Luglio Agosto 2021 - Editoriali

2021: la Nefrologia verso una nuova fase

Sebbene le malattie del rene siano conosciute fin dall’epoca di Ippocrate e Galeno, la Nefrologia è una disciplina giovane. Nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, a seguito della scoperta della dialisi e dei primi trapianti di rene, e sull’impulso alla medicina d’urgenza dato dalla guerra, la Nefrologia è divenuta una disciplina specialistica soltanto negli anni Settanta, forte dei suoi successi unici. Nessun’altra disciplina infatti poteva offrire ai propri pazienti la sostituzione della funzione d’organo. Ad esempio la cardiologia, che non aveva questa possibilità, a fronte di un numero enorme di persone che morivano per eventi cardiovascolari e scompenso cardiaco, ha riposto tutti i suoi sforzi nella prevenzione. Sono stati così identificati biomarcatori che consentivano diagnosi precise e molto precoci, e sviluppati sofisticati algoritmi per il calcolo e la prevenzione del rischio che negli ultimi trent’anni hanno ridotto la mortalità cardiovascolare di oltre il 50% nei paesi occidentali [1].

La Nefrologia invece, è rimasta in qualche modo vittima dei suoi enormi successi. Negli anni le tecniche dialitiche ed il trapianto si sono ulteriormente evolute, mentre la parte di diagnostica e prevenzione è progredita molto più lentamente. I principali biomarcatori utilizzati per la diagnosi delle malattie renali sono rimasti sostanzialmente gli stessi. La creatinina, infatti, è ancora il marcatore di funzione renale più utilizzato nella pratica clinica, sebbene sia poco sensibile e subisca alterazioni significative soltanto quando almeno la metà della massa nefronica è ormai irrimediabilmente perduta [2]. Inoltre, nel danno renale acuto si altera tardivamente, impedendo un intervento tempestivo [3]. La proteinuria, pur rimanendo il marcatore cruciale per l’identificazione ed il follow-up dei pazienti con molte malattie renali, non è sempre un indice attendibile di progressione delle nefropatie [2]. Questo è dimostrato dal fatto che in alcune malattie renali l’entità della proteinuria e la progressione di malattia sono dissociate (ad esempio in molti pazienti affetti da malattia renale associata al diabete, malattia a lesioni minime o glomerulonefrite membranosa) [2].

Infine, l’esame cardine della nefrologia clinica rimane la biopsia renale, che è stata il riferimento per la classificazione di molte delle principali malattie renali così come oggi le conosciamo [2]. Anche in questo caso, però, negli ultimi anni si sono accumulate evidenze che in molti casi i quadri istopatologici identificati alla biopsia renale non rappresentino malattie, ma semplicemente tipologie di lesioni tissutali associate più frequentemente a certe nefropatie piuttosto che ad altre [4]. Gli esempi più clamorosi sono da considerarsi la glomerulosclerosi focale e segmentale (GSFS) e la malattia a lesioni minime [2]. È ormai evidente che questi due quadri istopatologici rappresentano pattern di danno podocitario, e sono per questo meglio definite come podocitopatie [4]. La GSFS è una lesione istologica conseguente a perdita vera e propria di cellule podocitarie, la malattia a lesioni minime invece ad alterazioni dello slit diaphragm senza perdita della cellula podocitaria, il che giustifica la sua prognosi migliore. Le possibili cause però sono molte decine, e richiedono approcci terapeutici estremamente diversi, pur essendo indistinguibili dal punto di vista istopatologico [4].

La seconda cruciale ragione che ha rallentato il progresso nella diagnosi e prevenzione delle nefropatie è stata la complessità anatomica e funzionale del rene. Il rene è un organo sofisticato con un grandissimo numero di tipi cellulari altamente specializzati e diversificati. Tradizionalmente, sulla base delle definizioni istologiche, ne sono stati contati 26, ma è verosimile che questo numero sia un’enorme sottostima, conseguenza della nostra ancora scarsa conoscenza della sua complessità. La recente introduzione di una nuova tecnologia capace di analizzare le differenze fenotipiche e a livello di singola cellula, il single cell RNA sequencing, e la sua applicazione al rene suggeriscono che in realtà i sottotipi funzionali delle cellule renali siano molti di più [5]. L’estrema complessità funzionale del rene è stata anche confermata dall’avvento della genetica e delle tecnologie di sequenziamento avanzato, che hanno scoperchiato il vaso di pandora delle nefropatie. Ad oggi, si conoscono oltre 500 geni che possono causare una patologia renale e questa lista è molto lontana dall’essere completa. Geni diversi possono determinare malattie con presentazioni cliniche simili, ma richiedere terapie diverse [4]. Ad esempio, si conoscono ormai oltre 70 geni che possono determinare sindrome nefrosica. Presi singolarmente sono rari, ma assieme giustificano il 30-60% dei casi di sindrome nefrosica resistenti allo steroide [4]. Alcuni di questi geni sono sempre stati ritenuti associati a nefropatie con fenotipo clinico distinto, come nel caso dei collageni con la sindrome di Alport. Eppure, oggi si sa che varianti patogeniche nei geni del collagene rappresentano la prima causa genetica di GSFS nell’adulto [4] e che il nefrologo deve pensare a questa possibilità di fronte ad un paziente con una GSFS e tenerne conto quando programma la terapia, che ovviamente in questi casi non può basarsi su steroidi ed immunosoppressori. Queste diagnosi possono essere molto complesse e spesso richiedono sequenziamento dell’intero esoma ed una stretta collaborazione tra nefrologo e genetista per identificare la variante giusta [4]. Dovranno probabilmente essere concentrate in centri altamente specializzati, sia per le competenze tecnologiche che richiedono che per ottimizzare tempistiche e costi, che sono riducibili solo quando si analizzano grandi numeri. Il punto cruciale è però che il nefrologo deve sospettare una patologia genetica molto più frequentemente di prima, anche in assenza di storia familiare positiva, e non accontentarsi più soltanto della diagnosi bioptica [4].

I progressi della genetica hanno portato ad ulteriori cruciali scoperte. Di recente, infatti, è stato identificato un nuovo genotipo di rischio per nefropatia nella popolazione di origine subsahariana, che ha consentito di spiegare il ben noto alto rischio di insufficienza renale terminale osservato nella popolazione afroamericana [4,5]. Tale genotipo consiste in due varianti alleliche, G1 e G2, nel gene dell’Apolipoproteina 1 (APOL1). Queste due varianti alleliche conferiscono una maggiore resistenza verso l’infezione da Tripanosoma, che è endemica nelle aree subsahariane, ma favoriscono la comparsa di malattie renali [4,5]. Essere portatore del genotipo G1/G2 determina la comparsa di malattia con un meccanismo “a doppio hit”: la variante allelica patologica, da sola, non è in grado di determinare malattia renale, ma in presenza di un secondo hit come obesità, diabete, un’altra nefropatia, una bassa massa nefronica, un’altra variante genetica associata a nefropatia, determinerà la comparsa di una nefropatia grave e ad alto rischio di progressione [4,6]. Un’altra importante scoperta che ne è derivata è stata l’osservazione che i casi di nefroangiosclerosi riportati con elevata frequenza nella popolazione afroamericana erano in realtà da riferirsi allo stato di portatore delle varianti G1/G2 del gene APOL1 [4,6,7]. Ad ulteriore corollario, numerose evidenze dimostrano adesso che la aumentata prevalenza di ipertensione arteriosa ed il correlato rischio cardiovascolare negli afroamericani è conseguenza, e non causa, delle nefropatie da APOL1 [7]. L’identificazione delle varianti di rischio dell’APOL1 è stata perciò una rivoluzione, che ha aperto la porta a concetti innovativi di cui adesso il nefrologo deve tenere conto nella valutazione del paziente nefropatico:

  1. La malattia renale cronica è spesso dovuta non ad una singola malattia, ma alla sommatoria di una serie di fattori di rischio che fanno oltrepassare una soglia fatidica di riserva nefronica, oltre la quale i meccanismi di compenso non sono più sufficienti e compaiono i sintomi, come il rialzo della creatinina e la proteinuria;
  2. La nefroangiosclerosi è una diagnosi che nasconde sempre un insufficiente approfondimento diagnostico alla ricerca della vera causa. Ovviamente, l’estensione di questi stessi concetti alla popolazione caucasica è il passaggio successivo e suggerisce che la diagnosi di nefroangiosclerosi, o di nefropatia ipertensiva, rivela frequentemente una patologia renale sottostante non identificata che è stata la causa dell’ipertensione [7].

Queste recenti osservazioni suggeriscono che anche la categoria di “causa sconosciuta”, riportata con elevata frequenza nei registri relativi all’epidemiologia della malattia renale terminale in molti paesi del mondo, possa invece essere dovuta a malattie genetiche misconosciute e/o ad una combinazione di fattori di rischio non adeguatamente riconosciuti e trattati [8]. Il ruolo della genetica e lo studio dettagliato dei fattori di rischio in ogni paziente nefropatico che arriva all’osservazione del nefrologo dovrebbero pertanto rappresentare i veri obiettivi della nefrologia clinica di oggi e dei prossimi anni.

Oggi per questi pazienti possiamo fare moltissimo, avendo finalmente a disposizione dei farmaci che possono cambiare la loro prognosi. Questi farmaci sono gli inibitori del cotrasportatore sodio/glucosio di tipo 2 (SGLT2), che solo pochi giorni fa sono stati approvati dall’EMA per la terapia della malattia renale cronica dopo gli impressionanti risultati del DAPA-CKD trial, in cui si è osservato un dimezzamento a 2,4 anni dell’end-point composito costituito da riduzione del GFR di almeno il 50%, ESRD o morte per causa renale o cardiovascolare in una coorte di pazienti con diversi tipi di nefropatie [9]. Per quanto il meccanismo d’azione alla base del loro effetto benefico sia ancora dibattuto, è verosimile che esso sia dovuto alla riattivazione del feedback tubuloglomerulare, con conseguente riduzione dell’iperfiltrazione glomerulare e del sovraccarico metabolico sul tubulo prossimale, meccanismo di progressione comune a molti pazienti con malattia renale cronica [10]. Come ulteriore elemento di riflessione, il DAPA-CKD trial contiene la più ampia casistica di pazienti con GSFS e nefropatia ad IgA pubblicata fino ad oggi in un trial clinico, a sottolineare le estese implicazioni che questi farmaci avranno nella pratica clinica nefrologica [9,10].

Questo è il più importante, ma non l’unico, dei nuovi farmaci che la comprensione dei meccanismi di malattia ci ha portato negli ultimi anni. Altri esempi eclatanti, seppure rivolti ad un più piccolo numero di pazienti, sono:

  1. il caplacizumab, un nanoanticorpo bivalente anti-fattore di Von Willebrand, nella porpora trombotica trombocitopenica [11];
  2. IdeS, una proteinasi dello Streptococcus pyogenes, che scinde gli autoanticorpi nella glomerulonefrite da anticorpi anti-membrana basale glomerulare [12];
  3. La terapia enzimatica sostitutiva nella malattia di Fabry o nel deficit di Coenzima Q10 [4];
  4. Gli inibitori del complemento, a cominciare dall’eculizumab, nella sindrome emolitico uremica e nelle altre complementopatie [13].

In conclusione, la nefrologia medica sta entrando in una nuova fase, sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico. La sfida adesso alla nostra portata è la progressiva riduzione fino all’eliminazione dei pazienti che arrivano alla dialisi con una diagnosi di “nefroangiosclerosi” o senza una diagnosi. Ma anche la cura di molti pazienti prima incurabili. La sfida può quindi anche spingersi oltre. Il prossimo obiettivo è un’ampia strategia di prevenzione che porti a ridurre in maniera sostanziale l’insufficienza renale terminale e la necessità della dialisi.

 

Bibliografia

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