Luglio Agosto 2019 - In depth review

La nefropatia in corso di malattia di Fabry: nuove evidenze sulla diagnosi, il monitoraggio e la terapia

Abstract

La malattia di Fabry è una malattia X-linked dovuta ad una mutazione del gene GLA che causa il deficit dell’enzima α-galattosidasi A con conseguente accumulo di glicolipidi in gran parte di cellule e tessuti. Ciò determina una malattia multisistemica in cui il coinvolgimento renale, cardiaco e del sistema nervoso rappresenta la principale causa di morbidità e mortalità della malattia. Da circa 20 anni è disponibile una terapia enzimatica e da qualche anno anche una terapia chaperonica che hanno determinato un notevole cambiamento nella storia naturale della malattia. Anche grazie a tali terapie lo studio e la conoscenza della malattia hanno fatto in questi anni notevoli progressi consentendo una maggior consapevolezza della malattia e quindi una diagnosi più precoce e un avvio più tempestivo della terapia. Ma nonostante il miglioramento delle conoscenze molti aspetti rimangono poco conosciuti e sono tuttora oggetto di studio e di ricerca.

In questo articolo verranno riassunte le più recenti scoperte ed evidenze riguardo la fisiopatologia, la diagnosi, le nuove opzioni terapeutiche, gli anticorpi neutralizzanti e come svolgere il monitoraggio nel paziente con malattia di Fabry.

Parole chiave: malattia di Fabry, nefropatia, α-galattosidasi A, agalsidasi

Introduzione

La malattia di Fabry è una malattia genetica dovuta alla mutazione del gene GLA posto nel cromosoma X che causa la deficienza dell’enzima lisosomiale α-galattosidasi A. È caratterizzata dall’accumulo di glicolipidi (in particolare il globotriaosylceramide o Gb3 e la globotriaosylsfingosina o Lyso-Gb3), all’interno dei lisosomi di svariati elementi cellulari. Nella forma classica, in cui la mutazione causa la totale assenza di enzima, la malattia si manifesta già nell’infanzia con dolori all’estremità delle mani e dei piedi, ipoidrosi, angiokeratomi cutanei, cornea verticillata e albuminuria [1, 2]. La malattia progredisce nell’adolescente e nel giovane adulto con la comparsa di proteinuria, di una cardiomiopatia ipertrofica, cui si associano spesso eventi cerebrovascolari, ed insufficienza renale cronica che progredisce rapidamente verso la fase terminale già attorno alla terza-quarta decade di vita, compromettendo la sopravvivenza di tali pazienti [3]. Nelle femmine eterozigoti, pur in presenza di una attività enzimatica a volte del tutto normale, la malattia si manifesta non raramente con quadri clinici del tutto sovrapponibili a quelli del maschio emizigote, anche se in genere più sfumati e a comparsa più tardiva [4]. Per tale motivo le pazienti femmine non devono essere considerate come “portatrici” della malattia ma, al contrario, trattate e monitorate allo stesso modo dei maschi [5]. Accanto alle forme classiche esistono delle varianti atipiche, tardive, in cui prevale l’interessamento di un solo organo, in genere il cuore. Tali varianti sono frequentemente associate a determinati genotipi in grado di produrre una modesta attività enzimatica residua che comporta un quadro clinico più sfumato della malattia, una miglior prognosi e una maggior sopravvivenza del paziente [6].

Lo studio e la conoscenza di tale malattia hanno fatto in questi anni notevoli progressi. La diffusione della sua conoscenza ha consentito una maggior consapevolezza dei suoi meccanismi e quindi una diagnosi più precoce e un avvio più tempestivo della terapia. Ed è proprio l’avvento della terapia enzimatica sostitutiva (ERT) già dal 2001 ad aver contribuito ad una forte spinta e a notevoli progressi sul fronte della ricerca cui sta contribuendo la recente e prossima introduzione di nuovi farmaci. Ciononostante, diversi aspetti della malattia, dalla diagnosi alla fisiopatologia agli effetti delle varie terapie ora disponibili, sono ancora controversi e dibattuti [5].

In questa review si cercherà di esplorare tali aspetti con particolare attenzione alla nefropatia che si manifesta nel corso della malattia di Fabry che, proprio per il suo carattere precoce e progressivo, condiziona fortemente la morbidità e la mortalità dei pazienti.

 

Fisiopatologia del danno renale

Sino a pochi anni fa si riteneva che l’accumulo lisosomiale di substrato all’interno delle cellule renali fosse la sola causa della nefropatia alla base della proteinuria e dell’insufficienza renale [1]. In effetti, l’accumulo di materiale glicolipidico avviene in tutte le cellule renali, dall’endotelio alle cellule mesangiali, tubulari e interstiziali [7]. Ma la condizione sicuramente più importante nella genesi e nella fisiopatologia della nefropatia in corso di malattia di Fabry è l’accumulo podocitario. Tale accumulo inizia in utero, aumenta con l’età e spesso precede la comparsa di albuminuria o proteinuria [8, 9]. Col tempo determina il progressivo rigonfiamento del corpo cellulare con conseguente retrazione dei pedicelli ed effacement della membrana basale sino al distacco del podocita che pertanto si ritrova nel sedimento urinario mentre la membrana basale si ritrova così esposta lasciando passare le proteine [10]. Tale evidenza è stata confermata dall’elevata podocituria presente nelle fasi iniziali della malattia e nei pazienti non trattati, podocituria che tende a progredire con l’avanzare del danno renale [11]. Poiché i podociti sono cellule non differenziate con un limitata capacità replicativa, la loro perdita con le urine rappresenta un grave danno per la membrana basale e quindi si può ritenere la principale responsabile della progressione del danno renale [8, 12]. Tali caratteristiche dei podociti influiscono anche sull’effetto della terapia enzimatica. Infatti, mentre la clearance di substrato dalle cellule endoteliali, mesangiali o tubulari è abbastanza rapida e completa [13], la clearance di Gb3 dai podociti è molto lenta e parziale e può richiedere anche diversi anni [14, 15].

Di recente diverse evidenze, come l’assenza o la variabilità di reperti urinari o di alterazioni della funzione renale riscontrata tra pazienti con la stessa mutazione o tra i membri di una stessa famiglia con espressione fenotipica classica [16, 17] (Figura 1), hanno indebolito l’ipotesi che il danno renale dipenda dal solo accumulo di substrato all’interno delle cellule renali; quest’ultimo, pertanto, non è sufficiente a spiegare la comparsa e la progressione del danno renale. Del resto, il podocita sembra che rimanga danneggiato anche dopo la rimozione del substrato. Studi recenti su colture cellulari hanno infatti dimostrato come, anche dopo la rimozione dei depositi podocitari di LysoGb3 con la terapia enzimatica, non sia possibile ripristinare l’autofagia dei podociti e in particolare l’attivazione di Noctch1 e la disregolazione del TGF-beta [18].

È logico pensare quindi che altri fattori entrino in gioco nel determinare il danno renale in corso di malattia di Fabry. La persistenza di substrato, difficilmente rimosso dalla ERT dall’interno dei podociti, potrebbe stimolare alcuni processi patogenetici come l’infiammazione. Ad esempio, è dimostrato che il Lyso-Gb3 stimola la produzione podocitaria di mediatori profibrotici come il TGF-β1 attraverso l’attivazione del recettore Notch1 oltre ad incrementare la matrice extracellulare sia a livello renale che cardiaco [19, 20, 21]. Lo stesso Lyso-Gb3, attivando la proliferazione macrofagica, stimola la produzione del CD74, cui segue la liberazione di citochine [22, 23, 24]. Anche lo stress ossidativo sembra giocare un ruolo importante nella genesi del danno cellulare. Diversi contributi hanno documentato un alto livello di ossido nitrico nei pazienti con malattia di Fabry. Lo stress ossidativo, aumentando la perossidazione dei glicolipidi, determinerebbe la genesi di peptidi alterati che si comporterebbero come neoantigeni in grado di attivare una risposta autoimmune [25, 26]. Altri studi hanno infatti dimostrato un incremento dei markers di origine macrofagica come i CD68, CD163, and CD45 nelle biopsie miocardiche dei pazienti affetti [27]. Inoltre, alcuni studi in-vitro hanno dimostrato come il Lyso-Gb3 induca la trasformazione di cellule epiteliali ed endoteliali, con produzione di citochine pro-infiammatorie e pro-fibrotiche. Infine, l’accumulo di Lyso-Gb3 interferisce anche sull’autofagia, alterando la maturazione dell’autofagosoma [28].

Alla luce di tali evidenze si sta facendo strada l’ipotesi che la malattia dipenda da una serie di fattori e meccanismi in grado di avviare e condurre un processo che si conclude con la glomerulosclerosi e la fibrosi (Figura 2). È probabile che l’anomalo ed abnorme accumulo di glicolipidi nelle cellule renali funzioni come fattore scatenante in grado di innescante una serie di eventi a cascata che, nell’insieme, porteranno al danno renale conclusivo e all’istopatologia della malattia [28].

 

Nuove evidenze sull’approccio diagnostico

Nel maschio emizigote la diagnosi della malattia è basata sul riscontro di una ridotta o assente attività enzimatica leucocitaria; nella femmina eterozigote è necessario ricorrere direttamente all’analisi molecolare poiché l’attività enzimatica può essere ridotta o del tutto normale, a causa dell’inattivazione random del cromosoma X per il fenomeno della lyonizzazione [29]. Del resto, nel maschio, la conferma con l’analisi molecolare è fondamentale per la definizione della mutazione responsabile, poiché oltre a genotipi noti e riconducibili a varianti classiche, è possibile riscontrare altri genotipi associati a fenotipi atipici tardivi (late-onset) e altri ancora del tutto sconosciuti di cui quindi non si sa come possano evolvere sotto l’aspetto fenotipico (VUS: variants of uncertain significance) [30]. Clinicamente la diagnosi di coinvolgimento renale è basata sul riscontro di albuminuria, proteinuria e insufficienza renale cronica. Ma è la biopsia renale che pone diagnosi definitiva di coinvolgimento renale, fondamentale non solo per il riscontro delle tipiche lesioni ma anche per definire l’entità del danno podocitario, l’estensione del danno glomerulare, tubulare e interstiziale e infine per escludere la coesistenza alla malattia di Fabry di un’altra patologia non genetica (Lupus, IgA, rapidamente progressiva ecc.) [3136]. L’utilità della biopsia è da rimarcare quando si tratta di chiarire la patogenicità di una nuova mutazione su cui non esiste letteratura (e per questo definita di significato incerto) giacché può dimostrare la presenza o meno dei tipici corpi osmiofili lisosomiali e quindi una reale patogenicità della variante [32]. A tal proposito, l’indagine bioptica condotta a livello renale o cardiaco ha condotto alcuni a ipotizzare la natura non patogena di alcune variati, come la D313Y o la R118C, che sono state quindi declassate al ruolo di polimorfismi [37, 38]. Tuttavia, evidenze più recenti avrebbero messo in dubbio il ruolo di polimorfismi di certe varianti. Ad esempio, in alcune coorti di pazienti con D313Y, sono state riscontrate le tipiche lesioni della sostanza bianca oppure alcuni segni e sintomi sistemici della malattia, oltre ad un aumento del Lyso-Gb3 [39, 40]; per quanto riguarda la R118C, invece, è stato documentato di recente nei membri di una famiglia australiana un basso livello di enzima, segni e sintomi tipici della malattia, e soprattutto un alto livello di Lyso-Gb3 [41]. Tutto ciò a dimostrazione che siamo ancora lontani dall’avere certezze sulla patogenicità di certe varianti e da una definitiva correlazione genotipo-fenotipo. Infine, l’impiego della biopsia è utile anche per il monitoraggio clinico, soprattutto quando il paziente sembra non rispondere alla terapia con una progressione del danno renale superiore a quello fisiologico e sovrapponibile a quello presentato da pazienti non trattati [42, 43].

In tutto ciò il ruolo del nefrologo è fondamentale nella diagnosi, non solo del danno renale ma della malattia stessa. Poter diagnosticare precocemente la malattia significa avviare tempestivamente la terapia, prevenendone, stabilizzandone o rallentandone la progressione. Allo stesso modo, però, il nefrologo deve andare a ricercare la diagnosi corretta di una nefropatia cronica che ha portato il paziente alla dialisi o al trapianto. È noto infatti che circa il 25% dei pazienti arruolati nel Registro Italiano di Dialisi e Trapianto (RIDT) sono attualmente senza una diagnosi di nefropatia [44]. In tal senso, lo sforzo del nefrologo deve essere teso alla ricerca della malattia mediante lo svolgimento di indagini di screening, soprattutto tra i pazienti con diagnosi dubbia o assente. Il dosaggio enzimatico e l’analisi molecolare effettuati raccogliendo una semplice goccia di sangue su cartina assorbente possono costituire un metodo semplice, riproducibile ed efficace per chiarire la diagnosi in molti pazienti [45, 46].

 

 

Nuovi strumenti per il monitoraggio clinico

Nei pazienti con malattia accertata, il monitoraggio nefrologico è basato sul semplice controllo semestrale dell’esame urine, dell’albuminuria, della proteinuria e degli indici di funzione renale. Tali accertamenti sono raccomandati sia nei pazienti asintomatici (maschi e femmine) non ancora in terapia, al fine di valutare l’eventuale necessità, sotto il profilo nefrologico, di avviarla, sia nei pazienti già in trattamento, per valutare l’effetto dei vari farmaci specifici per la malattia sulla compromissione renale [43, 47]. Anche la biopsia renale può essere utile per il monitoraggio del paziente anche se la sua pratica non è sempre così diffusa. Quando viene praticata su larga scala, essa ha dimostrato la capacità di valutare la reale efficacia della terapia nel rimuovere il substrato dalle cellule renali. Indubbiamente tale modalità di monitoraggio è ritenuta da alcuni eccessivamente cruenta.

Da qualche anno è stato scoperta l’esistenza di un metabolita del Gb3, la globotriaosylsfingosina o Lyso-Gb3, che rappresenta la sua forma attiva [48]. Il Lyso-Gb3 è pressoché assente nella popolazione non affetta, cosi come in gran parte dei casi riportati di polimorfismi, mentre è elevato nelle varianti patogene, dove è strettamente correlato con la severità della malattia [49, 50]. In questo secondo caso, è più elevato nei maschi che nelle femmine e nelle forme classiche rispetto alle varianti atipiche o tardive [51, 52, 53]. Nelle varianti classiche, la sua concentrazione tende ad aumentare con l’età e con la comparsa dei sintomi [54]. Ma il Lyso-Gb3 è anche un marcatore di efficacia della terapia, poiché diminuisce sensibilmente nei pazienti in trattamento con la terapia enzimatica o chaperonica già nelle prime settimane dall’avvio della terapia, e tale riduzione si mantiene nel tempo. La riduzione del Lyso-Gb3 è statisticamente più accentuata con la formulazione beta dell’agalsidasi rispetto a quella alfa, ma i risultati di tali studi dovranno essere confermati da analisi più approfondite [55, 56].

La ricerca di nuovi strumenti per il monitoraggio del paziente ha portato di recente allo sviluppo di un indice matematico, il FASTEX, in grado di stabilire se il paziente è stabile nel tempo, o meno [57]. È oramai consolidato, infatti, il fatto che uno dei principali obiettivi terapeutici nella malattia di Fabry è il raggiungimento o il mantenimento di una condizione di stabilità clinica, quando non sia possibile ottenere la normalizzazione o il miglioramento di segni e sintomi. La stabilità della malattia nel tempo, pertanto, deve ritenersi un vero obiettivo terapeutico [58, 59, 60], e va ricercata e monitorata anche nel paziente asintomatico non ancora trattato, al fine di intervenire con l’avvio della terapia al primo insorgere di segni e sintomi [47]. Tale situazione di stabilità è molto difficile da definire nella malattia di Fabry poiché, essendo una malattia sistemica, accade spesso che tra una visita e l’altra alcuni sintomi migliorino e altri invece peggiorino.

Su tali basi un gruppo di esperti italiano ha messo a punto il modello matematico che, attraverso un algoritmo, ha prodotto l’indice FASTEX [57]. Con l’applicazione di tale indice, inizialmente limitata ad una coorte di 28 pazienti e più di recente ad una popolazione di 132 pazienti attraverso uno studio multicentrico [61], è stato possibile definire un paziente “stabile” se ha un valore di FASTEX inferiore al 20%, e “instabile” se ha un valore uguale o superiore al 20%. L’indice si è dimostrato sensibile, affidabile, ed in grado di discriminare tra un paziente stabile e non, e il cut-off del 20% può rappresentare, dal punto di vista matematico e statistico, un limite reale di stabilità della malattia. Il FASTEX può quindi aiutare, ma non sostituire, il medico nella valutazione clinica e nel giudizio finale sulla stabilità della malattia nel tempo.

 

Il trattamento enzimatico sostitutivo e nuove opzioni terapeutiche

A distanza di quasi vent’anni dall’introduzione della terapia enzimatica sostitutiva è oramai assodato che la terapia con agalsidasi sia in grado di prevenire o al limite arrestare la progressione della malattia. È altrettanto certo che l’efficacia di tale terapia dipenda principalmente dalla tempestività con cui viene introdotta poiché più precocemente viene avviata e maggiore è la possibilità di prevenire o stabilizzare il danno d’organo, soprattutto renale e cardiaco. La proteinuria, al contrario, non sembra beneficiare della sola terapia con agalsidasi [62, 63]. L’associazione dell’agalsidasi con ACE-i o ARB è in grado di ridurre significativamente la proteinuria e, nei pazienti che avviavano la terapia precocemente, di arrestare anche la progressione del danno renale, rallentando significativamente lo slope del GFR [64]. Da qualche anno poi si è avanzata l’ipotesi che l’efficacia della terapia enzimatica dipenda anche dalla dose somministrata e che una maggior quantità di enzima biodisponibile possa determinare una maggiore stabilizzazione della malattia, non soltanto in termini di segni cardiaci o renali (spessore del setto, proteinuria, istologia renale) ma anche in termini di marker come il Lyso-Gb3 [15, 30, 42, 65, 66]. Infatti, l’avvio precoce della terapia, già in età pediatrica ed adolescenziale, e con la dose massima consentita di agalsidasi si è dimostrata in grado non solo di ridurre significativamente i depositi podocitari alla biopsia ma anche di normalizzare l’albuminuria presente all’avvio della terapia. La pratica sistematica della biopsia renale, eseguita al baseline e dopo 5 anni dall’avvio della terapia con dosi variabili di agalsidasi (da 0.2 mg/kg a 0.4 mg/kg a 1 mg/kg ogni 14 giorni) in una coorte di bambini e adolescenti, ha consentito di osservare che solo quando la quantità di enzima somministrata era al massimo del consentito (1 mg/kg/ogni 14 giorni) si poteva ottenere la massima clearance podocitaria e una riduzione significativa dell’albuminuria [8, 42].

Del resto, la valutazione degli effetti a lungo termine dello switch dell’agalsidasi beta all’agalsidasi alfa ha mostrato una maggiore progressione dei parametri renali e cardiaci, oltre che una minore riduzione del Lyso-Gb3 e un riaccumulo podocitario di substrato, nei pazienti che erano stati convertiti ad agalsidasi alfa a causa della scarsità della formulazione beta tra il 2009 e il 2011 [56, 67, 68, 69, 70 ]; una meta-analisi, tuttavia, non avrebbe confermato tali risulti [71]. Poco noti sono invece gli effetti sul Sistema Nervoso Centrale, anche perché la molecola non è in grado di passare la barriera emato-cefalica. Tuttavia, diversi riscontri documentano come nei pazienti trattati a lungo termine con agalsidasi beta l’incidenza di eventi cerebro vascolari sia significativamente inferiore rispetto ai pazienti non trattati [72].

Da un paio d’anni è stata introdotta una nuova terapia, il migalastat, in grado di stabilizzare una seppur modica quantità di enzima presente nel siero ma non biodisponibile perché destrutturato e incapace di entrare dentro la cellula. Correggendo il misfolding dell’enzima, migalastat si è dimostrato in grado di ripristinare la sua capacità di entrare nella cellula attraverso un meccanismo chaperonico e di ripristinare la funzione di degradazione dei glicolipidi. Tale farmaco, somministrato per via orale, è indicato quindi nei pazienti con mutazioni missenso in cui persiste una seppur limitata attività enzimatica residua [73]. Gli studi di registrazione di migalastat hanno dimostrato che il farmaco è sicuro e ben tollerato. Nello studio FACETS vs placebo, della durata di 12 mesi, migalastat riduceva in modo significativo gli inclusi di Gb3 nelle cellule renali, il Lyso-Gb3 sierico e la massa del VS rispetto al placebo; la funzione renale non presentava però variazioni significative tra i 2 gruppi [74]. Nello studio ATTRACT vs ERT, migalastat ha presentato, dopo 18 mesi, effetti simili all’agalsidasi sulla funzione renale: slope dell’e-GFR di -0.40 mL/min/1.73 m2/anno nel gruppo migalastat, rispetto a -1.03 mL/min/1.73 m2/anno nel gruppo ERT (p=ns), mentre la massa del VS presentava una riduzione significativa rispetto a quella determinata dall’ERT. Non era segnalata una diversa incidenza di eventi cardiaci o cerebrovascolari nei due gruppi [75]. La valutazione della funzione gastrointestinale eseguita sui pazienti partecipanti allo studio FACETS ha consentito di osservare una significativa riduzione della diarrea nei pazienti trattati con la molecola chaperonica rispetto al placebo (43% nel gruppo placebo vs 11% nel gruppo migalastat; p =0.02) [76]. Tuttavia, una notevole limitazione all’impiego di tale farmaco è l’indicazione per pazienti al di sopra dei 16 anni d’età con un e-GFR superiore a 30 mL/min/1.73m2, che in pratica esclude dalla terapia i pazienti pediatrici e con insufficienza renale cronica avanzata. Pertanto, studi più approfonditi e soprattutto prolungati saranno necessari per confermare i risultati preliminari ottenuti negli studi di registrazione.

Sempre nell’ambito della terapia enzimatica, un farmaco che ha appena superato la fase 1 / 2 è il pegunigalsidase alfa, una forma pegylata dell’agalsidasi di origine vegetale e a somministrazione endovenosa; in uno studio svolto su 16 pazienti per 12 mesi ha dimostrato la capacità di stabilizzare la funzione renale e la massa del VS. Il vantaggio ipotizzato per tale farmaco, rispetto alle due formulazioni di agalsidasi alfa e beta attualmente in commercio, sarebbe una più lunga emivita, che consentirebbe una maggiore biodisponibilità tissutale e soprattutto una minor immunogenicità (solo il 19 % dei pazienti presentava la comparsa di anticorpi neutralizzanti) [77].

Un altro farmaco in corso di studio è il lucerastat. Si tratta di un iminozucchero che, attraverso l’inibizione dell’enzima glucosylceramide sintetasi, riduce la produzione dei glicosfingolipidi. Il notevole vantaggio di tale terapia orale è che tutti i pazienti ne potranno beneficiare, indipendentemente dal tipo di mutazione presente. L’impiego preliminare di lucerastat in una limitata coorte di pazienti con malattia di Fabry ha dimostrato una significativa riduzione di Gb3 nel plasma [78].

Infine, sono in corso sperimentazioni con la terapia genica. Tale trattamento si basa sulla raccolta e sulla successiva reintroduzione nel paziente delle proprie cellule staminali, incubate con un lentivirus (adenovirus o retrovirus) che funziona da vettore di una copia sana del gene GLA. Dopo circa 45 giorni, il livello di enzima a-GAL si normalizza e rimane stabile a 6 mesi [79]. Al momento è in corso una sperimentazione su 6 pazienti in Canada e le aspettative sono molto elevate per il successo di una terapia che potrebbe cambiare radicalmente la storia naturale della malattia e la vita di tali pazienti.

 

Il problema degli anticorpi anti-agalsidasi

Uno dei problemi emergenti, tra i più controversi e dibattuti, riguarda lo sviluppo di anticorpi anti-agalsidasi nei pazienti in terapia enzimatica sostitutiva. Studi recenti hanno dimostrato come i maschi siano più esposti alla comparsa di anticorpi rispetto alle femmine e che lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti dipenda anzitutto dal fenotipo, essendo significativamente più frequenti nei pazienti con fenotipi classici e con mutazioni missenso. In questi pazienti il livello di Lyso-Gb3 rimane alto, rispetto ai pazienti senza anticorpi neutralizzanti, suggerendo quindi una maggior severità della malattia nei pazienti siero-convertiti [80, 81]. Al contrario, nei pazienti con trapianto renale e in terapia immunosoppressiva, pur verificandosi una riduzione degli anticorpi, il livello di Lyso-Gb3 rimane stabile [82]. Si suppone che la presenza di anticorpi determini una ridotta efficacia della ERT, e quindi una prognosi peggiore nei pazienti che li sviluppano [83, 84]. Non c’è invece differenza significativa di sieropositività tra pazienti in terapia con agalsidasi alfa rispetto ai pazienti trattati con la formulazione beta [83]. Esisterebbe però una relazione tra anticorpi, la dose di agalsidasi somministrata e l’inefficacia della terapia: la maggiore quantità di enzima somministrata con agalidasi beta determinerebbe, da una parte, la completa saturazione degli anticorpi circolanti e, dall’altra, la presenza di una maggior quantità di enzima libero e biodisponibile; al contrario, una minor quantità di enzima somministrato verrebbe indirizzato solo per la saturazione degli anticorpi neutralizzanti, esaurendo così la disponibilità di enzima attivo per la funzione di degradazione dei glicolipidi [66]. Naturalmente si tratta solo di ipotesi che dovranno trovare conferma in studi più approfonditi.

 

Conclusioni

Nonostante i notevoli progressi ottenuti negli ultimi anni nella conoscenza della malattia di Fabry, molti aspetti rimangono tuttora oscuri o poco conosciuti. Lo sforzo di tutti coloro che sono coinvolti nello studio di tale patologia dovrà essere rivolto nei prossimi anni alla ricerca di una risposta ai molti quesiti tuttora insoluti, come ad esempio il reale meccanismo che sta alla base del danno cellulare, gli effetti a lungo termine di nuove e vecchie terapie, il ruolo degli anticorpi, oltre che l’efficacia di nuovi farmaci che si stanno affacciando all’orizzonte. Queste sono soltanto alcune delle sfide che ci attendono, tenendo conto che il successo e i risultati potranno essere ottenuti solo se ci sarà prima di tutto una forte collaborazione tra i vari specialisti coinvolti nello studio della malattia.

 

 

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