Settembre Ottobre 2023 - Le nostre storie: vite di nefrologi

I primi anni della Nefrologia dell’Ospedale Molinette di Torino raccontati da chi li ha vissuti e costruiti

Abstract

Il presente articolo, scritto da diversi autori, descrive la nascita e l’iniziale sviluppo della nefrologia dell’Ospedale Molinette di Torino, fornendo numerose informazioni sulla figura di Antonio Vercellone, grande clinico fortemente motivato e innovatore, e su quella di Giuseppe Piccoli, braccio destro e poi successore di Vercellone. L’articolo inoltre descrive l’impegno professionale e umano che veniva richiesto ai giovani medici che, agli inizi degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, avevano scelto di occuparsi dei pazienti con malattie renali: dalle lunghe giornate di lavoro senza orari all’angoscia provocata dalla carenza di reni artificiali, alla cura di pazienti molto fragili e sfortunati, e molto altro ancora.

Parole chiave: Storia dell’Ospedale Molinette, Storia della nefrologia di Torino, Storia della nefrologia italiana

Introduzione

di Giovanni B. Fogazzi

Ricordo bene la telefonata che un giorno di gennaio del 2021 feci al professor Piero Stratta durante la quale gli proposi di scrivere, assieme ai suoi colleghi di un tempo, un articolo per il nostro Giornale sulla nascita e lo sviluppo della Nefrologia dell’Ospedale Molinette di Torino. Stratta trovò l’idea interessante e mi disse che ne avrebbe parlato con i colleghi e le colleghe per avere il loro parere. Dopo pochi giorni mi chiamò per dirmi che “Sì, l’idea è piaciuta” ma che tutti avrebbero voluto aspettare per la stesura e la pubblicazione dell’articolo il 2023, anno del centenario della nascita del professor Antonio Vercellone (1923-2000), fondatore e padre della Nefrologia delle Molinette e non solo. “Ok, d’accordo, ci risentiamo” fu la mia risposta, anche se dentro di me pensai che due anni erano lunghi e c’era il rischio che il progetto si perdesse per strada. E invece no, nel settembre 2022 Stratta e io riprendemmo i contatti e il progetto partì e andò avanti con forte spirito di collaborazione per il quale ringrazio le autrici e gli autori fino alla stesura definitiva dell’articolo “a più voci” che qui pubblichiamo e che presenta le diverse storie seguendo l’ordine cronologico di ingresso nel reparto delle Molinette dei diversi autori.

Gli aspetti principali della storia della Nefrologia delle Molinette di Torino sono già stati descritti e pubblicati in una intervista a Antonio Vercellone contenuta in una monografia dedicata ai primi 50 anni della nefrologia italiana [Fogazzi GB. Antonio Vercellone (1923-2000): un coraggioso pioniere della nefrologia italiana” in: GB Fogazzi e FP Schena. Persone e Fatti della Nefrologia Italiana (1957-2007). Milano, Wichtig, 2007: 56-71]. Tuttavia, il presente articolo aggiunge numerose e importanti informazioni sullo stesso Vercellone, grande clinico fortemente motivato e innovatore, e su Giuseppe Piccoli, braccio destro e poi successore di Vercellone, che per anni si è impegnato in prima persona nella formazione dei giovani medici. Ma non solo, l’articolo descrive molto bene e con forte partecipazione emotiva anche l’impegno professionale e umano che veniva richiesto ai giovani medici che, nei primi anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, avevano scelto di occuparsi dei pazienti con malattie renali in un Centro che è stato tra i più importanti per la nascita e lo sviluppo della Nefrologia italiana. Dalle lunghe giornate di lavoro senza orari (in emodialisi si cominciava alle 5 e si finiva dopo le 23) all’angoscia provocata dalla carenza di reni artificiali (per cui si doveva scegliere chi dializzare e chi no) alla cura di pazienti molto fragili e molto sfortunati (il pastore di una sperduta valle del Canavese che non sempre trovava i mezzi di trasporto per recarsi a Torino per la dialisi e che un giorno fu trovato morto sulla porta della sua grangia) e molto altro ancora.

Voglio concludere questa mia introduzione riportando l’ultima frase dell’intervista a Vercellone sopra citata e che considero un messaggio di grande importanza per i lettori del nostro Giornale e, in particolare, per i giovani nefrologi di oggi:

“Per il nefrologo attuale vale ancora il proporsi di rispondere al meglio ai due imperativi fondamentali che hanno sempre guidato il lavoro del medico: cercare di conoscere di più e cercare di aiutare di più…”

 

Sandro Alloatti

Con entusiasmo ho accettato l’invito a scrivere i miei ricordi sulla mia attività presso la Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale Molinette dell’Università di Torino. Quegli anni sono stati tra i più belli della mia vita!

Perché sono diventato nefrologo

Urine color marsala e vomito a proiettile nel lavello della cucina di casa. Così è iniziata, quando avevo nove anni, quella glomerulonefrite che avrebbe così tanto condizionato la mia vita. Superata la fase acuta, rimase una lieve proteinuria con ematuria microscopica. La cronicizzazione della forma fu confermata da più medici, sino a che nel 1963, a vent’anni, approdai all’osservazione del professor Antonio Vercellone (Figura 1) che mise in dubbio la diagnosi e mi ricoverò per accertamenti nella Clinica Medica dell’Università di Torino, dove si era formato un gruppo nefrologico. A quel tempo studiavo medicina da un anno: fu così che potei vivere “dall’altra parte della barricata” l’esperienza di una ospedalizzazione, immaginando di essere, in futuro, un collega proprio di quei medici che mi stavano assistendo.

Il professor Giuseppe Piccoli si interessò particolarmente al mio caso e mi impressionò per la sua capacità di approfondimento e per la sua carica umana. Le indagini ipotizzarono un incompleto svuotamento del bacinetto renale destro verosimilmente per una compressione sul giunto pielo-ureterale, forse da parte di un vaso. Fu difficile trovare nell’area torinese un urologo che accettasse questa teoria e acconsentisse ad operarmi. Nel 1963, il professor Giorgio Nicolich di Genova mi riscontrò effettivamente l’anomalia e mi operò. Durante l’intervento eseguì anche una biopsia renale la quale, evidenziando una ipercellularità, sembrò confermare invece la diagnosi di glomerulonefrite cronica. Terribile fu la delusione di Vercellone e mia, ma non mi diedi per vinto. Sottoposi il vetrino a diversi anatomopatologi che, al contrario, interpretarono l’ipercellularità come conseguenza dell’eccessivo spessore del preparato istologico. A questo punto, decisi di credere a quest’ultima interpretazione e interruppi le restrizioni nell’attività fisica che per tanti anni mi erano state imposte senza senso. Con entusiasmo iniziai letteralmente una nuova vita.

Il mio inizio alle Molinette

Nel 1965, all’inizio del quarto anno di Medicina, fu per me quasi obbligata la scelta di chiedere a Vercellone di frequentare come allievo il suo reparto. Il gruppo era composto da Giuseppe Piccoli, Franco Linari, Dario Varese, Roberto Ragni e Pier Luigi Cavalli. Quasi contemporaneamente entrarono nel gruppo altri due allievi del mio stesso anno di corso, Giuseppe Segoloni e Giuliano Giachino, formando un trio di giovani molto unito, quelli che dallo stesso Vercellone vennero poi chiamati “i tre moschettieri” (Figura 2). Si raccontano ancora oggi le loro imprese, talora burlesche, immortalate dallo storico del gruppo, Michele Rotunno.

Il clima in cui operavamo era eccezionalmente stimolante per il ruolo aggregatore e carismatico di Vercellone e per la fase di vorticoso sviluppo che la nefrologia internazionale stava attraversando, sia sul versante della patogenesi delle nefropatie (soprattutto in immunopatologia), sia su quello dialitico.

L’attività clinica nefrologica

Ognuno di noi tre giovani si interessava di una parte dei pazienti sotto la guida dei medici del gruppo. Per noi studenti che avevamo conosciuto sino ad allora la Medicina solo attraverso i libri di studio era un cambiamento radicale perché potevamo incontrare direttamente il malato. Ricordo di aver avvertito una sorta di sacralità nell’approccio al paziente e di aver visto in Vercellone un importante punto di riferimento. Le sue visite in corsia rappresentavano ogni volta un evento a sé stante; tutta l’équipe e la caposala (la severissima Suor Elisa) erano presenti attorno al letto del degente. Il professore era molto esigente e pretendeva dal responsabile di camera la conoscenza a memoria di ogni dato, anamnestico, clinico, di laboratorio. Proverbiali erano i suoi “perché?” di fronte ad alcune nostre affermazioni, specialmente nel campo delle diagnosi differenziali. Attraverso una sequenza di risposte e nuove domande, si procedeva a un approfondimento della conoscenza del malato. Il professore spesso voleva sentire il parere motivato dei medici presenti in base alle loro specifiche conoscenze e competenze. Non raramente durante la discussione si sedeva sul bordo del letto del paziente, provocando una chiara seppure appena percettibile disapprovazione da parte della caposala. Una volta il professore ci spiegò il perché di questa abitudine: era per lui una manifestazione di vicinanza al malato e di disponibilità di tempo nei suoi confronti. Io stesso ho ereditato tale abitudine quando diventai primario ad Aosta.

Del tutto curiosa era la confusione che il professore faceva tra di noi, specie tra Giachino e Segoloni, sbagliando quasi sempre. Segoloni decise una volta di ribellarsi e di fronte all’ennesimo “Caro Giachino”, mentre sentiva la mano del professore appoggiarsi sulla sua spalla, disse: “Caro professor Brusca” (cardiologo)… Da allora l’errore non si ripeté più…

La dialisi

Nell’ottobre 1965 quando entrai in reparto la dialisi era prevalentemente limitata al trattamento dell’insufficienza renale acuta (IRA) mediante emodialisi o dialisi peritoneale. L’emodialisi non veniva eseguita nella nostra sede, ma in una saletta della Clinica Chirurgica. Era qui operativo il rene artificiale Dogliotti-Battezzati-Taddei, derivato dal prototipo di Willem Kolff. Il volume del circuito extracorporeo era ingente e richiedeva il preventivo riempimento con sangue di donatore. Il materiale delle tubature e le varie connessioni determinavano talora reazioni allergiche febbrili. Ricordo di aver visto una chiusura d’emergenza del trattamento perché un termostato, fuori controllo, aveva alterato il contenuto ematico che dovette essere scartato.

Nel trattamento dell’IRA, quando era possibile, utilizzavamo nel nostro reparto la dialisi peritoneale. Dopo una fase di esecuzione manuale, siamo passati a una dialisi peritoneale automatica secondo la tecnica di Fred Boen di Amsterdam [1] che appresi durante un mio stage universitario nel 1966. Osservai l’apparecchiatura automatica, ne studiai i principi di funzionamento e, ritornato a Torino, proposi a Vercellone di ricostruirla. Con i fondi che mi furono procurati acquistai i componenti e li montai in parte a casa mia, in parte in ospedale. L’apparecchiatura, oggetto della mia tesi di laurea, entrò in funzione l’anno successivo [2, 3] e fu utile per trattare con dialisi peritoneale automatica per alcuni mesi una paziente con insufficienza renale cronica in attesa di un programma definitivo di dialisi extracorporea. Questa apparecchiatura venne poi sviluppata dalla Sorin di Saluggia in una versione semiautomatica (Figura 3).

L’emodialisi nel nostro reparto

Erano anni di vorticosa evoluzione delle conoscenze e delle esperienze. Importanti aspetti della metodologia erano ancora sotto appassionato studio e competizione, come l’accesso vascolare, l’efficienza dialitica, l’equilibrio idro-salino, la composizione del bagno dialitico, la sterilizzazione dei circuiti.

Nel 1966 il reparto di Nefrologia poté autonomizzarsi nel trattamento emodialitico grazie alla dotazione di un rene artificiale Travenol. Si trattava di un recipiente cilindrico in acciaio inox contenente il liquido dializzante, al centro del quale era montato un canestro in cui era alloggiato un coil, cioè una rete di supporto rettangolare avviluppata su sé stessa come una bobina sulla quale era distesa una tubatura in cuprophane. L’emodialisi diventò per noi una routine nel paziente acuto e ci furono le prime esperienze nel paziente cronico.

Un’alternativa al rene artificiale Travenol era il rene di Kiil costituito da 3 piastre scanalate in plexiglas. Questo tipo di rene ha aperto le porte all’impiego dell’emodialisi nel paziente cronico per il ridotto contenuto di sangue e l’assenza di una pompa ematica, essendo la pressione arteriosa del paziente sufficiente a far circolare il sangue.

Autonomia nella creazione degli accessi vascolari

Cruciale per eseguire l’emodialisi era un accesso vascolare che in quegli anni prevedeva la puntura di un grosso vaso a livello inguinale oppure l’incannulamento dell’arteria radiale e di una vena adiacente per inserire lo shunt di Scribner, oppure ancora l’allestimento di una fistola artero-venosa secondo la tecnica di Cimino e Brescia. In queste attività chirurgiche Segoloni ed io abbiamo avuto come maestro il professor Roberto Ferrero, chirurgo vascolare. Una notte in cui eravamo entrambi presenti perché di guardia, fu necessario avviare un’emodialisi d’urgenza. Ferrero non era disponibile per cui telefonai a Vercellone per avere l’autorizzazione ad agire noi stessi come “stato di necessità”. Il professore, seppur perplesso, acconsentì e procedemmo con successo, nonostante l’ascensore fosse bloccato e fossimo obbligati a trasportare per tre piani di scale il carrello con i ferri chirurgici. Dopo quell’esperienza Segoloni e io continuammo a operare insieme, con buoni risultati. Nel giro di pochi anni Segoloni diventò molto più abile di me e rappresentò, in Piemonte e non solo, un punto di riferimento per gli accessi vascolari più problematici.

La nascita del reparto di dialisi cronica all’ospedale Molinette

Nel maggio del 1967 questo reparto diventò operativo occupando l’estremità ovest del corridoio del terzo piano della Clinica Medica dell’Università. Iniziò così per noi una fase eccezionalmente stimolante e coinvolgente perché avevamo la possibilità di “salvare” da morte pressoché certa diversi pazienti. Si trattava però di scegliere quali malati trattare e con quale approccio, con dialisi peritoneale o emodialisi. Un fattore limitante era costituito dal basso numero di apparecchiature a disposizione. Ci furono donazioni e alcuni pazienti procurarono loro stessi monitor e un rene di Kiil. Emblematico fu il caso di un padre che quando seppe che esisteva la possibilità di salvare suo figlio ma che non c’erano apparecchiature disponibili, prese la sua macchina e si recò alla Dasco di Mirandola dove acquistò un monitor e un Kiil e ce li portò in poche ore. Un paziente, dal canto suo, che faceva il contadino in Val Pellice, vendette le sue pecore per procurarsi il denaro necessario per l’acquisto del rene artificiale. La dialisi peritoneale fungeva da tampone temporaneo; il funzionamento del centro di giorno e di notte, sei giorni settimanali su sette, ampliò la capacità di trattamento. In alcuni casi ricorremmo alla ricerca di un posto dialisi in altre regioni. In quel periodo, io contribuii a procurare un rene artificiale perché avevo saputo che in Liguria un paziente uremico, messo in dialisi domiciliare qualche tempo prima, era deceduto. Con la mia auto raggiunsi la famiglia del paziente, caricai l’attrezzatura e la portai alle Molinette.

Un grave pericolo sventato (01.11.1968)

L’attività di questo primo centro dialisi fu molto intensa. Grazie alla prudenza di Piccoli un gravissimo incidente fu sventato all’ultimo momento. Il bagno di dialisi veniva preparato manualmente versando in una grossa vasca di vetroresina acqua demineralizzata e una serie di sali preparati dalla farmacia ospedaliera. Tutte le postazioni dialitiche erano servite da questa vasca. Per contenere al massimo l’errore umano Piccoli aveva disposto che, senza eccezioni, ogni seduta di dialisi fosse preceduta da un’analisi allo spettrofotometro del bagno. Poco prima dell’avvio di una seduta arrivò trafelato Michele Rotunno (al lavoro, malgrado il giorno festivo) che esclamò: “Bloccate tutto, c’è un errore, un livello di potassio elevatissimo, 77 mEq/L”. I sacchetti etichettati “cloruro di sodio” erano stati erroneamente riempiti con cloruro di potassio! Se quel bagno fosse stato inviato ai pazienti avrebbe provocato una strage.

La rete dei centri dialisi nel Piemonte

Un altro grande merito di Vercellone fu quello di favorire la creazione di una rete di centri dialisi nella nostra regione. Per questo fece in modo che i medici e i paramedici dei centri dialisi del territorio fossero aiutati dal nostro gruppo a far decollare l’attività dialitica. A livello della Scuola di specialità in Nefrologia, periodiche riunioni di aggiornamento permettevano di confrontare e discutere precisi argomenti teorici e pratici, in modo da mantenere uniformemente alto il livello qualitativo dell’assistenza in tutto il territorio regionale. A me vennero affidati i centri dialisi di Ceva e Borgomanero. L’impegno in questo ultimo centro mi diede la possibilità per la prima volta di essere strutturato, perché il professor Regis Triolo (padre di Giorgio Triolo) mi nominò “assistente trasfusionale interino” nel periodo febbraio-aprile 1970. Fino ad allora avevo dovuto sostenermi finanziariamente con borse di studio e con l’attività di medico prelevatore presso ambulatori. Questa attività manuale, scarsamente qualificata, mi diede la possibilità tuttavia di acquisire una particolare capacità nel reperire e pungere i vasi. Per essere strutturato, dovetti tuttavia attendere ancora più di un anno per diventare, nell’ottobre 1971, assistente di Nefrologia e Dialisi presso l’Ospedale Maggiore di Torino.

La dialisi domiciliare e la dialisi autogestita

Da sempre sono un convinto sostenitore dell’utilità della partecipazione del paziente alla dialisi per gli effetti favorevoli sul piano psicologico, sociale e dei costi. Nell’ottobre 1970 Segoloni e io fummo presenti alla prima emodialisi domiciliare del Piemonte nell’ambito di un programma fortemente voluto da Vercellone e Piccoli. Da allora il programma si espanse continuamente con ottimi risultati e con esperienze ogni volta differenti, ma sempre molto ricche sul piano umano. Anna Mirone, assistente sociale, diede un importante contributo e rappresentò un punto di raccordo tra i pazienti e il personale medico e paramedico. Nel luglio 1971 venni incaricato di avviare il primo centro di dialisi extraospedaliera autogestita senza la presenza costante del medico presso la sede del Sovrano Militare Ordine di Malta di Torino. Fu un’esperienza molto importante perché ebbe effetti favorevoli sui malati e rappresentò un modello organizzativo che fu replicato in altre circostanze.

Il professor Vercellone mi affida un compito particolare

Era il settembre 1967 quando Vercellone, in piedi in corridoio, mi chiama per presentarmi una studentessa svizzera (molto carina) che, nell’ambito di un programma di interscambio europeo di studenti di medicina, si era presentata a lui per frequentare il nostro reparto. Si chiamava Barbara Münzenmayer. Congedandosi il professore mi disse: “Alloatti, le affido questa studentessa, ne abbia cura”. Barbara fu entusiasta dell’esperienza torinese e dopo qualche anno ci sposammo.

Termine della mia esperienza alle Molinette

Dopo una stimolante esperienza negli anni 1972-1973 presso l’ospedale cantonale di San Gallo, in Svizzera, nell’ottobre 1974 mi distaccai dalle Molinette per seguire Piccoli alla Nuova Astanteria Martini (futuro ospedale Giovanni Bosco), dove si stava avviando una Divisione di Nefrologia e Dialisi.  Poi, nel 1981 divenni primario della Nefrologia dell’ospedale di Aosta.

 

Giuseppe Segoloni

Una mattina del giugno 1965 ero in coda allo sportello dell’Università per pagare le tasse del quarto anno quando un mio compagno di corso, Sandro Alloatti, mi chiese dove facevo l’internato. Gli risposi che ero interno a Fisiologia e stavo per partire alla volta del Col d’Olen nel complesso del Monte Rosa dove, in vista delle Olimpiadi di Città del Messico, si studiava, nei topi, il metabolismo dei lipidi ad alta quota.

Dopo avermi dato un’occhiata a metà tra la curiosità ed il compatimento mi disse: “Perché non vieni alle Molinette dal professor Vercellone… stanno mettendo a punto una macchina per far vivere chi è senza reni, non ci crede nessuno… ma è un sacco interessante…”.

La proposta mi parve subito stimolante, ma la prospettiva di studiare i topi alla Capanna Margherita mi sembrava troppo allettante. A settembre, tuttavia, le parole di Sandro continuavano a ronzarmi in testa e mi dissi: “Perché no”.

Il mio primo impatto con il reparto al terzo piano della Clinica Medica dove si concentravano allora “i malati di rene” (la Nefrologia non esisteva) fu discretamente traumatizzante.

Mi accolse il dottor Roberto Ragni (destinato a diventar uno dei miei più cari amici) che, come mi avevano preannunciato, mi elencò tutte le sventure alle quali sarei andato incontro frequentando il reparto (inderogabile rispetto degli orari, frequenza continuativa, prospettive future di guadagno… nessuna… etc. etc.). La prima paziente che mi fu affidata era una giovane donna con insufficienza renale acuta terminale a seguito di una pratica abortiva da apiolo (una sostanza presente nell’olio essenziale del prezzemolo), come purtroppo non era raro in quegli anni. Storia tristissima che mi impressionò molto. I medici intorno a me correvano passando dal laboratorio, dove eseguivano emocromi, azotemie, esami delle urine (termini per me un po’ magici), alla corsia, dove ogni paziente era visto collegialmente e diveniva una lezione reale di clinica (e anche, ahimè, di interrogazione), e poi si affaccendavano intorno ad una strana macchina che sembrava un grande panino trasparente a strati con il sangue che gli passava attraverso (Figura 4).

“È un rene di Kiil” mi aveva spiegato il professor Giuseppe Piccoli, uno che sapeva sempre tutto ed aveva il dono di saperlo trasferire con chiarezza e pazienza. A me, che avevo capito “rene di Kill” pareva un nome poco augurante. In una stanzetta del sottopiano, Sandro Alloatti passava parte della giornata a fare con gli arnesi da traforo buchi precisi su un piano di legno nei quali inseriva grandi flaconi di vetro pieni di liquido, ciascuno connesso con un apparato da flebo che poi convergeva in un tubo unico.

“È una macchina per dialisi peritoneale, ne ho vista una ad Amsterdam dove mi ha mandato il professor Vercellone… sto quasi per ultimarla. Devo solo risolvere il problema del filtro”. La completò in quell’anno e fu oggetto di un poster al congresso dell’EDTA del 1968.

A me sembravano tutti un po’ strani e anche qualcosa di più, ma erano gentili, molto simpatici e alla mano, pieni di entusiasmo, sempre pronti a darti ascolto e a rispondere alle domande. Insomma, ne fui completamente conquistato.

Così nel 1966 oltre a Ragni, conobbi il dottor Pier Luigi Cavalli sempre amabile ed ironico, il professor Franco Linari, molto gentile che si occupava di calcolosi, il professor Dario Varese riservato e specialista del laboratorio, il già citato professor Piccoli di cui divenni ben presto un fan entusiasta ed il professor Antonio Vercellone, al di là della mia portata. Nel frattempo, lo studente Giuliano Giachino si era aggiunto a Sandro ed al sottoscritto, e Michele Rotunno, anche lui ancora studente a Chimica, era stato assunto per la direzione del Laboratorio. Michele, oltre ad essere un amico fidato al quale ricorrevamo per i più svariati problemi, diventò, successivamente, anche lo “storiografo” della Nefrologia.

Nel 1967 ebbe luogo la prima emodialisi cronica, effettuata su un paziente con grave scompenso cardiocircolatorio che andò incontro ad exitus dopo la decima seduta. Nel periodo 1967/68 seguirono altri sette pazienti, che furono tutti ben riabilitati. L’ultimo di questa prima serie fu un paziente abbastanza ricco da potersi comprare tutta l’attrezzatura per la dialisi, che allora credo costasse come una Ferrari oggi, e che aveva un’età di dieci anni superiore al limite massimo stabilito dall’EDTA nel 1964 per l’indicazione alla dialisi. Aveva iniziato la dialisi a Verona ma aveva, prudenzialmente, atteso che i nefrologi Torinesi dimostrassero di aver superato la fase di collaudo prima di affidarsi alle loro cure. Un altro paziente era un simpatico signore delle Valli Valdesi (M.G.) che aveva venduto parte delle sue greggi per acquistare l’attrezzatura. Vercellone e la sua équipe convennero che nei giorni in cui quelle apparecchiatura non erano utilizzate dai loro proprietari potessero essere utilizzate per altri pazienti.

Sandro, che continuava il tormentato assemblaggio della sua macchina, e Giuliano erano quelli ammessi alla stanza della dialisi. Il sottoscritto, credo ancora oggetto di valutazione per i suoi capelli lunghi ed una certa indisciplinatezza, si occupava di laboratorio (tempi di grandi bevute di pipì con le pipette di allora), delle anamnesi, delle misurazioni della pressione in corsia e di altre manovalanze, tra cui l’incarico di andar a comprare da una fioraia in Piazza San Carlo i pacchi di cellophane per assemblare i famigerati Kiil (Figura 5).

Avevo comunque trovato una nicchia a me congeniale nella confezione degli accessi vascolari, i benedetti/maledetti shunt arterovenosi (Figura 6), il cui avvento aveva reso possibile la realizzazione dell’emodialisi cronica. Questa pur piccola ma fondamentale chirurgia era stata demandata al professor Roberto Ferrero, che poi diventò uno dei principali protagonisti del trapianto renale di Torino. Era un grande chirurgo e un grande signore ma aveva un carattere che a prima vista pareva un po’ scostante e severo, tale da incutere una certa soggezione a tutti. Come conseguenza quando si trattava di individuare il medico che fungesse da secondo per l’intervento si assisteva ad un generale fuggi-fuggi ed il sottoscritto venne prescelto (indipendentemente dalla sua volontà) come vittima sacrificale.

Per qualche strana alchimia ed imprevedibili affinità elettive il grande chirurgo e l’ultimo degli aspiranti nefrologi entrarono in sintonia e io divenni ben presto “l’assistente preferito” e Ferrero mi insegnò, silenziosamente, tutte le accortezze. Poi quando una notte lo chiamai per uno shunt d’urgenza mi disse: “Io questa volta continuo a dormire, veditela tu, sei in grado di cavartela” e mise giù il telefono. Con un po’ di batticuore, chiamai Sandro ed insieme in quattro ore (anziché quaranta minuti) portammo a termine l’intervento così da avviare l’emodialisi alle prime luci del mattino. Il mio apprendistato divenne con il tempo ufficiale e continuò negli anni, cosicché dopo oltre cento fistole fatte insieme Ferrero mi disse: “Ora pensaci tu, se hai bisogno io ci sono.” Rimase sempre un Maestro prezioso, con il quale scrissi il primo testo italiano sull’argomento [4] e con il quale avrei poi affrontato l’avventura del trapianto renale.

Tra 1967 e il 1971 il fascino della nascente nefrologia ammagliò un drappello di studenti che sarebbero ben presto divenuti protagonisti fondamentali nello sviluppo del reparto: Piero Stratta, Margherita Dogliani, Gianni Mangiarotti, Caterina Canavese e Giorgio Triolo. Ciascuno di loro progressivamente responsabilizzato a gestire settori diversi della nascente (1972) Divisione di Nefrologia e Dialisi diretta da Vercellone.

Sono stati anni bellissimi ma anche difficili. Alle 5 del mattino, a turno, uno di noi volontari (cioè senza stipendio) iniziava il lavaggio dei Kiil che erano stati riempiti alla sera prima di formalina per sterilizzare il cellophane della fioraia; alle 8 “attaccavamo” i pazienti; alle 14 era frequente che qualche cellophane si lacerasse (il tubo di efflusso del bagno di dialisi si colorava di rosso); dalle 16 la maggioranza dei pazienti aveva crampi terribili agli arti inferiori (a causa del bagno iposodico) per i quali avevamo come unica soluzione il massaggio con talco dei muscoli contratti; alle 20 si “staccavano” i  pazienti; alle 21  lavaggio e assemblaggio dei Kiil con nuovo cellophane (Figura 7); alle 21 uno di noi a turno si occupava del loro riempimento con formalina; alle 23.30 si andava a casa.

Quasi ogni notte il reperibile veniva chiamato per la disostruzione (declotting) dei “maledetti” shunt che si coagulavano anche più volte nella stessa notte (e così per dieci anni).

Alle 7 del mattino, in un grosso vascone pieno di acqua deionizzata un infermiere scioglieva i sacchetti di sali che arrivavano dalla farmacia. Michele Rotunno controllava ogni mattina la composizione del bagno con un fotometro a fiamma. Grazie a lui, il giorno che in Farmacia scambiarono i sacchetti di cloruro di sodio con quelli di cloruro di potassio riuscimmo ad evitare, per pochi minuti, una tragedia in sala dialisi.

Sono stati anni di dialisi “all’Indiana Jones”: entusiasmi e fallimenti, frustrazioni ed emozioni, improvvisazioni ed errori che hanno segnato in modo indelebile coloro che li hanno vissuti. Non c’erano manuali che ti insegnassero, la letteratura era inconsistente perché misteriosa era la fisiopatologia dell’uremico sopravvissuto. Si navigava a vista aspettando il prossimo congresso dell’EDTA.

L’entità dei i successi delle prime emodialisi (“li fanno vivere senza i reni”) fecero ricredere anche gli scettici (molti) e grazie ad una donazione del quotidiano La Stampa vennero attivati sei nuovi posti dialisi. Successi entusiasmanti e drammi profondi. Fino a pochi anni prima, sopraggiunto lo stato uremico (“Purtroppo signora… per suo figlio non c’è più nulla che possiamo fare”) era un momento doloroso ma “fisiologico”. Agli inizi degli anni Settanta dover morire perché non si poteva accedere a qualcosa che ti avrebbe permesso di vivere era una tragedia crudele.  Fu così che nel 1971 Vercellone, Piccoli e la dottoressa Anna Mirone funzionaria regionale, sulla scia dell’esperienza londinese di Stanley Shaldon, attivarono l’emodialisi domiciliare. In quegli anni, il fatto che un droghiere, senza nulla togliere a questa preziosa professione, avesse, a casa sua, accesso alla sua circolazione sanguigna o a quella di un congiunto e ne gestisse per ore la circolazione extracorporea nella sua stanza da letto, sembrava più che fantascienza una procedura venata di follia ed illegalità. Vercellone chiese al professor Gallo, docente di Diritto a Torino, di difenderlo se fosse stato denunciato per questo esperimento. Fu subito un grande successo a cui fece seguito l’apertura di un centro extraospedaliero di training alla dialisi domiciliare e poi, nel 1973, l’inaugurazione del primo self-service (allora si chiamava così) per emodialisi in Italia, utilizzando i locali di una ex banca, dotato di dieci posti letto.

Furono anni di progresso travolgente: le sedute emodialitiche accorciarono la durata (la cosiddetta “dialisi breve”) e la fistola arterovenosa sostituì progressivamente il terribile shunt, che purtroppo aveva devastato in modo irreparabile la rete vascolare di molti pazienti. Ad un congresso dell’EDTA, avevo sentito che i colleghi francesi si costruivano delle vene artificiali utilizzando le safene asportate per varici ma il mio Maestro Ferrero non voleva saperne di darmi i suoi scarti operatori e quindi molto pazienti erano a rischio di non poter continuare l’emodialisi in quanto le cannule ancora non c’erano. Poi, nel 1975, con uno stratagemma riuscii a fargli cambiare idea. Così, alla sera insieme a Mangiarotti, Pacitti e Triolo, con un lavoro artigianale di taglia e cuci, in una stanza radiologica malamente illuminata, ci preparavamo delle protesi ante litteram che poi conservavamo in formalina fino al momento dell’uso (meglio non pensare cosa accadrebbe oggi davanti ad un giudice…).

Poiché Vercellone nutriva una certa diffidenza nel mio eccessivo spirito di iniziativa, tendeva ad affidarmi sempre compiti nuovi per temermi impegnato. Cosi, mi trovai ad avviare, insieme con Pacitti, l’entusiasmante programma dell’emofiltrazione, grazie anche al formidabile sostegno della ditta Sifra, e successivamente il programma della dialisi peritoneale cronica ambulatoriale (CAPD), con la gestione del primo registro nazionale.

Nel 1968, nonostante avessi passato l’estate felicemente nell’ospedale di Khartoum, grazie a Giuseppe Piccoli riuscii miracolosamente a laurearmi con una tesi sul trapianto renale. Ricevetti così l’incarico di occuparmi dei pazienti piemontesi trapiantati all’estero, fatto che mi permise di avere contatti personali ed informali con molti centri Europei (Ginevra, Dulwich Hospital di Londra, Zurigo, Lione, Bruxelles, Barcellona). Così, quando Vercellone mi propose di occuparmi dell’organizzazione del trapianto renale a Torino, che grazie alla sua opera instancabile vedeva finalmente la luce dopo oltre 20 anni di rimandi e controversie, lo considerai un segno del destino.

Coadiuvato da un équipe entusiasta (i dottori Triolo, Malfi e Squiccimarro e le dottoresse Giacchino, Messina, Rossetti e Tognarelli), nel volgere di due anni mettemmo a punto la lista di attesa, stilammo protocolli immunodepressivi che si avvantaggiavano dei progressi rivoluzionari di quegli anni (basse dosi di steroide) e, il 5 novembre del 1981, si realizzò il primo trapianto renale a Torino (Figura 8).

Ne usufruì la signora D. A. una regina Rom che dializzavamo dagli anni Settanta e che, pur avendo ampiamente mezzi e possibilità per essere trapiantata all’estero, aveva voluto aspettare il trapianto a Torino (quando neanche noi ci credevamo) per non lasciare i “suoi medici”. Il trapianto, pur dopo una anuria angosciosa di 25 giorni, si risolse positivamente e funzionò per oltre dieci anni.

Ma qui comincia un’altra storia.

 

Michele Rotunno

Nel 1965, conseguito il diploma da perito chimico mi iscrissi alla facoltà di Chimica.

L’anno successivo, recatomi in segreteria per l’iscrizione al secondo anno, incontrai un compagno di scuola con cui mi ero diplomato, che mi raccontò che gli era stata da poco offerta la possibilità di lavorare part time in un laboratorio molto prestigioso della Clinica Medica e che, nella stessa Clinica, vi era una specialità emergente, alla ricerca di un tecnico per il loro piccolo laboratorio. Lo stipendio era molto modesto, ma la libertà di frequentare i corsi universitari senza gravare economicamente sulle spalle dei miei genitori mi sembrava una opzione appetibile. Il giorno successivo mi presentai, molto intimorito, chiedendo di poter incontrare il professor Antonio Vercellone, che mi ricevette con molta benevolenza. Gli chiesi conferma dell’informazione avuta, confessandogli però, a malincuore, la mia completa ignoranza in biologia e medicina, sicuro di non avere competenze per quell’incarico. Con mio grande stupore mi rassicurò, dicendomi che avrei imparato sul campo e che era sufficiente buona volontà e l’affiancamento di poche settimane al tecnico che avrei dovuto sostituire, che aveva lavorato lì per cinque anni, entrato da studente esattamente come me, e che ora lasciava per affrontare gli ultimi esami mancanti al conseguimento della sua laurea in biologia.

Vercellone mi lusingò anche dicendomi che, una volta imparato il lavoro, sarei entrato a pieno titolo e con pari dignità nel gruppo dei medici del suo reparto e che sarei stato autonomo nella conduzione del laboratorio, rispondendone solo a lui.

Il laboratorio che mi venne mostrato era uno stanzino di meno di quattro metri per quattro attiguo alla corsia, con un lavandino ed arredi di recupero, molto datati e spartani. L’armamentario consisteva, sul tavolino centrale, di vari contenitori pieni di pipette di vetro e di due ureometri dell’Aira per il dosaggio dell’azoto ureico ipobromitico (Figura 9). Su un armadietto erano appoggiate due vecchie centrifughe ed un colorimetro Bausch & Lomb. Un trespolo stazionava sul davanzale della finestra con uno strano armamentario in vetro, pieno di mercurio, un Van Slyke per la misurazione della riserva alcalina. In un angolo, su una piccola scrivania, un microscopio monoculare Grifield di colore nero (Figura 10), che raccoglieva la luce tramite uno specchietto ad angolazione regolabile, e che non era ancora di mia competenza. Dedicato prevalentemente alla lettura dei sedimenti urinari, era riservato al dottor Dario Varese ed occasionalmente ad altri assistenti. In un altro angolo, come fiore all’occhiello, troneggiava uno dei primi fotometri a fiamma Baird Atomic, per il dosaggio del sodio e del potassio.

Più avanti mi raccontarono che il predecessore di quel prezioso strumento, dislocato in origine in un locale della Clinica Chirurgica, era stato affidato all’allora neolaureato dottor Giuseppe Piccoli che, nel sostituire la bombola con cui la fiamma era alimentata, non aveva chiuso correttamente il manometro, procurando una fuga di gas responsabile di un’esplosione che aveva devastato il laboratorio, fortunatamente senza vittime o feriti. Il professor Achille Mario Dogliotti, direttore della Clinica Chirurgica, magnanimamente perdonò il contrito allievo, rassicurandolo, già soddisfatto che non si fosse infortunato, e consentendogli il proseguimento della sua promettente carriera.

Dal 20 ottobre 1966 iniziai a lavorare nel laboratorio, che era anche l’unico luogo di pausa e socializzazione del personale medico. Questa situazione mi consentì di creare con molti di loro, e con altri che si aggregarono nel tempo, stretti legami di amicizia.

Il lavoro in laboratorio, all’inizio, non era molto impegnativo, ma presto mi lasciai coinvolgere dall’entusiasmo per l’avvio della dialisi ai pazienti cronici. In quell’epoca di pionierismo e poche risorse anche le mie competenze manuali, acquisite da perito chimico, risultavano utili e gradite nell’allestimento della nascente sala dialisi.

L’iniziale mezza giornata di lavoro richiesta, limitata ai giorni feriali, incominciò ad allungarsi. Ai giorni feriali iniziarono ad aggiungersi i sabati ed i giorni festivi infrasettimanali. Con l’avvio della dialisi ai pazienti cronici, così ben descritta dal professor Pier Luigi Cavalli nel suo racconto “I bricoleurs della dialisi” [5], che si protraeva, con i primi reni di Kiil, per dodici ore a seduta, l’orario di supporto laboratoristico si anticipò al mattino e si posticipò alla sera.

Quest’affezione per la vita del laboratorio e del reparto era tale che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, mi aveva portato a svolgere, dopo la mia attività in laboratorio, anche quella assistenziale, partecipando talora alla chiusura delle dialisi (Figura 11) e persino a fungere, occasionalmente, da assistente chirurgo in camera operatoria, per l’allestimento degli accessi vascolari per la dialisi.

Oggi tali attività verrebbero giustamente precluse e, se colto a praticarle, creerebbero seri problemi legali a me e ai dirigenti della struttura, ma allora, in epoca pionieristica, ogni sforzo di collaborazione sembrava naturale, senza porsi troppe regole. In questo clima mi sentivo a tutti gli effetti protagonista nella squadra, al pari dei medici più anziani. La paga, modesta e in nero, era sempre la stessa e gli straordinari non esistevano.

Il primo novembre del 1968 fu una data molto importante per me e per la storia della nefrologia torinese, per un episodio allora non divulgato e, per molti anni, noto solo ad una limitata cerchia di vecchi addetti ai lavori.

Dopo un diverbio con Piccoli avvenuto poche giorni prima, originato da divergenze etico-gestionali sull’invio al laboratorio di campioni esterni al reparto, dichiarai di voler ridurre la mia attività solo all’orario contrattualmente pattuito, con esclusione delle numerose ore addizionali sino ad allora gratuitamente fornite. In quella data (festività di Tutti i Santi), avrei quindi dovuto astenermi dal recarmi al lavoro, prevalentemente indirizzato in quel periodo al controllo dei parametri ritentivi ed elettrolitici dei pazienti uremici e dei controlli sui relativi bagni di dialisi. In quell’epoca i sacchetti ed i flaconcini dei sali necessari alla preparazione del bagno di dialisi provenivano dalla Farmacia Interna dell’ospedale. Per un errore dell’operaio addetto alla pesata del cloruro di sodio, i sacchetti, etichettati NaCl, furono riempiti di sale proveniente da un bidone molto simile, contenente KCl. In quella mattinata festiva, la soluzione di dialisi fu preparata come al solito dal personale infermieristico della sala dialisi, prima ed unica struttura di quell’epoca in Piemonte attrezzata per la depurazione del sangue dei pazienti uremici. Cinque pazienti si apprestavano ad essere collegati, senza sospetto alcuno dell’imminente catastrofe.  Il conducimetro collegato alla soluzione di dialisi, per effetto dello scambio tra ioni, K+ e Na+, di peso equivalente abbastanza vicino, forniva un segnale ancora all’interno dei limiti d’allarme impostati sullo strumento.

La concentrazione elettrolitica del bagno che stava per essere distribuito attraverso la membrana di cellophane semipermeabile del dializzatore, per diffondere con il sangue dei pazienti uremici, prevista in circa 130-140 mEq/L di sodio e circa 1,5 mEq/L di potassio, risultava invece di circa 70 mEq/L di sodio e di 77 mEq/L di potassio. Questo fatto avrebbe procurato la morte dei pazienti quasi immediata per arresto cardiaco, nel giro di pochi minuti dall’avvio della dialisi.

Quella mattina ero combattuto tra il desiderio di rispettare quanto dichiarato durante il diverbio con Piccoli e gli scrupoli che mi avevano portato sino ad allora a non mancare mai in laboratorio all’avvio delle sedute dialitiche. Alla fine, prevalse la scelta di recarmi ugualmente al lavoro. Giunsi inatteso in reparto, con un leggero ritardo rispetto al solito, trovando gli operatori dialitici che, fiduciosi del dato del conducimetro, stavano apprestandosi all’avvio della dialisi.

Come prima operazione abituale, provvidi al dosaggio degli elettroliti nel bagno di dialisi appena preparato, riscontrando, con stupore, l’anomalia. Dopo un rapido ed affannoso ricontrollo diedi l’allarme e la seduta dialitica fu sospesa appena in tempo ed il sangue dei pazienti rapidamente reinfuso.

L’incidente fu comunicato in modo discreto alla Direzione Sanitaria ed ai responsabili della Farmacia, e i sacchetti furono immediatamente ritirati e sostituiti.

Piccoli, quel giorno assente per la partecipazione insieme a Cavalli ad un incontro che doveva tenersi a Lione, fu raggiunto telefonicamente in albergo da una telefonata che lo mise al corrente del fatto e del rischio corso dai pazienti e del pericolo scampato anche dai medici del reparto e dai responsabili della Farmacia di incorrere in seri problemi penali. All’accaduto non venne data pubblicità, ma contribuì non poco a farmi vincere la mia insicurezza, almeno professionalmente, e a farmi sentire, pur nella mia veste atipica, ancor più protagonista in quel gruppo di lavoro.

Con l’avvio della dialisi, anche il laboratorio aveva dovuto potenziarsi con l’assunzione di nuovo personale tecnico. Il locale era diventato di dimensioni insufficienti e venne trasferito al piano terreno della Clinica, in un magazzino appena più spazioso che venne svuotato e dove ci trasferimmo per alcuni anni.

Ipocritamente, il partecipare da pioniere a quella nascente nuova branca della medicina mi faceva sentire giustificato a trascurare le lezioni universitarie ed i relativi esami (solo due sino ad allora sostenuti) finendo fuori corso già al primo biennio. Mi riscrissi ancora un anno fuori corso, poi abbandonai la facoltà di Chimica, per iscrivermi a quella di Biologia, ma anche in quella facoltà, in cui rinnovai l’iscrizione fuori corso per ben altri tredici anni, gli esami che riuscii a sostenere, pur con buoni voti, furono ben pochi. Sino all’inevitabile abbandono.

Nel frattempo, quando, nel 1970, lasciarono la Nefrologia della Clinica Medica sia Varese che Cavalli, fu necessario trovare qualcuno che si prendesse carico sistematicamente dell’esame dei sedimenti urinari al loro posto. Stante il disinteresse generale dei medici nefrologi rimasti ad assumersi l’incarico, venni infine convinto, riluttante e molto a malincuore, ad accettare l’ingrato compito.

L’esperienza di lettura dei sedimenti urinari continuò, praticamente in esclusiva, sino al mio trasferimento nel 1999, consentendomi l’acquisizione di una ricca raccolta di immagini fotografiche che ha consentito, nel 1983, la pubblicazione della monografia “La lettura del Sedimento Urinario – Testo Atlante[6]. Questa fu seguita dall’edizione americana che risultò essere la prima monografia italiana di argomento nefrologico tradotta e pubblicata in inglese [7] (Figura 12).

Fu solo nel 1973 che il laboratorio fece un salto qualitativo, quando Vercellone riuscì ad ottenere dai Lions Clubs una cospicua donazione che consentì la dotazione di strumenti più sofisticati che lo sviluppo della tecnologia industriale aveva reso disponibili per la sanità. Con quella donazione fu possibile allestire in due locali di fortuna, reperiti al secondo piano della Clinica, due altri piccoli laboratori, uno ad impronta immunopatologica, affidato ad un giovane promettente nuovo arrivato, il dottor Giovanni Camussi, ed uno per lo studio della coagulazione, affidato alla dottoressa Caterina Canavese, anche lei giunta da poco e che si era appassionata alla materia.

La nuova strumentazione acquisita dal laboratorio nefrologico era però troppo sacrificata per lo spazio disponibile. Vercellone nel frattempo, anche grazie ai successi della dialisi per l’uremia cronica, era riuscito a farsi destinare un intero nuovo reparto in un piano in cantiere, di sopraelevazione della Clinica Medica, in condivisione con il reparto di Cardiologa.

Ottenuta in visione la planimetria del progetto di sopraelevazione, potemmo suggerire, per la parte destinata al nostro reparto, la suddivisione degli spazi da destinare alla nuova sala dialisi, alla corsia ed agli spazi comuni, aggiungendo anche quelli per un laboratorio di reparto.

Riuscii a farmi destinare, in anticipo sulla corsia, una capiente area che avrebbe offerto spazio all’allestimento finalmente di un laboratorio moderno e di tutto rispetto.

Il trasferimento di una sala dialisi e del laboratorio avvenne, in maniera un po’ forzata, mentre il cantiere della corsia era ancora in corso. Per raggiungere il laboratorio, all’inizio attrezzato con banchi di fortuna ove appoggiare la strumentazione, occorreva attraversare il cantiere, coi muri ancora da intonacare e il pavimento ricoperto da assi (a quel tempo era possibile). L’entusiasmo per quell’operazione, nonostante le varie difficoltà da superare, era altissimo, alimentando ulteriormente la mia passione e dedizione al lavoro, facendomi sentire ancor più quel laboratorio come la “mia” creatura (Figura 13).

Terminata la costruzione del quarto piano, con il completamento del trasferimento del reparto, l’avvio e l’espansione del trapianto renale, anche il laboratorio, con l’acquisizione di arredi moderni e nuova strumentazione, via via nel tempo implementata, assunse la sua massima dimensione, contribuendo in maniera determinante alla ricca produzione di pubblicazioni scientifiche del gruppo, sino al 1999, anno in cui lasciai la Nefrologia, trasferendomi ai Laboratori Centrali.

 

Piero Stratta

Gli esordi

Ho conosciuto la Nefrologia il 23 maggio del 1967. Sono passati oltre cinquant’anni, ma ricordo benissimo quel momento, anche se non potevo di certo immaginare come questo incontro avrebbe condizionato tutta la mia vita professionale e non solo. Era un giorno festivo, ma questo, come avrei constatato negli anni a venire, non rivestiva nessuna differenza per i medici che si occupavano di patologie del rene. Salii le scale della Clinica Medica dell’Università diretta dal professor Giulio Cesare Dogliotti, alle Molinette di Torino, fino al terzo piano, dove lavorava, nel settore delle malattie renali, il dottor Pierluigi Cavalli. A lui, medico curante della mia famiglia, mi ero rivolto verso la fine del terzo anno del corso di Medicina, per frequentare un reparto ospedaliero. Lo incontrai in una sala che conteneva un vascone enorme che, come mi spiegarono successivamente, era deputato alla preparazione del bagno di dialisi per il trattamento depurativo dei pazienti con insufficienza renale. In quell’occasione mi presentò al professor Giuseppe Piccoli che, dopo avermi chiesto notizie sui voti dei miei esami, decise di accogliermi nella comunità nefrologica in qualità di allievo. Mi affidò al dottor Roberto Ragni, responsabile del reparto uomini, costituito da sei letti, suddivisi in due camere evidenziate come “Cardio Renali”. Quel mattino conobbi il professor Franco Linari, esperto di calcolosi renale e responsabile dei sei letti donne, e il professor Dario Varese, che in un piccolo laboratorio era piegato sopra un microscopio con il quale stava esaminando un sedimento urinario. In pratica tutto l’organico, completato dagli studenti del quinto anno ‒ Sandro Alloatti, Giuseppe Segoloni e Giuliano Giachino ‒ e da Michele Rotunno tecnico responsabile del Laboratorio Nefrologico, era presente in reparto quel mattino di un giorno festivo.  Il professor Antonio Vercellone, aiuto della Clinica Medica e responsabile del gruppo di “nefrologi”, lo avrei intravisto qualche giorno dopo durante una visita collegiale in reparto, ma mi venne presentato ufficialmente solo quando la mia presenza diventò costante e la mia attività fu inserita nel lavoro del gruppo.

Di quel mattino fui colpito in modo particolare dal burbero atteggiamento di Roberto Ragni e che pareva mi scoraggiasse a frequentare. Infatti, mi disse: “Al di là di tutto quello che ti hanno detto i colleghi, ragazzo, ricordati che se tu pensi di venire qui per fare carriera dimenticatelo. Se pensi di frequentare per avere poi una posizione ed un guadagno sicuro, non è questo il tuo posto. Qui si promette solo lavoro, lavoro e poi ancora lavoro, senza prospettiva alcuna”. In effetti, a parte Vercellone tutti i frequentatori erano volontari e gli introiti per i medici più anziani erano rappresentati da una piccola attività mutualistica o da un ambulatorio libero professionale, e per gli allievi da una attività da “prelevatore” in un ambulatorio mutualistico o da turni di guardia nella stessa Clinica. Però il clima che si viveva era particolarmente stimolante: si trattava di un gruppo di giovani entusiasti che collaboravano strettamente con dedizione assoluta ai problemi del paziente, in un periodo storico irripetibile per questa branca della medicina: la nascita della dialisi per l’uremia cronica; il perfezionamento della sua tecnologia e delle conoscenza cliniche; lo sviluppo della chirurgia per gli accessi vascolari, non solo per il trattamento acuto ma anche cronico; la complessità delle insufficienze renali acute che arrivavano in reparto con problemi diversi (tossici, immunologici, post-chirurgici, ostetrico-ginecologici, etc.); i continui progressi nel campo dell’istopatologia renale e dei meccanismi di danno delle nefropatie immunologiche. Questo tumultuoso progresso conoscitivo era molto coinvolgente e forniva ad ognuno un bagaglio di esperienze che ci avrebbe seguito per tutta la vita professionale. La visita in corsia era per noi studenti una vera e propria lezione: quotidianamente con Piccoli che ci stimolava e ci interrogava sempre, e periodicamente con Vercellone. Questi ultimi momenti configuravano un evento, ma anche un momento temuto per la conoscenza stretta che il professore richiedeva al medico della camera su tutti i dati dei pazienti, che dovevano essere riportati con sicurezza, senza sfogliare la cartella. Spesso tutto il gruppo vi partecipava, compresa la caposala, la temibile Suor Elisa, che controllava non solo tutti gli infermieri, ma anche noi allievi medici, in particolare nella preparazione di tutte le infusioni per ogni nostro paziente, compito che ci toccava dopo il giro- visite del mattino (e che sarebbe completamente inconcepibile al giorno d’oggi). Nei mesi successivi mi occupai soprattutto della nefrologia clinica, inizialmente nel reparto uomini con Roberto Ragni, in seguito nella sezione donne con Franco Linari, con cui avrei preparato negli anni seguenti uno dei miei primi lavori scientifici, sulla terapia delle insufficienze renali acute da “gestosi” [8]. Negli anni successivi l’interesse per la patologia renale associata alla gravidanza sarebbe diventato uno degli argomenti principali della mia esperienza clinica e di ricerca, soprattutto dopo che Vercellone mi assegnò ufficialmente le consulenze nefrologiche presso l’Ospedale Ostetrico Ginecologico di Torino. Questo percorso mi portò anche a far parte del Gruppo di Studio Rene e Gravidanza della Società Italiana di Nefrologia.

In quel periodo, noi allievi avevano rapporti diretti soprattutto con Piccoli: fu lui, infatti, ad assegnarmi la tesi di laurea. Ricordo che mi indicò in una stanzetta un cumulo di cartelle su cui avrei dovuto lavorare: raccogliere i dati, tabularli ed elaborarli, naturalmente senza nessun ausilio informatico. Si trattava di pazienti con glomerulonefrite trattati con indometacina e seguiti in ambulatorio per il follow-up. Ricordo ancora ora lo sgomento che mi prese di fronte a quella mole di lavoro che pensavo mai avrei terminato. In quegli ultimi anni la mia presenza in Facoltà era molto contenuta: tra attività clinica e copertura dei turni di dialisi, era limitata alle lezioni più significative e agli esami. Riuscii comunque a completare la mia tesi “L’indometacina nel trattamento delle glomeruliti proteinuriche. Esperienza di tre anni” nei tempi previsti, ed essa rappresentò la base di alcune pubblicazioni scientifiche [9] e l’argomento di collaborazione con la scuola nefrologica dell’Università di Lovanio diretta da Paul Michielsen, con cui ebbi numerosi contatti di lavoro. Dopo la laurea, i miei rapporti con Vercellone divennero più frequenti e diretti. Nel frattempo, prima della nascita e della definitiva istituzione del Primariato Ospedaliero di Nefrologia e Dialisi alle Molinette (1972) si aggiunsero al gruppo altri studenti: Giorgio Triolo (1968), Margherita Dogliani (1969), Giovanni Mangiarotti e Alberto Jeantet (1970), Francesco Quarello e Caterina Canavese (1971) (Figura 14).

L’insufficienza renale cronica e la dialisi

In quei primi anni venni a conoscere quella che era la realtà più drammatica di quella fase storica della nascente nefrologia: la possibilità di garantire la dialisi, che si stava affermando come terapia salvavita per l’uremia cronica, solamente a pochissimi pazienti, per la carenza di reni artificiali e di adeguate strutture organizzative. Alle Molinette inizialmente avevamo pochi reni artificiali tipo Kiil sui quali ruotavano quattro pazienti (con un ritmo dialitico di due sedute per settimana, ciascuna di 12 ore), che poi aumentarono progressivamente insieme al numero dei reni artificiali. Della dialisi si occupavano direttamente Sandro Alloatti, Giuseppe Segoloni e Giuliano Giachino, da cui appresi i primi rudimenti necessari per i turni pomeridiani di guardia che anche noi studenti dovevamo coprire. Inoltre, Sandro Alloatti mi addestrò alla dialisi peritoneale e ai principi della sua macchina semiautomatica e Giuseppe Segoloni a quelli dell’emodialisi. Fu sempre Segoloni ad avviarmi alla chirurgia per l’allestimento degli shunt artero-venosi, che tutti noi dovevamo essere in grado di confezionare, e successivamente, anche a quella delle fistole arterovenose di base quali la radiale, la tabacchiera anatomica, ma anche l’omerale. Di questi aspetti ricordo in particolare due momenti che mi trasmettevano molta ansia. Il primo, quando ero di guardia da solo in sala dialisi nelle ore pomeridiane, insieme a infermiere che ne sapevano ben più di me, e al sollievo che provavo quando Piccoli tornava in reparto per il contro-giro; il secondo, quando venivo chiamato, spesso di notte, per la disostruzione (declotting) di uno shunt. Questo evento era veramente drammatico per il paziente, che vedeva nello shunt la sua possibilità di sopravvivenza, e molto angosciante per noi giovani medici per la preoccupazione con cui affrontavamo queste manovre, spesso ripetute e talora infruttuose.

Di quel periodo i ricordi si sovrappongono numerosi, ma vorrei raccontare un episodio emblematico di quei tempi. Un tardo pomeriggio arrivò in reparto con un quadro di uremia conclamata una paziente (M.G.) che era stata la balia di Sandro Alloatti. Le condizioni erano disperate in quanto non c’era nessuna possibilità di emodialisi, non solo immediata, ma neppure a breve/medio termine. Vercellone chiese a me e ad un altro studente se ce la sentivamo di fermarci nella notte per condurre un trattamento manuale con dialisi peritoneale, in quanto tutti gli altri medici, già oberati di lavoro nei giorni e nelle notti precedenti, non erano in condizioni di affrontare una nuova notte in piedi. Naturalmente, coinvolti da questa grande responsabilità, rimanemmo tutta la notte a dializzare la paziente, che sopravvisse e venne poi mantenuta in vita con la dialisi peritoneale fino a quando non si trovò un posto per l’emodialisi periodica. Questa era la realtà di quegli anni, caratterizzata dalla ricerca affannosa e spesso frustante di risorse per creare nuovi posti dialisi o di possibilità di trattamento anche al di fuori di Torino e della Regione Piemonte. Ricordo, ad esempio, che al mattino facevamo il giro di vari reparti di Medicina delle Molinette insieme a Piccoli, per valutare le condizioni di tutti i pazienti con insufficienza renale terminale. Si controllavano i dati e si restringeva ancora di più la dieta ipoproteica, si invitavano i pazienti a pesare su di un bilancino tutti cibi, si studiavano formule per aumentare l’apporto calorico quotidiano nel tentativo di dilazionare il più possibile i tempi di una eventuale necessità dialitica. Ma si elencavano anche i pazienti in cui era ormai impellente l’avvio della dialisi: succedeva talora di dover scegliere collegialmente, sotto la guida di Vercellone, chi ‒ in base a età, condizioni cliniche e familiari ‒ avrebbe potuto usufruire per primo di un posto dialisi. In queste scelte ci supportava Anna Mirone, che si era aggiunta al nostro gruppo come assistente sociale, la quale affrontava questi problemi con impegno, rigore e dedizione assoluta al paziente.

Nel 1971 venne attivato presso i locali dell’Ordine di Malta di Torino un Centro di Addestramento per la Dialisi Domiciliare e, nel 1973, il Centro di Emodialisi Extraospedaliera ad Assistenza Limitata, in Corso Vittorio Emanuele. L’ottica era sempre quella di incrementare i posti dialisi e favorire le possibilità di trattamento al di fuori dell’Ospedale dei pazienti in condizioni cliniche meno gravi. Si trattava di soluzioni che non è esagerato definire eroiche, anche per le mille difficoltà legislative, burocratiche ed organizzative che si incontravano. Poi, con la progressiva apertura di numerosi Centri Dialisi ospedalieri in Piemonte ci si avviò verso il pieno trattamento degli uremici cronici.

L’insufficienza renale acuta

Alla drammaticità dei quadri di insufficienza renale acuta che allora confluivano tutti nei nostri letti ho già accennato, ma due aspetti clinici mi colpivano in modo particolare. Il primo era quello delle pazienti con insufficienza renale acuta da interruzione della gravidanza autoindotta (in tempi precedenti la Legge 194 del 1978). Si trattava di donne disperate, in gravi condizioni cliniche, che avevano fatto ricorso a metodiche tossiche (ad esempio, infuso di prezzemolo ad alte dosi bevute come decotto) o traumatiche a livello uterino. Nel primo caso, con il trattamento dialitico si ottenevano la sopravvivenza e il recupero funzionale del rene praticamente sempre, mentre nel secondo, le frequenti complicanze settiche rendevano il percorso clinico più complesso e incerto. L’altro aspetto era quello della intossicazione da funghi: erano ancora gli anni di una forte immigrazione a Torino dal Sud e spesso la scarsa competenza nel riconoscimento dei funghi edibili dalla terribile Amanita phalloides era responsabile di gravi forme tossiche. Ricordo in particolare un mese di settembre in cui arrivarono contemporaneamente in reparto ben sei pazienti con insufficienza epato-renale causata dall’ingestione del suddetto fungo. Fummo tutti reclutati per allestire gli shunt artero-venosi ed avviare il più tempestivamente possibile il trattamento depurativo: anche in quei casi risultati erano soddisfacenti e la sopravvivenza in genere molto buona.

La biopsia renale, l’istopatologia e l’immunopatologia renale

In quegli anni si stava sempre più diffondendo nella diagnostica delle glomerulonefriti l’uso della biopsia renale percutanea. In Clinica Medica si ricordava che, dopo una prima biopsia renale effettuata nel 1954, una seconda esitò in frammenti di parenchima epatico, peraltro cirrotico, per cui il direttore dell’istituto sospese a lungo la pratica giudicandola troppo rischiosa. Sul finire degli anni Sessanta il “biopsiatore” era il professor Renato Marten Perolino, un urologo scostante e burbero, che solo dopo molto tempo che lo seguivo nella manovra, si aprì a qualche spiegazione. A poco a poco appresi le modalità operative ed infine, mi pare alla fine del 1971, effettuai sotto la sua guida il mio primo prelievo bioptico di rene, in un paziente con insufficienza renale acuta in corso di mieloma. In quegli anni la procedura era complessa: non esisteva guida ecografica, l’ago di metallo di Vim-Silverman modificato da Franklin (Figura 15) era di diverse dimensioni, da utilizzare a seconda della struttura fisica del paziente e da sterilizzare dopo ogni procedura. Le misure per la localizzazione del polo inferiore del rene da biopsiare erano rilevate sulla lastra (urografia o stratigrafia delle logge renali) e poi riportate sul dorso del paziente (Figure 16, 17).

Nel 1974, Vercellone mi inviò a Bologna al 1° Corso Residenziale sulla Biopsia Renale, tenuto da Vittorio Bonomini. Lì ebbi modo di conoscere i colleghi della Scuola Nefrologica bolognese, oltre a molti altri nefrologi provenienti da tutta l’Italia. Fu un corso che mi consentì di affinare la metodica e di diventare per molti decenni il “biopsiatore ufficiale” della Nefrologia delle Molinette, dove addestrai anche diversi nefrologi del Piemonte, e di produrre numerose pubblicazioni scientifiche [10]. Anche la patologia renale mi appassionava, soprattutto per i meccanismi immunopatologici, che in quegli anni si andavano progressivamente definendo. Nel 1973 si aggiunse al nostro gruppo Giovanni Camussi che si occupava di quegli aspetti, sia dal punto di vista della ricerca clinica, che da quello della nefrologia sperimentale. Vercellone gli assegnò un laboratorio per sviluppare le sue ricerche al secondo piano della Clinica Medica, dove avviò anche lo studio dell’immunofluorescenza glomerulare. Camussi fu coinvolto per un certo periodo anche nelle guardie in dialisi assieme a me: andavamo entrambi all’apertura della sala dialisi alle cinque del mattino, quando dominava la necessità di avviare la seduta dialitica tempestivamente per non ritardare il turno successivo, i pazienti erano preoccupati per la loro fistola, e le infermiere spesso agitate. Anche in quei frangenti molto particolari Camussi non dimenticava il suo amore per l’immunologia e tentava di avviare con me dibattiti su quei meccanismi. Ricordo ancora il periodo in cui stava dedicando la sua attenzione al Platelet Activating Factor ed ai suoi meccanismi immunopatologici, che cercava di spiegarmi insieme agli esperimenti che stava conducendo. Io, teso per l’avvio della dialisi ed ancora assonnato, non sempre gli davo retta, ma debbo riconoscere che anche da quei momenti nascevano stimoli conoscitivi che si sarebbero tradotti poi in programmi di studio. Sempre in quel periodo intensificai, per lo studio morfologico delle biopsie renali, i contatti con l’Anatomia Patologica che si valeva inizialmente dell’attività di Franco Mollo, e poi sempre più di quella di Guido Monga e di Gianna Mazzucco. Analizzavamo insieme ogni biopsia con infinite discussioni clinico-patologiche in un campo dove si stavano moltiplicando le ricerche e si stavano meglio definendo gli inquadramenti nosografici delle glomerulopatie. Erano momenti interessanti che si consolidarono in una stretta collaborazione di molti decenni, che proseguì con Guido Monga anche quando mi trasferii all’Università del Piemonte Orientale, estendendosi anche alla “nefropatologia del trapianto renale”. Questo interesse rappresentò per me un campo di studio che continuò nel Gruppo di Immunopatologia Renale della Società Italiana di Nefrologia, dove incontrai molti colleghi di diversi Centri con cui collaborai per anni in molteplici ricerche.

Il trapianto renale

Il 5 novembre 1981 iniziava per la Nefrologia alle Molinette una nuova epoca storica; in quella data infatti venne effettuato il primo trapianto di rene in Piemonte. Fu un altro momento elettrizzante per tutti noi, rappresentando un ulteriore settore di confronto, di studio e di ricerca, ma soprattutto di nuove conoscenze cliniche sotto la guida principalmente di Giuseppe Segoloni. Tutti ne fummo toccati, ognuno nel proprio ambito di competenza. Nonostante io non ne fossi direttamente coinvolto, quell’esperienza clinica fu per me fondamentale per l’avvio di un’altra storia, che iniziò a Novara quando nel 2003 andai a dirigere la Nefrologia alla quale era annesso il secondo Centro di Trapianto di Rene del Piemonte.

 

Giorgio Triolo

Nel centenario della nascita di Antonio Vercellone ripercorro con nostalgia alcune fasi della vita e rivedo una lunga parte del mio cammino professionale, quella che ho avuto la fortuna e il privilegio di vivere nella Nefrologia delle Molinette.

L’inizio

Il 6 dicembre 1968 rappresenta per me una data significativa. Ma allora, e per lungo tempo, lo ignoravo. Appena iniziate le lezioni del quarto anno avevo deciso, seguendo il consiglio di mio padre medico, allievo del professor Giulio Cesare Dogliotti, Direttore della Clinica Medica, di cominciare a frequentare un reparto clinico.

Dogliotti mi aveva prospettato tre aree interessanti, la Cardiologia, l’Endocrinologia e la Nefrologia. Negli anni precedenti la fisiologia dell’apparato urinario mi aveva appassionato e così, senza nessuna esitazione, avevo scelto la Nefrologia. Il primo contatto, nella temporanea assenza del professor Antonio Vercellone, era stato con il suo braccio destro, il professor Giuseppe Piccoli. In realtà, per molto tempo ancora, il rapporto con quello che negli anni successivi sarebbe diventato il mio Direttore e il mio Maestro è stato sporadico e sempre mediato dai colleghi che già facevano parte del suo gruppo e con i quali aveva vissuto i momenti eroici di cui hanno esaurientemente parlato Sandro Alloatti e Beppe Segoloni.

I nefrologi

Cominciai poco per volta a conoscere quel gruppo pieno di entusiasmo, impegnato sia nelle attività cliniche che nella ricerca, composto da molte figure che nel periodo successivo avrei messo a fuoco.

Le attività della corsia nefrologica, dove ero inizialmente stato introdotto, erano svolte da Roberto Ragni, affiancato da Gianmaria Vacha, e da Franco Linari con Piero Stratta. In dialisi “i tre moschettieri” erano Sandro Alloatti, Giuliano Giachino e Beppe Segoloni, forti dell’appoggio di Pier Luigi Cavalli, che si era formato sulla tecnica dialitica a Padova e a Verona. Il laboratorio nefrologico, dove lo studio del sedimento urinario rappresentava uno dei punti cruciali della diagnostica, era retto da Dario Varese, affiancato dal mio coetaneo Michele Rotunno, che negli anni successivi avrebbe occupato un ruolo sempre più determinante.

Ogni attività era appassionante e coinvolgente: le dialisi nei pazienti acuti, l’organizzazione delle dialisi nei pazienti cronici, gli accessi vascolari, la degenza.

Un’altra figura indimenticabile è Anna Mirone, da poco scomparsa, attiva per oltre quattro decenni con ruoli diversi: assistente sociale, determinante nella dialisi domiciliare e, soprattutto, in quella ad assistenza limitata; funzionario della Sanità Regionale, responsabile per gli uremici cronici con sei Assessori provenienti da diverse formazioni politiche; e infine volontaria, senza fare sconti a nessuno, a se stessa per prima, sempre dalla parte dei pazienti.

Appena laureato, neppure tre anni dopo il mio ingresso, l’organico del reparto, nato nel 1972, si ampliò di una unità, e riuscii ad avere un incarico, poco tempo dopo i miei colleghi più grandi che avevano dovuto aspettare anni. Il mio compito, oltre alla corsia nefrologica, era di seguire i pazienti con insufficienza renale acuta, che in quella fase erano trattati per lo più nelle terapie intensive (Rianimazione, Neurochirurgia, Cardiochirurgia), generalmente con la dialisi peritoneale. Tra questi mi è rimasto impresso il ricordo di Carlo Casalegno, vecchio amico di Vercellone, già partigiano, vicedirettore di “La Stampa”, e ferito a morte in un attentato delle Brigate Rosse nel 1977. Ricordo anche il primo catetere peritoneale che posizionai da solo, con successo e molta apprensione, una domenica pomeriggio in urgenza, al padre di un collega chirurgo, davanti a lui e al suo direttore.  Il padre visse poi più a lungo del figlio.

Da pochissimo tempo avevo cominciato a entrare nei turni di guardia: in quegli anni le dialisi erano bisettimanali, ciascuna della durata di 12 ore. Significativi nella mia formazione sono stati soprattutto i turni festivi in cui in due seguivamo la dialisi, la corsia, le consulenze in tutto l’ospedale (le Molinette aveva quasi 2000 letti), con presenza continua, coprendo per anni, essendo il più giovane assunto, sia la notte di sabato che di domenica. E prima di entrare nell’era delle dialisi trisettimanali, all’alba del lunedì, qualche ora prima del previsto i pazienti erano già per la maggior parte in dialisi di urgenza, per sovraccarico idro-elettrolitico. Ricordo un originale espediente escogitato da un paziente per procurarsi acqua a volontà, superando le restrizioni imposte. In corsia si faceva artificiosamente salire la temperatura corporea e utilizzava la borsa di ghiaccio che gli veniva fornita per abbassargliela bevendone il contenuto poco per volta, come mi ha confessato anni dopo.

Proprio in questo periodo, mentre ero di guardia una domenica pomeriggio arrivò in Pronto Soccorso   uno sciatore rimasto travolto da una valanga fuori pista, tutto contuso, ma senza fratture o sindrome da schiacciamento. Trasferito in corsia, fu vegliato con apprensione, fino a quando non si svegliò vivo e vegeto. Il nome del paziente era Giuseppe Segoloni. Ma ancora peggio, sempre di domenica pomeriggio, fu trasferito da noi, dopo una brutta caduta in moto, il collega Francesco Quarello, ipoteso e politraumatizzato. Solo dopo la trasfusione di 2 litri di sangue cominciò a riprendersi, iniziando un iter di mesi fatto di interventi ortopedici riparatori.

Per quasi un anno ho poi condiviso i sabati e le domeniche di guardia con una giovane collega che era in trattamento emodialitico a cause di una nefropatia lupica. Era una persona non comune, parlava diverse lingue correttamente, suonava la chitarra, scriveva poesie e, nonostante la malattia ingravescente, si era prima laureata in Medicina e poi specializzata in Nefrologia. Con nostalgia e tristezza ricordo Maria Paola per il suo forte carattere e il suo impegno professionale profuso senza limiti finché le sue condizioni cliniche non sono peggiorate inesorabilmente.

E non posso dimenticare i turni di guardia con Ciro Tetta, giovane entusiasta e forse troppo esuberante per poter limitare al nostro gruppo le sue energie, che ha poi speso nella ricerca con Giovanni Camussi e, dopo qualche anno, nelle industrie di dialisi, sostenendo sempre i nostri programmi grazie a una collaborazione durata per decenni con reciproca stima e soddisfazione.

La svolta

I miei rapporti con i colleghi si sono progressivamente consolidati sia come gruppo di lavoro sia a livello personale, in termini di stima e amicizia reciproca ‒ ero entrato a pieno titolo nella squadra (Figura 18)! ‒ e contemporaneamente anche la relazione con Vercellone era diventata più amichevole e costante. In occasione della presentazione a un congresso tenutosi a Vittel, in Francia, dell’esperienza del nostro centro sulle dialisi brevi (la durata era passata da 12 a 4 ore), Vercellone mi propose di accompagnarlo e io accettai senza esitazione. Fu un’occasione per approfondire la nostra conoscenza reciproca e da quel viaggio la mia vita professionale cambiò.

Infatti, fui indirizzato a occuparmi della dialisi nei pazienti con diabete, condizione che a quel tempo rappresentava una controindicazione importante. Al momento della presentazione della nostra esperienza, pioniera in Italia, ad un convegno sul trattamento della nefropatia diabetica nel 1975, a Vouliagmeni non lontano da Atene, la casistica complessiva di diabetici in trattamento sostitutivo superava di poco le 100 unità [11]. Fu un nostro paziente diabetico, dializzato da qualche mese, il primo (a sua e a nostra insaputa) a essere trapiantato di rene e pancreas a Lione, dove era stato inviato per la immissione in lista. Anni dopo, a pancreas ancora funzionante, ricordava contento che quella scelta, dopo anni di multiple iniezioni giornaliere di insulina, era stata per lui l’evento più importante, anche se poco dopo aveva dovuto ritornare in dialisi. Erano gli anni dell’impiego dei primi infusori sottocutanei di insulina, sperimentati insieme a Quirico Carta (primario ospedaliero alle Molinette della prima Diabetologia del Piemonte) anche nei diabetici in dialisi, in realtà causando più problemi che vantaggi. L’infusione era programmabile e modulabile, ma nei modelli in sperimentazione a quel tempo non c’era un feedback automatico. La prima drammatica interruzione di infusione, verificatasi per esaurimento della batteria, produsse iperglicemia e iperpotassiemia, per fortuna non fatali ma molto stressanti per chi aveva la responsabilità del caso, oltre che per il paziente.

Vercellone ci aveva spinti a sperimentare le possibilità di riutilizzo su larga scala dei dializzatori ad uso singolo, già praticato da Stanley Shaldon in Inghilterra agli inizi degli anni Sessanta. E così, quando a metà degli anni Settanta, in conseguenza delle difficoltà economiche derivate dalla crisi petrolifera, si passò dalla ricerca all’applicazione clinica di routine, potemmo superare indenni le restrizioni di forniture (pur in mezzo a molte polemiche), dedicando sempre particolare attenzione alla qualità delle procedure operative [12].

In quello stesso periodo mi capitò un fatto curioso. Dovevo presentare negli Stati Uniti un lavoro multicentrico sull’esperienza di dialisi peritoneale nei diabetici, anche a nome di colleghi di altre città (tra i quali il caro amico Alberto Cantaluppi che in quegli anni lavorava a Milano, al Croff). L’autobus per Malpensa venne rallentato da un’abbondante nevicata e mentre entravamo nell’area aeroportuale con più di due ore di ritardo assistemmo al decollo del nostro aereo. Quasi tutti gli altri passeggeri rientrarono a casa, e a me venne proposto un volo per il Texas che però sarebbe arrivato a destinazione solo qualche ora dopo la prevista presentazione della nostra ricerca. Con dispiacere rinunciai. Con mia grande sorpresa, dopo qualche settimana ricevetti una lettera di complimenti per la ricerca, e soprattutto per la qualità della mia presentazione, da parte del presidente del congresso che inoltre mi invitava a sottoporre il lavoro per la pubblicazione. In effetti pubblicammo l’articolo [13], ma l’insegnamento che trassi da quell’esperienza, e che mi sarebbe servito per gli anni a venire, era che non bisogna mai prendersi troppo sul serio!

L’età dell’oro

Un altro campo di azione è stato l’ambulatorio di pre-trapianto, che in quegli anni significava soprattutto preparare i pazienti alla immissione in lista di attesa a Milano e in altri centri esteri vicini. I contatti con l’organizzazione dei trapianti Nord Italia Transplant hanno comportato la collaborazione con gli immunologi Claudia Pizzi, Francesca Poli e Mario Scalamogna, sviluppando una conoscenza e una stima reciproca che sarebbe andata avanti per decenni, anche dopo la nascita del nostro Centro Trapianti.

Questo impegno è continuato anche negli anni successivi quando finalmente anche Torino ha reso esecutivo tutto il programma. Tale lavoro ha rappresentato una tappa importante nella fase di costruzione della rete piemontese, che seppur formalizzata solo dopo qualche decennio, ha costituito un elemento fondamentale per il collegamento, l’aggiornamento professionale e la garanzia di uniformità nell’assistenza nefrologica della nostra regione, un modello per tutto il territorio nazionale. Quel periodo, con beneficio di inventario, corrisponde all’avvio della mia seconda vita nefrologica.

Verso la fine degli anni Settanta cominciammo l’attività di preparazione del programma trapianto in stretta collaborazione con chirurghi vascolari, urologi, anestesisti sotto il coordinamento dell’immuno-genetista Emilio Curtoni, con ripetute frequentazioni ai centri di Lione e Bruxelles, dove molti dei nostri pazienti erano stati trapiantati. E finalmente, il 5 novembre del 1981 fu possibile effettuare il primo trapianto a una nostra paziente in dialisi da anni (Figura 8). Questa fase, per noi pionieristica, è stata sicuramente la più coinvolgente per tutto il nostro gruppo.

Per alcuni giorni Beppe Segoloni ed io ci alternammo 24 ore su 24 nella nostra terapia subintensiva e prima della fine dell’anno questa entusiasmante esperienza si sarebbe ripetuta altre 5 volte. Il programma si incrementò rapidamente con una partecipazione e una crescita corale di tutti i servizi coinvolti (radiologia, laboratorio, nutrizione clinica) e di tutto l’ospedale, così come della nostra vita professionale. Quanti ricordi, quante emozioni! La più forte, a cui non ho fatto l’abitudine per anni, era l’immagine delle prime gocce di urina che sgorgavano dall’uretere non ancora collegato alla vescica del ricevente, subito dopo il declampaggio delle anastomosi vascolari.

Nella Terapia Subintensiva Post-trapianto eravamo un gruppo unitissimo di medici, infermieri, tecnici e ausiliari. Seguendo il modello esemplare di Beppe Segoloni, vivemmo un periodo indimenticabile uno a fianco dell’altro senza limiti di tempo e di fatica fisica e mentale. Ho davanti a me, tra le altre, l’immagine di Dino Malfi (che qualche anno dopo diede un contribuito operativo fondamentale all’avvio del centro trapianti di Novara), di Giuseppe Squiccimarro, di Marina Messina (che continuò la sua attività con grande passione e riconosciuto apprezzamento fino al pensionamento), di Maddalena Gallizio, prima coordinatrice del gruppo infermieristico, e di Valerio Pastorutti, suo successore.

Degli innumerevoli episodi degni di menzione ricordo un sanguinamento a nappo in un paziente espiantato dopo un brutto rigetto e che solo dopo due trasfusioni dirette di sangue fresco riuscimmo ad arrestare. I due donatori isogruppo erano i due nefrologi che stavano assistendo il paziente: Beppe Segoloni e il sottoscritto.

In quel periodo, contrariamente alla pratica corrente in programmi più consolidati, utilizzavamo entrambi i reni di un donatore, in due interventi consecutivi e con conseguenti tempi di ischemia fredda più lunghi per il secondo. Era quindi molto importante poter prevenire il danno renale acuto, a maggior ragione avendo a disposizione come farmaco immunosoppressore solo la ciclosporina. All’Hôpital de la Pitié Salpêtrière di Parigi avevo apprezzato l’esperienza del professor Luciani e del suo gruppo che con un riempimento idrosalino del ricevente, massiccio e monitorato con la misura continuativa della pressione arteriosa polmonare, riduceva significativamente l’incidenza di necrosi tubulare post-trapianto. Questo protocollo, con la collaborazione operativa dei rianimatori, diventò routine anche da noi con ottimi risultati [14].

La terza vita

Dopo 23 anni, nel 1991, le nostre strade si separarono e mi allontanai, almeno fisicamente, dalla casa madre diventando primario (lavorando con Mario Salomone, poi primario a Chieri dal 2007 al 2022, e a Maria Cristina Torazza) e aprendo il Centro Nefrologia e Dialisi all’Ospedale Valletta, sede piemontese dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico I.N.R.C.A. di Ancona, poi passato sotto l’amministrazione dell’ASL 1 di Torino. Dal 1999 ho diretto il Centro dell’Ospedale CTO/Maria Adelaide (con Daniela Bergamo, Chiara Cogno, Daniele Damiani, Susanna Hollò, Filippo Mariano e, dal 2005, Stefano Maffei, primario ad Asti dal 2016), fino al pensionamento, per raggiunti limiti di età, nell’agosto del 2012.

Da allora, in quella che considero la quarta vita da nefrologo, sto continuando a esercitare, anche in istituzioni caritatevoli, confessionali e non solo, a Torino e con una breve esperienza in Tanzania, all’ospedale di Ikonda (Missioni della Consolata).

Adesso si sta avvicinando la quinta vita ma, speriamo, senza fretta!

 

Margherita Dogliani

I miei inizi in Nefrologia

Mio padre aveva una officina in cui si lavorava il ferro.

Un giovane medico neolaureato (Sandro Alloatti) andava in officina a presentargli un progetto per un apparecchio di dialisi peritoneale semiautomatica. Dopo alcuni incontri, mio padre gli raccontò che aveva una figlia iscritta al quarto anno di medicina che desiderava iniziare a frequentare qualche reparto ospedaliero.

Il giovane Alloatti esaltò la bellezza del reparto in cui lavorava, “prima di tutto il paziente, poi gente giovane, terapie all’avanguardia, condivisione di progetti e iniziative” e gli disse che mi sarei dovuta presentare il giorno X alle ore Y, nel reparto delle Molinette situato al 3° piano della Clinica Medica che allora era diretta dal professor Giulio Cesare Dogliotti.

Alla fine della scala c’era ad aspettarmi una infermiera che mi avvisò che Alloatti non c’era (avrei saputo dopo che, frequentando la Clinica Medica come volontario, per guadagnarsi qualche spicciolo andava, su chiamata, a fare il medico “prelevatore” in un ambulatorio della periferia di Torino). Avrei però potuto presenziare ad un piccolo intervento chirurgico che stava eseguendo Giuseppe Segoloni, anche lui giovane medico neolaureato. L’infermiera mi introdusse nell’unica camera “singola” del reparto (la numero 25), non certo una sala operatoria, dove Segoloni stava allestendo uno shunt artero-venoso sul braccio di un signore che era stato impallinato durante una seduta di caccia (gli avevano sparato accidentalmente ad una gamba). Erano lontani da qualunque centro abitato, con molta fatica dopo aver perso tantissimo sangue erano finalmente arrivati all’automobile ed avevano raggiunto l’ospedale di Asti. Dopo alcuni giorni l’avevano trasferito alle Molinette perché era sopraggiunto un “blocco renale” ed ora doveva fare la dialisi per la quale bisognava avere a disposizione un’arteria (Segoloni stava appunto infilando un tubicino di “plastica” nella arteria radiale) ed una vena nella quale sarebbe stato infilato un altro tubicino. L’arteria e la vena sarebbero state connesse all’esterno del polso in modo permanente e sarebbero state disconnesse solo per eseguire il trattamento dialitico (Figura 6). Alla fine dell’intervento, mi mandarono in sala dialisi per vedere che cosa fosse questa metodica ‒ in Piemonte, a quel tempo, la dialisi c’era solo a Torino, alle Molinette. Poi, a fine mattina arrivò Alloatti, che mi fece andare in corsia per affidarmi ad un medico del reparto “per fare il giro”… ma in reparto il giro era già finito.

Il giorno dopo mi chiesero se sapevo misurare la pressione e mi affidarono al professor Franco Linari che “aveva le camere donne” e in quel momento era senza lo studente-allievo e aveva quindi bisogno di uno studente-allievo supplente.

Dopo qualche giorno, programmarono una biopsia renale ad una giovane paziente con sindrome nefrosica. A quell’epoca, le biopsie renali le faceva l’urologo professor Renato Martin Perolino e Linari mi fece andare con lui per vedere in che cosa consistesse questa procedura, che era piuttosto complessa. Era stata eseguita una “stratigrafia renale” per individuare le ombre renali ed essere sicuri che i reni ci fossero tutt’e due e che fossero di dimensioni normali. La paziente era grassottella e mal sopportava la posizione prona con il cuscino sotto la pancia. L’urologo infisse l’ago ed estrasse un frustolo di “parenchima renale dubbio”. Discussione fra Linari e Perolino, che decisero di mandare a valutare l’idoneità del frustolo prelevato, mentre la paziente restava prona sul letto della saletta operatoria. Erano le prime volte che si esaminava il tessuto renale non solo con il microscopio ottico ma anche con quello elettronico e bisognava essere certi che nel frustolo ci fossero dei glomeruli. “Anche uno solo basta – dicevano – perché al microscopio elettronico si vede la fusione dei pedicelli e la diagnosi è fatta”. Mandarono me a portare il prezioso materiale perché non c’erano né un’infermiera né un portantino affidabili: l’Anatomia Patologica era lontana, in un altro padiglione, bisognava attraversare il giardino, e di sicuro avrebbero perso tempo a cercare lo studio del professor Francesco Mollo. “Mi raccomando di corsa”, mi dissero. Arrivai trafelata e mi fermai a vedere: il frustolo conteneva alcuni glomeruli, i mitici corpuscoli del Malpighi.

Da allora mi sentii allieva della Nefrologia anche se, a rigor di logica, la “Nefrologia” non esisteva ancora: le camere di degenza, infatti, avevano la denominazione “cardio-renali”.

Il sommo capo era il professor Antonio Vercellone, aiuto di Giulio Cesare Dogliotti.

I ricoverati erano prevalentemente uremici nei quali bisognava cercare di mantenere bassa l’azotemia, controllare l’equilibrio acido-base (allora si eseguiva la riserva alcalina) ed il potassio, in attesa che l’assistente sociale (Anna Mirone, una valorosa signorina mandata dall’Ordine di Malta) riuscisse a trovare un ospedale in cui potessero essere sottoposti a dialisi. Anna riuscì a trovare dei posti persino a Ostra, nelle Marche, che non so per quale motivo poteva accogliere pazienti “stranieri”.

Per resistere, per non far salire troppo la azotemia, bisognava ingegnarsi nella dieta. Ad un certo punto inventammo una bomba calorica ipoproteica a base di rosso d’uovo, zucchero, miele di corbezzolo (perché amaro), farina di tapioca e rum che Vercellone giudicò eccellente, e quando Jules Traeger (nefrologo trapiantatore di Lione) venne in visita al reparto, gliela fece assaggiare. Forse era per il contenuto in rum che Traeger giudicò la nostra pappa “buona”.

La carenza di “posti rene” ci indusse a programmare la dialisi domiciliare, anche se, oltre ad ostacoli tecnici, vi erano molte remore legali per l’affidamento di tecniche mediche a “non sanitari” quali in effetti erano i pazienti ed i loro famigliari.

Il problema etico della carenza di posti dialisi mi angosciava. Il mio professore di filosofia al Liceo, Giovanni Guastavigna aveva sviluppato molto il pensiero Kantiano e qui si trattava di adeguarlo ai tempi ed ai progressi della medicina. Negli Stati Uniti prevaleva il criterio del first arrived, first served, ma da noi era impossibile applicare un criterio del genere.

Vercellone faceva acquistare ai pazienti che avevano disponibilità economiche un “rene artificiale” e poi spiegava all’acquirente che l’apparecchiatura sarebbe stata usata anche per altri pazienti. Ma c’era il problema di chi avesse le indicazioni per la dialisi, perché comunque era un trattamento che non tutti potevano eseguire o tollerare. Furono momenti difficili, di crescita non solo medica, ma anche e soprattutto personale.

Ricordo un primo maggio in cui aspettavamo un giovane pastore di cui non riesco a ricordare il nome, ma il suo viso ed il suo parlare mi accompagnano tuttora. Arrivava da una sperduta vallata del Canavese, e qualche volta non veniva alla dialisi perché non trovava nessuno che lo portasse a Torino. Con la primavera si era trasferito in una grangia sulla montagna, in mezzo a prati tutti bianchi di narcisi e ci aveva promesso che ce ne avrebbe portato un mazzo. Quel giorno il giovane pastore non arrivava, forse perché pensava che essendo il primo maggio, si facesse festa. Preoccupati, lo mandammo a cercare dai carabinieri del paese vicino, che lo trovarono morto sulla porta di casa, forse per iperpotassiemia. In casa, sul tavolo, c’era il mazzo di narcisi che ci aveva promesso…

Mi laureai nel 1972 proprio con una tesi sulla dialisi domiciliare che mi fu assegnata dal professor Giuseppe Piccoli e l’anno seguente fui assunta.

Nel 1973, insieme al collega Giuliano Giachino e al professore Pierfranco Martini fummo incaricati da Vercellone di aprire un Centro Dialisi ad Assistenza Limitata (il cosiddetto CAL) nei locali di un palazzo di Corso Vittorio Emanuele che erano stati utilizzati come Banca fino a pochi anni prima. Il magazzino si trovava nel caveau della vecchia banca e una volta dovetti andare alla stazione di Porta Nuova a ingaggiare dei facchini (allora c’erano ancora) per scaricare il materiale perché non avevamo ausiliari disponibili ed il camion bloccava il traffico del Corso.

Restai nel reparto di Nefrologia, prima come assistente e poi come aiuto, fino al 1995, quando andai a fare il primario in un ospedale della provincia di Torino.

Ero convinta che il Centro delle Molinette dovesse continuare ad essere un hub (centro di smistamento e condivisione) per tutti i Centri di Nefrologia del Piemonte, ma i tempi e le persone erano cambiati. C’erano l’aziendalizzazione e la concorrenza fra aziende sanitarie, anche se io continuavo a credere che il paziente dovesse essere curato al meglio dal Sistema Sanitario indipendentemente dal luogo di residenza.

“Il paziente al centro”: questa era stata la motivazione che mi aveva fatto fermare in Nefrologia nell’autunno del 1969, oltre a colleghi giovani, terapie all’avanguardia, condivisione di idee e di iniziative.

 

Giovanni Mangiarotti

Approdai alla Nefrologia delle “Molinette”, affidata al professor Antonio Vercellone (allora aiuto del Direttore della Clinica Medica professor Giulio Cesare Dogliotti) nel 1970, subito dopo la laurea, abbandonando il Laboratorio Centrale di Analisi Cliniche Baldi e Riberi, dove ero stato per oltre un anno come allievo-capo interno.

In un primo tempo ero stato tentato da Medicina Legale, materia studiata con impegno e grande interesse che mi fruttarono, dopo una rocambolesca quanto sconsiderata discussione in corso di esame (lasciato per ultimo) con l’allora scorbutico Direttore professor Renzo Gilli sul certificato medico e le sue implicazioni, un bel 30 che al momento mi aveva gasato.

A convincermi nella scelta per la Nefrologia e Dialisi fu l’entusiasmo contagioso di Sandro Alloatti, vecchio compagno di studi che frequentava già il reparto dal quarto anno di Medicina insieme a Beppe Segoloni e Giuliano Giachino.

Così il 23 luglio del 1970 entrai, come Medico Interno dell’Istituto Clinica Medica ‒ Sezione di Nefrologia e Dialisi, a far parte del gruppo di cui condivisi subito lo spirito pionieristico e l’amara consapevolezza della carenza di posti dialisi, causa di drammatiche selezioni o, in alcuni casi, di trasferte bisettimanali dei pazienti in altri Centri Dialisi regionali o addirittura extraregionali ove vi erano ancora posti disponibili.

Frequentavano già il reparto Piero Stratta, Margherita Dogliani, Giorgio Triolo e il dottor Roberto Ragni. C’erano anche il professor Dario Varese, il dottor Pier Luigi Cavalli ed il professor Franco Linari che ci lasciarono dopo poco per altre destinazioni.

Dopo qualche mese s’aggiunsero Caterina Canavese, Pier Franco Martini, Alberto Jeantet e Francesco Quarello.

Molti altri successivamente, in qualità di studenti e specializzandi frequentarono la Nefrologia e Dialisi delle Molinette ed entrarono a far parte della nostra squadra definitivamente o in attesa di destinazione in altre sedi. Tra questi Giovanni Camussi che fece una brillante carriera universitaria e scientifica.

Inizialmente tutti ci occupavamo un po’ di tutto per poi poco per volta focalizzarci su determinati temi.

Ad indirizzare le nostre attività dialitiche e nefrologiche ed a sovrintendervi era Giuseppe Piccoli, aiuto di Vercellone e sua interfaccia.

Tra il personale non medico voglio ricordare Michele Rotunno, tecnico responsabile del laboratorio nefrologico interno e Anna Mirone, assistente sociale e successivamente referente regionale per la Nefrologia, Dialisi e Trapianto.

Della mia fase di formazione, quando ero ancora spaesato e titubante, mi piace ricordare un aneddoto che anche oggi mi fa sorridere. Un pomeriggio Alloatti mi disse: “Bene, oggi rimani tu di guardia in sala dialisi, se hai bisogno mi chiami” (non esistevano ancora i cellulari!) e se ne andò affidandomi di fatto alla tetragona ed espertissima caposala Lidia Rosano. Dopo un po’ Lidia mi chiamò dicendomi “Dottore, Calogero non va!”. Convinto si trattasse di un paziente, presi lo sfigmomanometro e la seguii in uno stanzone dove c’era un grande apparecchio con tante spie rosse accese ed allarmi (il mitico CAL 20 della Dasco: preparatore automatico centralizzato del bagno di dialisi), collegato ad un vascone di raccolta di oltre 1.000 litri con pompe di distribuzione ai monitor in sala dialisi, il cosiddetto sistema centralizzato. Erano apparecchiature che io, appena arrivato, non avevo ancora messo a fuoco. Lidia, dopo essersi goduta il mio repentino smarrimento, disse “Non lo conosce?”. Evitai la stupida battuta sulla punta della lingua “Piacere” e confessai “No”. “Bene allora glielo presento io!”.

Così io e “Calogero” diventammo amici e mi staccai da lui con malinconia quando potemmo introdurre poco a poco monitor singoli, fino ad allora ed ancora per molto tempo inutilizzabili per problemi strutturali e tecnici.

La “personalizzazione” del bagno di dialisi, quando ritenuta necessaria, veniva ottenuta usando “vaschini” di circa 150 litri di bagno-base “corretti” con opportune dosi di concentrato o elettroliti che, dopo l’uso, venivano sciacquati e clorati. Tutte operazioni che richiedevano massima attenzione e controllo (formula, test emolisi, tracce di cloro, etc.).

Al mio arrivo in dialisi i trattamenti erano ancora effettuati con i reni a piastre di Kiil: sedute di circa 12 ore due volte alla settimana che quindi non consentivano i doppi o tripli turni giornalieri. Fogli di cellophane (elemento dializzante) venivano montati sulle piastre e poi opportunamente formalinati e sciacquati durante la notte (operazione che prendeva diverse ore) (Figura 5 e Figura 7). Sempre presente il rischio di persistenza di tracce di formaldeide (mi successe una volta, fortunatamente senza gravi conseguenze).

Sempre in agguato gravi ipotensioni, crisi pirogeniche talora intense e crampi debilitanti intercorrenti.

I filtri a rotolo adottati successivamente richiedevano un riempimento ematico variabile in funzione del flusso di sangue e della pressione nel circuito ed erano piuttosto fragili. Non rare le “rotture”, di solito di lieve entità con comunque necessità di chiusura e ripartenza della seduta.

Una mattina venne a farci visita in dialisi il direttore della Clinica Medica Dogliotti che si soffermò al letto di una paziente: improvvisamente il filtro esplose schizzando sangue fino al soffitto. Il professore, basito, assistette al nostro rapido intervento di efficace soccorso e poi se ne andò biascicando “Bravi, bravi!”. Non lo vidi mai più in dialisi!

L’accesso vascolare all’emodialisi cronica era allora ancora rappresentato dallo shunt artero-venoso esterno in teflon e silastic (Figura 6), antesignano del catetere venoso centrale (CVC). Le sue frequenti trombizzazioni obbligavano ad interventi tempestivi, spesso notturni, di disostruzione, più volte reiterati, da parte del reperibile del gruppo, tanto che ad un certo punto si decise per una guardia attiva notturna in reparto che copriva anche la corsia di Nefrologia, pur mantenendo sempre una reperibilità. D’altra parte, un medico doveva sempre essere presente all’apertura del mattino alle 7. In quegli anni, pur rimanendo ancora l’accesso di elezione per i casi acuti, lo shunt artero-venoso esterno (sul cui impianto quasi tutti eravamo diventati autonomi) fu progressivamente sostituito dallo shunt o dalla fistola artero-venosa interna. L’introduzione di quest’ultima ha costituito un settore di primario interesse nella nostra attività ed io mi ci dedicai con passione fin da subito, tallonando Beppe Segoloni che aveva acquisito particolare competenza. Realizzammo anche originali varianti rispetto alla classica fistola di Cimino-Brescia e alla tabacchiera anatomica distale, specie alla piega del gomito. Acquistammo anche velocità di esecuzione: in un caso (semplice) io toccai i 30 minuti e Beppe 20, da cute a cute!

In questa attività furono poi anche coinvolti stabilmente Alfonso Pacitti e saltuariamente altri colleghi della squadra dialitica e specializzandi.

Dal 1973 iniziammo gli “innesti” sui pazienti con insufficiente patrimonio vascolare autoctono ab origine o per il suo esaurimento in itinere. Inizialmente si utilizzò materiale autologo (safena prelevata al paziente stesso) o omologo (proveniente da safenectomia fornitoci dalla Chirurgia Vascolare), poi materiale eterologo (carotide bovina), e infine sintetico (politetrafluoroetilene). A proposito di quest’ultimo, ricordo la mia strenua battaglia, vinta, per ottenere dai fornitori pezzature più corte (40 cm anziché 80) per risparmiare ed evitare la risterilizzazione dei tratti residui.

Frequente era il ricorso a strategie conservative e di salvataggio: disostruzione (declotting) farmacologica con urochinasi o mediante catetere di Fogarty, angioplastica percutanea, posizionamento di stent, revisione chirurgica, anastomosi sui monconi.

L’esperienza acquisita in questo campo, le numerose pubblicazioni, le relazioni a congressi nazionali ed internazionali, la partecipazione a corsi di aggiornamento sull’argomento e la nostra disponibilità ci fecero assumere un ruolo di riferimento regionale ed extraregionale (specie in zone del Sud, dove, scherzando, dicevamo di avere “clienti fissi” o un “collegio elettorale”).

Nel 1972 nacque la Divisione di Nefrologia e Dialisi con Vercellone primario ospedaliero e più tardi direttore della Struttura Complessa Ospedaliero-Universitaria di Nefrologia Dialisi e Trapianto. Nello stesso anno, Vercellone fu nominato anche Direttore della Scuola di Specializzazione in Nefrologia Medica dell’Università di Torino, anagraficamente la prima in Italia (avviata nel 1969 sotto la Direzione del professor Dogliotti), che ha avuto numerosissimi allievi, alcuni dei quali famosi.

Il 1° gennaio 1972 venni assunto come assistente (avevo uno stipendio!) e, nel 1973, conseguii la specialità in Nefrologia Medica.

L’avvio del programma di Dialisi Domiciliare intrapreso nel 1970, se pur con qualche patema in assenza di norme legislative ad hoc, poi continuato dal 1971 presso un locale decentrato concesso dal Sovrano Militare Ordine di Malta; l’apertura nel 1973 di un Centro di Emodialisi ad Assistenza Limitata (primo in Italia) con dieci postazioni, anch’esso decentrato (a cui ho nel tempo saltuariamente contribuito); l’alternativa della dialisi peritoneale intermittente e successivamente continua come trattamento cronico; l’aggiornamento tecnologico delle attrezzature e soprattutto l’adozione di membrane dializzanti più efficienti che consentivano una soddisfacente depurazione in 4-5 ore con conseguente possibilità di doppi e poi anche tripli turni giornalieri; l’attivazione in Regione di altri Centri Ospedalieri ed Extraospedalieri consentirono l’agognato raggiungimento del “pieno trattamento” sul territorio, sollevando tutti dalle remore etiche che ci avevano a lungo turbato.

Il trattamento, come caparbiamente voluto da Vercellone, fu progressivamente esteso ai pazienti cosiddetti “ad alto rischio”. Ricordo pazienti giunti con azotemia molto elevata (uno quasi 1.000 mg/dl) sulla cui cute fiorivano evidenti uroliti o uremidi (“brina d’urea”).

Alla fine del 1974, Alloatti ci lasciò per seguire Giuseppe Piccoli, divenuto Primario della Nuova Astanteria Martini di Torino. Da allora il mio “mentore” (non soltanto per le fistole artero-venose) diventò Beppe Segoloni il cui supporto professionale ed umano ricordo con rinnovata gratitudine.

In quel periodo attrezzammo anche delle “sedi vacanza” (Loano e, successivamente, Albenga e Bardonecchia) gestite da nostro personale per pazienti domiciliari e ad assistenza limitata.

Nel 1977 ci furono a Roma i concorsi per le Idoneità Regionali ad Aiuto di Emodialisi e Nefrologia. Delle Molinette partecipammo io, Segoloni e Stratta. La sera stessa dopo la prova prendemmo il treno per il rientro a Torino ma salimmo sul vagone destinato a Ventimiglia. Stressati, ci addormentammo. Ad un certo punto io aprii gli occhi e vidi dal finestrino il mare. Ora sulla linea Genova-Torino il mare non si vede! Diedi subito l’allarme ma fui zittito con un “Dormi!”. Riuscii a convincerli solo ad Albenga. Ci precipitammo giù dal treno e aspettammo quello giusto dove cercai di impietosire il controllore per non pagare un altro biglietto. Intanto, Vercellone, che ci aspettava in servizio già al mattino, non si dava pace non vedendoci arrivare (“Ma dove sono finiti quei tre?”) e ci schernì per diverso tempo.

Nel 1978 mi trasferii per un anno, come aiuto-primario, alla dialisi di Biella che si voleva rendere autonoma dall’Urologia a cui era aggregata dal 1969, in attesa dell’imminente idoneità a primario che fu però sospesa per alcuni anni. Rientrai quindi alle Molinette alla scadenza del periodo di aspettativa.

Il 5 novembre 1981 venne effettuato il primo trapianto di rene a Torino (io assistetti emozionato all’intervento) (Figura 8). L’attività di trapianto, indubbiamente frutto di un lavoro pluridisciplinare, è costantemente proseguita grazie anche alla dedizione ed al grande impegno di Segoloni, appassionato paladino e tenace propulsore. Ne sono testimonianza i lusinghieri risultati ottenuti.

Nel 1986 divenni aiuto corresponsabile, posizione trasformata poi in responsabile della neo-costituita Struttura Semplice di Dialisi con responsabilità dell’attività dialitica complessiva.

Di pari passo con l’attività assistenziale svolsi anche quella didattica e formativa nell’ambito della Scuola di Specializzazione e dei Corsi di Aggiornamento obbligatori indetti dalla Regione Piemonte estesi anche al Personale Paramedico.

Superata la fase ancora un po’ pionieristica degli anni Settanta ed acquisito il pieno trattamento, l’obiettivo della dialisi si focalizzò sul miglioramento della tolleranza alla stessa e della qualità e durata di vita del paziente uremico, con l’obiettivo, dove possibile, del gold standard, rappresentato dal trapianto renale.

A ciò contribuirono numerosi fattori: il progressivo abbandono del tampone acetato; l’avvento di membrane più biocompatibili e performanti, sterilizzate con metodiche alternative all’ossido di etilene, e di concentrati sterili; l’aumentata consapevolezza dell’importanza della purezza dell’acqua utilizzata, sia dal punto di vista microbiologico che chimico; l’introduzione di metodiche alternative alla bicarbonato-dialisi sia per l’efficienza che per la tolleranza (emofiltrazione e emodiafiltrazione); la rivalutazione dell’impatto delle “medie molecole”, in termini non solo di “amiloidosi dialitica” ma anche di micro-infiammazione cronica, aumentato dello stress ossidativo, etc. In alcuni casi selezionati avviammo l’emofiltrazione anche a domicilio.

Questo processo necessariamente progressivo richiese un grandissimo impegno mio personale e dei colleghi, anche in considerazione degli elevati costi di impianti, apparecchiature e materiali.

Voglio anche ricordare all’inizio degli anni Ottanta l’avvento del vaccino per l’epatite B. Per me, per i colleghi Stratta e Canavese, e per il personale che l’aveva già contratta in precedenza fu troppo tardi: io dovetti rimanere a casa a curarmi per ben 6 mesi, a partire dal luglio 1982.

A circa 30 anni dalla loro apertura, anche le Sedi dell’Assistenza Limitata di Corso Vittorio e di Dialisi Domiciliare nei locali dell’Ordine di Malta, nonostante i lavori di manutenzione ed adeguamento nel tempo effettuati, richiedevano opere strutturali ed impiantistiche radicali. Venne quindi allestito un nuovo grande Servizio di Assistenza Limitata (2 sale dialisi indipendenti con 10 postazioni ciascuna) in una sede ospedaliera dismessa (San Vito) ai piedi della collina torinese, dove i pazienti vennero trasferiti. Sovrintesi personalmente all’intera operazione (progettazione, realizzazione e logistica), in collaborazione con colleghi Alberto Jeantet, Caterina Canavese, e Giorgina Piccoli.

L’attività non iniziò sotto i migliori auspici: il giorno dell’inaugurazione uno sciame di vespe, provenienti dal circostante parco, invase i locali creando non poco scompiglio.

Per quanto riguarda l’insufficienza renale acuta, all’inizio dell’era dialitica il trattamento veniva effettuato per lo più con dialisi peritoneale (manuale) in sala dialisi o al letto del malato. Ricordo anche in quel periodo trattamenti con dialisi extracorporea in sede rianimatoria portando tutte le volte dalla sala dialisi un monitor ed un vaschino contenente il bagno di dialisi.

Nel corso degli anni, la tipologia dei pazienti con insufficienza renale acuta cambiò e il numero aumentò in modo esponenziale, soprattutto relativamente ai pazienti che richiedevano un trattamento in unità intensiva e semintensiva. Basti pensare che alla fine degli anni Novanta afferivano alle Molinette e in sedi associate, per necessità dialitiche, pazienti da ben 16 delle suddette unità. Naturalmente tutto ciò fu reso possibile dall’emofiltrazione in tutte le sue varianti applicative, continue, ed intermittenti.

Nel novembre 2010, a 67 anni e dopo oltre 40 anni (credo) di onorato servizio andai in pensione.

Nel prologo della sua ultima lezione ufficiale alla Scuola di Specializzazione (1998) Vercellone, rivolgendosi in particolare ai più giovani, ebbe a dire che “il passato è ovvio solo per chi l’ha vissuto”. In noi “più vecchi” il passato risveglia emozioni a volte assopite e l’orgoglio, forse un po’ vanitoso, di essere stati testimoni partecipi di quell’evoluzione partita dalla sfida lanciata nel 1943 da Willem Kolff, inventore del rene artificiale, e sintetizzata nella famosa triade: life, death and a washing machine.

 

Caterina Canavese

Avevo deciso di fare la tesi con il professor Mario Dianzani in Patologia Generale perché erano davvero molto interessanti le lezioni che introducevano nel mondo affascinante dei meccanismi patogenetici alla base dello sviluppo delle malattie, e mi piaceva conoscere le regole del funzionamento cellulare, le reazioni biochimiche, la differenza tra fisiologia e patologia, ma più passava il tempo e più mi rendevo conto che mi mancava qualcosa… mi mancava il rapporto con i pazienti.

E perciò, anche se ormai avevo avviato la preparazione della tesi dal titolo “Attuali conoscenze sulla inibizione della crescita dei tumori da parte di interferon e induttori di interferon”, d’accordo con Dianzani iniziai anche a frequentare diversi reparti della Clinica Medica, per capire quale avrebbe potuto essere il “mio ambiente” in cui poi procedere con la specializzazione. Così, nel 1971 sono finita al terzo piano della Clinica Medica Generale dove il professor Antonio Vercellone, Aiuto della Clinica Medica, aveva quattro camere di degenza riservate al ricovero di pazienti con patologie renali (si chiamava “Degenza Cardio-Renale”).

Ed ecco quello che mi ha fatto fermare proprio in quel reparto: il modo in cui faceva il “giro” il professor Giuseppe Piccoli, da anni collaboratore e braccio destro di Vercellone, che non mancava mai di partecipare (od organizzare, in caso di assenza del “Capo”) la visita dei pazienti ricoverati, tutti i giorni, mattino e pomeriggio. Tutti insieme, medici, infermieri e studenti, si tiravano giù le lenzuola, si visitavano i pazienti, si controllava la diuresi, si guardava il risultato degli esami di laboratorio e si verificavano le terapie. E allora sono rimasta lì per tutto l’anno precedente la discussione della tesi. Piccoli interrogava sempre anche noi studenti per sapere le nostre ipotesi, i nostri dubbi, le nostre proposte, tutti i giorni compresi il sabato, la domenica e le feste comandate. E questo stimolava la nostra curiosità, l’interesse scientifico e l’attenzione per i pazienti.

Dopo la discussione della tesi, effettuata nel luglio 1972, mi sono iscritta alla scuola di specializzazione in Nefrologia Medica, di cui Vercellone era diventato direttore. Continuai così a frequentare quel gran bel reparto dove anche gli studenti, i medici frequentatori, e gli specializzandi venivano coinvolti quotidianamente dai nefrologi già operativi, insieme a Vercellone e a Piccoli (mi ricordo in particolare i dottori Ragni, Segoloni, Mangiarotti, Stratta, Giachino, Alloatti, Triolo) nel “giro in corsia”, nel “giro in dialisi”, nelle consulenze negli altri reparti, e nelle visite ambulatoriali.

Piastrine, fibrinogeno, trombi e coaguli

Erano gli anni in cui erano stati da poco introdotti sia il concetto di “Disciplina Nefrologica”, proposto da Jean Hamburger nel 1960 come “Specialty to evaluate and treat patients with kidney disease”, sia di “Trattamento Dialitico” nell’insufficienza renale cronica, avviato alle Molinette nel 1967.

A me interessavano sia le “nefriti” che la dialisi, ma all’inizio sono rimasta molto colpita soprattutto dal problema di “come riuscire a non far coagulare il sangue che scorreva dentro le apparecchiature per la dialisi e veniva a contatto con le membrane artificiali dei filtri” (Figura 19) in un contesto come quello dell’insufficienza renale in cui l’equilibrio tra emostasi e trombosi entra in crisi proprio a causa dell’uremia.

Ed è stato proprio Vercellone a rappresentare un punto di riferimento che mi ha consentito di seguire e approfondire questo mio primo particolare interesse scientifico, e poi anche quelli successivi.

Non dimenticherò mai la sgridata senza complimenti che mi fece la prima (e ultima…)  volta che arrivai in ritardo ad una riunione organizzata nel suo studio. Ma non dimenticherò mai neanche il regale aplomb anglosassone con cui mi accolse quando io, da poco laureata, bussai senza alcun preavviso alla porta del suo studio per chiedergli come si potesse organizzare un contatto con l’Istituto Mario Negri di Milano per discutere sulla applicabilità nella pratica clinica quotidiana del dosaggio dei “fattori di degradazione della fibrina”, quelle mitiche sostanze che avrebbero potuto svelarci i segreti di quanto accadeva in tutto l’assetto coagulatorio nel corso delle malattie renali. E grazie a Vercellone incontrai in quell’istituto il professor Giovanni de Gaetano e la professoressa Benedetta Donati, che da allora sono sempre stati i miei mentori per tutto quello che riguardava “piastrine, fattori della coagulazione, coaguli, fibrinolisi, problemi emorragici e trombotici” nei pazienti uremici, in corso di trattamenti dialitici diversi e di diverse patologie renali, argomenti che non hanno mai smesso di appassionarmi. Tant’è vero che la tesi di specialità in Nefrologia Medica che ho discusso il 26 novembre 1975 presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Torino era proprio dedicata a “trombi e coaguli”, e aveva come titolo “Deficit funzionale della piastrina uremica: astenia di un muscolo striato?”.

E fu sempre Vercellone che, proprio subito dopo la specializzazione, quando iniziai l’attività come assistente medico nel reparto da lui diretto, mi ha consentito di avviare, a fianco del lavoro assistenziale, una attività di ricerca in qualità di responsabile del settore inerente lo “studio dei problemi di coagulazione correlati alla nefrologia e di biocompatibilità legati alla dialisi” nel laboratorio annesso alla Cattedra di Nefrologia, accanto al laboratorio di Immunopatologia di Giovanni Camussi. Nel corso del tempo questi due laboratori si sono affiancati allo storico Laboratorio Nefrologico diretto da Michele Rotunno. Ed è nella suddetta struttura che, dal 1976 al 1989, ho seguito 16 studenti della facoltà di Scienze Biologiche dell’Università di Torino, durante la frequenza biennale prevista dal loro piano di studi. Insieme preparavamo e discutevamo con profitto le tesi di laurea che hanno poi rappresentato la base per scrivere con passione ed entusiasmo, insieme agli altri nefrologi interessati, i lavori scientifici da presentare ai congressi e poi pubblicare. Tutto questo in un’epoca in cui non era certamente disponibile la tecnologica che abbiamo oggi, e si passavano le notti a preparare le diapositive. E qui mi piace citare, come esempio, lo studio della modificazione dei parametri della coagulazione che avveniva nei pazienti in dialisi quando si utilizzava la tecnica del riutilizzo dei dializzatori [15].

Alluminio, bromo, rubidio e altri metalli in tracce

E intanto, contemporaneamente, aumentava la mia confidenza con il problema scientifico dell’“uremia” e del “trattamento sostitutivo dialitico”. Per questo motivo mi sono trovata a fronteggiare un contesto complesso e ricco di stimoli, tutti scaturiti da scoperte recenti, che mi hanno portato progressivamente ad occuparmi di specifici aspetti correlati all’ottimizzazione dei procedimenti dialitici e all’identificazione delle terapie più adeguate per la cura dei pazienti.

Prima di tutto, era da poco emerso in tutto il mondo un problema clinico di grande rilievo per i pazienti in dialisi, e cioè l’accumulo di alluminio dovuto sia alla contaminazione dei liquidi impiegati per le tecniche dialitiche che all’introduzione per via orale di chelanti del fosforo a base di alluminio.

Mi ricordo bene la mobilitazione di tutto il mondo nefrologico nazionale ed internazionale con lo scopo di trovare gli strumenti adatti per correre ai ripari, da una parte misurando i livelli di alluminio nel sangue e nelle soluzioni per la dialisi e dall’altra adottando le terapie chelanti capaci di allontanarlo dall’organismo [16]. Mi viene anche in mente quando alle 5 del mattino, prima di avviare le sedute dialitiche, si effettuava insieme al tecnico Franco Bertolin il giro di controllo delle apparecchiature che preparavano le soluzioni per la dialisi. E poi tutta l’attenzione quotidiana a cogliere i possibili sintomi da intossicazione da alluminio nei pazienti, e la collaborazione continua con i neurologi per valutarne i possibili segni nei tracciati elettroencefalografici. Ma ben presto diventò chiaro che l’alluminio era solo la punta dell’iceberg di tutte le possibili alterazioni da metalli in tracce da ricercare nei pazienti uremici che si potevano instaurare, sia a causa della ritenzione in corso di insufficienza renale, sia per il rapporto diretto con i liquidi impiegati per la dialisi (tenendo conto che i pazienti entrano in contatto con decine di migliaia di litri di dialisato nell’arco di un anno). Ed ecco che, ancora una volta con la totale disponibilità di Vercellone, è stato possibile attivare tutti gli incontri e le collaborazioni interdisciplinari più opportune e continuative con specialisti di diversi settori come quelli del “Laboratorio Tossicologia ed Epidemiologia Industriale” del CTO di Torino e della Commission of the European Communities, Environment Institute, Joint Research Centre-Ispra Site, Varese, Italy. Ciò ha permesso di approfondire il problema dell’intossicazione da metalli pesanti nel paziente uremico in dialisi, esteso dalle ricerche sull’alluminio alla valutazione delle possibili ripercussioni cliniche delle alterazioni di altri metalli in tracce, che potrebbero includere la deplezione di bromo e rubidio. Tutto questo mi ha portato poi a lavorare tra i coordinatori del Gruppo di Studio “Metalli in tracce” della Società Italiana di Nefrologia.

Ferro, anemia, calcio, fosforo e osteodistrofia

E non è ancora finita, perché poi ‒ a partire sempre da questo contesto ‒ ho preso confidenza anche con il ferro, che mi ha indirizzato in particolare verso il problema dell’anemia dei pazienti uremici. Altra passione scientifica che mi ha stimolato a cercare di chiarire meccanismi patogenetici, strumenti diagnostici e terapeutici.

E poi sempre l’interesse per i metalli ha attirato la mia attenzione verso il sovraccarico di stronzio, che è coinvolto negli squilibri calcio-fosforo correlati alle alterazioni dell’asse paratormone-vitamina D, responsabili dei meccanismi patogenetici dell’osteodistrofia uremica. E tutto questo mi ha portato a continuare ad occuparmi di questi aspetti specifici partecipando attivamente ai lavori dei Gruppi di Studio della Società Italiana di Nefrologia dedicati allo studio dell’anemia e dell’osteodistrofia uremica.

Radicali liberi dell’ossigeno e meccanismi perossidativi di danno tissutale

Voglio ancora ricordare un ultimo contesto scientifico in cui Vercellone mi ha dimostrato la consueta disponibilità ad iniziative di collaborazione interdisciplinare. Questa volta con il Dipartimento di Patologia Generale dell’Università di Torino per affrontare lo studio della possibile interazione dei radicali liberi dell’ossigeno nei meccanismi di danno coinvolti nella patogenesi delle malattie renali (mesangiolisi e danno endoteliale ed epiteliale in corso di insufficienza renale acuta post-ischemica, nefrotossicità da farmaci, preeclampsia) e nei processi di biocompatibilità correlati ai trattamenti sostitutivi dei pazienti uremici.

Concludo dicendo che quando Vercellone è andato in pensione, nel 1994, mi ha affidato il ruolo di responsabile del Modulo “Controllo e aggiornamento delle terapie di appoggio al paziente dializzato” e tutto quello che ho imparato grazie a lui ha rappresentato una base molto bella, solida ed efficace per tutto il mio percorso professionale successivo.

Figura 1. Il professor Antonio Vercellone (1923-2000).
Figura 1. Il professor Antonio Vercellone (1923-2000).
Figura 2. Da sinistra: Sandro Alloatti, Giuseppe Segoloni, Giuliano Giachino.
Figura 2. Da sinistra: Sandro Alloatti, Giuseppe Segoloni, Giuliano Giachino.
Figura 3. Apparecchio per la dialisi peritoneale automatica.
Figura 3. Apparecchio per la dialisi peritoneale automatica.
Figura 4. Negli anni Cinquanta nacquero i dializzatori a piastre: il flusso ematico e quello del liquido di dialisi venivano convogliati in strati alternati di cellophane. L’apice tecnologico venne raggiunto con l’introduzione (nel 1960) del rene di Kiil.
Figura 4. Negli anni Cinquanta nacquero i dializzatori a piastre: il flusso ematico e quello del liquido di dialisi venivano convogliati in strati alternati di cellophane. L’apice tecnologico venne raggiunto con l’introduzione (nel 1960) del rene di Kiil.
Figura 5. Il rene di Kiil veniva montato ogni volta a mano con i fogli di cellophane che venivano successivamente sterilizzati con formaldeide e poi sciacquati accuratamente prima dell’uso.
Figura 5. Il rene di Kiil veniva montato ogni volta a mano con i fogli di cellophane che venivano successivamente sterilizzati con formaldeide e poi sciacquati accuratamente prima dell’uso.
Figura 6. Lo Shunt artero-venoso esterno.
Figura 6. Lo Shunt artero-venoso esterno.
Figura 7. Reni di Kiil in fase di lavaggio dalla formalina (dalle 5 alle 8 del mattino), prima dell’inizio della seduta emodialitica che sarebbe durata per 12 ore.
Figura 7. Reni di Kiil in fase di lavaggio dalla formalina (dalle 5 alle 8 del mattino), prima dell’inizio della seduta emodialitica che sarebbe durata per 12 ore.
Figura 8. Il primo trapianto di rene a Torino. Da sinistra: Giorgio Triolo, Beppe Segoloni e i chirurghi vascolari Roberto Ferrero, Carlo Barile, Franco Nessi.
Figura 8. Il primo trapianto di rene a Torino. Da sinistra: Giorgio Triolo, Beppe Segoloni e i chirurghi vascolari Roberto Ferrero, Carlo Barile, Franco Nessi.
Figura 9. Ureometro dall’Aira.
Figura 9. Ureometro dall’Aira.
Figura 10. Michele Rotunno al microscopio monoculare Grifield.
Figura 10. Michele Rotunno al microscopio monoculare Grifield.
Figura 11. Michele Rotunno al lavoro in dialisi con un rene di Kiil.
Figura 11. Michele Rotunno al lavoro in dialisi con un rene di Kiil.
Figura 12. La versione in inglese della monografia sul sedimento urinario pubblicata nel 1984 da Raven Press.
Figura 12. La versione in inglese della monografia sul sedimento urinario pubblicata nel 1984 da Raven Press.
Figura 13. Michele Rotunno nella fase di allestimento del nuovo Laboratorio Nefrologico.
Figura 13. Michele Rotunno nella fase di allestimento del nuovo Laboratorio Nefrologico.
Figura 14. Margherita Dogliani (a sinistra) e Caterina Canavese (a destra).
Figura 14. Margherita Dogliani (a sinistra) e Caterina Canavese (a destra).
Figura 15. Ago di Vim-Silverman, costituito da (dall’alto in basso): mandrino, ago-guida, ago per il prelievo bioptico. Nella parte inferiore un tru-cut disposable.
Figura 15. Ago di Vim-Silverman, costituito da (dall’alto in basso): mandrino, ago-guida, ago per il prelievo bioptico. Nella parte inferiore un tru-cut disposable.
Figura 16. Urografia endovenosa utilizzata per l’identificazione dei punti di repere per l’esecuzione della biopsia renale percutanea: XII costa, cresta iliaca, apofisi spinose delle vertebre lombari.
Figura 16. Urografia endovenosa utilizzata per l’identificazione dei punti di repere per l’esecuzione della biopsia renale percutanea: XII costa, cresta iliaca, apofisi spinose delle vertebre lombari.
Figura 17. Punti di repere per l’esecuzione della biopsia renale percutanea. Dopo aver rilevato mediante l’urografia endovenosa la distanza tra il polo inferiore del rene e la cresta iliaca le misure venivano riportate sulla cute della regione lombare del paziente.
Figura 17. Punti di repere per l’esecuzione della biopsia renale percutanea. Dopo aver rilevato mediante l’urografia endovenosa la distanza tra il polo inferiore del rene e la cresta iliaca le misure venivano riportate sulla cute della regione lombare del paziente.
Figura 18. Squadra di calcio della Nefrologia e Dialisi partecipante al torneo Aziendale delle Molinette. In piedi, da sinistra: i nefrologi Giuliano Giachino (primo) e Alfonso Pacitti (quinto). Accosciati, da sinistra: Mariano Cannone (paziente emodializzato, primo); Piero Stratta (secondo); Arnaldo Benech (allievo interno, quarto); Giorgio Triolo (quinto). I restanti: infermieri.
Figura 18. Squadra di calcio della Nefrologia e Dialisi partecipante al torneo Aziendale delle Molinette. In piedi, da sinistra: i nefrologi Giuliano Giachino (primo) e Alfonso Pacitti (quinto). Accosciati, da sinistra: Mariano Cannone (paziente emodializzato, primo); Piero Stratta (secondo); Arnaldo Benech (allievo interno, quarto); Giorgio Triolo (quinto). I restanti: infermieri.
Figura 19. Le prime immagini di fibrina e cellule sulle pareti dei filtri di dialisi.
Figura 19. Le prime immagini di fibrina e cellule sulle pareti dei filtri di dialisi.

 

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