamente guarire, che le performance cognitive devono essere potenziate in ogni modo e con ogni mezzo (anche chimico) per garantirci nella nostra stabilità e per metterci in grado di affrontare la concorrenza dei nostri simili e che la vita stessa non è più soggetta ai vincoli biologici potendo la tecnica darle un inizio in laboratorio e protrarla ad oltranza. Chi non sa è, inoltre, facilmente condizionato dai meccanismi apparentemente performanti di ogni organizzazione professionale che, nel sentire comune, dovrebbe funzionare come i team che al pit-stop si affollano ordinatamente attorno ai bolidi della Formula-Uno per rifornire il carburante e per il cambio dei pneumatici. Senza però pensare che una cosa sono gli oggetti progettati e perfezionati dall’uomo per le competizioni sportive, altra cosa sono le persone che soffrono che, anche quando anestetizzate per un intervento chirurgico, mai possono essere trasformate in un oggetto attorno al quale affaccendarsi in termini di sola efficienza performante e di velocità – anche se il fattore tempo non è di trascurabile importanza per il nostro mestiere. Chi non sa è, infine, facilmente affascinato dal tema della riduzione dei costi perché la propaganda mediatica ha trovato un buon cavallo di razza nell’inefficienza pubblica e da quella standardizzazione delle procedure che ha affascinato i cultori dell’Evidence Based Medicine, che non sempre è sinonimo di qualità e che è inseguita da chi di noi teme di avere guai giudiziari e che si aggrappa a tutto ciò che è proceduralizzato o standardizzato a priori considerandolo un salvagente salvifico nel mare in burrasca e un ombrello sotto il quale ripararsi dalla pioggia insistente. Anche per gli influssi che, a questo riguardo, ha esercitato la riforma della colpa medica avvenuta con il decreto Balduzzi (legge 8 novembre 2012, n. 189) che, come si sa, nel dichiarato obiettivo di contenere i costi dati dalla medicina difensivistica, ha depenalizzato la colpa lieve indicando le regole cautelari nelle linee-guida e nelle buone-prassi purchè accreditate dalla comunità scientifica internazionale anche se il loro rispetto non esime dalla responsabilità civile pur ammettendo che il Giudice deve tenerne conto nella liquidazione del danno. Il che non ha introdotto, come qualche giurista ha ritenuto, una culpa sine culpa avendo la norma confermato che la standardizzazione della prassi professionale effettuata attraverso le guidelines e le bestpractices non schiavizza (incatena) certo il professionista che può (anzi deve) da esse derogare quando la situazione clinica del paziente e la specificità della situazione affrontata lo richieda [8]. Riconoscendo che le regole cautelari indicate in astratto dalle linee-guida e dalle buone-prassi non sono un totem cui servilmente e passivamente inchinarsi visto e considerato che il nostro mestiere non è mai standardizzabile proprio per la variabilità fenotipica di ogni malattia e per gli straordinari intrecci delle co-morbilità senza considerare le variabili organizzative che pur esistono.

Gli effetti positivi auspicati da quella riforma non ci sono però stati perché il contenzioso non è diminuito ma è anzi aumentato, per la nullità degli effetti di risparmio sulle molte prassi che vengono ricomprese nei comportamenti difensivi realizzati dal medico e perché la crisi di assicurabilità del S.S.N. non è stata modificata. Lo dimostra il fatto che, a distanza di pochi anni dall’approvazione del decreto Balduzzi [8], si sta discutendo un’ulteriore legge di riforma sulla colpa medica che, se non interverranno le auspicate modifiche, aprirà ulteriori fronti di equivocità (bene non si capisce, ad esempio, quale sarà il ruolo di garanzia dell’Istituto Superiore di Sanità nella selezione delle Società scientifiche che dovranno redigere le guidelines e le bestpractice) e di contenzioso (tra il medico e le strutture sanitarie per il doppio binario della responsabilità contrattuale e da quella extracontrattuale che, nel caso di rivalsa dell’Ente, sono comunque destinati in qualche modo ad incrociarsi).

Conclusioni

La complessità dello scenario delineato mi stimola a qualche considerazione di sintesi per provare ad indicare la strada sulla quale occorre dirigersi mantenendo salda la consapevolezza sulla delicatezza del nostro ruolo che si confronta, nella quotidianità, con i bisogni espressi da persone in situazione di sempre più forte bisogno e fragilità.

La post-modernità è certamente un tempo, uno spazio ed un luogo difficile da frequentare responsabilmente mantenendo salda l’idea di umanità e lo è non solo per la sua ampia liquidità ma anche per le straordinarie contraddizioni che la stanno attraversando, che si stanno ripercuotendo anche sulla relazione di cura e che ne hanno contrassegnato la sua entrata in crisi. La globalizzazione del mercato ed il profitto, le loro logiche ed i loro meccanismi vincenti non hanno, infatti, risparmiato questo particolare settore della socialità. Né poteva essere altrimenti se si considera che la relazione di cura è una tra le più importanti manifestazioni del vivere collettivo e della reciprocità anche se l’organizzazione sanitaria mostra ancora incredibili diversità a livello planetario: esistendo modelli di profit che si alternano a modelli no profit e ad altri modelli in cui la salute è un diritto dei soli ceti abbienti essendo la salute un bene non sempre garantito sul piano del riconoscimento giuridico nonostante le Dichiarazioni internazionali ne abbiano ripetutamente proclamano la tutela ed esigibilità. La qual cosa è avvenuta anche in Europa che pur deve essere considerata come la culla dei diritti dell’uomo e come il luogo in cui la lunga tradizione dell’arte della cura ha mantenuto la sua originaria impostazione umanistica visto che le logiche dell’efficienza, del controllo dei costi standard, dei vincoli di bilancio e del controllo sono intervenute pesantemente nel campo sanitario dove, oggi, prevalgono le logiche dei numeri performanti verificata e garantita dai nuovi apparati di controllo e gestione istituiti in ogni struttura aziendale. I quali ben si guardano dal misurare la qualità delle prestazioni e, soprattutto, i loro risultati in termine di salute prodotta limitandosi, il più spesso, ad una mera operazione di calcolo matematico tra l’atteso e l’erogato e tra i costi di gestione ed i ricavi (più o meno fittizzi) determinati da quel perverso sistema di compensazione della spesa sanitaria a DRG istituito anche in Italia per la sostenibilità del sistema. E che spingono, di conseguenza, sul pedale della standardizzazione e della proceduralizzazione dei processi di diagnosi e cura, spesso definiti sulla carta all’interno delle logiche di accreditamento (istituzionale e non) e con meccanismi top down imposti dai management aziendali e subiti da chi si trova ad operare realmente nelle corsie e negli altri luoghi di cura. Con inevitabili conseguenze anche sulla relazione di cura, sempre più standardizzata sul piano dei tempi dedicati alla persona e delle azioni attese con uno scenario che ha subito una profonda accelerazione dall’intervenuto cambiamento del modello paradigmatico della relazione di cura che, spostando sulla persona la solitudine della scelta tra più opzioni, l’ha sicuramente esposta ai meccanismi che hanno fatto la fortuna della globalizzazione. Essendo essa facilmente condizionabile perché più esposta al controllo ed al condizionamento esterno (affidato al virtuale e al mondo dei media) rispetto a chi, avendo specifiche conoscenze ed idonee competenze, un qualche livello di difesa lo può agire.

Alcuni correttivi li possiamo però mettere in campo per provare a correggere le dinamiche della globalizzazione, del profitto e del contenimento dei costi che motivano i manager ed i ragionieri della sanità a McDonaldizzare progressivamente la medicina e la relazione di cura.

Il primo è di natura culturale. Perché occorre riflettere seriamente sulle questioni sociali ed antropologiche che stanno condizionando le nostre biografie personali e con esse la nostra vita professionale; anche se l’uomo di scienza si ostina a vivere sotto l’ombrello protettivo della sua sola scienza ritenendola un qualcosa di assolutamente indipendente da ogni altra questione sociale e, come tale, non influenzabile quando la storia ci ha, invece, dimostrato che i condizionamenti esterni sono in grado di privare la scienza proprio della sua libertà, di condizionarla, di comprimerla e di strumentalizzarla o con i pregiudizi metafisici (come avvenuto nel caso di Copernico e di Galileo) o con le disumane necessità di auto-sostentamento di ogni regime totalitario (si vedano, al riguardo, i crimini della scienza commessi nel periodo del nazionalsocialismo). Una nostra maggiore sensibilizzazione e bisogno di conoscenza sulle questioni antropologiche e sociologiche non è un optional ed a me sembra del tutto necessaria in questo difficile momento storico per capire i fenomeni, comprenderne le coordinate, intercettare i problemi e provare così a ridare una dimensione umana alla nostra speranza.

Il secondo è, più propriamente, professionale perché la conoscenza non può estraniarsi dalla nostra capacità di pensiero. Le conoscenze scientifiche non ci possono, infatti, incatenare e così trasformare nel loro schiavo, perché il medico senza il pensiero autoriflessivo è esposto ed è alla mercé del potere della tecnica (e degli interessi che la muovono) e perché la medicina diventa così una disumana violenza. Il non-pensiero ci abitua a diventare ingranaggi passivi del sistema, ad assumere il freddo e subdolo volto grigio della cattiva burocrazia, ad aggrapparci alle regole di condotta predefinite da qualcun altro per non esporci sul piano personale, ad abdicare alla nostra personalità, a tacitare le nostre coscienze quand’esse esprimono la loro umanità e a perdere, così, la nostra stessa dignità. Il non-pensiero apre così la porta al male e lo radicalizza in un mondo divenuto liquido in cui si sono smarrite le regole del rispetto, della solidarietà e della convivenza sociale. Senza pensiero siamo destinati a realizzare le azioni (pre)stilate (astrattamente definite) dal sistema quando, invece, la nostra professione si esprime con scelte anche coraggiose, con il linguaggio, con il riconoscimento dell’Altro, con la carità misericordiosa[8], con i piccoli o i grandi gesti generatori di opere che si confrontano, sempre, con il giusto e con ciò che è buono. Di cui, come si vedrà tra un attimo, dobbiamo continuare a rivendicare il primato sulla giustizia procedurale.

Il terzo, di natura etico-pratica, si esprime nell’esigenza di ripensare l’antropologia della relazione di cura per dare una risposta non solo allo strapotere della tecnica ma soprattutto ai limiti, alle insufficienze ed alla facile aggressività dimostrata dall’autonomia della persona. Non penso, naturalmente, alla riemersione dall’oscurità della profondità del paternalismo medico e (meglio) dei suoi tratti distintivi peggiori anche se di quel modello antropologico della relazione di cura dobbiamo recuperare la forza (anche simbolica) del care (o del caring) e la giustizia distributiva [9]. Considerando il care come il prodotto più autentico della responsabilità e dell’impegno, il prendersi davvero a cuore e sulle spalle i bisogni dell’altro riconoscendolo come un soggetto morale autonomo, mai come mezzo e sempre come fine; esprimendo esso la tensione verso chi è fragile, la nostra fatica quotidiana che è fatta non solo di performance professionali ma anche di linguaggio e di quei piccoli/grandi gesti che imprimono ad ogni nostra azione quell’umanesimo cui non potrà mai sottrarsi il bisogno di umanità. Non solo skills e tecnica, dunque, perché il care richiede di ampliare il nostro cuore, di dargli voce espressiva, di riconoscerci come persone oltre che come professionisti, di riconoscere l’Altro, di partecipare alla sua biografia, di rispettarlo come autorità morale e di impegnarci perché la nostra vita sia coerente con la promessa che abbiamo fatto a noi stessi e con quella che abbiamo fatto alla collettività assumendoci il nostro ruolo. Anche se quest’idea pretende un ulteriore sviluppo dovendosi il nostro impegno onorare la giustizia distributiva. Ben diversa da quella procedurale (o dell’ordinamento) e che ci chiede di disambiguare il volto dell’Altro illuminando al contempo anche i volti di chi non ha voce e di chi non ha un volto definito essendo, per così dire, a latere della relazione di cura: ai componenti la sfera parentale, a quelli della sfera amicale ed a chi, pur non conoscendo direttamente la persona, compone la comunità nazionale e mondiale. Con l’obiettivo di ripartire equamente le risorse mai dimenticando, specie in questo momento di drammatica crisi delle risorse e degli investimenti, che ogni nostra scelta, da quelle più semplici a quelle più complesse, ancorché giusta perché nell’interesse di salute della persona, la dobbiamo ponderare tenendo conto delle ricadute che essa ha sulla comunità. Pur non replicando le logiche ed i vincoli dell’appropriatezza economica e del rapporto costo/beneficio, il principio di giustizia pretende il riconoscimento ed il confronto con l’autonomia della persona che non può pretendere opzioni diagnostiche o terapeutiche ingiuste. Perché anche il medico ha una sua autonomia ed una coscienza che deve sempre interrogarsi sull’incidenza e sulle conseguenze che le nostre scelte professionali causano alla comunità. Sprecare le risorse e non ottimizzarle mostra il disprezzo della giustizia distributiva ed esprime, spesso, la violenza dell’arte della cura che non può non considerare i vincoli economici come uno straordinario impulso all’eticità della scelta. Sempre guidata dal rispetto e dalla promozione della dignità umana senza la quale è fin troppo facile cedere a quei radicalismi metafisici ed a quelle derive nichiliste del fanatismo economico che si colgono nel dibattito contemporaneo. Ed indignandoci quando la dignità viene calpestata, derisa, ferita, disattesa, violata: nella consapevolezza che l’offesa alla dignità dell’Altro (soprattutto se più debole e fragile) è anche e per ciò stesso un’offesa concreta alla nostra dignità ed alla nostra stessa umanità. Non dimenticando che i diritti, pur dichiarati e proclamati a gran voce nelle Carte, nelle Convenzioni e nelle Costituzioni sono spesso poi traditi nella concretezza dei fatti proprio da chi dovrebbe promuoverli e dare ad essi una protezione; visto che il mondo è ancora diviso in classi ricche e povere, in ceti che detengono il potere economico sfruttando con sempre più innovative modalità i ceti poveri, perché ci sono popoli che hanno discrete per non dire buone prospettive di benessere e popoli che muoiono ancora di fame, di stenti e di banali malattie infettive; e perché, nonostante la globalizzazione economica, quella umana viene ancora contrastata da insufficienze, interessi e privilegi senza l’onestà di provare a correggerne le storture.

Onorando il nostro impegno per non essere condannati a vivere in una situazione di permanente incertezza ed in un trafelato presente che spesso ci distoglie e ci diseduca dalla responsabilità dell’impegno.

L’etica dei principi e l’etica della responsabilità

Abstract

L’Autore, in questa breve riflessione, si chiede se ha ancora un senso pratico parlare di etica nella relazione di cura. Distingue, a questo riguardo, l’etica dei principi e quella della responsabilità, si schiera a favore di quest’ultima e prova ad indicare quali sono le sue dimensioni costitutive.

Parole chiave: dignità della persona umana, etica dei principi, etica della responsabilità, solidarietà generazionale

 

Introduzione

La domanda che dobbiamo porci non ha una risposta scontata: perché riflettere sull’etica in un momento di così drammatica crisi del Servizio sanitario nazionale e della medicina pubblica? Perché farlo in un momento in cui l’annunciata Legge di stabilità ha determinato una così profonda frattura tra il Governo centrale e le Regioni aggravato dalla circostanza che alcuni esponenti politici, con toni spesso offensivi, hanno ripetutamente enfatizzato le insufficienze del federalismo e, con esse, gli sprechi e le disfunzione delle Regioni poco virtuose? Ha, cioè, ancora un significato pratico parlare di etica in un mondo che, diventato (così almeno sembrerebbe) adulto ed autosufficiente, non ha però perso il vizio degli annunci, dell’autoreferenzialità e dell’arma del sospetto? A me pare proprio di si; e ne spiego le ragioni per provare a condividerle con il Lettore pur ammettendo i limiti delle mie paratie culturali. Spesso mi capita di osservare che il mondo medico si rivolge all’etica ritenendola un salvifico salvagente cui aggrapparsi quando la pratica clinica pone difficili (e controverse) questioni che non possono essere affrontate e risolte avvalendosi delle regole giuridiche che pur modulano l’agire professionale; non perché queste ultime non esplicitino regole, limiti e vincoli dal carattere generali ma per il fatto che questa loro caratteristica non consente di applicarle a quelle situazioni “scomode”[1] della vita pratica che mettono in antitesi beni ed interessi diversi. Quando le criticità non possono essere governate con il solo calcolo della razionalità perché essa, come hanno dimostrato le neuroscienze e l’imaging funzionale (fMRI), non può mai essere sganciata dai nostri valori personali, dalle nostre idee, dal nostro modo di interpretare la visione del mondo; in altre parole, dalla nostra identità morale e, con una parola spesso abusata, dalla nostra coscienza che è assolutamente legittimo dufendere se vogliamo continuare ad essere professionisti capaci di dare una risposta (anche e soprattutto) umana ai bisogni espressi dalle persone più deboli e fragili.

In queste situazioni è come se l’etica diventasse una corazzata invincibile e pronta a respingere gli attacchi sferrati dal pur agguerrito ordinamento giuridico, incapace di dare, sempre e comunque, una risposta chiara, non opinabile ed incontrovertibile ai tanti conflitti generati dalle possibilità della tecnica, dal progresso delle conoscenze, dal processo di secolarizzazione, dal multi-culturalismo migratorio e dal politeismo dei valori comunitari. E all’etica, così, si guarda e ci si rivolge con la presunzione che essa, essendo il regno del bene, sia sempre e comunque in grado di dare un’ultima e definitiva risposta alle tante situazioni difficili che dobbiamo considerate parte stessa della relazione di cura. Nella convinzione che non si tratta di situazioni estreme ma sempre più comuni e ordinarie. Le quali, in prospettiva anche autoriflessiva, ci invitano a rivedere i paradigmi della relazione di cura e, con essi, i confini dell’alleanza terapeutica che pur resta una condizione essenziale del rapporto medico-paziente.

Questo rapporto è, da alcuni decenni, entrato nelle pieghe di una profonda crisi per tutta una serie di fattori e di circostanze che hanno messo in discussione il paternalismo medico espellendolo dalla relazione di cura e sostituendolo con un nuovo modello epistemico che assegna il primato all’autonomia ed alla libertà della persona. Se ciò è il risultato dell’avvenuta costituzionalizzazione dei diritti della persona, della migrazione trans-nazionale di nuclei giuridici più o meno uniformi [2] il cui baricentro è la dignità umana e della globalizzazione, vero è – altrettanto – che il primato riconosciuto all’autodeterminazione non ha certo risolto le tensioni, avendo radicalizzato le asimmetrie e le solitudini decisionali. Ora vissute in prima persona dal paziente che, essendo diventato una persona a tutti gli effetti più emancipata rispetto al passato anche per la potenza delle tecnologie informatiche, è chiamato a decidere da solo il suo destino (in qualche caso, con la contrarietà dei familiari) quando le opzioni di cura possono essere diverse, non affatto scontate e con profili di sicurezza (o di insicurezza) e di risultato che le stime percentuali desunte dottamente dalla letteratura scientifica certo non risolvono.

Questa radicalizzazione, ancora poco considerata (se non addirittura elusa) sul piano della riflessione e di cui ciascuno di noi è testimone, ha avuto molte conseguenze deleterie sul piano pratico (il contenzioso per presunta colpa medica ne è un tipico esempio come la medicina difensiva che si pratica con il dichiarato obiettivo di non avere guai o fastidi) e, soprattutto, ha messo in discussione quell’alleanza terapeutica a cui spesso ci si richiama in prospettiva retorica. L’alleanza si fonda, infatti, non sui luoghi comuni ma sul rispetto reciproco e sul riconoscimento dell’esistenza di un doppio binario paritario verso il quale si dirigono le libertà e le responsabilità dei protagonisti: da una parte quelle della persona che ha il sacrosanto diritto di essere il protagonista indiscusso della sua biografia e delle sue scelte decisionali; dall’altra quelle del professionista a cui l’ordinamento riconosce l’altrettanto sacrosanto diritto di esercitare liberamente la sua scienza pur con i limiti imposti da quella funzione di garanzia ricoperta e che è la conseguenza pratica di un diritto alla salute assicurato dallo Stato in forma gratuita ed universalistica. Riconoscere un primato, all’interno di questo doppio binario, significa mettere in discussione e minare la parità dei ruoli e così riconoscere che l’autonomia della persona ha sempre il sopravvento sulla libertà della scienza ed intaccare quella posizione di garanzia che l’ordinamento giuridico italiano (e la giurisprudenza di legittimità) riconosce al medico pubblico. Minando, all’origine, quell’idea di alleanza che viene messa in discussione nello stesso momento in cui si statuiscono i primati senza bilanciare l’idea che i diritti inviolabili della persona devono essere bilanciati dai doveri inderogabili che pur rinsaldano l’idea di una società mutualmente cooperante.

Non sto pensando a quelle situazioni in cui l’omesso intervento terapeutico o il suo differimento possono mettere a repentaglio la stessa vita della persona o la sua integrità; penso, invece, a quelle situazioni in cui la persona chiede (pretende) interventi diagnostici o terapeutici scientificamente discutibili, inappropriati, poco utili se non addirittura dannosi. Senza appellarsi alla sacralità ed alla inviolabilità della vita umana che restano un baluardo di chiara matrice confessionale è proprio in queste ultime situazioni che il medico si appella al regno dell’etica con l’idea che essa sia in grado di dare una risposta chiara e definitiva alle questioni e così dirimere i conflitti. Affidandosi però ad essa nella più o meno consapevole speranza di rafforzare quei principi e quei valori che costituiscono le nostre variabilità coscienziali e le nostre personali convinzioni. E così abdicando alla fecondità dell’auto-riflessione ed a quella ragionevolezza pratica (il presupposto fondante la deliberazione etica) che trae linfa vitale dal principio di responsabilità sul quale bisogna tornare a riflettere con serietà e impegno.

Riconoscendo l’intrinseca debolezza dell’etica che non è un demerito ma la sua forza propulsiva anche se essa pretende di essere organizzata riconoscendone le sue dimensioni costitutive.

L’etica della convinzione e l’etica della responsabilità

Siamo debitori a Max Weber di questa distinzione che categorizza due modalità diverse (non però inconciliabili) dell’esercizio pratico dell’etica.

Il punto di partenza della riflessione del sociologo tedesco è che nella modernità i valori non sono più un assoluto ed un qualcosa di immutabile. Questa perdita di ruolo dei valori comunitari riconosce molte cause: in primo luogo, il processo di disincanto innescato dal fatto che il mondo si è gradualmente liberato dalle forze magiche e dalla trascendenza degli dèi (“Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!” aveva scritto Nietzsche [3]) ed è così diventato il teatro dell’agire razionale e del calcolo dell’uomo. Proprio sul palcoscenico di questo metaforico teatro si affacciano, oggi, valori non solo diversi ma soprattutto conflittuali (correttamente Weber parla, a questo riguardo, di un franco “politeismo dei valori” [4]).

Da questa premessa origina l’idea che l’etica si può esprimere con un volto pratico dicotomico: (a) l’etica dei principi (detta, anche, delle intenzioni o delle convinzioni); (b) e l’etica della responsabilità.

La prima forma di esercizio pratico dell’etica si richiama ai principi e ai valori assoluti che essa assume indipendentemente ed a prescindere dalle conseguenze a cui essi conducono. Il suo prototipo letterario è il Don Chisciotte di Cervantes e, pur senza confondere le idee, la sua espressione comunitaria più nota è quella del cristianesimo: chi crede in Dio e nella vita ultraterrena agisce sulla base di ben precisi principi e valori senza porsi il problema delle conseguenze che derivano dalla loro stretta osservanza. Per chi è cristiano, è così che l’aborto è la soppressione di un essere umano (una vera e propria forma di omicidio) ancorchè eseguito nelle primissime fasi della gestazione che bisogna contrastare indipendentemente da quelle che saranno le conseguenze sulla donna della prosecuzione della gravidanza e della maternità; ed è così, ancora, che il testimone di Geova, che rifiuta la trasfusione per ragioni religiose, deve essere trasfuso con l’obiettivo di salvargli la vita che è un valore non negoziabile. Essa è, dunque, funzionale ai principi ed ai valori confinati dentro i diversi modi del nostro sentire e non ha, né può avere, pretese di legittimità dal valore universalistico.

L’etica della responsabilità è, invece, quella in cui ogni nostra azione viene valutata attentamente sulla base del rapporto che si instaura tra i mezzi e gli scopi dell’azione e delle sue ragionevoli conseguenze. Senza assumere princìpi assoluti, l’etica della responsabilità agisce tenendo sempre presenti le conseguenza pratiche dell’agire: è proprio guardando ad esse che si agisce in vista di un bene ritenuta maggiore o di un male minore.

Sicché l’etica dei principi e quella della responsabilità sono due etiche antitetiche ed inconciliabili, che fanno capo a due diversi modi di connotare la prassi politica come osserva Weber [5]: la prima è, in definitiva, un’etica apolitica, come è testimoniato dal cristiano che agisce seguendo i suoi principi e senza chiedersi se il suo agire può davvero migliorare il mondo. Al contrario, l’etica della responsabilità è indissolubilmente connessa alla politica, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze pratiche dell’agire dentro la comunità. L’etica della responsabilità si esprime, quindi, nella vita sociale, considerando le possibili conseguenze delle proprie azioni vanno sulla base del principio dell’ «agire razionale rispetto allo scopo»; quella della convinzione resta, invece, affrancata ai principi ed ai valori che fanno parte del nostro sentire personale, senza preoccuparsi delle sue ricadute esteriori. L’etica della responsabilità, invece, corrisponde all’atteggiamento di colui che vuole migliorare il bene comune e di conseguenza nel suo agire è preoccupato dell’impatto che ciò che fa avrà su di esso: il senso di responsabilità spinge, in altre parole, a prendere in considerazione la totalità delle prevedibili conseguenze e a scegliere in funzione di quelle ritenute migliori o meno peggiori. Chi si direziona in questa prospettiva ritiene che il valore di un’azione deve essere cercato non nell’azione in sé, fine a sé stessa, ma nei suoi risultati. Problema cruciale di questo atteggiamento è però quello di stabilire fino a che punto un mezzo si giustifica solo in funzione dello scopo che deve raggiungere, soprattutto quando il mezzo è un’azione riprovevole. Weber cita come esempi dell’etica della responsabilità il politico realista che adatta le proprie scelte al contesto in cui opera e il personaggio del Grande Inquisitore di Dostoevskij, che di fronte alla scelta tra la fedeltà a un ideale e la rinuncia a esso per evitare le conseguenze negative che la coerenza avrebbe prodotto, sceglie la seconda strada e tradisce così l’ideale.

Queste due modalità di esercizio pratico dell’etica hanno una natura radicalmente contrapposta ma, come si vedrà, assolutamente non inconciliabile anche perché non può esistere nessuna etica che può prescindere del tutto dalle conseguenze di un’azione. Ogni azione ha, per sua natura, degli effetti al punto che il contenuto di essa non può non tenerne conto. La stessa struttura delle azioni umane, insomma, richiede che la valutazione morale sia una combinazione dei requisiti dell’etica della responsabilità con quelli dell’etica della convinzione che, tuttavia, anche per il credente, ha la necessità di darsi prospettive teleologiche chiare e condizioni precise.

Etica, umanesimo e storicità

Tra le molte ricorrenze, il 2015 è stato l’anno in cui si è celebrato il 70° anniversario della morte di uno straordinario teologo che, molto probabilmente, è stato uno tra i più genuini interpreti della lotta contro il Male: di Dietrich Bonhoffer che, per ordine speciale impartito da Hitler, venne impiccato il 9 aprile del 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg (Germania) dove egli era stato imprigionato per aver partecipato all’operazione Valchiria per assassinare il gerarca nazista (“il seduttore” come lui stesso lo ha chiamato).

Pastore luterano, la sua storia personale mostra una straordinaria contraddizione: da credente che aveva abbracciato l’idea della non-violenza durante il suo soggiorno in America, a testimone ostinato della resistenza al Male incarnato da Hitler e dal regime nazional-socialista al punto tale da partecipare attivamente alla congiura per la sua eliminazione fisica. Non si tratta, però, che di una contraddizione apparente perché, per Bonhoffer, non è la sicurezza ciò che salva ma il rischio, l’instabilità, la continua e prevedibile irruzione di Dio nella storia ed in un mondo che è diventato adulto. Il suo essere autentico per gli altri e la rinuncia di sé origina da una straordinaria intuizione: indicata nella “grande mascherata del Male” che è stato capace di scompaginare tutti i concetti etici avendo assunto volti diversi, tra cui la “figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente […]” [6].

Se riflettiamo attentamente, il rischio di universalizzazione resta nell’astrazione di una visione (a)storica incapace di confrontarsi con la realtà delle cose e con quella banalizzazione del male denunciata dalla Arent [7] che trasforma l’uomo in una specie di automa incapace di pensiero autonomo e di esercitare la propria autentica responsabilità. Perché “palese è il fallimento delle persone ragionevoli, che nella loro miopia, vogliono rendere giustizia a tutti i contendenti e vengono così stritolati nello scontro delle potenze contrapposte, senza aver raggiunto il benchè minimo risultato”. Essi “delusi per l’assenza di ragione nel mondo, si vedono condannati alla sterilità, ed escono rassegnati dal gioco o si abbandonano inermi al più forte […]” [8].

Tuttavia, la vita etica responsabile e l’opposizione al seducente potere del Male hanno un orizzonte ed una loro struttura che il teologo tedesco indica: (1) nella sostituzione vicaria (nel prendere su di sé il peso degli oppressi); (2) nell’adeguatezza al piano di realtà (della storia in cui viviamo); (3) nella disponibilità all’assunzione di una colpa; (4) nel saper correre il rischio che porta con sé la decisione concreta.

Non si tratta, così, di analizzare e discutere l’ampiezza della responsabilità e se essa si applichi ad un popolo, ad un gruppo costituito o al singolo individuo. Perché la sostituzione vicaria si sviluppa “solo nella dedizione piena della propria vita all’altro” e nel servire l’altro anche se questo può significare la perdita non certo identitaria del sé. Dovendo essere consapevoli, come afferma Bonhoffer, che si può abusare in due modi di questa sostituzione: o ponendo in maniera assoluta il nostro io come faceva il paternalismo medico; o ponendo in maniera altrettanto assoluta l’altro uomo. Nella prima ipotesi “il rapporto della responsabilità porta alla violentazione e alla tirannia” mentre “nel secondo caso pongo in assoluto il bene dell’altro uomo, disattendendo ogni altra responsabilità”. Trasformando così la responsabilità in “un idolo” quand’essa deve continuare ad essere una prassi che tende a realizzare “qualcosa di relativamente migliore” rispetto ad un “qualcosa di relativamente peggiore”.

Questa non assolutizzazione del comportamento autenticamente responsabile è un’idea davvero originale che si oppone a qualsiasi tirannia dell’etica invitandoci a considerarla una fortezza non espugnabile. Una scienza umana non dell’assoluto che non si confronta con verità dogmatiche e che così “unisce in sé l’io di più persone” portandoci a non condividere l’idea che il comportamento etico sia una realtà virtuale realizzata da un soggetto isolato dal contesto di vita.

La forza e l’apparente debolezza dell’etica sta nella circostanza che essa si confronta con la realtà concreta e con i suoi problemi; adeguandosi alla realtà perché il comportamento etico “non è stabilito in partenza ed una volta per tutte […] ma nasce con la situazione data”. Questo comporta una presa di coscienza della realtà fattuale, che non è né l’atteggiamento servile dinanzi ai fatti di cui parla Nietzsche, né «una opposizione di principio, una ribellione di principio»; perché «accettazione del fattuale ed opposizione ad esso sono indissolubilmente uniti nell’agire autenticamente adeguato alla realtà» [9].

Al punto tale che anche il cristiano deve disporsi nei confronti della realtà in un atteggiamento insieme di adesione e di condanna.

L’etica non dispone, così, di nessun principio sempre valido che deve essere fanaticamente attuato contro la resistenza offerta dal piano della realtà storica che attraversiamo ammorbidendola con leggi estranee, valide per ogni tempo e per tutti; realizzandosi con azioni e comportamenti adeguati al piano di realtà e nella storia in cui siamo concretamente calati e di cui siamo protagonisti.

Anche se questo, in qualche caso, può portarci ad assumere responsabilmente una colpa, a risponderne ed a pagarne le conseguenze. “Davanti agli uomini l’uomo della responsabilità è giustificato dalla necessità, davanti a sé stesso è assolto dalla propria coscienza ma davanti a Dio egli spera solo nella grazia”, scrive il teologo che ha vissuto il contrasto tra i suoi ideali e la necessità di opporsi responsabilmente al male. Fermare chi si è reso colpevole di violenza (al “seduttore”) sapendo che anche il suo comportamento potrà essere violento trova così una giustificazione etica non solo davanti a sé stesso, ma anche agli uomini e a Dio.

Ed è l’uomo, in quanto tale, che “deve verificare i motivi, le intenzioni ed il senso del suo agire”, in altre parole “la ragionevolezza di un’azione progettata” senza appellarsi alla legge; perché in tal caso “egli non sarebbe più veramente libero” visto che la responsabilità non si adegua ad un sapere pubblico ma ad una singolarità insostituibile, come scritta da Deridda che ne ha indicato il prototipo in Abramo: “il più morale ed immorale, il più responsabile ed irresponsabile degli uomini, assolutamente irresponsabile perché assolutamente responsabile” [10].

Sarebbe però troppo facile se la scelta etica fosse condizionata dal giusto e dall’ingiusto.

Essa, infatti, deve saper orientarsi, se necessario, tra giusto e giusto e tra ingiusto ed ingiusto. Sempre sapendo assumere su di sé il rischio che si corre “rinunciando […] ad una conoscenza ultima del bene e del male”. Senza rischio non c’è autentica responsabilità che viene agita nella non conoscenza del bene per chi crede affidandosi a Dio e per chi non crede al tribunale non degli uomini ma a quello della storia dell’umanità.

Etica e solidarietà intergenerazionale

C’è, tuttavia, un’ulteriore dimensione dell’etica della responsabilità che dobbiamo tenere in considerazione: quella della solidarietà tra le generazioni che anticipa la difesa della dignità umana.

Questa dimensione è stata sviluppata da straordinari pensatori vissuti nel ‘900 tra cui, oltre a Bonhoffer, Hans Jonas e Jurgen Habermas.

Nell’Etica il teologo protestante, dopo aver ricordato che “l’ultimo non deve interloquire nella organizzazione della vita nel mondo», afferma che da ciò deriva “ qualcosa di decisiva importanza: il penultimo va salvaguardato per amore dell’ultimo. Una sua distruzione arbitraria pregiudicherebbe gravemente l’ultimo. Ove pertanto, ad esempio, una vita umana viene privata delle condizioni proprie dell’esser-uomo, lì la giustificazione di una simile vita mediante la grazia e la fede viene seriamente ostacolata, quand’anche non resa impossibile». Da ciò la convinzione che l’etica della responsabilità deve saper guardare al futuro, ai nostri figli, ai nipoti ed alle generazioni che verranno dopo di noi e che vivranno sulla terra.

Questa idea è stata poi perfezionata da Jonas, nel suo libro forse più conosciuto. Essere responsabili significa saper guardare avanti ed al futuro nella convinzione che le scelte, ancorchè giustificabili in un dato momento storico, possono essere immorali davanti al tribunale delle generazioni future. La critica principale rivolta dal filosofo tedesco è alla tecnica che si è resa responsabile della vulnerabilità della natura ed ha avuto conseguenze drammatiche sull’ecosistema che coinvolgeranno le generazioni future. Le quali saranno costrette a pagare il prezzo di una miopia umana che, come ha scritto Papa Francesco nella sua più recente lettera-enciclica [11],

ha portato al “deterioramento dell’ambiente e quello della società” che hanno colpito “in modo speciale i più deboli del pianeta […] che non trovano spazio sufficiente nelle agende del mondo”. Con un eccesso antropocentrico “che, sotto altra veste, oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali. Per questo è giunto il momento di prestare nuovamente attenzione alla realtà con i limiti che essa impone, i quali a loro volta costituiscono la possibilità di uno sviluppo umano e sociale più sano e fecondo. Una presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata della relazione dell’essere umano con il mondo”. Un inganno prometeico di dominio sul mondo che ha messo in subordine la sostenibilità del pianeta e le tante disuguaglianze che si registrano nel mondo.

Da ciò l’esigenza di un’etica collettiva essendo in gioco la sopravvivenza non solo della terra ma anche della specie umana che Jonas fonda su un nuovo imperativo etico: agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra. Che sviluppa l’imperativo etico kantiano nel senso che esso evoca una coerenza, di tipo metafisico e non logico, non dell’atto in sé, ma dei suoi “effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire”, e l’universalizzazione” non è più ipotetica (“se qualcuno facesse così…”), “al contrario, le azioni sottoposte al nuovo imperativo, ossia le azioni della collettività, si universalizzano di fatto nella misura in cui hanno successo”.

Questa prospettiva di un’etica intergenerazionale era stata anche colta da Hanna Arendt nella sua celebre frase “sono stata pensata, dunque sono” che ha messo in crisi definitiva il cogito cartesiano (il cogito, ergo sum) ed è stata ulteriormente sviluppata, in tempi più recenti, da Jurgen Habermas [12].

Il filosofo tedesco, in uno dei suoi libri più conosciuti, sia pur partendo dalla programmazione genetica, ha affrontato il tema dell’identità di specie ritenendo che “la scelta delle predisposizioni desiderate non può venire aprioristicamente sganciata da una compromissione dei progetti di vita”. La programmazione genetica produce, infatti, una dipendenza tra le persone mettendo in discussione la reciprocità e la simmetria del riconoscimento che caratterizza una comunità libera ed uguale. Gli interventi genetici compromettono così la libertà etica ed impediscono all’essere umano di concepirsi come l’autore indiviso della propria vita ed il creatore del proprio autoritratto biografico. Con una usurpazione della sua responsabilità che finisce “per modificare la nostra autocomprensione normativa”; e con essa la nostra identità di genere che viene strumentalizzata in vista di un obiettivo prefissato e voluto da altri. Le persone geneticamente programmate perdono, infatti, il loro rapporto con le generazioni precedenti perché la manipolazione genetica le porta a non potersi più concepire come “persona uguali per nascita e per valore”.

Ogni rude e artefatto naturalismo mina l’etica facendole perdere quella dimensione autenticamente umana usurpando proprio quella responsabilità che deve restare affidata al singolo individuo. A patto, naturalmente, che l’umanità sia considerata per ciò che essa è e non manipolata dalla tecnica per ragioni che con essa nulla hanno a che vedere.

Alcune brevi conclusioni

Sono partito chiedendomi che senso ha parlare oggi di etica richiamando la circostanza che, soprattutto nei casi clinici più controversi e difficili (quelli in cui entrano in contrasto beni diversi), i medici si rivolgono spesso ad essa come ad una scienza esatta da cui trarre regole dal carattere generale per trovare una soluzione chiara, non equivoca e non censurabile sul piano della colpa.

Ho così chiarito che l’etica può avere espressioni pratiche diverse ma non inconciliabili ed ho ricordato che cosa si debba intendere per etica della convinzione e per etica della responsabilità. Mi sono schierato a favore dell’etica della responsabilità perché essa non è debitrice di principi generali che devono essere onorati a tutti i costi e con ogni mezzo pur osservando la radicalità della sua debolezza strutturale. Perché se il male è spesso mascherato nelle figure della luce, dell’esercizio del dovere imposto dal ruolo e delle necessità storiche anche il bene non è un qualcosa di statico, di definito e di valevole per tutti: perché, per il testimone di Geova, è un bene morire senza essere trasfuso per aver salvaguardata l’integrità dell’anima e con essa la vita eterna, per altri la vita è un bene che deve essere salvaguardato a tutti i costi e con ogni mezzo; e così, mentre per la donna è un bene interrompere la gravidanza quando la stessa possa ad es. compromettere la sua vita o la sua salute, per altri questa scelta un male che deve essere combattuto astenendosi dalle procedure e dalle attività necessarie per la sua realizzazione.

Nonostante questa debolezza dell’etica ho provato ad indicare quali possono essere considerate le sue caratteristiche e dimensioni costitutive provando ad accomunare credenti e non credenti: le ho indicate nella sostituzione vicaria (nell’assumere su di sé il peso delle vittime dell’oppressione, della violenza e dei diritti negati), nella fedeltà alla terra (alla storia in cui viviamo), nella capacità di essere persone davvero adulte e mature capaci di guardare alla solidarietà inter-generazionale e nell’assumere su di noi stessi un rischio (e la colpa) quando ci troviamo a dover scegliere tra il buono ed il buono e tra l’ingiusto e l’ingiusto senza aggrapparci al corrimano dei vincoli imposti dalle leggi e dall’ordinamento giuridico.

Ed ho così chiarito che l’autentica responsabilità si compie anche per noi medici non già nel realizzare azioni doverosamente connesse al nostro ruolo ed attese dalla società ma nell’instabilità ed imprevedibilità di ogni nostra esperienza di vita terrena. Senza però tracimare nell’anarchia perché l’etica della rinuncia del sé e del prendersi cura degli altri viene composta attraverso il saper valutare a fondo le questioni, scegliere i mezzi, soppesare l’appropriatezza delle azioni e riconoscere il loro reale obiettivo che va sempre chiarito al tribunale della nostra coscienza, di donne e di uomini autenticamente impegnati nel dare risposta ai bisogni espressi dalle persone più deboli e fragili.

Gravandoci del rischio che corriamo con ogni nostra decisione ed essendo consapevoli che esiste sempre uno scotto che dobbiamo pagare. Nella consapevolezza che il bene non è un assoluto e che spesso occorre scegliere tra bene e bene e combattere la luce del male rivendicando il primato della nostra coscienza personale che deve saper ad esso resistere anche sul piano della testimonianza pubblica.

Mai cedendo alla sua banalizzazione ed alla anestesia delle coscienza che gli interessi economici, quelli dei più forti e la globalizzazione dei mercati hanno drammaticamente prodotto. E così recuperando la capacità di pensiero autonomo ed autoriflessivo senza il quale l’etica della responsabilità è destinata a restare un vuoto esercizio di pensiero ed un orpello retorico da cui occorre liberarsi.