Gennaio Febbraio 2016 - Specialità e professioni a colloquio

L’etica dei principi e l’etica della responsabilità

Abstract

L’Autore, in questa breve riflessione, si chiede se ha ancora un senso pratico parlare di etica nella relazione di cura. Distingue, a questo riguardo, l’etica dei principi e quella della responsabilità, si schiera a favore di quest’ultima e prova ad indicare quali sono le sue dimensioni costitutive.

Parole chiave: dignità della persona umana, etica dei principi, etica della responsabilità, solidarietà generazionale

 

Introduzione

La domanda che dobbiamo porci non ha una risposta scontata: perché riflettere sull’etica in un momento di così drammatica crisi del Servizio sanitario nazionale e della medicina pubblica? Perché farlo in un momento in cui l’annunciata Legge di stabilità ha determinato una così profonda frattura tra il Governo centrale e le Regioni aggravato dalla circostanza che alcuni esponenti politici, con toni spesso offensivi, hanno ripetutamente enfatizzato le insufficienze del federalismo e, con esse, gli sprechi e le disfunzione delle Regioni poco virtuose? Ha, cioè, ancora un significato pratico parlare di etica in un mondo che, diventato (così almeno sembrerebbe) adulto ed autosufficiente, non ha però perso il vizio degli annunci, dell’autoreferenzialità e dell’arma del sospetto? A me pare proprio di si; e ne spiego le ragioni per provare a condividerle con il Lettore pur ammettendo i limiti delle mie paratie culturali. Spesso mi capita di osservare che il mondo medico si rivolge all’etica ritenendola un salvifico salvagente cui aggrapparsi quando la pratica clinica pone difficili (e controverse) questioni che non possono essere affrontate e risolte avvalendosi delle regole giuridiche che pur modulano l’agire professionale; non perché queste ultime non esplicitino regole, limiti e vincoli dal carattere generali ma per il fatto che questa loro caratteristica non consente di applicarle a quelle situazioni “scomode”[1] della vita pratica che mettono in antitesi beni ed interessi diversi. Quando le criticità non possono essere governate con il solo calcolo della razionalità perché essa, come hanno dimostrato le neuroscienze e l’imaging funzionale (fMRI), non può mai essere sganciata dai nostri valori personali, dalle nostre idee, dal nostro modo di interpretare la visione del mondo; in altre parole, dalla nostra identità morale e, con una parola spesso abusata, dalla nostra coscienza che è assolutamente legittimo dufendere se vogliamo continuare ad essere professionisti capaci di dare una risposta (anche e soprattutto) umana ai bisogni espressi dalle persone più deboli e fragili.

In queste situazioni è come se l’etica diventasse una corazzata invincibile e pronta a respingere gli attacchi sferrati dal pur agguerrito ordinamento giuridico, incapace di dare, sempre e comunque, una risposta chiara, non opinabile ed incontrovertibile ai tanti conflitti generati dalle possibilità della tecnica, dal progresso delle conoscenze, dal processo di secolarizzazione, dal multi-culturalismo migratorio e dal politeismo dei valori comunitari. E all’etica, così, si guarda e ci si rivolge con la presunzione che essa, essendo il regno del bene, sia sempre e comunque in grado di dare un’ultima e definitiva risposta alle tante situazioni difficili che dobbiamo considerate parte stessa della relazione di cura. Nella convinzione che non si tratta di situazioni estreme ma sempre più comuni e ordinarie. Le quali, in prospettiva anche autoriflessiva, ci invitano a rivedere i paradigmi della relazione di cura e, con essi, i confini dell’alleanza terapeutica che pur resta una condizione essenziale del rapporto medico-paziente.

Questo rapporto è, da alcuni decenni, entrato nelle pieghe di una profonda crisi per tutta una serie di fattori e di circostanze che hanno messo in discussione il paternalismo medico espellendolo dalla relazione di cura e sostituendolo con un nuovo modello epistemico che assegna il primato all’autonomia ed alla libertà della persona. Se ciò è il risultato dell’avvenuta costituzionalizzazione dei diritti della persona, della migrazione trans-nazionale di nuclei giuridici più o meno uniformi [2] il cui baricentro è la dignità umana e della globalizzazione, vero è – altrettanto – che il primato riconosciuto all’autodeterminazione non ha certo risolto le tensioni, avendo radicalizzato le asimmetrie e le solitudini decisionali. Ora vissute in prima persona dal paziente che, essendo diventato una persona a tutti gli effetti più emancipata rispetto al passato anche per la potenza delle tecnologie informatiche, è chiamato a decidere da solo il suo destino (in qualche caso, con la contrarietà dei familiari) quando le opzioni di cura possono essere diverse, non affatto scontate e con profili di sicurezza (o di insicurezza) e di risultato che le stime percentuali desunte dottamente dalla letteratura scientifica certo non risolvono.

Questa radicalizzazione, ancora poco considerata (se non addirittura elusa) sul piano della riflessione e di cui ciascuno di noi è testimone, ha avuto molte conseguenze deleterie sul piano pratico (il contenzioso per presunta colpa medica ne è un tipico esempio come la medicina difensiva che si pratica con il dichiarato obiettivo di non avere guai o fastidi) e, soprattutto, ha messo in discussione quell’alleanza terapeutica a cui spesso ci si richiama in prospettiva retorica. L’alleanza si fonda, infatti, non sui luoghi comuni ma sul rispetto reciproco e sul riconoscimento dell’esistenza di un doppio binario paritario verso il quale si dirigono le libertà e le responsabilità dei protagonisti: da una parte quelle della persona che ha il sacrosanto diritto di essere il protagonista indiscusso della sua biografia e delle sue scelte decisionali; dall’altra quelle del professionista a cui l’ordinamento riconosce l’altrettanto sacrosanto diritto di esercitare liberamente la sua scienza pur con i limiti imposti da quella funzione di garanzia ricoperta e che è la conseguenza pratica di un diritto alla salute assicurato dallo Stato in forma gratuita ed universalistica. Riconoscere un primato, all’interno di questo doppio binario, significa mettere in discussione e minare la parità dei ruoli e così riconoscere che l’autonomia della persona ha sempre il sopravvento sulla libertà della scienza ed intaccare quella posizione di garanzia che l’ordinamento giuridico italiano (e la giurisprudenza di legittimità) riconosce al medico pubblico. Minando, all’origine, quell’idea di alleanza che viene messa in discussione nello stesso momento in cui si statuiscono i primati senza bilanciare l’idea che i diritti inviolabili della persona devono essere bilanciati dai doveri inderogabili che pur rinsaldano l’idea di una società mutualmente cooperante.

Non sto pensando a quelle situazioni in cui l’omesso intervento terapeutico o il suo differimento possono mettere a repentaglio la stessa vita della persona o la sua integrità; penso, invece, a quelle situazioni in cui la persona chiede (pretende) interventi diagnostici o terapeutici scientificamente discutibili, inappropriati, poco utili se non addirittura dannosi. Senza appellarsi alla sacralità ed alla inviolabilità della vita umana che restano un baluardo di chiara matrice confessionale è proprio in queste ultime situazioni che il medico si appella al regno dell’etica con l’idea che essa sia in grado di dare una risposta chiara e definitiva alle questioni e così dirimere i conflitti. Affidandosi però ad essa nella più o meno consapevole speranza di rafforzare quei principi e quei valori che costituiscono le nostre variabilità coscienziali e le nostre personali convinzioni. E così abdicando alla fecondità dell’auto-riflessione ed a quella ragionevolezza pratica (il presupposto fondante la deliberazione etica) che trae linfa vitale dal principio di responsabilità sul quale bisogna tornare a riflettere con serietà e impegno.

Riconoscendo l’intrinseca debolezza dell’etica che non è un demerito ma la sua forza propulsiva anche se essa pretende di essere organizzata riconoscendone le sue dimensioni costitutive.

L’etica della convinzione e l’etica della responsabilità

Siamo debitori a Max Weber di questa distinzione che categorizza due modalità diverse (non però inconciliabili) dell’esercizio pratico dell’etica.

Il punto di partenza della riflessione del sociologo tedesco è che nella modernità i valori non sono più un assoluto ed un qualcosa di immutabile. Questa perdita di ruolo dei valori comunitari riconosce molte cause: in primo luogo, il processo di disincanto innescato dal fatto che il mondo si è gradualmente liberato dalle forze magiche e dalla trascendenza degli dèi (“Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!” aveva scritto Nietzsche [3]) ed è così diventato il teatro dell’agire razionale e del calcolo dell’uomo. Proprio sul palcoscenico di questo metaforico teatro si affacciano, oggi, valori non solo diversi ma soprattutto conflittuali (correttamente Weber parla, a questo riguardo, di un franco “politeismo dei valori” [4]).

Da questa premessa origina l’idea che l’etica si può esprimere con un volto pratico dicotomico: (a) l’etica dei principi (detta, anche, delle intenzioni o delle convinzioni); (b) e l’etica della responsabilità.

La prima forma di esercizio pratico dell’etica si richiama ai principi e ai valori assoluti che essa assume indipendentemente ed a prescindere dalle conseguenze a cui essi conducono. Il suo prototipo letterario è il Don Chisciotte di Cervantes e, pur senza confondere le idee, la sua espressione comunitaria più nota è quella del cristianesimo: chi crede in Dio e nella vita ultraterrena agisce sulla base di ben precisi principi e valori senza porsi il problema delle conseguenze che derivano dalla loro stretta osservanza. Per chi è cristiano, è così che l’aborto è la soppressione di un essere umano (una vera e propria forma di omicidio) ancorchè eseguito nelle primissime fasi della gestazione che bisogna contrastare indipendentemente da quelle che saranno le conseguenze sulla donna della prosecuzione della gravidanza e della maternità; ed è così, ancora, che il testimone di Geova, che rifiuta la trasfusione per ragioni religiose, deve essere trasfuso con l’obiettivo di salvargli la vita che è un valore non negoziabile. Essa è, dunque, funzionale ai principi ed ai valori confinati dentro i diversi modi del nostro sentire e non ha, né può avere, pretese di legittimità dal valore universalistico.

L’etica della responsabilità è, invece, quella in cui ogni nostra azione viene valutata attentamente sulla base del rapporto che si instaura tra i mezzi e gli scopi dell’azione e delle sue ragionevoli conseguenze. Senza assumere princìpi assoluti, l’etica della responsabilità agisce tenendo sempre presenti le conseguenza pratiche dell’agire: è proprio guardando ad esse che si agisce in vista di un bene ritenuta maggiore o di un male minore.

Sicché l’etica dei principi e quella della responsabilità sono due etiche antitetiche ed inconciliabili, che fanno capo a due diversi modi di connotare la prassi politica come osserva Weber [5]: la prima è, in definitiva, un’etica apolitica, come è testimoniato dal cristiano che agisce seguendo i suoi principi e senza chiedersi se il suo agire può davvero migliorare il mondo. Al contrario, l’etica della responsabilità è indissolubilmente connessa alla politica, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze pratiche dell’agire dentro la comunità. L’etica della responsabilità si esprime, quindi, nella vita sociale, considerando le possibili conseguenze delle proprie azioni vanno sulla base del principio dell’ «agire razionale rispetto allo scopo»; quella della convinzione resta, invece, affrancata ai principi ed ai valori che fanno parte del nostro sentire personale, senza preoccuparsi delle sue ricadute esteriori. L’etica della responsabilità, invece, corrisponde all’atteggiamento di colui che vuole migliorare il bene comune e di conseguenza nel suo agire è preoccupato dell’impatto che ciò che fa avrà su di esso: il senso di responsabilità spinge, in altre parole, a prendere in considerazione la totalità delle prevedibili conseguenze e a scegliere in funzione di quelle ritenute migliori o meno peggiori. Chi si direziona in questa prospettiva ritiene che il valore di un’azione deve essere cercato non nell’azione in sé, fine a sé stessa, ma nei suoi risultati. Problema cruciale di questo atteggiamento è però quello di stabilire fino a che punto un mezzo si giustifica solo in funzione dello scopo che deve raggiungere, soprattutto quando il mezzo è un’azione riprovevole. Weber cita come esempi dell’etica della responsabilità il politico realista che adatta le proprie scelte al contesto in cui opera e il personaggio del Grande Inquisitore di Dostoevskij, che di fronte alla scelta tra la fedeltà a un ideale e la rinuncia a esso per evitare le conseguenze negative che la coerenza avrebbe prodotto, sceglie la seconda strada e tradisce così l’ideale.

Queste due modalità di esercizio pratico dell’etica hanno una natura radicalmente contrapposta ma, come si vedrà, assolutamente non inconciliabile anche perché non può esistere nessuna etica che può prescindere del tutto dalle conseguenze di un’azione. Ogni azione ha, per sua natura, degli effetti al punto che il contenuto di essa non può non tenerne conto. La stessa struttura delle azioni umane, insomma, richiede che la valutazione morale sia una combinazione dei requisiti dell’etica della responsabilità con quelli dell’etica della convinzione che, tuttavia, anche per il credente, ha la necessità di darsi prospettive teleologiche chiare e condizioni precise.

Etica, umanesimo e storicità

Tra le molte ricorrenze, il 2015 è stato l’anno in cui si è celebrato il 70° anniversario della morte di uno straordinario teologo che, molto probabilmente, è stato uno tra i più genuini interpreti della lotta contro il Male: di Dietrich Bonhoffer che, per ordine speciale impartito da Hitler, venne impiccato il 9 aprile del 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg (Germania) dove egli era stato imprigionato per aver partecipato all’operazione Valchiria per assassinare il gerarca nazista (“il seduttore” come lui stesso lo ha chiamato).

Pastore luterano, la sua storia personale mostra una straordinaria contraddizione: da credente che aveva abbracciato l’idea della non-violenza durante il suo soggiorno in America, a testimone ostinato della resistenza al Male incarnato da Hitler e dal regime nazional-socialista al punto tale da partecipare attivamente alla congiura per la sua eliminazione fisica. Non si tratta, però, che di una contraddizione apparente perché, per Bonhoffer, non è la sicurezza ciò che salva ma il rischio, l’instabilità, la continua e prevedibile irruzione di Dio nella storia ed in un mondo che è diventato adulto. Il suo essere autentico per gli altri e la rinuncia di sé origina da una straordinaria intuizione: indicata nella “grande mascherata del Male” che è stato capace di scompaginare tutti i concetti etici avendo assunto volti diversi, tra cui la “figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente […]” [6].

Se riflettiamo attentamente, il rischio di universalizzazione resta nell’astrazione di una visione (a)storica incapace di confrontarsi con la realtà delle cose e con quella banalizzazione del male denunciata dalla Arent [7] che trasforma l’uomo in una specie di automa incapace di pensiero autonomo e di esercitare la propria autentica responsabilità. Perché “palese è il fallimento delle persone ragionevoli, che nella loro miopia, vogliono rendere giustizia a tutti i contendenti e vengono così stritolati nello scontro delle potenze contrapposte, senza aver raggiunto il benchè minimo risultato”. Essi “delusi per l’assenza di ragione nel mondo, si vedono condannati alla sterilità, ed escono rassegnati dal gioco o si abbandonano inermi al più forte […]” [8].

Tuttavia, la vita etica responsabile e l’opposizione al seducente potere del Male hanno un orizzonte ed una loro struttura che il teologo tedesco indica: (1) nella sostituzione vicaria (nel prendere su di sé il peso degli oppressi); (2) nell’adeguatezza al piano di realtà (della storia in cui viviamo); (3) nella disponibilità all’assunzione di una colpa; (4) nel saper correre il rischio che porta con sé la decisione concreta.

Non si tratta, così, di analizzare e discutere l’ampiezza della responsabilità e se essa si applichi ad un popolo, ad un gruppo costituito o al singolo individuo. Perché la sostituzione vicaria si sviluppa “solo nella dedizione piena della propria vita all’altro” e nel servire l’altro anche se questo può significare la perdita non certo identitaria del sé. Dovendo essere consapevoli, come afferma Bonhoffer, che si può abusare in due modi di questa sostituzione: o ponendo in maniera assoluta il nostro io come faceva il paternalismo medico; o ponendo in maniera altrettanto assoluta l’altro uomo. Nella prima ipotesi “il rapporto della responsabilità porta alla violentazione e alla tirannia” mentre “nel secondo caso pongo in assoluto il bene dell’altro uomo, disattendendo ogni altra responsabilità”. Trasformando così la responsabilità in “un idolo” quand’essa deve continuare ad essere una prassi che tende a realizzare “qualcosa di relativamente migliore” rispetto ad un “qualcosa di relativamente peggiore”.

Questa non assolutizzazione del comportamento autenticamente responsabile è un’idea davvero originale che si oppone a qualsiasi tirannia dell’etica invitandoci a considerarla una fortezza non espugnabile. Una scienza umana non dell’assoluto che non si confronta con verità dogmatiche e che così “unisce in sé l’io di più persone” portandoci a non condividere l’idea che il comportamento etico sia una realtà virtuale realizzata da un soggetto isolato dal contesto di vita.

La forza e l’apparente debolezza dell’etica sta nella circostanza che essa si confronta con la realtà concreta e con i suoi problemi; adeguandosi alla realtà perché il comportamento etico “non è stabilito in partenza ed una volta per tutte […] ma nasce con la situazione data”. Questo comporta una presa di coscienza della realtà fattuale, che non è né l’atteggiamento servile dinanzi ai fatti di cui parla Nietzsche, né «una opposizione di principio, una ribellione di principio»; perché «accettazione del fattuale ed opposizione ad esso sono indissolubilmente uniti nell’agire autenticamente adeguato alla realtà» [9].

Al punto tale che anche il cristiano deve disporsi nei confronti della realtà in un atteggiamento insieme di adesione e di condanna.

L’etica non dispone, così, di nessun principio sempre valido che deve essere fanaticamente attuato contro la resistenza offerta dal piano della realtà storica che attraversiamo ammorbidendola con leggi estranee, valide per ogni tempo e per tutti; realizzandosi con azioni e comportamenti adeguati al piano di realtà e nella storia in cui siamo concretamente calati e di cui siamo protagonisti.

Anche se questo, in qualche caso, può portarci ad assumere responsabilmente una colpa, a risponderne ed a pagarne le conseguenze. “Davanti agli uomini l’uomo della responsabilità è giustificato dalla necessità, davanti a sé stesso è assolto dalla propria coscienza ma davanti a Dio egli spera solo nella grazia”, scrive il teologo che ha vissuto il contrasto tra i suoi ideali e la necessità di opporsi responsabilmente al male. Fermare chi si è reso colpevole di violenza (al “seduttore”) sapendo che anche il suo comportamento potrà essere violento trova così una giustificazione etica non solo davanti a sé stesso, ma anche agli uomini e a Dio.

Ed è l’uomo, in quanto tale, che “deve verificare i motivi, le intenzioni ed il senso del suo agire”, in altre parole “la ragionevolezza di un’azione progettata” senza appellarsi alla legge; perché in tal caso “egli non sarebbe più veramente libero” visto che la responsabilità non si adegua ad un sapere pubblico ma ad una singolarità insostituibile, come scritta da Deridda che ne ha indicato il prototipo in Abramo: “il più morale ed immorale, il più responsabile ed irresponsabile degli uomini, assolutamente irresponsabile perché assolutamente responsabile” [10].

Sarebbe però troppo facile se la scelta etica fosse condizionata dal giusto e dall’ingiusto.

Essa, infatti, deve saper orientarsi, se necessario, tra giusto e giusto e tra ingiusto ed ingiusto. Sempre sapendo assumere su di sé il rischio che si corre “rinunciando […] ad una conoscenza ultima del bene e del male”. Senza rischio non c’è autentica responsabilità che viene agita nella non conoscenza del bene per chi crede affidandosi a Dio e per chi non crede al tribunale non degli uomini ma a quello della storia dell’umanità.

Etica e solidarietà intergenerazionale

C’è, tuttavia, un’ulteriore dimensione dell’etica della responsabilità che dobbiamo tenere in considerazione: quella della solidarietà tra le generazioni che anticipa la difesa della dignità umana.

Questa dimensione è stata sviluppata da straordinari pensatori vissuti nel ‘900 tra cui, oltre a Bonhoffer, Hans Jonas e Jurgen Habermas.

Nell’Etica il teologo protestante, dopo aver ricordato che “l’ultimo non deve interloquire nella organizzazione della vita nel mondo», afferma che da ciò deriva “ qualcosa di decisiva importanza: il penultimo va salvaguardato per amore dell’ultimo. Una sua distruzione arbitraria pregiudicherebbe gravemente l’ultimo. Ove pertanto, ad esempio, una vita umana viene privata delle condizioni proprie dell’esser-uomo, lì la giustificazione di una simile vita mediante la grazia e la fede viene seriamente ostacolata, quand’anche non resa impossibile». Da ciò la convinzione che l’etica della responsabilità deve saper guardare al futuro, ai nostri figli, ai nipoti ed alle generazioni che verranno dopo di noi e che vivranno sulla terra.

Questa idea è stata poi perfezionata da Jonas, nel suo libro forse più conosciuto. Essere responsabili significa saper guardare avanti ed al futuro nella convinzione che le scelte, ancorchè giustificabili in un dato momento storico, possono essere immorali davanti al tribunale delle generazioni future. La critica principale rivolta dal filosofo tedesco è alla tecnica che si è resa responsabile della vulnerabilità della natura ed ha avuto conseguenze drammatiche sull’ecosistema che coinvolgeranno le generazioni future. Le quali saranno costrette a pagare il prezzo di una miopia umana che, come ha scritto Papa Francesco nella sua più recente lettera-enciclica [11],

ha portato al “deterioramento dell’ambiente e quello della società” che hanno colpito “in modo speciale i più deboli del pianeta […] che non trovano spazio sufficiente nelle agende del mondo”. Con un eccesso antropocentrico “che, sotto altra veste, oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali. Per questo è giunto il momento di prestare nuovamente attenzione alla realtà con i limiti che essa impone, i quali a loro volta costituiscono la possibilità di uno sviluppo umano e sociale più sano e fecondo. Una presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata della relazione dell’essere umano con il mondo”. Un inganno prometeico di dominio sul mondo che ha messo in subordine la sostenibilità del pianeta e le tante disuguaglianze che si registrano nel mondo.

Da ciò l’esigenza di un’etica collettiva essendo in gioco la sopravvivenza non solo della terra ma anche della specie umana che Jonas fonda su un nuovo imperativo etico: agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra. Che sviluppa l’imperativo etico kantiano nel senso che esso evoca una coerenza, di tipo metafisico e non logico, non dell’atto in sé, ma dei suoi “effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire”, e l’universalizzazione” non è più ipotetica (“se qualcuno facesse così…”), “al contrario, le azioni sottoposte al nuovo imperativo, ossia le azioni della collettività, si universalizzano di fatto nella misura in cui hanno successo”.

Questa prospettiva di un’etica intergenerazionale era stata anche colta da Hanna Arendt nella sua celebre frase “sono stata pensata, dunque sono” che ha messo in crisi definitiva il cogito cartesiano (il cogito, ergo sum) ed è stata ulteriormente sviluppata, in tempi più recenti, da Jurgen Habermas [12].

Il filosofo tedesco, in uno dei suoi libri più conosciuti, sia pur partendo dalla programmazione genetica, ha affrontato il tema dell’identità di specie ritenendo che “la scelta delle predisposizioni desiderate non può venire aprioristicamente sganciata da una compromissione dei progetti di vita”. La programmazione genetica produce, infatti, una dipendenza tra le persone mettendo in discussione la reciprocità e la simmetria del riconoscimento che caratterizza una comunità libera ed uguale. Gli interventi genetici compromettono così la libertà etica ed impediscono all’essere umano di concepirsi come l’autore indiviso della propria vita ed il creatore del proprio autoritratto biografico. Con una usurpazione della sua responsabilità che finisce “per modificare la nostra autocomprensione normativa”; e con essa la nostra identità di genere che viene strumentalizzata in vista di un obiettivo prefissato e voluto da altri. Le persone geneticamente programmate perdono, infatti, il loro rapporto con le generazioni precedenti perché la manipolazione genetica le porta a non potersi più concepire come “persona uguali per nascita e per valore”.

Ogni rude e artefatto naturalismo mina l’etica facendole perdere quella dimensione autenticamente umana usurpando proprio quella responsabilità che deve restare affidata al singolo individuo. A patto, naturalmente, che l’umanità sia considerata per ciò che essa è e non manipolata dalla tecnica per ragioni che con essa nulla hanno a che vedere.

Alcune brevi conclusioni

Sono partito chiedendomi che senso ha parlare oggi di etica richiamando la circostanza che, soprattutto nei casi clinici più controversi e difficili (quelli in cui entrano in contrasto beni diversi), i medici si rivolgono spesso ad essa come ad una scienza esatta da cui trarre regole dal carattere generale per trovare una soluzione chiara, non equivoca e non censurabile sul piano della colpa.

Ho così chiarito che l’etica può avere espressioni pratiche diverse ma non inconciliabili ed ho ricordato che cosa si debba intendere per etica della convinzione e per etica della responsabilità. Mi sono schierato a favore dell’etica della responsabilità perché essa non è debitrice di principi generali che devono essere onorati a tutti i costi e con ogni mezzo pur osservando la radicalità della sua debolezza strutturale. Perché se il male è spesso mascherato nelle figure della luce, dell’esercizio del dovere imposto dal ruolo e delle necessità storiche anche il bene non è un qualcosa di statico, di definito e di valevole per tutti: perché, per il testimone di Geova, è un bene morire senza essere trasfuso per aver salvaguardata l’integrità dell’anima e con essa la vita eterna, per altri la vita è un bene che deve essere salvaguardato a tutti i costi e con ogni mezzo; e così, mentre per la donna è un bene interrompere la gravidanza quando la stessa possa ad es. compromettere la sua vita o la sua salute, per altri questa scelta un male che deve essere combattuto astenendosi dalle procedure e dalle attività necessarie per la sua realizzazione.

Nonostante questa debolezza dell’etica ho provato ad indicare quali possono essere considerate le sue caratteristiche e dimensioni costitutive provando ad accomunare credenti e non credenti: le ho indicate nella sostituzione vicaria (nell’assumere su di sé il peso delle vittime dell’oppressione, della violenza e dei diritti negati), nella fedeltà alla terra (alla storia in cui viviamo), nella capacità di essere persone davvero adulte e mature capaci di guardare alla solidarietà inter-generazionale e nell’assumere su di noi stessi un rischio (e la colpa) quando ci troviamo a dover scegliere tra il buono ed il buono e tra l’ingiusto e l’ingiusto senza aggrapparci al corrimano dei vincoli imposti dalle leggi e dall’ordinamento giuridico.

Ed ho così chiarito che l’autentica responsabilità si compie anche per noi medici non già nel realizzare azioni doverosamente connesse al nostro ruolo ed attese dalla società ma nell’instabilità ed imprevedibilità di ogni nostra esperienza di vita terrena. Senza però tracimare nell’anarchia perché l’etica della rinuncia del sé e del prendersi cura degli altri viene composta attraverso il saper valutare a fondo le questioni, scegliere i mezzi, soppesare l’appropriatezza delle azioni e riconoscere il loro reale obiettivo che va sempre chiarito al tribunale della nostra coscienza, di donne e di uomini autenticamente impegnati nel dare risposta ai bisogni espressi dalle persone più deboli e fragili.

Gravandoci del rischio che corriamo con ogni nostra decisione ed essendo consapevoli che esiste sempre uno scotto che dobbiamo pagare. Nella consapevolezza che il bene non è un assoluto e che spesso occorre scegliere tra bene e bene e combattere la luce del male rivendicando il primato della nostra coscienza personale che deve saper ad esso resistere anche sul piano della testimonianza pubblica.

Mai cedendo alla sua banalizzazione ed alla anestesia delle coscienza che gli interessi economici, quelli dei più forti e la globalizzazione dei mercati hanno drammaticamente prodotto. E così recuperando la capacità di pensiero autonomo ed autoriflessivo senza il quale l’etica della responsabilità è destinata a restare un vuoto esercizio di pensiero ed un orpello retorico da cui occorre liberarsi.