Supplemento S73 - Articoli originali

La sospensione della dialisi e le cure palliative: da un caso clinico una riflessione generale

Abstract

La sospensione della dialisi è un evento che spesso si verifica precocemente. È comunque un possibile indicatore di scelte inadeguate in un panorama di difficile decifrazione caratterizzato da comorbilità, fragilità e disabilità.

Sono stati sviluppati strumenti sensibili per la conoscenza della prognosi a breve e medio termine e per la conoscenza multidimensionale del paziente che pongono la qualità di vita alla base delle decisioni.

Al pensiero medico attuale si richiede di integrare elementi clinici e fisiopatologici con una forma di intelligenza filosofica “totale” fondata su valori e modalità operative che consentano una comunicazione efficace con il paziente e i famigliari per un percorso di scelta condivisa.

La prassi clinica deve poter contare su un quadro normativo certo e la preparazione specifica nella disciplina delle Cure Palliative.

È inoltre indispensabile che in tutto il percorso di assistenza al fine vita si realizzi l’integrazione tra la competenza specialistica clinica e fisiopatologica con la competenza delle Cure Palliative, per la corretta comprensione dei sintomi e la loro appropriata gestione.

La visione della dialisi rimodulata o palliativa, comprese opzioni di trattamento estemporaneo dopo la sospensione, e il principio di intervento mirato al sollievo dei sintomi con ogni mezzo, devono essere perseguiti fino al momento della morte.

Il “buon uso” della dialisi nella terminalità presuppone un sistema logistico coerente stabile e dedicato a questa tipologia di paziente.

La domiciliarità è setting ideale in cui si può attuare una gestione integrata simultanea del “fine vita” da parte di Nefrologo e Palliativista.

Parole chiave: Sospensione dialisi, età anziana, comorbilità, fragilità, fine vita, rimodulazione trattamento

Introduzione

Questo caso clinico, di alcuni anni fa, ci ha spinto, nella sua esemplare tragicità, a interrogarci sull’inadeguatezza del modello di assistenza in uso e ci ha spinto a iniziare un percorso per arrivare ad una prassi clinica pertinente alle necessità della medicina attuale.

Il signor Carlo, di 83 anni, era affetto da insufficienza renale cronica (IRC) e in dialisi di mantenimento da due anni.

Presentava diabete mellito di tipo 2 insulino trattato, ipertensione arteriosa, abitudine al fumo inveterata complicata da vasculopatia polidistrettuale degli arti arti inferiori, cerebrale e carotidea; il paziente è affetto inoltre da sindrome depressiva e malattia diverticolare del colon.

Era stato precedentemente sottoposto a resezione transuretrale vescicale (TURB) per carcinoma uroteliale e riportava una pregressa caduta con frattura di avambraccio sinistro e branca ischio pubica sinistra.

Per ischemia critica si effettuava un intervento di amputazione di gamba che risultò precedere la morte di 11 giorni.

Dimesso, veniva inviato direttamente in Casa di Riposo e da qui regolarmente trasportato al Centro dialisi per effettuare i trattamenti fino ad una data che risultò precedere di una settimana il momento della morte.

Il paziente veniva inoltre, nel contesto dell’aggravamento delle condizioni cliniche, ripetutamente inviato in Pronto Soccorso dal Medico Curante e dalla Guardia Medica per accessi di dispnea e, dopo valutazione, riportato costantemente in Casa di Riposo.

In data, che risultò essere antecedente di 7 giorni al momento della morte, si verificò un’ emorragia post chirurgica tardiva per mancata cicatrizzazione del moncone, per cui il paziente venne ricoverato in Medicina Generale.

Il tentativo di controllare il dolore con oppioidi in ambiente non specialistico, senza selezione adeguata di principio attivo e opportuno aggiustamento di posologia, provocava, nell’ultima settimana di vita, eccesso di sedazione e confusione per accumulo di farmaco.

Veniva proposto posizionamento di catetere peridurale, giudicato non appropriato dal Servizio di Algologia nel corso di una prima valutazione. Il paziente avrebbe dovuto essere rivalutato dallo stesso Servizio in data che risultò poi essere successiva di 9 giorni al momento della morte.

Il sistema di fronte all’evoluzione incalzante di questo quadro appare “bloccato” e fornisce solo risposte “automatiche” e disorganiche.

Non sono riconosciuti specificità, bisogni, fragilità e complessità e soprattutto non c’è capacità di efficace contrasto alla sofferenza.

Colpisce, da una parte, la mancanza di metodologia clinica per l’analisi dello stato funzionale del soggetto e per l’elaborazione della prognosi, sulle quali basare la progettazione di cure appropriate e, dall’altra, l’assenza di coerenza degli interventi e di una stabile allocazione del paziente che fornisca un baricentro per l’attuazione organica e continuativa delle cure.

 

Il quadro epidemiologico attuale dei pazienti incidenti in dialisi

Dal registro italiano dialisi e trapianto (RIDT) risulta che i pazienti incidenti e prevalenti in dialisi sono caratterizzati da anzianità elevata; la fascia di età 79-84 anni ha un Incidence Rate Ratio (IRR) attorno a 100, molto superiore a quello delle altre fasce di età (1).

Il registro USA – United States Renal Data System – (USRDS), riporta valore di prevalenza per milione (PPM) di 1750 persone, stabile tra gli anni 2002 – 2010, per i pazienti di età di 75 anni o superiore, che risulta la più alta di tutte le fasce di età.

Sempre l’USRDS riporta una frequenza, nei pazienti incidenti in dialisi, attorno al 50% di diabete mellito e di scompenso cardiaco congestizio, nel 28 % dei casi di cardiopatia ischemica, mentre la malattia cronica polmonare era presente nel 40% dei casi (2).

Trattasi di una popolazione caratterizzata dalla presenza di fragilità, comorbilità e disabilità che si associano ad una mortalità elevata (3).

La tipologia dei pazienti fa sì che non si ottenga significativo beneficio sia in termini di sopravvivenza sia in termini di stato funzionale: dopo un anno di trattamento dialitico poco più del 10 % di una casistica costituita da 3702 anziani residenti in Nursing Home era vivo e con uno stato funzionale conservato. (5).

La mortalità complessiva, nel mondo, nei primi quattro mesi dall’avvio del trattamento dialitico oscilla approssimativamente tra il 20 % del Giappone e il 35% degli USA con il dato italiano di circa il 25 % (Fig. 1) (6).

D’altra parte esistono studi che riportano un vantaggio di sopravvivenza fino a 50 mesi per il 20% dei pazienti con elevata comorbilità cardiovascolare se mantenuti in terapia conservativa, rispetto a quelli con analoghe caratteristiche che venivano avviati all’emodialisi (6).

 

Le scelte nell’approssimarsi del fine vita 

Secondo lo studio SENTI – MELC della rivista della Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) nel 2012, il 65% dei decessi non è motivato da una causa improvvisa o non prevedibile. (7)

Nonostante ciò, inseguendo la problematica emergente, negli ultimi tre mesi di vita la gran parte dei trasferimenti è diretta “da casa a ospedale”, mentre solo un malato su 10 compie il tragitto inverso “da ospedale a casa”. Sempre uno su 10 cambia la sua destinazione “da casa a hospice”.

Complessivamente si registra che in quegli ultimi tre mesi il 59% dei pazienti viene spostato una o piu volte.

Secondo il report dell’ESRD Database (USRDS), il registro USA dell’IRC, nel periodo di osservazione 2001-2012, i pazienti affetti da IRC mediamente passano 1 degli ultimi 3 mesi di vita in ricovero ospedaliero (2).

Inoltre , nell’ultimo mese di vita, sempre negli USA, i pazienti affetti da IRC sottoposti a dialisi hanno una frequenza di ricovero in terapia intensiva del 48,9% , una percentuale superiore ai pazienti affetti da neoplasia (24%) e da scompenso cardiaco (19%) (8).

Queste osservazioni confermano che quanto riportato nel caso clinico della nostra introduzione non è un fatto anomalo ma una costante che caratterizza l’inadeguatezza dei sistemi sanitari del mondo nell’affrontare le problematiche di questa fase della vita in generale e nei pazienti affetti da IRC in particolare.

 

La rimodulazione palliativa dell’emodialisi

Nel paziente anziano o comunque fragile e affetto da comorbilità è stato preso in considerazione un approccio non tradizionale alla dialisi che distingua tra dialisi riabilitativa e dialisi palliativa, con diversi obiettivi terapeutici. Nel primo caso si tratta di mantenere un paziente con aspettativa di vita indeterminata nelle migliori condizioni possibili e di massimizzare il vantaggio prognostico ai fini sociali e trapiantologici anche a costo di una certa “invadenza” degli standard delle prescrizioni dietetiche, terapeutiche e dialitiche. In un paziente con aspettativa di vita limitata si privilegia una conduzione del trattamento che abbia come scopo principale il controllo dei sintomi e si lascia maggior spazio alle preferenze del paziente (Fig. 2). In tale contesto assumono anche sempre maggior rilievo le cure palliative simultanee.

 

La sospensione della dialisi

Quando le condizioni cliniche del paziente, osservate e valutate con il supporto metodologico di test sviluppati all’uopo e validati, come vedremo in seguito, e nell’ambito di un percorso condiviso con il paziente e con il suo sistema di relazioni, sono tali da determinare la mancanza di beneficio della dialisi (“futilità”), che anzi diventa essa stessa causa di inutile sofferenza, si può prendere in considerazione la sospensione del trattamento e la rimodulazione complessiva delle cure in senso palliativo.

Può essere mantenuto, come vedremo in seguito, tanto in emodialisi quanto in dialisi peritoneale, un approccio di trattamento con minima ultrafiltrazione, orientato al controllo del sovraccarico di volume per evitare l’insorgenza di dispnea.

Per essere di beneficio al paziente e non esporlo ad inutile sofferenza, la sospensione della dialisi si caratterizza come scelta terapeutica se è tempestiva.

Sono ormai consolidate le definizioni temporali di morte per sospensione del trattamento:

Oltre 3 giorni dopo l’ultima seduta di emodialisi.

Oltre 7 giorni dopo la cessazione degli scambi di PD. (1011)

Sempre utilizzando la fonte dell’USRDS si evince che la sospensione della dialisi è una scelta attuata con maggior frequenza nei pazienti più anziani: nella fascia di età compresa tra i 20 e i 44 anni la frequenza di sospensione della dialisi è attorno al 10%, ed è stabile nel tempo, nei soggetti superiori ai 65 anni è attorno al 20%, tende ad aumentare ancora con l’età e negli anni recenti.

Nel biennio 2008 – 2010 l’USRDS riporta un dato assoluto di 54600 pazienti deceduti per la sospensione della dialisi negli Stati Uniti.

La scelta della sospensione della dialisi è attuata prevalentemente, in tutto il mondo in cui siano presenti sistemi sanitari in grado di fornire dati, in fase precoce (Fig. 3).

L’USRDS nel 2005 riportava le seguenti cause di sospensione della dialisi:

  • 43% fallimento del tentativo di migliorare la qualità della vita e per il deterioramento neurologico e mentale.
  • 35% complicanze mediche intercorse: la malattia neoplastica, la necessità di intervento chirurgico, la gastropatia, la neuropatia diabetica e l’incremento del dolore fisico.
  • 8% per generici altri motivi.
  • 4% fallimento dell’accesso vascolare.

Non abbiamo a disposizione dati europei, né tantomeno italiani, completi come quelli forniti dal registro americano.

È interessante lo studio multicentrico francese in cui si rilevava che nel 2001 in 11 centri su 1436 pazienti si osservavano 196 decessi (13.9%) di cui il 20% (pari ad un 3% dei pazienti prevalenti) decedeva per sospensione della dialisi. Questi pazienti si caratterizzavano per età più avanzata, anzianità dialitica <1 anno in 15/40, erano prevalentemente sottoposti a emodialisi piuttosto che a dialisi peritoneale, erano affetti da demenza, cachessia, disabilità. (12)

 

La “Medicina della Scelta”

A fronte di uno scenario drammatico come quello descritto, emerge l’importanza del tema della sofferenza, non solo “non controllata”, ma addirittura “generata” da modelli di cura aprioristici, automatici e non pertinenti.

Alcuni autori rilevano il limite dalla tradizionale impostazione “neopositivistica” della medicina contemporanea e ne sottolineano l’inadeguatezza di fronte alla responsabilità della scelta negli scenari attuali e sottolineano la necessità di un’intelligenza “filosofica“ più vasta, all’interno della quale ricollocare l’operato del medico (13).

Tali autori risalgono esplicitamente alla frattura tra filosofia e scienza che si approfondisce nel secolo scorso e che renderebbe la scienza incapace di conoscenza vera (14).

Pur attribuendo all’impostazione empirica neopositivista il merito delle grandi acquisizioni che hanno arricchito le possibilità terapeutiche e consentito tanti successi, vengono rilevati i limiti della “Ragione Medica” dominante e si afferma la necessità di un pensiero che integri la “Medicina della Commensurabilità – neo positivista -” con una “Medicina della Relazionalità”.

Le difficoltà sono molte ma ineludibili: l’asimmetria tra il ruolo del medico, sociale e culturale è determinante: la difficoltà della comunicazione con una persona indebolita dalla malattia, menomata nelle sue capacità di elaborazione e con necessità di affiancamento e di abbandono fiducioso non può essere risolta in una trasmissione arida di informazioni.

La condivisione nella scelta è percorso lento e faticoso che mira alla “congruità di due apparati culturali”: quello della parte medica (il ruolo del “curante”, declinato nelle varie figure che interagiscono) e quello del paziente e del suo sistema relazionale.

La dinamica fondamentale è la conoscenza intersoggettiva, che superi autoritarismo e paternalismo, senza la quale non sussiste autenticità etica (15).

La complessità di un sistema in cui interagiscono elementi clinici e fisiopatologici non generalizzabili, elementi psicologici, antropologici, giuridici, etici, sociali e famigliari contrasta con un modello di pensiero che, adducendo ragioni organizzative ed amministrative, procede per schemi sommari, sequenze algoritmiche semplificate con snodi rigidi (paragonabile alla c.d. “Trivial Machine” descritta dai cibernetici degli anni ’30: un meccanismo in cui ad un dato input corrisponde un output costante e prevedibile) e che nega spazio e tempo a quel “Pensiero Critico” che è costitutivo della Medicina stessa fin dalle origini (15).

 

Il “Liverpool Care Pathway” (LCP). Intenzioni lodevoli, conseguenze disastrose

Nella prospettiva di costruire, per in nostri pazienti, una metodologia che supporti la “Medicina della Scelta” dobbiamo confrontarci con un’importante esperienza passata.

La vicenda del Liverpool Care Pathway (LCP) esemplifica le possibili insidie conseguenti ad un approccio eccessivamente standardizzato e “ingegnerizzato” alle problematiche mediche.

Il medico palliativista inglese Ellershaw e i suoi collaboratori nel 1997 affrontarono il problema di divulgare la metodologia dell’Hospice anche in contesto ospedaliero, per rendere più omogenee ed efficaci le cure volte al controllo della sofferenza del morente. Si trattava di un percorso ben congegnato, anche se “aspecifico”, basato sulla sequenza: “osservazione guidata per campi predeterminati dei singoli sintomi – intervento mirato – rivalutazione del raggiungimento dell’obiettivo del controllo della sofferenza”, in momenti ravvicinati, registrati in un’apposita cartella clinica (16).

Tale approccio venne attuato nel Regno Unito dal 1997 al 2013 e in una fase avanzata di applicazione gli autori rivendicarono i progressi realizzati con l’applicazione di questo modello di assistenza (17).

Proprio la caratteristica di “strumento standardizzato esportabile e divulgabile”, però, mentre da una parte ne facilitava la diffusione, dall’altra ne favoriva l’utilizzo da parte di operatori non qualificati e in ambienti inadeguati.

Con il tempo crescevano le segnalazioni di situazioni in cui per la rigidità intrinseca di questo approccio e per l’applicazione di inutili restrizioni, soprattutto riguardanti l’assunzione di liquidi e cibo, le sofferenze del morente non solo non erano controllate bensì persino aggravate.

Le critiche all’LCP culminarono in un articolato documento con cui enti confessionali e accademici denunciavano i danni provocati dall’impostazione basata su semplificazioni e generalizzazioni, e si affermava l’importanza della singolarità del paziente.

Nelle considerazioni conclusive veniva raccomandato di integrare, in ogni malato morente, le procedure generali di cura del fine vita con le misure necessarie per controllare i sintomi specifici di ogni malattia.

Queste autorità richiesero formalmente che l’LCP fosse bandito dalla pratica medica, cosa che di fatto avvenne nel 2013 (18).

 

I percorsi per la scelta condivisa

Nel 2003 con un articolo che partiva dall’analisi di un caso clinico relativo ad un paziente sottoposto a emodialisi, gravemente complicato, in sofferenza non controllata e con prognosi infausta a breve termine, Cohen, Germain e Poppel definivano la possibilità di sospendere il trattamento dialitico una “benedizione”. Nello scritto sono identificati i principi fondamentali alla base del processo decisionale: condivisione con il paziente e con i famigliari, costante – rassicurante – apertura alla riconsiderazione delle scelte, conoscenza multidimensionale del soggetto, approccio tecnico medico specifico nella singolarità del paziente. (Fig. 4) (19)

Nel 2010 La Renal Physicians Association (RPA) (20) pubblicava un documento aggiornato rispetto ad una prima edizione del 2000, che considerava gli studi nel frattempo pubblicati sui nuovi aspetti epidemiologici e clinici emersi:

  • la prognosi infausta del paziente anziano in stadio IV e V in termini di sopravvivenza;
  • l’elevata prevalenza di deficit cognitivo associato a l’IRC che ostacola la partecipazione del paziente al processo decisionale;
  • il dolore e gli altri sintomi spesso misconosciuti e inadeguatamente trattati;
  • lo scarso ricorso alle cure palliative;
  • la rimodulazione delle cure in funzione di obiettivi terapeutici basati sullo stato funzionale del paziente e delle sue condizioni complessive e la necessità di offrire cure palliative precoci e dopo la decisione di non erogare la dialisi.

Il documento è strutturato in 10 raccomandazioni di supporto per la decisione condivisa per l’avvio o per la sospensione del trattamento dialitico nell’adulto e nel bambino e in un’appendice che fornisce un insieme di strumenti per l’analisi multidimensionale e la valutazione della prognosi validati nel paziente uremico.

Viene in particolare proposto un modello prognostico integrato per la probabilità di sopravvivenza ad un anno basato su albuminemia, comorbilità e la risposta alla domanda “sorprendente”: “sarei sorpreso se il paziente morisse entro un anno?”, disponibile come calcolo all’indirizzo internet: http://touchcalc.com/calculators/sq. (21, 22)

In Italia queste tematiche sono state affrontate in due documenti condivisi tra numerose Società Scientifiche.

 

Il paziente in insufficienza renale (AKI o End Stage) con presentazione acuta

Il primo documento è del 2013, promosso dalla Società Italiana di Analgesia, Anestesia e Rianimazione (SIAARTI) (22). È redatto in collaborazione con le società scientifiche di Anestesia e Rianimazione, Cardiologia Ospedaliera, Cure Palliative, Nefrologia, Infermieri di Area Critica, Medicina Generale e Pneumologi Ospedalieri, ed è intitolato “Grandi insufficienze d’organo end stage. Cure intensive o cure palliative? Documento condiviso per una pianificazione delle scelte di cura”.

Il contesto è quello del paziente acuto: in pronto soccorso e nelle degenze ordinarie, semintensive, intensive.

È un documento molto articolato che comprende tra le varie sezioni, anche una flow chart orientativa che, valutando le caratteristiche generali, la gravità dell’insufficienza d’organo, lo stato funzionale ed altre dimensioni comprendenti anche la relazionalità e la filosofia di vita, aiuta a compiere, scelte di cura “proporzionate” commisurate al paziente, comprensive anche della rimodulazione in senso palliativo (Fig. 5).

Il documento, mentre promuove la collaborazione sul campo tra specialista d’organo e palliativista, rimanda alla legge 38 del 15/03/2010 e all’accordo Stato Regioni del 25 luglio 2012 che supportano lo sviluppo della rete di Cure Palliative.

In una sezione estesa, una Commissione di giuristi affronta, inoltre, il tema del perimetro giurisprudenziale in cui attuare le scelte.

Riportiamo di seguito alcune proposizioni di detta Commissione, stralciandole dal documento:

La giurisprudenza della Corte costituzionale (v. ad esempio Corte cost., 282/2002 e 338/2003 e 151/2009) ha più volte ribadito il fatto che non è, di regola, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche sanitarie ammesse, con quali limiti e a quali condizioni, ma che la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali che sono in continua evoluzione”.

“La “regola di fondo” è, dunque, quella dell’autonomia e responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione”.

 “E, dunque, innegabile l’importanza dello sviluppo di buone pratiche condivise dalla comunità scientifica, come confermano anche gli sviluppi giurisprudenziali in tema di colpa medica, tanto in ambito penale, quanto in sede civile”.

 

Le cure palliative “precoci” o “simultanee” in Nefrologia. Il documento SIN–SICP

Il secondo documento “Le Cure Palliative nelle persone con malattia renale cronica avanzata” è del 2015, elaborato in collaborazione dalla Società Italiana di Nefrologia (SIN) e dalla Società Italiana di Cure Palliative (SICP) e riguarda le cure palliative precoci in Nefrologia (23). Il contesto di riferimento è il percorso ambulatoriale. È specifico per la Malattia Renale Cronica e fornisce metodi per la valutazione della prognosi e per l’inquadramento multidimensionale del paziente.

Per i pazienti incidenti in dialisi è proposto il modello di Couchoud, aggiornato con lo studio del 2015 (24), con cui, mediante il calcolo di uno score basato su nove criteri è possibile risalire ad una probabilità di prognosi a 3 mesi (Fig. 6).

Per i pazienti già in trattamento dialitico cronico è raccomandato il modello di Cohen (Fig. 7) (25).

I test per la Valutazione Multidimensionale devono essere validati localmente nella popolazione curata perché risentono di effetti culturali e sociali. La S.S. Cure Palliative ha selezionato nella popolazione da noi curata, in provincia di Cuneo, i test riportati in figura (Fig. 8).

Il Documento SIN – SICP propone un percorso di “scelta condivisa” che integri gli strumenti presentati.

  1. Individuare i malati con limitata aspettativa di vita, già in trattamento dialitico o ancora in terapia conservativa, tenendo conto di:
    • età
    • risposta “no, non sarei sorpreso” alla domanda sorprendente
    • valutazione delle comorbilità
  1. Valutare la prognosi utilizzando il modello di Couchoud nei soggetti con malattia renale cronica avanzata non in dialisi o il modello di Cohen nei soggetti in emodialisi oppure altri modelli disponibili con cui il centro ha acquisito familiarità.
  2. Valutazione multidimensionale dei bisogni della persona mediante strumenti semplici e condivisi nel singolo centro.
  3. Avviare un colloquio (o una serie di colloqui) con malato e i famigliari per discutere le opzioni terapeutiche disponibili, con l’obiettivo di arrivare ad una scelta condivisa del percorso di cura. Auspicabile la presenza di un “Advance Care Planning – Piano di Cure Avanzate” (ACP).
  4. Nel caso di scelta del non-avvio o sospensione della dialisi, concordare un percorso strutturato di controlli sia nefrologici sia dei medici palliativisti, con il coinvolgimento del medico di medicina generale, nell’ottica del controllo della sintomatologia fisica e del soddisfacimento dei bisogni psicologici, di cura e sul luogo di gestione delle fasi finali della vita.
  5. Nelle persone in trattamento dialitico che si avviano alla fine della vita può essere adottato un “approccio palliativo alla dialisi” spostando l’obiettivo di cura dalla ricerca della piena riabilitazione del malato al controllo dei sintomi e alla riduzione delle sofferenze.

 

La sospensione della dialisi e il ricorso alle cure palliative avanzate o in Hospice

Secondo l’osservazione in Hospice nel paziente senza insufficienza renale nell’ultimo mese di vita si svolge un processo catabolico irreversibile, caratterizzato da graduale riduzione di alimentazione e di assunzione di liquidi.

Con albuminemia < 2 g /dL, la sopravvivenza stimata è di 4 – 8 settimane.

Negli ultimi 15 gg. il morente non si alimenta più. Si sviluppano edemi declivi per discrasia proteica e per eccesso di acqua metabolica. Frequentemente si riscontra iposodiemia.

Nelle ultimissime fasi prevale la disidratazione e gli edemi si riassorbono.

La perdita della funzione renale e l’anuria sono un fenomeno delle ultime 48 ore.

La mancanza della funzione renale già all’inizio del processo non consente la risposta fisiologica all’eccesso di acqua prodotta dal catabolismo con precoce rischio di sovraccarico di volume e di dispnea.

La mancanza della via di escrezione renale controindica inoltre l’uso di protocolli farmacologici “standard”, con cui si possono osservare fenomeni di tossicità per accumulo, con “delirium” ed errore di diagnosi di “fase” o effetto di riduzione della sopravvivenza stessa.

È prassi abituale, soprattutto nel mondo anglosassone, che l’ammissione di un paziente alle cure dell’Hospice coincida con la sospensione dei trattamenti dialitici.

Il paziente ammesso in Hospice dopo la sospensione della dialisi ha un tempo medio di sopravvivenza di 7,4 giorni (con un range da 0 a 46 giorni) mentre la sopravvivenza media dei pazienti non nefropatici, nello stesso contesto, è di 54,4 giorni (26).

Nell’ultimo mese di vita l’80 % dei pazienti uremici non trattati con la dialisi manifesta vari gradi di dispnea, e nel 53 % della totalità dei pazienti questo sintomo è grave (2728).

Pur trattandosi di dispnea multifattoriale è inevitabile la dipendenza del sovraccarico cardiopolmonare dal volume delle “ingesta”, per cui la prescrizione di una netta limitazione dell’apporto di cibo e di liquidi si renderebbe necessaria.

Questo approccio viene criticato, in primo luogo sul piano etico, da autori che ribadiscono la caratteristica di “bisogno primario” degli atti del bere e dell’alimentarsi e che raccomandano quindi di lasciar libero il paziente, anche nella condizione di terminalità, di soddisfare il senso eventuale di fame e di sete e di supportare il massimo benessere possibile con metodiche di ultrafiltrazione.

La metodica dialitica applicata condiziona il luogo della morte e la frequenza della sospensione: la dialisi peritoneale è associata ad una minore frequenza di sospensione ed è meglio integrabile con cure palliative avanzate in ambito domiciliare (29).

Dati non pubblicati del centro di Biella, fornitici gentilmente dal collega Dr. Roberto Bergia, sono consistenti con quanto affermato:

Di 47 pazienti con un percorso di cure di fine vita dal 2008 al 2014, il 77% in dialisi peritoneale è deceduto a domicilio in confronto al 56% dei pazienti in emodialisi e solo il 15% dei pazienti in dialisi peritoneale ha sospeso il trattamento prima del decesso in confronto al 65% dei pazienti in emodialisi.

Analogamente, pazienti in IRC dialitica, affetti da patologie neoplastiche, possono essere seguiti con conforto, a domicilio, con dialisi peritoneale fino al termine della vita (30).

L’approccio dialitico deve essere rimodulabile, progressivamente lungo tutto il percorso del paziente fino agli ultimi giorni di vita.

Il concetto di dialisi rimodulata in senso palliativo, programmata, raccomandabile in pazienti con un orizzonte prognostico inferiore all’anno (9) continua, sviluppandosi fino alla possibilità di consentire la dialisi in Hospice su specifica emergente necessità, allo scopo di controllare i sintomi.

La drastica alternativa tra cure in Hospice e trattamenti dialitici non ha fondamento clinico ma origina dal modello amministrativo di finanziamento delle cure in atto negli USA, che impone la scelta in maniera alternativa. Tale paradigma si è poi trasferito “per inerzia” in modo acritico anche agli altri sistemi sanitari (31).

 

L’esperienza di collaborazione tra Cure Palliative e Nefrologia Dialisi dell’ASL Cuneo1

Nel periodo 2015 -2017 sono stati affrontati 17 casi in collaborazione: 11 pazienti sono deceduti (Tab. 1). In 8 soggetti abbiamo affrontato un percorso condiviso di sospensione del trattamento, ma in 3 casi ci siamo trovati ad affrontare dinamiche famigliari di “complessità irriducibile” che non hanno consentito la sospensione tempestiva del trattamento come “atto terapeutico” che apportasse beneficio al paziente.

In particolare, 5 pazienti (2 uomini e 3 donne) sono deceduti per sospensione del trattamento dialitico, in un percorso concordato tra equipe nefrologica, pazienti e/o familiari, pallitivisti e curanti (medici di reparto o medico di medicina generale – MMG).

In 2 pazienti su 5 la decisione è stata presa in una fase in cui il paziente non era più in grado di esprimere pienamente la propria volontà per il progressivo aggravamento di patologie croniche e invalidanti, causa di deterioramento dello stato cognitivo, ma è stata desunta da affermazioni precedenti.

La scelta è stata comunque condivisa tenendo conto della sproporzione tra la prognosi attesa e gli interventi terapeutici in atto, a cui peraltro se ne sarebbero dovuti aggiungere di più invasivi per trattare complicanze acute intercorse.

Una paziente è deceduta in Hospice, una in RSA (paziente con diuresi conservata, deceduta dopo 3 settimane dall’ultima seduta dialitica).

In 3 pazienti su 5 il decesso è invece avvenuto a domicilio, grazie al supporto assistenziale dei familiari, dei palliativisti e del MMG, e dopo ripetuti aggiornamenti telefonici con i nefrologi curanti (in un caso anche con visita a domicilio).

Un paziente di questi, in trattamento sostitutivo combinato, emodialitico e peritoneale, impostato progressivamente in ottica pallitiva, è deceduto dopo una settimana dalla sospensione dell’emodialisi, proseguendo nel frattempo con uno scambio di dialisi peritoneale al dì, per ridurre la dispnea da sovraccarico idrico aggravato da una grave cardiopatia ipocinetica (Tab. 2).

 

La ricerca del “percorso condiviso” per la sospensione della dialisi

Nell’approccio all’insieme dei pazienti abbiamo dovuto affrontare una grande variabilità di situazioni:

  • all’inizio del percorso: accettazione del concetto di insufficienza renale, spiegazione della necessità e dei limiti tanto della dieta quanto delle opzioni dialitiche, terapia farmacologica;
  • durante lo stesso: controllo dei sintomi durante la terapia conservativa o quella sostituiva, strategie di adattamento, cambi di orientamento del trattamento;
  • al termine della malattia: spesso in assenza pianificazione anticipata delle cure, programmazione di eventuale sospensione della dialisi, assistenza domiciliare.

La grande varietà di condizioni ci ha obbligato ad una certa flessibilità, seguendo i pazienti dalla sala dialisi al Pronto Soccorso, dal domicilio alle strutture sanitarie in cui erano ospitati.

In tutti questi casi pensiamo di aver rispettato la volontà del paziente e raccolto la soddisfazione dei familiari per il supporto fornito fino all’ultimo.

In ogni caso abbiamo, inoltre, costantemente perseguito lo scopo di integrare elementi clinici e fisiopatologici specialistici con i principi delle cure palliative.

In questo modo, abbiamo potuto adattarci alle necessità dei malati e dei famigliari ed iniziato a raccogliere informazioni ed esperienze, da cui trarre spunto per trasformare la nostra collaborazione in una collaborazione strutturata.

Non si deve «far male a nessuno» è il principio che ispira le Cure Palliative ma questa esperienza ci ha posto di fronte all’impossibilità di realizzare sempre e comunque un approccio di condivisione e ci ha indotto a riflettere sull’autonomia decisionale del medico a cui dover ricorrere in casi estremi.

Di fronte alla «complessità irriducibile», oltre il tentativo di condivisione, emerge l’importanza terapeutica della responsabilità finale del medico: nell’interesse del paziente stesso e per non far ricadere sulle persone a lui vicine responsabilità eccessive, può essere necessario compiere scelte univoche.

Uno studio europeo ha analizzato con un questionario i fattori “di contesto” rilevanti come supporto e facilitazione alla decisione del medico (32).

I fattori principali di supporto alla decisione di non erogare sono risultati, con il relativo indice di rischio:

OR 95% (CI)

  • Lavorare in un centro pubblico.                                                         2,45 (1,36 – 4,25).
  • La sospensione del trattamento è permessa.                                 1,96 (1,23 – 3,12).
  • La condivisione della decisione con il paziente o i famigliari.       1,97 (1,26 – 3,08)
  • la specifica formazione in Cure Palliative                                         1,93 (1,02 – 3,64)

 

La “Buona Morte” del paziente sottoposto a dialisi

Abbiamo chiesto ai colleghi palliativisti di definire il concetto di “Buona Morte in Dialisi”. Ci hanno risposto così, secondo una visione integrata: “Buona morte in dialisi: per chi?” Paziente, Famiglia, Infermieri, Medici, SSN. Sono tutti portatori di interessi, ma alcuni sono coinvolti in modo … differente. Vengono identificate le necessità del paziente seguenti:

  • scelta del luogo di morte
  • sintomi controllati
  • igiene
  • supporto da parte dei familiari
  • equilibrio emotivo e spirituale

I mezzi per soddisfarle si ottengono con l’attuazione del Piano di Cure Avanzate, con la collaborazione delle Cure Palliative, le cure ordinarie e l’assistenza domiciliare (considerata la fragilità sociale) e con il supporto da parte di psicologi e di assistenti spirituali.

Un‘operatività così strutturata produce, nelle intenzioni, anche una riduzione della sofferenza dei familiari, riduzione della sofferenza degli operatori e razionalizzazione delle spese.

 

 

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