Abstract
Il magnesio rappresenta il secondo catione più presente nell’ambiente intracellulare e il quarto minerale più abbondante nell’intero organismo. Una sua carenza è stata associata a numerose patologie, tra cui insulino-resistenza e diabete, asma, osteoporosi ed insufficienza renale cronica (IRC). Gli inibitori di pompa protonica rappresentano una delle principali cause di ipomagnesemia. Il rischio di ipomagnesemia e del conseguente peggioramento della funzione renale aumenta in seguito all’uso concomitante di diuretici ed inibitori di pompa protonica, due classi di farmaci comunemente usate nei pazienti con IRC. In questa review abbiamo passato in rassegna i principali meccanismi alla base della comparsa di ipomagnesemia e le conseguenze di questa disionia nei pazienti con IRC.
Introduzione
Il magnesio, pur essendo uno ione poco considerato nella quotidianità clinica, svolge un ruolo essenziale nelle funzioni fisiologiche del cuore, del cervello, del muscolo e dello scheletro [1][2] (full text) [3]. Rappresenta il secondo catione più presente nell’ambiente intracellulare e il quarto più abbondante nell’intero organismo [4]. Svolge un ruolo chiave nella sintesi di acidi nucleici e proteine, nell’attività di centinaia di enzimi ed è fondamentale nella contrattilità neuromuscolare così come per la generazione del potenziale d’azione cardiaco [5] (full text). Un adulto normale possiede un pool di magnesio pari a 20-28 g (circa 1000 mmol) distribuiti per il 60% nello scheletro, per il 39% nei muscoli e nei tessuti molli e solo per l’1% nei fluidi extracellulari, con una concentrazione plasmatica compresa tra 0.7 e 1.1 mmol/l (1.7-2.6 mg/dl)[6]. Per mantenere tale concentrazione sierica viene raccomandata un’assunzione giornaliera di 420 mg nell’uomo e di 320 mg nelle donne [1]. Il magnesio ionizzato costituisce il 50% della magnesemia totale e rappresenta la quota elettrofisiologicamente attiva. Il 10% del magnesio a livello ematico è complessato con anioni, il restante 30-40% è legato all’albumina [7]. La sua omeostasi dipende dall’interazione tra intestino, responsabile dell’assorbimento del magnesio alimentare, osso, che immagazzina il magnesio sotto forma di idrossiapatite, e reni, che ne regolano l’escrezione urinaria (Figura 1, Pannello A).
L’obiettivo di questa review è quello di fornire una panoramica delle principali implicazioni cliniche della carenza di magnesio, esaminando i processi fisiologici in cui questo ione è coinvolto e le conseguenze di questa disionia nei pazienti con IRC.
Assorbimento ed eliminazione del magnesio
L’omeostasi del magnesio dipende dall’equilibrio tra assorbimento intestinale ed escrezione renale. Due sono i meccanismi alla base dell’assorbimento intestinale, l’assorbimento passivo di magnesio, che dipende dal gradiente di concentrazione e si svolge mediante le giunzioni serrate attraverso un meccanismo paracellulare non lineare a bassa affinità, e l’assorbimento attivo di magnesio, che avviene attraverso un trasportatore transcellulare [8] (full text) [9]. L’escrezione renale dipende dal riassorbimento paracellulare a livello del tubulo prossimale (20-25%) e della porzione ascendente dell’ansa di Henle (60-70%) e dall’assorbimento transcellulare a livello del tubulo contorto distale (5-10%) [10]. Nel nefrone, il riassorbimento del magnesio è strettamente associato a quello di sodio, cloro e potassio [10]. Generalmente una modifica di uno di questi ioni si accompagna ad una variazione dell’assorbimento degli altri. L’ipokaliemia è un evento comune nei pazienti con ipomagnesemia e si manifesta con una frequenza dal 40 al 60% dei casi[11] (full text). Questo sembra derivare da una incapacità della cellula a mantenere la normale concentrazione intracellulare di potassio, verosimilmente a causa di un aumento della permeabilità della membrana al potassio e/o all’inibizione della Na-K ATPasi; come risultato, le cellule perdono potassio che viene secreto nelle urine. In questi casi, la correzione del deficit di magnesio si accompagna a normalizzazione dei livelli di potassio [12]. Tuttavia, isolati disturbi di equilibrio del potassio non producono alterazioni dell’omeostasi del magnesio [13] (full text).
Magnesio e rischio di insufficienza renale
È stato di recente riportato in uno studio prospettico come l’ipomagnesemia sia associata ad un’aumentata incidenza di insufficienza renale cronica [14] [15]. Questo effetto potrebbe, almeno in parte, essere mediato dall’aumento di citochine proinfiammatorie [16] (full text) e dalla regolazione della funzione vascolare ed endoteliale [17] (full text). È stato, infatti, riportato come l’ipomagnesemia possa inibire la proliferazione delle cellule endoteliali [18] (full text) e promuovere l’aggregazione piastrinica [19]. Inoltre, l’ipomagnesemia è stata associata alla riduzione della funzione renale nei pazienti con insufficienza renale cronica [16] (full text) [20] e nei diabetici [21] [22] (full text). Tuttavia, non è ancora del tutto chiaro quale sia la relazione tra ipomagnesemia ed insufficienza renale cronica, cioè se la prima sia causa o marcatore della seconda [15]. Infine, l’ipomagnesemia è stata associata ad un aumento della mortalità nei pazienti emodializzati [23] ed alla ridotta sopravvivenza del graft in pazienti sottoposti a trapianto renale [22] (full text).
Magnesio e infiammazione
Studi condotti sull’animale e sull’uomo hanno riportato un importante effetto vasodilatatore del magnesio. L’ipomagnesemia promuove, infatti, lo stress ossidativo nelle cellule endoteliali incrementando la produzione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) e la citotossicità [24]. Di contro, alti livelli di magnesio in queste cellule, incrementano l’attività dell’enzima eNOS e sopprimono la sintesi di vasocostrittori quali l’Endotelina-1 [25]. In presenza di ipomagnesemia, l’endotelio evolve in uno stato di permanente infiammazione contrassegnato dall’incremento dell’attività di NFkB, il principale regolatore della trascrizione genica di citochine pro infiammatorie come IL-1 [16] (full text). Studi recenti hanno, inoltre, riportato una correlazione inversa tra i livelli di magnesio e gli indici di infiammazione come PCR e TNF-alfa [26] (full text), suggerendo che la carenza di magnesio possa contribuire a sviluppare uno stato di infiammazione sistemica cronica. La normalizzazione della magnesemia è stata, invece, associata ad un’inibizione dell’infiammazione [27]. Tuttavia, non è ancora chiaro se la correzione dell’ipomagnesemia possa avere effetti benefici renali. Pertanto, alla luce di quanto detto, lo stato di infiammazione sistemica che caratterizza l’insufficienza renale [28] (full text) potrebbe essere stimolato e mantenuto dall’ipomagnesemia spesso presente, con conseguente peggioramento dell’insufficienza renale. Sono necessari ulteriori studi per confutare questa ipotesi.
Effetto degli inibitori di pompa protonica sul magnesio
Gli inibitori della pompa protonica (PPI) sono un pilastro del trattamento per le malattie acido-correlate, tra cui la malattia da reflusso gastroesofageo, dispepsia funzionale e ulcera peptica[29] (full text) [30]. Sebbene i PPI abbiano un eccellente profilo di sicurezza, il loro uso può portare alla comparsa di nefrite interstiziale [16] (full text), infezioni respiratorie [17] (full text), colite da Clostridium difficile [18] (full text) e fratture dell’anca [19]. Recentemente è stata, inoltre, riportata l’associazione tra ipomagnesemia ed uso prolungato di PPI. Tale associazione è stata inizialmente descritta in due pazienti nel 2006 [22] (full text) e successivamente confermata in diversi altri studi [24] [27]. Infine, la Food and Drug Administration ha emesso una nota nel 2011 in cui ha sottolineato l’importanza dell’associazione tra l’uso a lungo termine di PPi ed ipomagnesemia [28] (full text). In una revisione sistematica di 18 segnalazioni di casi di ipomagnesemia PPI indotta è stato riportato che la sospensione dei PPI si associa alla normalizzazione dell’ipomagnesemia [31] (full text). In un grande studio epidemiologico eseguito sui veterani di guerra inclusi nel registro del Department of Veterans Affairs degli Stati Uniti, sono stati seguiti per 5 anni un gruppo di veterani trattati con PPI (n = 173.321) e un gruppo di controllo di veterani trattati con antagonisti dei recettori H2 dell’istamina (n = 20.270). Durante il follow-up il gruppo trattato con PPI, rispetto al gruppo H2-antagonisti, ha fatto registrare un aumento del rischio di insufficienza renale cronica del 28%. I pazienti trattati con PPI hanno, inoltre, evidenziato un rischio aumentato del 53% di raddoppio della creatinina sierica, del 32% di declino del GFR >30%, e del 96% di malattia renale terminale [32] [33]. In una recente meta-analisi, comprendente i dati di 115455 pazienti arruolati in nove studi, la proporzione dei pazienti con ipomagnesemia era del 27% in quelli trattati con PPI e del 18% nel gruppo di controllo (pooled odds ratio per l’uso di PPI 1.78; 95% C.I. 1.08-2.92) [31] (full text). I risultati di questa meta-analisi sono, tuttavia, limitati dall’elevata eterogeneità degli studi presi in esame. In un’altra meta-analisi è stato riportato come sia necessario un intervallo di tempo molto variabile (mediana 5.5 anni, range 14 giorni-13 anni) di terapia con farmaci inibitori di pompa protonica affinché si istauri l’ipomagnesemia [34] (full text). È interessante notare come l’ipomagnesemia sia rapidamente reversibile (entro 4 giorni) dopo sospensione dei PPI. Tuttavia, dopo la rapida normalizzazione della magnesemia, il ripristino della terapia con PPI è associata ad una precoce insorgenza dell’ipomagnesemia (nel 70% dei casi entro i primi 4 giorni di terapia) [35]. Questo dato potrebbe indicare che, dopo sospensione di questi farmaci, sia possibile normalizzare rapidamente la concentrazione serica di questo ione ma non le sue scorte. Inoltre, l’effetto dei PPI sul potassio non sembra causato dalla riduzione dell’acidità gastrica poiché non è stata osservata ipomagnesemia dopo somministrazione di antagonisti del recettore-2 dell’istamina. Infine, poiché in molti dei casi segnalati di ipomagnesemia da uso di PPI, la terapia era in corso da più di 20 anni, questo effetto collaterale potrebbe insorgere in maniera asintomatica nella gran parte dei casi e la sua prevalenza essere di gran lunga sottostimata [36] (full text). La raccolta accurata della storia clinica e farmacologica dei pazienti potrebbe facilmente individuare chi, pur non avendo ancora manifestazioni clinicamente evidenti, sta progressivamente riducendo il proprio pool di magnesio.
Sebbene la fisiopatologia dell’ipomagnesemia da uso prolungato di PPI non sia stata ancora del tutto chiarita, una possibile spiegazione potrebbe scaturire dal diminuito assorbimento di magnesio a livello intestinale a causa della somministrazione di tale classe di farmaci [9]. Questi farmaci possono bloccare i canali per il trasporto attivo di magnesio a livello renale ed intestinale, in particolare il transient receptor potential melastatin subtype 6 (TRPM6). Alla comparsa dell’ipomagnesemia nei pazienti con insufficienza renale cronica trattati con PPI può contribuire anche l’aumento dell’escrezione renale del magnesio in seguito al contemporaneo uso di diuretici, in particolare diuretici dell’ansa e tiazidici [32].
Altri farmaci che possono provocare ipomagnesemia
Diversi sono i farmaci che possono influenzare l’eliminazione urinaria del magnesio. La gentamicina, gli inibitori delle calcineurine (ciclosporina e tacrolimus), farmaci citostatici a base di platino (cisplatino), farmaci rivolti al recettore del fattore di crescita epidermico EGF-R (Erlotinib e Cetuximab) e diuretici (furosemide, torasemide ed i diuretici tiazidici) sono stati tutti associati con ipomagnesemia. Tra questi, i farmaci più comunemente utilizzati in nefrologia sono la ciclosporina e i diuretici [4].
La carenza di magnesio è facile da riscontrare nei pazienti trattati con diuretici, in particolare la furosemide [9]. Questo farmaco sembra inibire l’attività del trasportatore Na-K-Cl2 riducendo la positività del potenziale di membrana transepiteliale che permette il trasporto paracellulare del magnesio. Tuttavia, non vi sono ancora dati significativi sull’effettiva incidenza dell’ipomagnesemia indotta da furosemide [37] (full text) [38].
Nel caso di utilizzo degli inibitori della calcineurina, l’ipomagnesemia è direttamente correlata alla dose di ciclosporina A ed accompagnata da bassi livelli di calcio nel siero. Rispetto all’ipomagnesemia indotta dai PPI, quella indotta da inibitori della calcineurina è meno grave e la riduzione del magnesio si basa sulla ridotta espressione di TRPM6. Rispetto all’ipomagnesemia provocata dall’uso di inibitori di pompa e ciclosporina A, quella indotta da cisplatino è molto più frequente. Il 90% dei pazienti che assume cisplatino sviluppa, infatti, ipomagnesemia (<0,75 mmol/L), che risulta essere grave (<0,58 mmol/L) nel 50% dei casi [39]. Il sottostante meccanismo è dose-dipendente e sembra essere legato all’effetto nefrotossico del farmaco. In alcuni casi si osserva, infatti, solo una perdita renale di magnesio che suggerisce un selettivo e persistente danno tubulare [40].
Magnesio e metabolismo osseo
La concentrazione sierica di magnesio è strettamente correlata con il metabolismo dell’osso. Fisiologicamente, in caso di ipomagnesemia, questo ione viene, infatti, mobilizzato dall’osso per ripristinare la sua normale concentrazione plasmatica (Figura 1).
Il magnesio presente sulla superficie dell’osso viene continuamente scambiato con quello presente nel sangue. Inoltre, esso incrementa la solubilità degli ioni fosforo e della idrossiapatite di calcio e stimola la proliferazione degli osteoblasti [41]. Pertanto, un deficit di magnesio, si traduce in un decremento della formazione ossea con una riduzione dell’attività degli osteoblasti[42].
La carenza di magnesio incrementa, inoltre, la produzione di citochine proinfiammatorie quali TNF-alfa, IL-1 e la sostanza P che favoriscono il riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti[43] (full text). Tutti questi effetti sono palesati dalla riduzione dei valori di PTH e di vitamina D. Inoltre, il magnesio gioca un ruolo fondamentale nella secrezione di PTH. È stato, infatti, ipotizzato che il magnesio rappresenti un elemento necessario per la secrezione del PTH dai granuli secretori e svolga un ruolo essenziale nell’accoppiamento stimolo-secrezione che il calcio svolge nella maggior parte dei tessuti secernenti [44]. Di conseguenza, nei pazienti con deficit di magnesio, l’alterata secrezione di PTH rappresenta il fattore primario per la determinazione dell’ipocalcemia.
Le alterazione dei livelli di PTH possono essere influenzate non solo dalle variazioni dei livelli di calcio e vitamina D ma anche dal magnesio che, in alcuni casi, potrebbe essere il “primum movens” a determinare l’ipocalcemia ed il successivo iperparatiroidismo, in particolare nei pazienti nefropatici con valori di PTH meno elevati rispetto a quanto atteso dallo stadio di insufficienza renale [45]. Tutto ciò potrebbe trovare una spiegazione nella carenza di magnesio e conseguente ridotta secrezione di PTH. Ulteriori studi sono necessari per suffragare questa ipotesi.
È stato recentemente condotto uno studio per valutare l’impatto della magnesemia sul metabolismo osseo nell’insufficienza renale cronica in pazienti con o senza diabete. Un totale di 56 pazienti con insufficienza renale cronica in trattamento conservativo (GFR<30 ml/min) sono stati reclutati e divisi in due gruppi in base alla presenza o meno del diabete. La magnesemia era inversamente correlata con la calcemia (P=0.02) e positivamente correlata con il PTH (P=0.02), fosfatasi alcalina (P=0.04), e fosfato (P=0.04) nei pazienti con IRC e diabete. Questi pazienti presentavano una maggiore prevalenza di ipomagnesemia e osteoporosi rispetto ai pazienti non-diabetici (P<0.05). In conclusione, bassi livelli sierici di magnesio possono influenzare i livelli di PTH ed peggiorare l’osteoporosi nei pazienti con IRC [46] (full text). Diversi studi hanno infine dimostrato come nelle donne in menopausa il livello di osteoporosi sia correlato positivamente con la carenza di magnesio e come la supplementazione orale di tale ione (200-700 mg al giorno) porti ad un incremento della densitometria ossea [47].
Magnesio e funzioni cerebrali
Il magnesio sembra svolgere un ruolo essenziale anche per il mantenimento delle normali funzioni cerebrali. La sua carenza può presentarsi associata a diversi disturbi neurologici quali emicrania, depressione, epilessia e malattie neurodegenerative. Il magnesio neuronale gioca, infatti, un ruolo centrale nella regolazione del recettore NMDA, recettore fondamentale delle sinapsi eccitatorie [48]. In presenza di una carenza di magnesio i recettori NMDA diventano ipereccitabili. L’azione di questi recettori è normalmente bilanciata dall’azione dei recettori GABA inibitori, la cui attività risulta anch’essa correlata ai livelli di magnesio. Pertanto, in presenza di ipomagnesemia si ha una minore attivazione dei recettori inibitori con conseguente ipereccitabilità neuronale [49].
Nella malattia di Parkinson è stata rilevata una riduzione dei livelli di magnesio a livello della corteccia, nella sostanza bianca e nei gangli della base e un miglioramento dei sintomi neurologici dopo la supplementazione di magnesio [27].
L’emicrania è stata collegata a bassi livelli di magnesio nel siero e nel liquido cerebrospinale (CSF) [50]. L’emicrania è la conseguenza della cosiddetta depressione corticale diffusione (CSD), che consiste in un’improvvisa ondata di eccitazione dei neuroni della corteccia cerebrale seguita da un altrettanto rapido “spegnimento” [51]. La CSD può essere evocata dall’attivazione del recettore NMDA [52]. Pertanto, i pazienti con un aumento di eccitabilità neuronale a causa della bassa concentrazione di magnesio nel liquido cerebro spianale sono più suscettibili agli attacchi di emicrania. Le prime notizie di somministrazione di magnesio ai pazienti con emicrania risalgono agli anni ‘60 [53]. Da allora, l’uso del magnesio per il trattamento dell’emicrania è andato lentamente affermandosi. L’efficacia del trattamento con magnesio è ancora fonte di dibattito [54]. Negli ultimi decenni diversi trials clinici randomizzati hanno evidenziato un effetto benefico della supplementazione orale di magnesio sul numero di attacchi di emicrania e l’intensità del dolore durante questi attacchi [55]. Tuttavia, in letteratura sono presenti dati contrastanti che non hanno riportato alcun effetto favorevole della supplementazione di magnesio sull’emicrania [56] [58] [57]. Una recente meta-analisi eseguita su 295 pazienti avente l’obiettivo di valutare gli effetti della somministrazione endovenosa di magnesio sull’emicrania non ha mostrato una riduzione significativa del dolore [58].
L’uso del magnesio per la cura della depressione è noto dal 1921 [59]. Tuttavia, non sono stati ancora effettuati trials clinici randomizzati con placebo per valutare l’efficacia della supplementazione di magnesio e la correlazione tra ipomagnesemia e gravità dei sintomi. Molti studi hanno suggerito che il magnesio possa alleviare la depressione, bloccando il recettore NMDA, la cui disfunzione è un importante fattore causale nella depressione [60] (full text) [63] [61]. In una recente meta-analisi, in cui è stata valutata l’associazione tra depressione e ipomagnesemia, il rischio di depressione nei pazienti con ipomagnesemia era significativamente aumentato (RR 1.34; 95% CI 1.01-1.79; P<0.05). Risultano necessari ulteriori studi per valutare i benefici del trattamento dell’ipomagnesemia nei pazienti con depressione[62].
Magnesio e funzione polmonare
Il ruolo del magnesio si esplica anche a livello polmonare. Sembra, infatti, che abbia un’azione vasodilatatoria e broncodilatatoria. Il meccanismo non è ancora del tutto chiaro ma sembra essere correlato col minore rilascio di istamina e acetilcolina.
Il magnesio ha una potente azione antiinfiammatoria a livello polmonare, cerebrale e intestinale[63] (full text). Questo ione sembra, infatti, ridurre l’infiammazione delle vie aeree che caratterizza severe patologie quali la fibrosi cistica e la broncopneumopatia cronica ostruttiva. È stata, infatti, riportata una riduzione dei livelli di magnesio nei pazienti asmatici da una parte, e la sua efficacia nel trattamento dell’asma, sia acuta che cronica, dall’altra [64].
Magnesio e diabete mellito di tipo 2
È stata individuata una stretta correlazione tra sindrome metabolica, diabete mellito di tipo 2 (DM2) e ipomagnesemia [65] (full text). I pazienti diabetici, in particolare coloro in cui sussiste un cattivo controllo glicemico, presentano una carenza di magnesio. Il problema sembra essere correlato alla riduzione del magnesio intracellulare. A tal riguardo, si deve sottolineare come spesso il deficit di magnesio possa non essere accompagnato da ipomagnesemia [66]. Il meccanismo non è ben noto ma sembra essere correlato ad un’alterazione nel processo di uptake intracellulare [67]. È stata recentemente riportata una riduzione della magnesemia nei pazienti con DM2 rispetto a controlli appaiati per età e sesso così come una correlazione inversa tra magnesemia e insulinemia a digiuno [68] (full text). Inoltre, se il DM2 scompensato è spesso accompagnato da un’incrementata perdita di magnesio e calcio con le urine, un buon controllo glicemico si accompagna, invece, ad una riduzione della perdita di magnesio urinario [69]. La carenza di magnesio nel DM2 si associa a diverse complicazioni: in particolare è stato osservato un incremento dell’ipertrofia ventricolare ed una maggiore incidenza di aritmie [69]. Infine, l’ipomagnesemia è considerata un accurato predittore di progressione della nefropatia diabetica[67] [70] (full text).
Magnesio e funzione cardiaca
Il magnesio gioca un ruolo importante anche a livello cardiaco in quanto influenza il metabolismo miocardico, l’omeostasi del calcio, il tono e le resistenze vascolari periferiche. La carenza di magnesio è stata associata ad un aumentato rischio di coronaropatia e arteriosclerosi[71] (full text). Questo elettrolita regola infatti l’attività dei canali ionici nelle cellule cardiache e la contrattilità miocardica influenzando la mobilità del calcio intracellulare ed ha un’attività antiinfiammatoria e un effetto vasodilatatorio [1].
Le alterazioni elettrocardiografiche dell’ipomagnesemia, riportate in Figura 2, sono rappresentate da un ampliamento del complesso QRS e onde T a punta quando la perdita di magnesio risulta modesta, mentre la deplezione di magnesio più grave può portare ad un allungamento degli intervalli PR e QT e un progressivo allargamento del complesso QRS [72].
Negli ultimi 20 anni, un crescente numero di studi ha riportato come un basso livello sierico di magnesio sia associato ad un aumentato rischio di malattia coronarica (CAD), aterosclerosi e sindrome metabolica [73] (full text) [74].
L’ipomagnesemia si associa ad un aumento di diversi markers di infiammazione [26] (full text) ed alla disfunzione endoteliale [24], nota causa di aumentata rigidità arteriosa “funzionale” [75] (full text). Bassi livelli intracellulari di magnesio sono anche associati ad un’aumentata rigidità arteriosa in pazienti ipertesi in trattamento con diuretici [76]. A tal riguardo, è interessante notare come i pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali presentano spesso un’ipomagnesemia secondaria a malassorbimento intestinale. In questi pazienti è stato recentemente riportato un aumento della rigidità arteriosa [77], la sua riduzione dopo somministrazione di farmaci anti TNF-alfa [78] [79] ed un rischio cardiovascolare elevato nonostante la bassa prevalenza dei classici fattori di rischio [80]. Sono in corso studi per valutare se il magnesio possa avere un ruolo in questi processi.
La supplementazione di magnesio può avere effetti benefici nei pazienti con CAD. Dal momento che il magnesio ha un forte ruolo anti-infiammatorio, la sua integrazione si traduce in un miglioramento del profilo lipidico, riduzione dei radicali liberi dell’ossigeno e miglioramento della funzione endoteliale [81] (full text). Il magnesio ha un effetto anticoagulante, riducendo l’attivazione, adesione e aggregazione piastrinica tramite la modulazione dell’espressione delle glicoproteine di superficie [82], ed un potente effetto vasodilatatore [83] (full text). Queste proprietà rendono il magnesio un fattore importante nella gestione della CAD. Inoltre, il magnesio riduce la trombosi nei pazienti con CAD [84]. In un altro studio è stato riportato come sei mesi di supplementazione di magnesio aumentino la frazione di eiezione ventricolare sinistra nei pazienti con CAD [85]. Presi insieme, questi studi suggeriscono che i livelli di magnesio dovrebbero essere attentamente monitorati nei pazienti con CAD e supportano il suo utilizzo come potenziale farmaco in ambito cardiologico.
L’ipomagnesemia è stata proposta come causa di aritmia, in particolare in combinazione in presenza di stress e alcolismo [86]. Tuttavia, il successo del trattamento dipende fortemente dal tipo di aritmia. Negli ultimi decenni, diversi studi hanno esaminato l’effetto del magnesio nel prevenire la fibrillazione. Una meta-analisi ha concluso che l’infusione di magnesio può evitare la fibrillazione atriale [87]. Pertanto, alcune società internazionali raccomandano la profilassi con solfato di magnesio per via endovenosa. È interessante notare come il magnesio sia stato indicato come trattamento di prima linea della torsione di punta [88]. Tuttavia, quali siano le dosi ottimali di trattamento è ancora fonte di discussione. Altre aritmie, tra cui la fibrillazione ventricolare refrattaria e la tachicardia ventricolare monomorfa, sono insensibili al trattamento magnesio [89] (full text).
Conclusioni
Gli effetti positivi del magnesio nel trattamento di diverse severe patologie hanno indotto negli ultimi anni una maggiore attenzione nei confronti di questo ione che, tuttavia, ad oggi non viene ancora considerato tra gli elementi sierici e urinari da monitorare di routine. Sarebbe opportuno individuare precocemente le sue alterazioni per impedire l’instaurarsi di complicanze che possono essere facilmente e rapidamente risolte con una supplementazione orale. È doveroso pertanto che nefrologi, cardiologi, neurologi e pneumologi pongano più spesso l’attenzione su questo ione come causa di patologie solo in apparenza non correlate ad esso.
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