La tossicità renale degli inibitori tirosin chinasici: un problema emergente dalla ricerca alla pratica clinica

Abstract

Gli inibitori della tirosina chinasi (TKI, Tyrosine Kinase Inhibitors) hanno contribuito a rivoluzionare la terapia farmacologica dei tumori essendo piccole molecole, somministrabili per via orale, in grado di modulare in maniera altamente selettiva vie di segnalazione coinvolte nella crescita del tumore e nell’angiogenesi. Tuttavia, l’utilità clinica dei TKI può essere talvolta limitata dalla comparsa di effetti avversi, che possono colpire diversi tessuti e organi, compresi i reni. Questa revisione della letteratura scientifica ad oggi disponibile offre una panoramica generale degli studi che documentano incidenza e caratteristiche cliniche della nefrotossicità correlata all’esposizione a TKI ed esplora i meccanismi molecolari alla base dell’intricata relazione tra TKI e tossicità renale. Viene qui discusso il razionale biologico delle manifestazioni renali associate al trattamento con agenti TKI selettivi, sottolineando l’importanza di un’accurata valutazione del rischio e di strategie di gestione personalizzata dei pazienti in trattamento con TKI.

Una conoscenza approfondita dei meccanismi molecolari della nefrotossicità indotta da TKI è cruciale non solo per migliorare l’attuale utilizzo clinico di questi preziosi strumenti terapeutici ma anche per poter sviluppare nuove terapie farmacologiche sempre più efficaci e sicure.

Parole chiave: inibitori della tirosina chinasi, rene, nefrotossicità, tumore

Introduzione

Gli inibitori delle tirosin chinasi (TKI, Tyrosin Kinase Inhibitors) sono una importante classe di farmaci che ha permesso di ridefinire il panorama della farmacoterapia dei tumori, grazie alle numerose applicazioni in un ampio spettro di contesti patologici, dalla leucemia mieloide cronica a diverse tipologie di tumori solidi, compresi carcinomi renali. Il loro meccanismo d’azione consiste in una inibizione selettiva di enzimi tirosin chinasi, un gruppo eterogeneo di proteine coinvolte nelle cascate di segnalazione cellulari, che governano un ampio spettro di processi cellulari vitali, tra cui il ciclo cellulare, la migrazione, la proliferazione, la differenziazione e la sopravvivenza [1].

Il loro meccanismo di azione altamente selettivo ha portato a risultati clinici molto interessanti, documentando ottima efficacia associata a elevati tassi di sopravvivenza [2]. Sebbene il potenziale terapeutico dei TKI sia ben documentato e ampiamente riconosciuto, l’utilizzo sempre più su ampia scala di TKI ha portato ad evidenziare la comparsa di effetti collaterali, talvolta anche di grado severo. Recenti dati clinici e di farmacovigilanza hanno documentato in particolare la possibilità di forme diverse di tossicità renale che possono essere associate all’assunzione di questi farmaci [3].

La tossicità renale dei TKI rappresenta un problema emergente, non solo per il loro sempre più esteso utilizzo ma anche per la maggior sopravvivenza dei pazienti e di conseguenza una maggior durata di queste terapie.

L’obiettivo principale di questa revisione della letteratura è quello di analizzare la complessa interazione tra esposizione a TKI e rischio di tossicità renale, evidenziando elementi di criticità e possibili indicazioni per il contenimento del rischio tossicologico.

 

Meccanismo d’azione

Gli enzimi tirosin-chinasi possono essere classificati come proteine tirosin-chinasi recettoriali (RTK, Receptor Tyrosin Kinase), proteine tirosin-chinasi non recettoriali (NRTK, Non Receptor Tyrosin Kinase) e proteine chinasi a doppia specificità (DSTK, Dual specificity protein kinases) in grado di fosforilare residui di serina, treonina e tirosina. Le RTK sono recettori transmembrana che includono recettori del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGFR), recettori del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR), recettori dell’insulina (famiglia InsR) e la famiglia di recettori ErbB, che comprende il recettore umano 2 del fattore di crescita epidermico (HER2) e i recettori del fattore di crescita epidermico (EGFR). Esempi di DSTK sono le chinasi delle proteine mitogeno-attivate (MEK), che sono principalmente coinvolte nelle vie di segnalazione MAP.

Nel contesto dell’oncogenesi, la disregolazione delle tirosin chinasi può innescare una proliferazione cellulare e una sopravvivenza incontrollata, promuovendo lo sviluppo e la progressione tumorale.

Esistono quattro meccanismi principali di trasformazione oncogenica che coinvolgono processi tirosin chinasi-dipendenti:

  • trasduzione retrovirale di un proto-oncogene corrispondente a una tirosin chinasi, concomitante a cambiamenti strutturali [4];
  • riarrangiamenti genomici, come traslocazioni cromosomiche, che danno luogo a proteine di fusione oncogeniche contenenti un dominio catalitico di tirosin chinasi e parte di una proteina non correlata (ad esempio, Bcr-Abl nelle leucemie Philadelphia-positive);
  • mutazioni gain-of-function o piccole delezioni nelle tirosin chinasi (ad esempio, KIT nei tumori stromali gastrointestinali);
  • sovraespressione delle tirosin chinasi a seguito di amplificazione genica (ad esempio, EGFR in diversi tumori solidi) [5].

I TKI sono piccole molecole progettate per inibire l’attività delle tirosin chinasi, attraverso il legame competitivo con il sito di legame dell’adenosina trifosfato (ATP) della chinasi o mediante la modulazione della conformazione della chinasi [6]. Gli inibitori di tipo 1 si legano alla conformazione attiva, mentre gli inibitori di tipo 2 riconoscono la forma inattiva dell’enzima. Poiché le proteine chinasi presentano forti omologie nel sito di legame dell’ATP, i TKI spesso non sono specifici per una singola chinasi e mostrano reattività crociata con altri enzimi, con conseguenti rischi di comparsa di effetti di tossicità off-target.

Oltre alla loro azione di inibizione di cascate di segnale di sopravvivenza nelle cellule tumorali, i TKI esercitano la loro influenza sull’ambiente microscopico del tumore, inducendo in particolare l’arresto dell’angiogenesi [7]. Mediante l’inibizione dell’angiogenesi, i TKI non solo rallentano la crescita del tumore, ma, attenuando la formazione di nuovi vasi sanguigni, riducono anche la capacità del tumore di metastatizzare e infiltrare i tessuti circostanti, ostacolando quindi l’accesso del tumore ai nutrienti essenziali e all’ossigeno.

 

TKI e tossicità renale

Sebbene i TKI abbiano contribuito a rivoluzionare la farmacoterapia tumorale, l’equilibrio delicato tra efficacia terapeutica e potenziali effetti avversi condiziona il loro impiego clinico. L’utilizzo di questi farmaci, infatti, è associato ad una serie di tossicità in particolare a carico della cute (con effetti che possono includere secchezza, ispessimento o screpolatura della cute, bolle o rash cutaneo del palmo delle mani o della pianta dei piedi), del tratto gastrointestinale (diarrea, nausea/vomito, dolore addominale, dispepsia e stomatite/dolore orale), e del sistema cardiovascolare (ipertensione, prolungamento dell’intervallo QT, eventi tromboembolici). Inoltre l’assunzione di TKI può portare a compromissione della funzionalità renale, con rischio di insufficienza renale e/o insufficienza renale acuta, in alcuni casi anche con esito fatale. Sebbene il rischio di nefrotossicità sia comune a molti trattamenti farmacologici chemioterapici, il tipo di danno indotto a livello renale può variare anche significativamente da una classe di farmaci ad un’altra. Ad esempio, farmaci chemioterapici come il cisplatino e la ciclofosfosfamide, inducono solitamente un danno tubulare, portando a necrosi o lesione tubulare acuta. Al contrario, i TKI causano più frequentemente glomerulopatia caratterizzata da podocitopatia o microangiopatia trombotica [3]. Il danno glomerulare da TKI si traduce in proteinuria, spesso associata a ipertensione arteriosa e raramente anche ad alterazioni elettrolitiche come ipofosfatemia, ipocalcemia e iponatremia. Tali alterazioni renali, se persistenti, possono causare una riduzione persistente del filtrato glomerulare, fino a malattia renale cronica terminale [8]. Tra questi effetti avversi, la proteinuria è quello con una maggiore incidenza, la cui comparsa può costringere ad una revisione del regime posologico, non esistendo ad oggi un trattamento farmacologico adeguato a contrastarla efficacemente. Le percentuali di incidenza di proteinuria possono essere anche piuttosto drammatiche e, come ad esempio recentemente documentato per lenvatinib e regorafenib [9, 10], la riduzione del dosaggio che ne consegue può mettere a rischio l’efficacia del trattamento farmacologico stesso.

 

Meccanismi molecolari della tossicità renale da TKI

La comprensione dei possibili meccanismi alla base di questo importante effetto avverso comune a diversi TKI utilizzati nella pratica clinica risulta quindi essere fondamentale per implementare un uso corretto e sicuro di questa classe di farmaci. Numerosi sono gli studi clinici e preclinici che hanno tentato di delucidare i meccanismi molecolari sottesi alla nefrotossicità da TKI, sottolineando in particolare il ruolo chiave svolto dal fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF, Vascular Endothelial Growth Factor), una proteina essenziale per la crescita dei vasi sia in condizioni fisiologiche che patologiche. La proteinuria infatti è strettamente correlata alla distruzione dell’integrità della barriera di filtrazione glomerulare, che è composta da podociti, una membrana basale glomerulare e cellule endoteliali.  L’interferenza con la cascata di segnalazione del VEGF indotta dai TKI determina una patologia renale che si manifesta con perdita delle finestre endoteliali nei capillari glomerulari, proliferazione delle cellule endoteliali glomerulari (endoteliosi), perdita di podociti e proteinuria [11]. In condizioni fisiologiche, il VEGF è espresso costitutivamente dai podociti e, una volta rilasciato a livello glomerulare, si lega al suo recettore (VEGFR, Vascular Endothelial Growth Factor Receptor) presente sulle cellule endoteliali. Il cross-talk cellulare tra podocita ed endotelio mediato da VEGF è di fondamentale importanza per il mantenimento dell’integrità strutturale e funzionale del glomerulo. I farmaci TKI, inibendo i processi di attivazione della cascata di segnale mediata dai recettori del VEGF, interferiscono con questo meccanismo fisiologico di comunicazione cellulare, compromettendo la funzionalità glomerulare. La conseguenza è una maggiore vulnerabilità dell’endotelio glomerulare con aumentato rischio di microaneurismi e di sviluppo di ialinosi focale e segmentaria. Le cellule endoteliali, rese sofferenti dall’inibizione della segnalazione VEGF-dipendente, possono iniziare una abnorme produzione compensatoria di fattori pro-angiogenici, che a loro volta portano a sofferenza podocitaria, aggravando il danno renale ed aumentando il rischio di comparsa di proteinuria.

Recenti studi meccanicistici hanno permesso di chiarire meglio i meccanismi molecolari sottesi alla tossicità glomerulare che si manifesta conseguentemente all’esposizione a farmaci TKI in grado di interferire con la funzionalità chinasica dei recettori del VEGF (Figura 1). Ad esempio, i TKI possono inibire nei podociti l’espressione della proteina Neuropilina-1 (NRP1), che svolge un ruolo fondamentale per un corretto cross-talk tra le cellule endoteliali e i podociti stessi, contribuendo in questo modo alla comparsa di una sofferenza podocitaria [12]. Un’altra proteina chiave, la cui espressione è inibita in presenza di TKI, è la proteina WT1, un fattore di trascrizione specifico dei podociti che regola in questa popolazione cellulare la produzione di VEGF e di altre molecole effettrici come la podocalixina e la nefrina. Pazienti con una ridotta espressione basale di WT1 risultano essere più suscettibili alla tossicità renale dei TKI con una maggiore incidenza di proteinuria [13]. Anche la chemochina CXCL12 e il suo recettore CXCR4, espressi rispettivamente su podociti e cellule endoteliali, svolgono un ruolo essenziale nel reclutamento di cellule pro-angiogeniche in sinergia con il sistema di VEGF/VEGFR. Nella proteinuria indotta da TKI, l’espressione del sistema CXCL12/CXCR4 risulta essere alterato, suggerendo pertanto un suo contributo nella comparsa di anomalie di comunicazione tra l’endotelio e la componente podocitaria [14]. Tuttavia, altri dati di letteratura dimostrano che una aumentata espressione di CXCL12 nei podociti migliora la proteinuria e la perdita della funzionalità podocitaria, portando in questo caso ad ipotizzare possibili effetti protettori di questo pattern chemochinico [15].

Figura 1. Target farmacologico dei farmaci TKI diretti contro il VEGFR e meccanismi molecolari sottesi alla loro tossicità renale.
Figura 1. Target farmacologico dei farmaci TKI diretti contro il VEGFR e meccanismi molecolari sottesi alla loro tossicità renale.

Queste evidenze sperimentali di tipo meccanicistico trovano conferma in studi clinici che documentano rischi di effetti avversi di tipo renale, in particolar modo proteinuria, in pazienti in trattamento con farmaci TKI in grado di interferire selettivamente con il sistema recettoriale VEGF/VEGFR (Tabella I).

La comparsa di proteinuria come effetto collaterale dei TKI non è solo da imputare all’interferenza con il sistema recettoriale del VEGF, ma può anche essere secondaria all’aumento della pressione intraglomerulare conseguente ad una ipertensione arteriosa, che rappresenta un altro effetto collaterale tipico dei TKI. Poiché ipertensione e proteinuria spesso si manifestano contemporaneamente, non è chiaro se entrambi questi fenomeni si presentino in maniera indipendente oppure se ci sia un rapporto causale tra i due eventi avversi.

È importante inoltre sottolineare che complicazioni renali sono documentate anche per altri farmaci TKI che interferiscono con altre tipologie di enzimi tirosin-chinasi, diversi dal sistema recettoriale VEGF/VEGFR. Ad esempio, manifestazioni di tossicità renale, inclusa nefrite tubulointerstiziale, nefropatia membranosa, e nefropatia da IgA, sono state documentate in seguito a trattamento con gefitnib, un inibitore selettivo della tirosin chinasi del recettore per il fattore di crescita dell’epidermide (EGFR) [16]. Tossicità renali sono state registrate anche in seguito alla somministrazione di ibrutinib, un potente inibitore della tirosin chinasi di Bruton (BTK), coinvolta nelle vie del segnale del recettore per l’antigene dei linfociti B (BCR) e del recettore per le citochine. In questo caso sono state riportati danni tubulari acuti e nefrite tubulointerstiziale con elevati livelli di creatinina sierica, dovuti probabilmente ad un danno di tipo endoteliale [17].

Oltre al target farmacologico, anche la via di eliminazione può impattare sull’incidenza di tossicità renale. La maggior parte dei TKI presentano come principale via di eliminazione quella renale, favorendo l’accumulo di farmaco nei reni e quindi un maggiore rischio di tossicità a livello locale. Sorafenib, ad esempio, è un inibitore multi-target non selettivo con una ridotta tossicità renale, in parte dovuta al fatto che questo farmaco utilizza come via di eliminazione principale il sistema epatico/biliare. Un altro TKI con scarsa tossicità renale è l’imatinib, farmaco che presenta una elevata selettività di interferenza con la proteina di fusione BCR-ABL e che viene eliminato principalmente per via fecale. Tuttavia, anche per imatinib sono documentati casi di tossicità renale in letteratura, riconducibili a polimorfismi genetici che possono facilitare un maggiore accumulo cellulare del farmaco anche a livello renale [18]. Particolare attenzione va infatti posta nei confronti di polimorfismi a carico di proteine di trasporto di membrana, la cui variazione di espressione e di funzionalità condiziona la capacità del farmaco di accumularsi nella cellula, con conseguenze clinicamente rilevanti sia in termini di efficacia del trattamento farmacologico sia in termini di rischi di comparsa di resistenze. Infatti i TKI presentano un assorbimento attivo, condizionato dai livelli di espressione e attività di specifiche pompe di influsso e di efflusso. Pertanto, una alterata espressione di trasportatori di membrana responsabili dell’attraversamento di membrana dei TKI può modificare significativamente la concentrazione intracellulare di TKI e quindi condizionare la capacità del farmaco di inibire enzimi tirosin chinasi con alterazioni clinicamente rilevanti del profilo di efficacia/sicurezza del farmaco stesso [19].

Principio attivo Targets farmacologici  

Indicazioni d’uso approvate EMA (anno di approvazione)

Tossicità renale
Axitinib VEGFR1/2/3, PDGFRβ

RCC (2012)

Proteinuria, Insufficienza renale
Cabozantinib VEGFR1/2/3, RET, Met, Kit,TrkB, Flt3, Axl, Tie2, ROS1

MTC (2014), RCC (2016), HCC (2016)

Proteinuria, insufficienza renale, lesione renale acuta, nefrite
Lenvatinib VEGFRs, FGFRs, PDGFR, Kit, RET

RCC (2016)

Insufficienza renale, urea ematica aumentata, necrosi tubulare renale

Regorafenib VEGFR1/2/3, BCR-Abl, B-Raf, B-Raf(V600E), Kit

CRC (2013), GIST (2013)

Proteinuria
Sunitinib VEGFR1/2/3, PDGFRα/β, Kit, Flt3 RCC (2006), GIST (2006) Insufficienza renale
Tivozanib VEGFR2 RCC (2017) Proteinuria
Vandetanib VEGFRs, EGFRs, RET, Brk, Tie2, MTC (2012) Insufficienza renale
Tabella I. Tossicità renale correlata al trattamento con TKI diretti contro il VEGFR.
Axl: anexelekto AXL receptor tyrosine kinase; BCR-Abl: breakpoint cluster region-Tyrosine-protein kinase ABL1; B-Raf: v-raf murine sarcoma viral oncogene homolog B1;Brk: Breast tumor kinase Tyrosine-protein kinase; CRC: Colorectal cancer; EGFRs: Epidermal Growth Factor Receptors.;Fms: Feline McDonough Sarcoma;Flt3: fms related receptor tyrosine kinase 3; GIST: Gastrointestinal stromal tumor; HCC: Hepatocellular carcinoma; Kit: Stem cell growth factor receptor; Lck: lymphocyte-specific protein tyrosine kinase; Met: MET proto-oncogene, receptor tyrosine kinase; MTC: Medullary thyroid cancer; PDGFRβ: Platelet-Derived Growth Factor Receptor beta; Ph+ CML: Philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia; RCC: Renal cell carcinoma; RET: REarranged during Transfection ;ROS1: Proto-oncogene 1 receptor; Tie2: Angiopoietin 1 receptor ;TrkB: Tyrosine Kinase B receptor ;VEGFR: vascular Endothelial Growth Factor Receptor.

 

Conclusioni

La scelta terapeutica del TKI più adatto deve essere effettuata con attenzione, tenendo conto della salute generale del paziente, delle comorbidità, e con una particolare attenzione al grado di funzionalità renale. I dati di letteratura ad oggi disponibili suggeriscono l’importanza di monitorare la funzionalità renale ed evidenziare segni precoci di tossicità, che, se trascurati, possono portare a forme diverse di disfunzione d’organo, con un rischio particolarmente elevato di comparsa di proteinuria. La proteinuria TKI-dipendente è dovuta principalmente ad una alterata comunicazione tra cellule endoteliali e podociti a livello glomerulare. Il danno endoteliale conseguente all’esposizione a TKI può essere causa di una aumentata espressione compensatoria di fattori pro-angiogenici che, a loro volta, contribuiscono ad esacerbare l’insufficienza podocitaria. Una migliore comprensione dei meccanismi patogenetici alla base della tossicità renale dei TKI è fondamentale non solo per ottimizzare i protocolli di somministrazione dei TKI attualmente disponibili in clinica ma anche per poter progettare e sperimentare nuove molecole con profili di efficacia e sicurezza sempre migliori e in grado di limitare i rischi di farmacoresistenza, che possono condizionare gravemente la rilevanza clinica degli approcci farmacologici ad oggi disponibili in ambito chemioterapico.

 

Bibliografia

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Farmaci anti-angiogenici e ipertensione arteriosa: dalla collaborazione multidisciplinare alla maggior cura

Abstract

I farmaci anti-angiogenici sono ampiamente utilizzati in ambito oncologico. Questi hanno come principale bersaglio d’azione il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) e i suoi recettori (VEGF-R). La loro funzione principale è ridurre la crescita del tumore primario e delle sue metastasi agendo in particolare sul fenomeno della neo-angiogenesi tumorale. Tuttavia, non sono esenti da effetti collaterali, quali: ipertensione, danno renale acuto (AKI) e insufficienza cardiaca congestizia.
Metodi: studio retrospettivo condotto su 57 pazienti consecutive affette da carcinoma dell’ovaio. Pazienti trattate con Bevacizumab, come trattamento di prima linea, trattamento della recidiva o di mantenimento (2015-2022).
Risultati: secondo la stadiazione FIGO il 98.2% (56 su 57) delle pazienti in studio presentava grado terzo di malattia (G3). Il 49% delle pazienti hanno sviluppato ipertensione dopo l’inizio della terapia con Bevacizumab (82% grado 2 secondo CTCAE v.5). L’89% delle pazienti ipertese ha iniziato un trattamento e la gestione è stata multidisciplinare con consulenza nefrologica nel 68% dei casi. Solo 3 donne su 57 hanno interrotto il trattamento a causa di ipertensione e in uno solo di questi non è stato possibile riprenderlo.
Conclusioni: la valutazione del paziente da parte di un’equipe multidisciplinare (ginecologo e nefrologo) è fondamentale per ridurre al minimo la morbilità e mortalità delle pazienti ed evitare l’interruzione del trattamento antineoplastico.

Parole chiave: farmaci anti-angiogenici, nefrotossicità, proteinuria, ipertensione, tumore ovarico, equipe multidisciplinare

Introduzione

I farmaci anti-angiogenici hanno lo scopo di prevenire e/o rallentare la crescita tumorale. Questi possono causare diversi effetti collaterali, tra i quali emerge l’ipertensione, definita nella Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) come pressione arteriosa (PA) >140/90 mmHg o un aumento della pressione arteriosa diastolica (PAD) >20 mmHg rispetto al basale.

In questo lavoro, che vuole essere un percorso in questo complesso ambito onconefrologico, presentiamo dapprima il caso di una donna di 74 anni affetta da tumore dell’ovaio trattata con Bevacizumab che, a causa dello sviluppo di ipertensione, ha dovuto interrompere il trattamento, ripreso poi grazie alla valutazione della paziente da parte di un’equipe multidisciplinare (ginecologo e nefrologo). Vengono quindi riportati i risultati di uno studio retrospettivo su 57 pazienti consecutive trattate con Bevacizumab con lo scopo di verificare se e come la collaborazione interdisciplinare tra nefrologo e ginecologo fosse efficacie e funzionale: è stata valutata l’incidenza di ipertensione e proteinuria, se fosse stato richiesto consulto specialistico nefrologico e se fosse stato completato il trattamento. 

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Tossici ambientali e tossicità renale diretta da farmaci. Antibiotici

Abstract

Gli antibiotici sono una causa relativamente comune di danno renale acuto che si verifica principalmente nei pazienti con fattori di rischio sottostanti. Le reazioni avverse da antibiotici possono essere classificate di tipo A quando sono prevedibili, ne conosciamo la causa e spesso sono dose dipendenti e di tipo B quando si manifestano in modo imprevedibile, sono indipendenti dalla dose e dovuti a fenomeni di ipersensibilità e/o immunoallergici . Tutti i compartimenti del rene sono soggetti a danno da antibiotici che, dal punto di vista clinico, si traducono in disfunzioni tubulari, insufficienza renale acuta, sindrome nefritica e insufficienza renale cronica. I farmaci maggiormente responsabili sono vancomicina, aminoglicosidi e beta lattamine. La comparsa di insufficienza renale acuta correla con la durata della degenza ed il rischio di morte. Diventa quindi di fondamentale importanza clinica conoscere gli antibiotici con potenziale effetto nefrotossico in modo da stabilirne il dosaggio sulla base della funzione renale e correggere tutti i fattori che ne possono potenziare la tossicità.

Parole chiave: nefrotossicità, tossicità renale diretta da antibiotici, antibiotici, reazioni avverse da farmaci

Introduzione

Dal rapporto nazionale sull’uso dei farmaci in Italia nel 2018 [1], la spesa per antimicrobici per uso sistemico si aggira intorno ai 3 miliardi di Euro che rappresenta una percentuale sul totale di spesa del 13%. Gli antimicrobici generali per uso sistemico rappresentano la terza categoria terapeutica a maggior spesa pubblica per il 2018 (48,23 euro pro capite). Il posizionamento complessivo di questa categoria è prevalentemente giustificato dalla spesa derivante dall’acquisto di questi medicinali da parte delle strutture sanitarie pubbliche (35,16 euro pro capite); al contrario il contributo dato dall’assistenza farmaceutica convenzionata risulta di minore entità (13,07 euro pro capite). La dose definita giornaliera (DDD) è stata calcolata di 23 che significa che sono state prescritte 23 DDD di antibiotici ogni mille abitanti al giorno e si può considerare che 23 persone su 1000, cioè il 2.3%, hanno ricevuto in media ogni giorno una DDD di antimicrobici. Prevalenza d’uso e spesa sono più elevati in età pediatrica per poi diminuire nell’età adulta e innalzarsi sopra i 55 anni di età.  Le categorie a maggior consumo sono le associazioni di penicilline, i chinoloni, le cefalosporine di III e IV generazione. Vi sono importanti differenze d’uso tra le regioni italiane, le dosi prescritte variano da 11,2 della P.A. di Bolzano a 24,7 della Campania che, insieme a Umbria, Calabria, Puglia, Lazio, Marche e Basilicata, sono le regioni con dosi e costo medio per giornate di terapia superiori alla media nazionale. Questi dati dimostrano che in Italia vi è un enorme consumo di antibiotici e che probabilmente le differenze d’uso rappresentano anche livelli diversi di appropriatezza.

Gli antibiotici, come noto,  sono una causa relativamente comune di danno renale acuto che si verifica principalmente nei pazienti con fattori di rischio sottostanti. Le reazioni avverse da antibiotici possono essere classificate di tipo A quando sono prevedibili, ne conosciamo la causa e spesso sono dose dipendenti e di tipo B quando si manifestano in modo imprevedibile, sono indipendenti dalla dose e dovuti a fenomeni di ipersensibilità e/o immunoallergici [2]. La malattia renale indotta da farmaci è una causa frequente di disfunzione renale, tuttavia è necessario uno standard per identificare e caratterizzare lo spettro di questi disturbi. Un gruppo di esperti internazionali ha definito quattro fenotipi per la malattia renale indotta da farmaci basati sulla presentazione clinica: insufficienza renale acuta (IRA) sia di tipo A che B; nefropatia glomerulare (rara e non segnalata senza IRA); danno tubulare con lesioni isolate o generalizzate; infine nefropatia da calcoli o da cristalluria [3].

 

Epidemiologia

Durante l’ospedalizzazione è frequente la comparsa di IRA, in corso di terapia antibiotica,; un recente lavoro, che analizza esclusivamente pazienti in terapia antimicrobica, riporta un’incidenza di poco meno del 20% durante un anno di osservazione. I pazienti che hanno sviluppato IRA erano più frequentemente ipertesi e diabetici ed assumevano farmaci nefrotossici concomitanti. I farmaci maggiormente responsabili erano vancomicina, aminoglicosidi e beta lattamine. La comparsa di IRA correlava in modo significativo con il rischio di morte [4].

Nel registro di farmacovigilanza francese il 3% delle reazioni avverse sono classificate come IRA; di queste il 15% ha necessitato dialisi. Nel 30% dei casi il farmaco responsabile è un antibiotico. Gli antibiotici più facilmente implicati sono gli aminoglicosidi, le beta lattamine e i chinolonici [5].

L’epidemiologia dell’IRA nelle terapie intensive usando i criteri KDIGO supera il 50%; aminoglicosidi e glicopeptidi sono in terapia del 10% dei pazienti con IRA. La presenza di ipertensione, diabete, patologia cardiovascolare e severità della malattia all’ingresso sono fattori di rischio di sviluppare IRA. La severità dell’IRA si associa ad aumento della mortalità e la funzione renale alla dimissione è peggiore nei pazienti che avevano sviluppato IRA [6]. Nel paziente critico avvengono modificazioni della farmacocinetica che coinvolgono soprattutto la clearance del farmaco con possibilità di raggiungere elevati livelli di antibiotico nel sangue e conseguente tossicità. Gli antibiotici più usati nelle terapie intensive sono la vancomicina, il merrem, le cefalosporine e la piperacillina, tutti con una clearance renale [7].

 

Farmaci più frequentemente in causa

Vancomicina

L’incidenza di nefropatia da vancomicina varia dal 5 al 40% in relazione anche ai fattori di rischio presenti ed ai livelli ematici di vancomicina. Il meccanismo con cui si verifica la nefrotossicità, per quanto non completamente chiarito, è riconducibile ad un danno cellulare secondario a ossidazione e disfunzione mitocondriale con susseguente apoptosi cellulare. La nefrotossicità si manifesta generalmente fra il 4° e 8° giorno di terapia [8].

Dal punto di vista morfologico, la vancomicina può produrre lesioni riconducibili a Necrosi Tubulare Acuta (ATN) con ostruzione tubulare dovuta a cilindri composti da aggregati di vancomicina e uromodulina [9] ma anche nefriti tubulo-interstiziali acute con possibili granulomi [10].

L’incidenza di nefrotossicità da vancomicina aumenta con l’aumentare dei livelli ematici e vi è una associazione con livelli ematici superiori a 15 mg/dl, con l’essere ricoverati in terapia intensiva e con il concomitante impiego di altri farmaci nefrotossici [11]. L’incidenza di nefrotossicità sembra maggiore con la somministrazione intermittente rispetto alla continua ed i livelli che devono essere mantenuti, per evitare tossicità,  nella somministrazione continua sono tra 20 e 30 mg/l [12].

Per ottimizzare l’uso della vancomicina nel trattamento di infezioni gravi causate da MRSA (massimizzare l’efficacia clinica e ridurre al minimo il rischio di IRA), le ultime linee guida raccomandano di mirare a un rapporto AUC / MICBMD da 400 a 600 (ipotizzando una MICBMD di 1 mg / L) in pazienti sia adulti che pediatrici. L’AUC deve essere monitorata utilizzando 2 concentrazioni postdose (ovvero, una concentrazione massima misurata dopo la fase iniziale di distribuzione tissutale della vancomicina e un livello minimo misurato prima della dose successiva), utilizzando preferibilmente programmi software con metodo Bayesiano. Il monitoraggio del trough-level  potrebbe essere insufficiente a guidare il dosaggio di vancomicina in tutti i pazienti [13].

Molti sono i fattori di rischio segnalati; i più frequenti sono la dose di farmaco sopra i 4 gr/die, i livelli ematici sopra 15 mg/l, la durata della terapia, l’età, il peso corporeo, la funzione renale, la concomitante somministrazione di altri farmaci nefrotossici e il ricovero in terapia intensiva. La comparsa di nefrotossicità da vancomicina è associata con una più lunga ospedalizzazione, aumento dei costi e rischio di morte [14].

Negli ultimi anni numerosi studi hanno segnalato un aumento nell’incidenza di nefrotossicità con il concomitante impiego di piperacillina tazobactam. In una recente metanalisi condotta su 15 studi pubblicati e 17 abstracts presentati a congressi che comprendevano 24,799 pazienti, l’incidenza complessiva di danno renale acuto era del 16.7%, 22.2% per l’associazione vancomicina/ piperacillina-tazobactam e 12.9% per le terapie di confronto (sola vacomicina, solo piperacillina-tazobactam o combinazione di vancomicina e beta-lattamine) [15].

Riassumendo i fattori di rischio legati alla terapia con vancomicina sono la dose totale, i livelli ematici, la durata della terapia; dose di carico e infusione intermittente rimangono fattori di rischio incerti. I fattori di rischio legati al paziente sono l’obesità, la severità della malattia, il ricovero in terapia intensiva, la presenza di IRC e concomitante somministrazione di nefrotossine soprattutto aminoglicosidi e piperacillina- tazobactam [8].

Antibiotici Beta-Lattamici

L’impiego di beta-lattamine può causare necrosi tubulare che è rara con le penicilline, poco comune con le cefalosporine ma a maggior rischio con i carbapenemi. Il meccanismo è riconducibile a tossicità respiratoria, inattivazione mitocondriale dopo trasporto all’interno della cellula e perossidazione lipidica. L’imipenem viene commercializzato con un inibitore nefroprotettivo del trasporto all’interno della cellula renale [16].

Oltre alla tossicità da necrosi tubulare le beta lattamine sono in grado di indurre nefrite tubulo interstiziale (TIN) acuta. In una revisione bioptica, le beta lattamine sono associate con il 55% di TIN indotte da antibiotici. L’Amoxicillina è il farmaco più frequentemente coinvolto [17]. L’amoxicillina è inoltre causa di IRA da cristalluria e conseguente nefropatia ostruttiva [18].

L’incidenza di nefrotossicità da beta lattamine si aggira intorno all’8% e  vi è un’associazione fra livelli ematici di farmaco ed episodio di nefrotossicità. La concentrazione soglia per la quale c’è un rischi del 50% di sviluppare nefrotossicità varia a seconda degli antibiotici (piperacillina, Cmin >452.65 mg/L; meropenem, Cmin >44.45 mg/L) (Cmin: campione prelevato 2 ore prima della prossima dose)[19].

In un’analisi retrospettiva si è valutata la comparsa di tossicità renale in pazienti sottoposti a terapia  con cefalosporine sia orali che parenterali (622.456 pazienti esposti a 901.908 cicli di cefalosporine orali e 326.867 esposti a 487.630 cicli di cefalosporine parenterali durante il periodo di studio di 3 anni). La nefrotossicità era più frequente nei maschi e nei soggetti sottoposti a terapia parenterale. In più del 50% dei pazienti tale tossicità era completamente reversibile nei mesi successivi ma il 17% dei soggetti con nefrotossicità necessitava di terapia sostitutiva [20].

L’incidenza di nefrotossicità sembra sovrapponibile nei pazienti trattati con terapia intermittente o continua. I fattori predittivi di IRA sono ipotensione, scompenso cardiaco, terapia con piperacillina tazobactam e concomitante impiego di farmaci nefrotossici [21].

Aminoglicosidi

Gli aminoglicosidi inducono tossicità renale con caratteristiche diverse: dall’IRA non oligurica a disfunzioni della cellula tubulare che possono essere diffuse o coinvolgere solo alcuni segmenti del nefrone e meccanismi di trasporto determinando sindromi Fanconi-like, Bartter-like e acidosi tubulare distale. Gli aminoglicosidi più cationici sono più nefrotossici. La velocità di filtrazione glomerulare diminuisce come evento relativamente tardivo, di solito almeno 5-7 giorni dopo l’inizio della terapia e si risolve completamento nella quasi totalità dei pazienti.

I fattori di rischio che sono costantemente segnalati per la nefrotossicità includono la scelta dell’aminoglicoside, la durata della terapia, la dose totale, la presenza di ipotensione e deplezione di volume, le concentrazioni sieriche elevate, la presenza di malattia epatica concomitante e uso di altri farmaci nefrotossici. La presenza di insufficienza renale preesistente e l’età avanzata sono ulteriori fattori di rischio [22].

Le cellule tubulari sono in grado di trasportare gli aminoglicosidi mediante endocitosi attraverso la membrana apicale. Gli aminoglicosidi si legano ai fosfolipidi di membrana e, alterandone turnover e metabolismo, determinano fosfolipidosi e conseguente morte cellulare. Accumulandosi nei lisosomi e nel reticolo endoplasmatico, quando raggiungono una certa concentrazione, portano a rottura della membrana con conseguente liberazione nel citosol del farmaco stesso e di catepsine e conseguente apoptosi e morte cellulare. Gli aminoglicosidi sono inoltre in grado di inibire molti trasportatori di membrana con conseguente deficit di riassorbimento di calcio, magnesio, sodio e potassio. Infine, attivano il Calcium Sensing Receptor (CaSR) con aumento del calcio intracellulare e conseguente morte cellulare. Lo spargimento di tessuti e residui cellulari nel lume tubulare porta a ostruzione e riduce la funzione escretoria dei nefroni colpiti. L’aumentata pressione idrostatica all’interno del tubulo e nella capsula di Bowman riduce il gradiente di pressione di filtrazione e, quindi, la velocità di filtrazione glomerulare (GFR).Tuttavia, la sola ostruzione tubulare non giustifica la riduzione del filtrato nei casi più lievi o nelle prime fasi del danno. Gli aminoglicosidi hanno infatti effetti diretti anche a livello glomerulare: producono contrazione e proliferazione mesangiale e, legandosi alle cariche negative della barriera di filtrazione, determinano proteinuria. A livello vascolare inducono  vasocostrizione dell’arteriola afferente con conseguente diminuzione del flusso e del filtrato glomerulare. Il peggioramento successivo della funzione renale viene allora spiegato dai meccanismi di ostruzione tubulare e contrazione mesangiale e vascolare. Contemporaneamente si innesca un processo infiammatorio scatenato da detriti cellulari e sostanze intracellulari che amplifica il danno [23].

La prevalenza di tossicità varia in letteratura dal 10 al 25% ma raggiunge valori superiori al 50% se l’indagine è condotta nelle terapie intensive e su soggetti con importanti fattori di rischio come il diabete, l’IR, l’ipotensione, il concomitante impiego di altre nefrotossine. In terapia intensiva, la mortalità è più elevata nei pazienti che sviluppano IRA rispetto ai pazienti che non la sviluppano (44.5%  e 29.1% rispettivamente) [24, 25].

Anche una singola dose di gentamicina è in grado di indurre IRA nel 10% dei soggetti. La maggioranza dei pazienti presenta però un modesto rialzo della creatinina che si risolve in pochi giorni o settimane [26].

Negli ultimi 40 anni il monitoraggio terapeutico (TDM) è stato parte integrante della gestione dei pazienti durante il trattamento con un aminoglicoside. Il TDM ha contribuito a ridurre l’incidenza di eventi avversi osservati con questa classe di antibatterici [27]. Elevati livelli di Cmin e AUC nel corso dei giorni sono associati a comparsa di tossicità. Per questo motivo si raccomanda un monitoraggio routinario dei livelli ematici durante la terapia con aminoglicosidi [28].

L ’incidenza di nefrotossicità da amikacina è meno frequente rispetto alla tossicità generata da altri aminoglicosidi. Inoltre, la somministrazione in dose unica riduce la nefrotossicità pur mantenendo efficacia terapeutica e semplifica i processi di monitoraggio [27].

Polimixine

La colistina era, ed è tuttora, l’unico agente polimixinico disponibile per via parenterale in Europa.

Dopo la filtrazione glomerulare, la colistina viene assorbita dalle cellule dei tubuli prossimali. L’accumulo intracellulare è una precondizione per il danno renale mediato dalla colistina e i mitocondri delle cellule tubulari prossimali potrebbero essere un sito primario di danno. Anche in questo caso il meccanismo con cui si instaura tossicità passa attraverso l’accumulo intracellulare, il danno mitocondriale e l’apoptosi cellulare [29, 30].

L’incidenza di nefrotossicità da polimixine varia dal 24 al 74% per la colistina e dal 21 al 46% per la polimixina B [31]. Un recentissimo lavoro definisce che non vi sono significative differenze in merito alla nefrotossicità fra le polimixine. La prevalenza della nefrotossicità è aumentata significativamente nel corso degli anni. Negli anni ’70 le percentuali riportate per questo evento erano intorno al 2%, con un graduale aumento, raggiungendo il 26% nel 2015 e il 27% nel 2016. L’aumentata incidenza è verosimilmente da imputare ai criteri utilizzati per definirla. Gli studi che usano l’aumento della creatinina danno una prevalenza del 14%, gli studi che usano i criteri RIFLE del 39% [32].

I fattori di rischio per nefrotossicità legati al paziente  sono l’età, l’obesità, concomitante impiego di farmaci nefrotossici, presenza di diabete, ipoalbuminemia e ricovero in terapia intensiva . I fattori legati al farmaco sono la dose somministrata (dosi di colistina ≥5 mg / kg / die; dose totale > 270 mg per colistina e ≥200 mg per PMB), concentrazione sierica (concentrazioni di 3,33 mg / L e 2,42 mg / L sono i breakpoint predittivi della concentrazione sierica per la nefrotossicità al giorno 7 e alla fine della terapia, rispettivamente) [33].

In uno studio multicentrico retrospettivo, la comparsa di nefrotossicità da polimixina B risultava più frequente con la monosomministrazione rispetto alla somministrazione 2 volte al giorno con un’incidenza del 47% e del 17%  rispettivamente. L’episodio di nefrotossicità avveniva dopo 7 giorni di terapia e si risolveva nel 78% dei casi. Nessun paziente richiedeva terapia sostitutiva [34]. Ovviamente le strategie per minimizzare la tossicità riguardano la possibilità di limitare i fattori di rischio. Recentemente si è ipotizzato l’impiego di antiossidanti o di cilastatina che in vitro hanno dimostrato di ridurre la nefrotossicità indotta da gentamicina, colistina e vancomicina. Per quanto riguarda la modalità di somministrazione, al momento  il suggerimento è dividere in due la dose e infondere il farmaco in circa 1 ora [30].

Fluorochinoloni, Macrolidi e Oxazolidinoni

I fluorochinoloni determinano sia nefriti intersiziali acute con, a volte, associati aspetti granulomatosi, vasculiti, necrosi tubulare e cristalluria [35,36]. La cristalluria si può associare ad aspetti di nefrite interstiziale con granulomi ed i fattori di rischio sembrano essere l’età, la bassa massa corporea, l’impiego di ACE-inibitori e la preesistente insufficienza renale [37].

Nefriti interstiziali acute sono state segnalate sia con l’impiego di macrolidi che oxazolidinoni [38, 39, 40].

La Clindamicina è causa di insufficienza renale acuta secondaria a nefrite interstiziale nel 75% dei casi e nel restante determina necrosi tubulare acuta. Nonostante la maggioranza dei pazienti richieda trattamento sostitutivo, vi è recupero della funzione renale nella pressoché totalità dei pazienti dopo circa 2 mesi [41, 42].

Farmaci antitubercolari

L’incidenza di IRA in pazienti in trattamento per tubercolosi è di circa il 7%; si manifesta prevalentemente nei primi 2 mesi ma può avverarsi anche fino a sei mesi dall’inizio della terapia. Il tempo medio di recupero della funzione renale è di circa 40 giorni (range, 1–180 giorni). I fattori che predicono il recupero renale sono la presenza di febbre, eruzione cutanea e disturbi gastrointestinali all’inizio dell’IRA. Poiché la presenza di febbre e rash si associano alla nefrite interstiziale è verosimile che la patogenesi sia legata a questa patologia indotta da rifampicina (43). In un recente lavoro, infatti, la presenza di nefrite tubulo interstiziale è stata confermata alla biopsia renale [44].

Nuovi farmaci

Oritavancina e dalbavancina presentano un profilo di nefrotossicità migliore rispetto a quello della vancomicina mentre la televancina presenta effetti collaterali più frequenti. Sia  Ceftaroline che Ceftobiprole hanno le stesse caratteristiche di tossicità delle altre cefalosporine. Il Tedizolid ha un profilo di sicurezza migliore rispetto al linezolid mentre il Radezolid deve ancora essere valutato in trial di fase III [45].

Il Relebactam, inibitore delle β-lactamasi, può ripristinare l’attività dell’imipenem contro i patogeni gram-negativi non sensibili a Imipenem. In un recente trial, l’impiego di imipenem/relebactam è stato confrontato con colistina+imipenem in pazienti con infezioni non suscettibili all’Imipenem. I tassi di risposta clinica favorevoli erano superiori del 31% con IMI / REL rispetto a colistina + IMI al giorno 28. La mortalità per tutte le cause al giorno 28 era inferiore del 20% con IMI / REL. La nefrotossicità era significativamente inferiore con IMI / REL rispetto a colistina + IMI  (10%) vs 56% rispettivamente) [46].

Anche l’associazione imipenem/vaborbactam (nuovo inibitore delle β-lattamasidi con uno spettro microbico tale da coprire gli enterobatteri produttori di carbapenemasi) risulta più favorevole in termini di tossicità rispetto alla miglior terapia a disposizione (polymyxina, carbapenemico, aminoglicoside, tigeciclina o ceftazidime-avibactam ). L’impiego di imipenem/vaborbactam  è associato a miglioramento clinico, diminuita mortalità e ridotta nefrotossicità [47].

 

Conclusioni

I medici devono conoscere la potenziale nefrotossicità di numerosi antibiotici ed i meccanismi per cui e con cui si manifesta. A questa consapevolezza si deve aggiungere il riconoscimento di tutti i fattori di rischio che possono contribuire all’insorgenza di tossicità renale in quanto spesso la causa di IRA è multifattoriale. Il monitoraggio dei livelli ematici, quando è possibile, contribuisce a adeguare la dose in modo da evitare livelli tossici. Poiché la clearance renale rimane uno dei fattori più importanti nel determinare i livelli ematici di molti antibiotici, è necessario conoscere la funzione renale prima di iniziare la terapia e continuare a monitorarla. Il riconoscimento precoce di tossicità renale e la successiva sospensione dell’antibiotico responsabile, permette di recuperare il danno renale che risulta reversibile nella maggioranza dei casi. Particolare attenzione deve essere posta in modo da evitare la contemporanea somministrazione di altri farmaci nefrotossici ed ulteriori insulti renali quali l’ipotensione e la disidratazione.

 

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Tossici ambientali e tossicità renale diretta da farmaci: erbe e piante

Abstract

La medicina tradizionale rappresenta un metodo di cura assai diffuso nel mondo. Nonostante il riscontro da parte dell’WHO di una progressiva diffusione degli organismi nazionali deputati al controllo della produzione e distribuzione dei fitoterapici, il rischio di loro effetti collaterali tossici risulta elevato anche se la reale incidenza non è nota. Questi rischi conseguono in gran parte all’autoprescrizione sostenuta dal presupposto che ciò che è naturale non è pericoloso per la salute. Il fatturato dell’industria fitoterapica è in progressivo aumento favorito dalla facilità con cui i prodotti possono essere acquistati senza ricetta medica nelle farmacie di alcuni paesi oppure online.

In particolare, le erbe cinesi possono essere nefrotossiche e i clinici dovrebbero considerare la possibilità di un loro ruolo in alcuni casi di AKI o CKD a genesi misconosciuta. Inoltre, nella raccolta dell’anamnesi farmacologica dei pazienti affetti da CKD o trapiantati di rene è necessario escludere l’ assunzione di alcuni fitoterapici di uso comune che possono risultare controindicati per possibili interazioni con farmaci della medicina convenzionale.

Parole chiave : medicina tradizionale, fitoterapia, erbe cinesi, Acido Aristolochico, nefrotossicità.

Introduzione

In base ai dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) la Medicina Tradizionale (MT) e la Medicina Complementare (MC) rappresentano oggi il principale trattamento medico essendo utilizzate dall’88 % della popolazione mondiale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo [1].

La WHO riconosce 9 tipi di MT e MC: l’agopuntura, la medicina ayurvedica, la chiropratica, l’omeopatia, la naturopatia, la medicina a base di erbe, l’osteopatia, la medicina tradizionale cinese e la medicina unani.

Nel report della WHO, oltre alla MT e MC, viene introdotto il concetto di Medicina Integrativa (MI) che ha lo scopo di fondere le conoscenze e la pratica della MT e MC con la medicina convenzionale. Dal 1999 al 2018 in gran parte dei 194 Stati Membri mondiali, inclusi in 6 Regioni (Regione Africana, Americana, Mediterranea, Europea , Sud Est Asiatico e Pacifico dell’Ovest) , si è riscontrata una progressiva introduzione sia di una politica specifica che di commissioni di esperti dedicati al controllo e alla sicurezza della MT e della MC.

Come detto, la fitoterapia è uno dei 9 tipi di MT. Il termine fitoterapia deriva dal greco phyton (pianta), therapeia (cura). L’utilizzo delle piante a scopo curativo risale a migliaia di anni or sono. Ad esempio la Serenoa Repens (saw palmetto), ancora disponibile in commercio, veniva utilizzata dagli egiziani per la cura dei disturbi urinari conseguenti all’ipertrofia prostatica già nel XV secolo A.C. [2].

Il fatturato annuo dell’industria fitoterapica è in continuo aumento nel mondo. Nel 2012 negli USA, solo per i prodotti a base di erbe cinesi (EC), è stato stimato essere pari a 83.1 bilioni di dollari, un incremento del 20% rispetto agli anni precedenti.

Sempre secondo il report della WHO [1], negli ultimi 20 anni sono progressivamente aumentati gli stati (134/194) che presentano un sistema di controllo della produzione dei fitoterapici, in alcuni casi sovrapponibile a quello riguardanti i farmaci convenzionali. Risulta in crescita anche il numero di nazioni che mettono in atto le good manufacturing practice (GMPs) (77 paesi nel 2005, 93 nel 2012) e sistemi di registrazione delle erbe medicinali. Se l’Europa rappresenta il continente con il maggior numero di paesi aventi un regolamento nazionale, l’Italia risulta non aver risposto al sondaggio per cui non vi sono dati disponibili.

Infine, per quanto riguarda i sistemi di vendita dei fitoterapici, prevale la dispensazione senza prescrizione medica tramite farmacie o altri outlets; solo al secondo posto risultano le farmacie con ricetta medica obbligatoria. La vendita libera da parte di terapisti, traditional practitioners e mercati privi di qualsiasi controllo (online, telemarketing oppure on street) appare fortunatamente in lieve calo rispetto al passato. Nonostante ciò l’autoprescrizione è un fenomeno assai diffuso per cui il Medico di Medicina generale e lo specialista devono raccogliere un’attenta anamnesi farmacologica al fine di evidenziare potenziali interazioni tra “tossici” non dichiarati (erbe comprese) o prevenire complicanze emorragiche in corso di una procedura interventistica (esempio in nefrologia cateterismi venosi, biopsie renali) o di un intervento chirurgico.

La diffusione dell’uso dei prodotti a base di erbe ha comportato un’aumentata segnalazione dei loro effetti indesiderati. Un’osservazione interessante consiste nel fatto che non tutte le persone che utilizzano EC sviluppano complicanze renali. La tossicità può dipendere, infatti, sia dai costituenti chimici della pianta (fattori intrinseci) che dalla presenza di contaminanti (fattori estrinseci) quali i metalli pesanti (piombo, mercurio e cadmio), pesticidi, erbicidi, microorganismi, tossine microbiche (aflatossine) e isotopi radioattivi. Processi non corretti di conservazione o pretrattamento fisico-chimico (adulterazione) delle EC possono causare nefrotossicità. Recentemente sono stati descritti casi di AKI e CKD in seguito all’utilizzo di prodotti a base di Carthamus Tinctorius (erba utilizzata come purgante, antipiretico, analgesico) contaminati da Auramina O. Si tratta di un colorante carcinogeno industriale non commestibile che esalta le caratteristiche cromatiche simil-zafferano del cartamo permettendo una vendita a prezzo maggiore [3]. Infine, il danno tossico da fitoterapici può dipendere da fattori legati al paziente, quali il sesso e l’età oltre alle comorbidità (malattie renali croniche, allergie) [4].

Collegandosi al sito https://nccih.nih.gov/ è possibile accedere alla banca dati americana del National Center of Complementary and Integrative Health (NCCIH), istituzione nata negli anni ’90. Rapidamente si possono avere informazioni riguardanti tutti i trattamenti , elencati in ordine alfabetico dalla “a” alla “z” (dall’agopuntura allo zinco), utili sia per i consumatori che per i professionisti della salute con possibilità di consultare le pubblicazioni scientifiche e gli studi randomizzati controllati relativi all’argomento d’interesse.

Aggiornamenti in materia si possono ottenere anche dalla European Medicines Agency (EMA) collegandosi al sito https://www.ema.europa.eu/en.

Focalizzaremo ora l’attenzione su alcune piante che possono direttamente causare nefropatia ed altre in grado di determinare pericolose interazioni farmacologiche con conseguenti pericoli per la salute dei pazienti.

 

Nefrotossicità da preparati a base di erbe cinesi

L’incidenza della nefrotossicità indotta dalle EC non è nota in quanto gli eventi avversi sono documentati prevalentemente tramite case reports o series. Questa scarsità di dati determina una falsa sensazione di rarità di eventi.

I principali costituenti nefrotossici delle EC sono gli acidi aristolocici (AA) e i composti alcaloidi ( 5, 6). Gli AA rappresentano una famiglia di fitochimici cancerogeni, mutageni e nefrotossici e derivano da piante quali l’Aristolochia Contorta Bunge, l’Aristolochia Manshuriensis Kom, la Clematis Chinensis Osbeck , la Aristolochia Cathcartii Hook. Anche l’Asarum heterotropoides appartiene alla famiglia delle Aristolochiaceae e contiene AA in percentuali diverse a seconda delle varie parti della pianta. La radice dell’Asarum (Asari radix e Rhizoma) presenta basse concentrazioni di AA e pertanto non risulta tossico per il trattamento delle cefalee o di stati infiammatori mentre la pianta intera (Asarum plant), in particolar modo fiori e gambo, ne contiene elevate concentrazioni risultando altamente tossica [3]. L’AA gioca un ruolo patogenetico importante anche nella nefropatia endemica dei Balcani (BEN) che non risulta però oggetto di trattazione. Gli alcaloidi nefrotossici sono derivati dal Tripterygium regelii Sprague e Takeda, dalla Stephania Tetranda S. Moore, dallo Strychnos nux-vomica Linn e dall’Aconitum carmichaeli Debx. In aggiunta, le EC possono contenere antrachinoni, flavonoidi e glicosidi nefrotossici. I prodotti a base di EC sono considerati più pericolosi rispetto ad altri rimedi tradizionali perché costituiti da misture di diversi elementi, spesso associati alla presenza di metalli pesanti (es. arsenico, cadmio, mercurio).

Le possibili manifestazioni della nefrotossicità da EC sono l’AKI, la CKD, la nefrolitiasi, la rabdomiolisi, la sindrome di Fanconi e il carcinoma uroteliale.

 

AKI

In molti pazienti la causa di AKI non è nota. Nei soggetti biopsiati sono stati osservati casi di necrosi tubulare acuta (NTA) o di nefrite interstiziale acuta (NIA) [7, 8].

I flavonoidi sono composti idrosolubili, polifenolici delle piante superiori. In Cina sono molto utilizzati per la cura del diabete (ad esempio Taxus Celebica che contiene la sciadopitisina) ma anche in Europa vengono commercializzati centinaia di prodotti indicati per la terapia della fragilità vascolare e di malattie epatiche

Nel 1994 Lin [7] descrisse 2 pazienti con AKI da sciadopitisina. Alla biopsia renale il quadro istologico evidenziava una NIA con NTA. Lee [8] riportò il caso di una paziente che sviluppò insufficienza epatica acuta, anemia emolitica autoimmune con trombocitopenia dopo l’ingestione di un estratto d’acqua calda di Cupressus funebris Endl , ricco in flavonoidi. La biopsia renale evidenziò NTA, NIA e casts emoglobinici. Un altro case report riporta una reazione da ipersensibilità in seguito all’assunzione di frutti e thè (ottenuto dalle foglie) di Crataegus Orientalis (9), detto anche Biancospino dell’Anatolia, ricco in flavonoidi. Clinicamente il paziente presentava citolisi epatica e AKI da NIA.

Infine, Zangh [10] descrisse 6 casi di NTA da andrografolide (principale costituente della Andrographis paniculata , nome vernicolare chuan xin lian) somministrata per via endovenosa, ampiamente utilizzata in Cina per il trattamento delle infezioni delle vie respiratorie e della dissenteria. Il meccanismo di tossicità renale non risulta ancora noto.

 

CKD

L’AA è il principale responsabile della CKD.

Le prime segnalazioni di CKD da nefropatia interstiziale a rapida evoluzione risalgono al 1993 e riguardano 9 donne sottoposte a regime dietetico a Bruxelles [11]. Le pillole dovevano contenere polveri di radici di Stefania tetranda e Magnolia officinalis, raccolte in Cina e quindi distribuite alle farmacie del Belgio senza essere sottoposte ad alcun controllo. Il sospetto di una nefropatia da AA (NAA) fu confermato nel 1996 grazie alla dimostrazione con l’HPLC (High Performance Liquid Chromatography) della presenza degli AA I e II nella miscela dietetica nonché degli addotti DNA-AAI nel tessuto renale dei pazienti uremici biopsiati. Si comprese che vi era stato un tragico errore nei costituenti delle pillole conseguente all’utilizzo dei nomi vernacolari da parte della popolazione indigena deputata alla raccolta delle erbe. Essendo molto simili tra loro (Han Fan Ji per la Stefania tetranda, Guan Fan Ji per l’Aristolochia fangchi) la Aristolochia era stata utilizzata al posto della Stefania. Nel 1998 il numero di pazienti affette da NAA in Belgio salì da 9 a 128, gran parte delle quali giunse all’uremia [12] . Anche in questa situazione colpì il fatto che solo una parte delle donne trattate sviluppò la nefropatia. Nel 2008 lo stesso autore belga definì la NAA come un “problema mondiale”, decisamente sottostimato se riferito alla popolarità della Medicina Tradizionale in paesi come l’India, Taiwan, Cina e Giappone [12, 13, 14].

Gli erboristi taiwanesi, consumatori dei loro prodotti, risultano ad elevato rischio di morte per neoplasie del rene e delle vie urinarie rispetto alla restante popolazione [15]. La loro preparazione si basa su una cultura esclusivamente familiare, tramandata di generazione in generazione.

Il quadro clinico tipico della NAA è caratterizzato da CKD a rapida evoluzione in uremia, proteinuria tubulare, normotensione arteriosa, anemizzazione. Nel 30-50% dei casi è’ stata descritta una insufficienza aortica da fenfluramina (aggiunta a scopo anoressizzante) non reversibile con la sospensione del trattamento e con il trapianto di rene [16]. Il quadro istologico renale evidenzia estesa fibrosi interstiziale ed atrofia tubulare in assenza per lo più di infiltrati infiammatori interstiziali. Nei rari casi in cui quest’ultimi sono stati evidenziati , si è supposto un ulteriore meccanismo immunologico di danno e il trattamento steroideo ha permesso un rallentamento dell’evolutività dell’IR [17]. I glomeruli si presentano ischemici, collassati con raggrinzimento delle membrane basali glomerulari.

Altra espressione clinica della NAA è rappresentata dalla sindrome di Fanconi che si manifesta prevalentemente nella popolazione del Giappone , Taiwan e Corea [18]. Infine, è stata descritta una NTA a progressivo decorso verso l’uremia determinata dall’Aristolochia manshuriensis Kom (Guanmutong o GMT) molto utilizzata in Cina, ma anche negli USA e in Europa, per patologie urinarie e cardiovascolari . Questa forma di NTA è particolarmente grave in quanto non presenta segni di rigenerazione cellulare e si associa ad un danno delle cellule endoteliali dei capillari peritubulari [19].

Nel 2002 la International Agency for Research on Cancer (IARC) ha dichiarato l’AA ( in modo particolare l’AAI) carcinogeno per l’urotelio (20) in quanto circa la metà dei pazienti affetti da NAA sviluppa neoplasie uroteliali a distanza di 2-6 anni dall’assunzione di AA. Anche i pazienti colpiti da BEN hanno una mortalità specifica per carcinomi dell’urotelio superiore di 50 volte rispetto al resto d’Europa [20, 21]. Le neoplasie possono essere più o meno invasive  e le sedi più colpite sono rappresentate dalla pelvi e dal  tratto lombare-addominale degli ureteri. Per tale motivo i pazienti affetti da NAA, candidati a trapianto di rene, devono essere sottoposti a nefroureterectomia preventiva; nonostante ciò si sono registrati alcuni casi di neoplasia vescicale a 15 anni dal trapianto.

Infine, sono stati descritti casi di nefrite interstiziale cronica conseguente all’utilizzo di pillole contenenti antrachinoni estratti dal rabarbaro (Rhizoma rhei) e di nefropatia cronica ipokaliemica associata con l’assunzione di Glycyrrhiza glabra (liquerizia) come sedativo della tosse [22 , 23]. La liquerizia ha determinato in alcuni casi, oltre alla nefropatia ipokaliemica, anche rabdomiolisi [22].

 

Nefrolitiasi

Tale complicanza non risulta frequentemente associata all’utilizzo di EC. Vi sono case reports [24, 25] che descrivono calcolosi costituita da efedrina, nor-efedrina e pseudoefredina in pazienti che hanno assunto a lungo pillole contenenti Ephedra sinica (ephedra/ma huang) per il trattamento di patologie delle vie respiratorie. Per tale motivo dal 2004 l’FDA ha proibito l’utilizzo di integratori alimentari contenenti ephedra negli Stati Uniti.

Sono stati descritti , inoltre, casi di ipertensione arteriosa, necrosi della papilla e ritenzione urinaria [26] . Anche in Iran è ancora diffuso l’utilizzo dei frutti delle piante del genere Aristolochi (bottae, olivieri e Hyrcana Davis) per la cura della cefalea, dei dolori al rachide, dell’ansia e a scopo disintossicante [26].

 

Possibili complicanze derivate dall’assunzione di alcuni prodotti fitoterapici nei pazienti nefropatici

Verranno prese in considerazione alcune erbe particolarmente utilizzate quali: I’Echinacea, il Ginkgo biloba , l’Erba di S. Giovanni, il Ginseng e l’Aglio.

a) Echinacea.
L’Echinacea (Echinacea Angustifolia, Echinacea purpurea) viene prescritta per la prevenzione delle malattie da raffreddamento e delle infezioni del tratto urinario. In Germania, dove è considerata farmaco etico, viene utilizzata anche per il trattamento della sindrome da affaticamento cronico. Ha un’azione immunostimolante aspecifica e le cellule bersaglio sono rappresentate da macrofagi, monociti, leucociti polimorfonucleati, linfociti T (T4,T8 e NK) . L’azione immunostimolante è dovuta sia alla frazione liposolubile che a quella idrosolubile come i derivati dell’acido caffeico , in particolare l’acido cicorico. L’ attività locale si basa sulla capacità dell’Echinacea di accelerare la rigenerazione tissutale e di localizzare l’infezione determinata principalmente dall’inibizione della jaluronidasi. L a somministrazione deve avvenire a cicli (consigliato un mese di trattamento seguito da 15 giorni di pausa per 3 volte) al fine di evitare l’epatotossicità da accumulo. Inoltre, è sconsigliata la prescrizione di Echinacea ai pazienti in trattamento con amiodarone e ketoconazolo. Con particolare riferimento ai pazienti nefropatici, inibendo il CYP3A4 , può aumentare i livelli sierici di farmaci come alprazolam, calcio antagonisti, inibitori delle proteasi e ridurre l’efficacia di immunosoppressori quali il tacrolimus e la ciclosporina [27]. Non deve, infine, essere prescritta a pazienti affetti da patologie autoimmunitarie (es. connettiviti).

b) Gingko biloba.
La pianta di Gingko è antichissima ; si rinviene in Cina dove è prescritta da millenni dagli erboristi locali per il trattamento sintomatico dell’insufficienza cerebrale lieve o moderata e delle arteriopatie periferiche, della malattia di Raynoud, dell’acrocianosi e delle vertigini di verisimile origine vascolare. Il suo utilizzo è decisamente aumentato anche in Europa, soprattutto in Germania dove è considerato farmaco etico e viene prescritto per il trattamento del Morbo di Alzheimer . Notoriamente il Gingko ha effetto antiossidante e riduce l’aggregazione piastrinica attraverso l’inibizione del PAF (Platelets Activating Factor) . Per le possibili complicanze emorragiche, anche cerebrali, non va somministrato a pazienti in terapia con anticoagulanti orali e antiaggreganti quali warfarina, ASA, FANS, ticlopidina, clopidogrel, aglio [28]. Inoltre, va assolutamente sospeso almeno 3-7 giorni prima di un intervento chirurgico [28].

c) Erba di S. Giovanni.

L’erba di S. Giovanni ( Hypericum perforatum, St. John’s wort) è una pianta ubiquitaria, così chiamata perché ha la massima fioritura il 24 giugno. Uno dei suoi principali costituenti è l’iperforina, inibitore dell’uptake della serotonina, della noradrenalina e della dopamina [29]. Trova indicazione nel trattamento delle depressioni lievi-moderate. Ha attività ansiolitica ed antiinfiammatoria. Come topico, l’olio di iperico viene prescritto per il trattamento di ferite e ulcerazioni della cute. Mentre in vivo l’iperico è un induttore di alcuni isoenzimi del citocromo P450 come il CYP3A4, in vitro sembra essere un inibitore. Particolare attenzione deve essere posta, pertanto, nei pazienti in terapia con ciclosporina e tacrolimus (glomerulonefriti, trapianto) in quanto ne riduce i livelli sierici [29]. Può ridurre a livelli sub-terapeutici anche la concentrazione di farmaci quali la digossina, l’omeprazolo, le statine, l’indinavir e altri antiretrovirali inibitori delle proteasi e della transcriptasi [29].

d) Ginseng.

Il Ginseng asiatico (Panax ginseng C.A. Meyer) è utilizzato nelle convalescenze, in caso di astenia, perdita di concentrazione e memoria, stati di stress. Sebbene secondo l’OMS 2002 il Ginseng non presenti controindicazioni assolute, dati di letteratura sconsigliano la somministrazione a pazienti già in terapia con anticoagulanti per possibili interazioni in senso sia protrombotico che emorragico [20]. Potenzia, inoltre, l’effetto farmacologico di corticosteroidi, insulina, calcio-antagonisti ed estrogeni [30].

e) Aglio.
L’aglio (Allium sativum L.) viene utilizzato per il trattamento dell’ipertensione lieve e come antielmintico. Riduce il livelli ematici di colesterolo, LDL-colesterolo e dei trigliceridi. Deve essere sospeso almeno 5-7 giorni prima di un intervento chirurgico in quanto aumenta il tempo di sanguinamento; per tale motivo è sconsigliato anche in gravidanza. Non deve essere assunto da pazienti già in terapia con ASA e warfarina. Potenzia l’effetto degli ACE-inibitori determinando ipotensione [31].

Concludiamo questa presentazione ricordando che vi sono numerosi studi sull’animale che dimostrano una protezione da parte dei fitoterapici nei confronti della tossicità farmaco indotta (soprattutto chemioterapici e antibiotici). Ad esempio l’estratto acquoso dell’aglio (Allium sativum) ha effetti protettivi nei confronti della nefrotossicità da metotrexate, gli estratti di liquerizia (Glycyrrhizia Glabra) e di Ribes diacanthum verso il cisplatino, le foglie di Ginkgo Biloba verso la nefropatia da gentamicina [32, 33]. Il meccanismo d’azione principale si basa sulle proprietà antiossidanti e anti-infiammatorie delle piante. Sebbene promettenti questi effetti protettivi non sono stati indagati sull’uomo ma rappresentano un possibile futuro impiego della MI.

 

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