Novembre Dicembre 2016 - Specialità e professioni a colloquio

La sedazione palliativa profonda continua nel Parere approvato dal Comitato nazionale per la bioetica italiano il 29 gennaio 2016 (sedazione palliativa profonda)

Abstract

L’Autore analizza criticamente il Parere espresso dal Comitato nazionale per la bioetica italiano sulla sedazione palliativa profonda. Ne esamina, in particolare, i punti di forza e le zone d’ombra che testimoniano le incrostazioni ideologiche del Parere che, ancora una volta, si oppongono al diritto che ha ogni persona umana di poter morire con dignità.

Parole chiave: autonomia, dignità, fine della vita, sedazione palliativa profonda continua

 

Introduzione

Il Comitato nazionale per la bioetica (CNB) ha, di recente, nuovamente affrontato il tema del fine della vita e lo ha fatto con il parere Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte approvato, non all’unanimità ma con due pareri contrari espressi da esponenti del mondo della laicità, il 29 gennaio 2016. Questo tema, segnalato inizialmente all’attenzione del CNB da Francesco d’Agostino, è stato poi oggetto di uno specifico quesito posto al Comitato stesso dall’On. Paola Binetti la quale, prendendo le mosse dalla legge 15 marzo 2010, n. 38 che avrebbe dovuto (il condizionale è d’obbligo vista la cronica situazione a macchia di leopardo della realtà italiana) garantire l’accesso alle cure palliative ed alla terapia del dolore, ha chiesto “prima che si ritorni formalmente a calendarizzare disegni di legge che oltre a parlare del cosiddetto testamento biologico avanzino precise richieste in senso eutanasico”: (1) di “chiarire i confini che separano la somministrazione di farmaci, così come previsto dalla legge 38, per un pieno controllo del dolore, spinto fino alla sua soppressione, da possibili forme di eutanasia che puntano invece in modo chiaro e diretto alla soppressione del malato”; (2) di precisare “le ragioni etiche della sedazione profonda con particolare attenzione al consenso informato del paziente e alle modalità decisionali quando il consenso non sia stato o non possa essere espresso”.

Queste le premesse che, dopo alcune audizioni, hanno poi motivato il CNB ad approvare il Parere di cui si vogliono qui esaminare le (poche) luci e le (molte) zone d’ombra per poi provare a trarne un bilancio complessivo volto a verificare se le argomentazioni del Comitato siano o meno condivisibili e, soprattutto, se esse siano o meno in grado di dare una risposta ai malati bisognosi di cure appropriate nel fine della vita (per il controllo il dolore) e qualche soluzione pratica ai molti problemi con cui i medici si confrontano in queste non rare situazioni, senza temere le ripercussioni a livello giudiziario delle loro scelte (astensive e non).

Le raccomandazioni del CNB sulla sedazione palliativa profonda continua

Il parere del CNB, oltre all’introduzione del Suo presidente, consta di sette brevi paragrafi, di due appendici (una normativa, l’altra tecnico-medica), di una postilla di Carlo Flamigni, di una dichiarazione che spiega il voto contrario di Demetrio Neri e del quesito posto al Comitato stesso dall’On. Paola Binetti.

Nel primo paragrafo (Premessa) il CNB, dopo aver ricordato l’”impatto decisivo sulla modifica della normativa che regola in Italia le cure palliative e la terapia del dolore” impressa dal parere La terapia del dolore (2001), fa uno sfumato cenno alla eterogenea situazione italiana che emerge dal Rapporto al Parlamento sullo stato di attuazione della legge n. 38/2010 per l’anno 2015 e al sotto-utilizzo di farmaci oppioidi nel nostro Paese pur dando atto che, nel 2014, l’Organizzazione mondiale della sanità ha impegnato tutti gli Stati a sviluppare le cure palliative[1]: ritenute “un diritto umano fondamentale” esistendo 19 milioni di adulti che, ogni anno, ne avrebbero necessità [2] a causa dell’intervenuto cambiamento dello scenario epidemiologico registrato in tutti i Paesi industrializzati. Questi accenni, ove si condivida la loro pertinenza con il tema trattato, richiedevano però di essere meglio sviluppati perché l’ingiustizia (e la disuguaglianza) nei livelli di accesso alle prestazioni è un capitolo di straordinaria importanza nel dibattito bioetico contemporaneo; che avrebbe richiesto una maggior attenzione da parte del CNB il quale, in questa parte del Parere, afferma testualmente che “la sedazione profonda ha caratteristiche specifiche rispetto alle cure palliative ed alla terapia del dolore” che sarà poi smentita più avanti, quando nella parte dedicata al consenso, il Comitato afferma che la sedazione profonda è “parte della medicina palliativa”. Essendo chiaro che ogni forma di cura dedicata all’essere umano ha caratteristiche specifiche (proprie) le quali, tuttavia, non possono portare alla scomposizione delle aree disciplinari se non a costo di produrre pericolosissime e difficilmente trattabili fratture.

Il secondo paragrafo (Terminologia e definizione della pratica) si concentra sui termini e sul loro significato. Precisato che l’oggetti del Parere è “la sedazione profonda, continua, nell’imminenza della morte”, il CNB chiarire l’equivocità del termine sedazione terminale proponendo il suo definitivo abbandono linguistico e la sua sostituzione con sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte. Rappresentandola “come la somministrazione intenzionale di farmaci ipnotici, alla dose necessaria richiesta, per ridurre il livello di coscienza fino ad annullarla, allo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo, senza controllo, refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile per il paziente, in condizioni di malattia terminale inguaribile in prossimità della morte”: con la conseguenza che la terminalità, inizialmente bandita dal Comitato, fa la sua improvvisa ricomparsa rientrando sul palcoscenico attraverso la finestra della situazione clinica (malattia).

Un’ulteriore precisazione semantica operata dal CNB riguarda la refrattarietà del sintomo che deve essere verificata “valutando che: a) il suo controllo non possa avvenire attraverso un dosaggio adeguato e proporzionato di farmaci (il più basso livello di sedazione in grado di risolvere il sintomo refrattario, con le minime conseguenze collaterali negative); b) ogni diverso o ulteriore intervento terapeutico non farmacologico non è in grado di assicurare entro un tempo accettabile sollievo al paziente o un sollievo tale da rendere tollerabile la sofferenza”. La proposta del CNB, in piena sintonia con quella espressa dalla Società italiana di Cure palliative[3], è convincente anche se qualche imbarazzo pone l’affermazione che “lo stato di refrattarietà di un sintomo deve essere accertato e monitorato da una équipe esperta in cure palliative di cui facciano parte medici, infermieri, psicoterapeuti”. Se l’expertise in cure palliative è fuori discussione, sostenere che essa richiede la copresenza di medici, infermieri e psicoterapeuti (rectius, psicologi visto che la psicoterapia è una disciplina autonoma) è una affermazione che ci fa capire come il CNB voglia mantenere una congrua distanza di sicurezza dalla realtà della sanità pubblica italiana che, purtroppo, risente delle misure di spending review, del decremento delle risorse umane e dell’intervenuto razionamento dei servizi.

Dopo tali precisazioni linguistiche, due sono le questioni nodali affrontate in questa parte del Parere dal CNB.

La prima prova a dare una risposta ad uno dei due quesiti posti dall’On. Binetti indicando quali sono le “circostanze” che devono essere contestualmente presenti “per legittimare eticamente il trattamento”: indicate dal Comitato nel consenso informato del paziente, in una malattia inguaribile giunta ad uno stadio avanzato, nella morte imminente attesa entro poche ore o pochi giorni e nella presenza di uno o più sintomi refrattari o di eventi acuti terminali con sofferenza intollerabile per il paziente. Solo in presente di queste situazioni cardine, il Comitato ritiene “si possa adottare un protocollo di sedazione profonda e continua” ma non in altre in cui essa diventerebbe una pratica medica moralmente illecita.

La seconda riguarda, invece, i rapporti e le relazioni tra la sedazione profonda e la sospensione delle cure di supporto “che costituiscono la continuità terapeutica propria dell’assistenza al malato terminale, garantita attraverso la continuità delle funzioni vitali sostenute artificialmente (es. ossigenoterapia, idratazione, alimentazione artificiali, ecc.)”. Ritiene, al riguardo, il CNB che non esiste una regola generale, che “si dovrà giudicare caso per caso, tenuto conto che molte di queste cure sono sintomatiche e necessarie per alleviare la sofferenza” e che, nel caso di persone che si trovano nella imminenza della morte, “la nutrizione/idratazione artificiale non trova indicazione per le gravi concomitanti alterazioni del metabolismo”. Queste scelte suscitano, naturalmente, un profondo imbarazzo a chi di noi ha esperienza del fine della vita e della morte accertata secondo le modalità di legge. Affermare che le misure di sostegno vitale devono essere garantite a pazienti che dovranno essere sedati nelle condizioni cardine indicate dal Comitato, sostenendo che esse hanno una finalità antalgica, è una vera e propria assurdità visto che la sedazione profonda continua si propone proprio lo scopo di annullare la coscienza della persona e – dunque – la possibilità di provare dolore. A meno che il CNB, con questa contraddizione, abbia voluto guardarsi dai pericoli dell’anticipazione della morte laddove non si condivida l’idea che la sedazione profonda e continua non modifica in alcuna maniera la naturalità della cascata biologica. E distinguere da questi trattamenti di sostegno vitale l’alimentazione e la nutrizione forzata che, a giudizio del  CNB, sembrano non farne parte ed essere un qualcosa di diverso dalle misure di prosecuzione della vita. Convince, invece, l’idea espressa in questo parte del Parere dal CNB che la persona sedata debba essere monitorata periodicamente e che il grado di sedazione ottenuta debba essere annotato in Cartella (o scheda) clinica come impone, peraltro, l’art. 7 della legge n. 38/2010.

Nel brevissimo paragrafo 3, contestato decisamente da Demetrio Neri che in sede di discussione ne aveva chiesto l’eliminazione, il CNB affronta le relazioni tra la sedazione profonda continua e l’eutanasia. La premessa da cui muove il Comitato non convince pur nella sua elegante artificialità: in essa si precisa che il CNB “non intende […] affrontare il problema etico che suscita l’eutanasia o il suicidio assistito o l’omicidio del consenziente” limitandosi ad affrontare, “limitatamente al piano descrittivo, se l’uso di farmaci sedativi fino alla perdita dello stato di coscienza per dare sollievo a sofferenze insopportabili nelle ultime ore o giorni di vita (sedazione profonda continua nell’imminenza della morte) possa essere considerato atto eutanasico”. La posizione del Comitato è che sedazione profonda ed eutanasia sono da collocare, sul piano almeno descrittivo, su piani diversi come confermerebbero i dati della letteratura internazionale[4] [5] avendo gli stessi dimostrato che la durata media della sopravvivenza dei pazienti sedati in fase terminale non differisce da quella dei pazienti non sedati [6] [7] anche se, sulla questione, Carlo Flamigni ha espresso il suo dissenso. Sul piano almeno descrittivo (senza così discutere il giudizio di valore che dovrebbe essere il nucleo centrale di ogni deliberazione etica), la sedazione è, così, “ un atto terapeutico che ha come finalità per il paziente alla fine della vita quella di alleviare o eliminare lo stress e la sofferenza attraverso il controllo dei sintomi refrattari, mentre l’eutanasia […] consiste nella somministrazione di farmaci che ha come scopo quello di provocare con il consenso del paziente la sua morte immediata”: la prima non abbrevia la vita, la seconda la seziona bruscamente, interrompendola.

Nel paragrafo 4, il CNB esamina la questione del consenso (non affrontata dalla legge n. 38/2010) con uno sviluppo argomentativo complessivamente poco incisivo, spesso confuso e che conferma la decisione del Comitato di voler mantenere un’ampia distanza di sicurezza dalla pratica clinica. La partenza da cui muove il CNB è, sul piano almeno teorico, convincente anche se con alcune specifiche su cui ritornerò più avanti: anche per “la sedazione profonda, parte della medicina palliativa, non si può rinunciare ad un modello di approccio terapeutico incentrato sul paziente come protagonista delle cure e il consenso informato appare, dunque, un elemento fondamentale del rapporto di cura”. Il principio personalistico dell’autonomia della persona viene, così, confermato dal CNB come il cardine su cui poggia la relazione di cura anche se molte sono le zone d’ombra e le incertezze che si colgono nello sviluppo argomentativo. Se è, infatti, condivisibile l’affermazione che il consenso non può esaurirsi nella firma di un documento cartaceo, ampie perplessità suscitano due affermazioni del Comitato: che il “processo decisionale va declinato nell’ambito dell’alleanza terapeutica, tra paziente/famiglia del paziente/personale sanitario e tale alleanza dovrebbe condurre verso un consenso non solo informato, ma anche condiviso”; e che “più che l’acquisizione del consenso a specifici trattamenti antidolore, si ritiene fondamentale il raggiungimento di un accordo di fondo, ovvero la ricerca di una fiducia condivisa sulla base di alcuni desideri, scelte di vita, valori manifestati dal paziente e maturati nell’ambito della relazione con i curanti”. Un consenso condiviso con i familiari della persona, garantito “da una pluralità di voci in una decisione partecipata, e presa al termine di una esauriente informazione sulla gravità evolutiva dei sintomi della fase terminale, sugli obiettivi e sulle modalità della sedazione, fornendo spiegazioni sia sul piano clinico che etico” urta, infatti, l’autonomia della stessa laddove si consideri l’ampiezza dei condizionamenti parentali che incidono sulle nostre scelte biografiche e le scomposizioni identitarie che si verificano sempre nel caso (purtroppo frequente) di opinioni antitetiche. Peraltro, confondere la relazione fiduciaria con un “accordo di fondo” riapre la porta al paternalismo medico come ha giustamente evidenziato Demetrio Neri motivando il suo parere negativo e non risolve certo le difficoltà pur ammesse dal Comitato. Al di la di ciò, il CNB dimostra avere consapevolezza sul diritto della persona a rifiutare la sedazione profonda condividendo l’idea che al dolore ed alla sofferenza “il singolo possa attribuire un senso religioso o comunque un significato personale o che voglia conservare un contatto con il mondo che lo circonda o vivere fino in fondo anche il momento della morte”, che il diritto a non soffrire valga anche per il paziente “che rifiuta un trattamento o più trattamenti sanitari o rifiuta di fare uso di tecniche strumentali di sostegno delle funzioni vitali” e che sia davvero difficile accertare la reale volontà ed i desiderata della persona nell’imminenza della morte quando, di norma, alla stessa sono stati somministrati principi attivi (analgesici narcotici) che interferiscono sempre la moral agency. Che non può essere confusa, come fa purtroppo il Comitato, con la capacità di intendere e di volere perché, come si vedrà, questa capacità e l’agency (o la competence) non sono un’endiadi.

Discutibile appare poi l’idea che nel caso di compromissione di questa capacità il ruolo vicario possa essere esercitato dai familiari della persona che, come si sa, non hanno alcun potere di rappresentanza come il mondo medico continua purtroppo ostinatamente a ritenere..

Le oggettive difficoltà del processo decisionale attuato nell’imminenza della morte quando la persona è logorata da sintomi refrattari al trattamento medico tradizionale sono riconosciute dal CNB ma non affrontate se non attraverso il richiamo alle dichiarazioni (rectius, direttive) anticipate di trattamento anche alla luce della recente presa di posizione assunta dal Consiglio d’Europa nella Guida al processo decisionale nell’ambito del trattamento medico nelle situazioni di fine vita (DH-BIO, 2005), ed a prescindere, dunque, dal loro riconoscimento giuridico che registra in Italia un colpevole ritardo. Dichiarazioni anticipate di trattamento che il Comitato confonde però con la pianificazione anticipata delle cure anche sulla scia di un recente documento approvato dalla Società Italiana di Cure Palliative [8]. Perché, come si vedrà, anche la volontà anticipata e la pianificazione anticipata delle cure non sono un’endiadi.

Superflua sembra essere poi l’affermazione del CNB sull’esigenza che “la decisione di ricorrere alla sedazione deve pur sempre rimanere una decisione terapeutica condivisa dai sanitari che, pertanto, se ne assumono le relative responsabilità professionali al pari di tutte le altre decisioni terapeutiche prese nel corso dell’assistenza” che, tuttavia, trascura di affrontare la questione del come si debbano affrontare e dirimere le sempre possibili posizioni discordi.

Nel paragrafo 5, il CNB affronta la delicatissima questione della sedazione profonda nel minore dimostrando consapevolezza sul fatto che, nel bambino, “la fase di supposta terminalità non sempre è identificabile con certezza” e che il dolore, in questi pazienti, può condizionare negativamente l’aspettativa di vita. Da ciò l’esigenza, condivisibile, di trattare sempre il dolore in maniera appropriata ed in sicurezza con terapie che, purtroppo, sono spesso non label e riguardo alle quali era auspicabile una decisa presa di posizione da parte del Comitato per le molte e controverse questioni disattese ed irrisolte; anche perché, su questa delicatissima questione, non esiste purtroppo specularità tra le regole cautelari giuridiche e quelle imposte dalla deontologia medica che, come è noto, impone la raccolta del consenso in modalità scritta. Riguardo al processo decisionale nel minore, il Comitato raccomanda il suo costante coinvolgimento attivo auspicando, nell’ipotesi in cui la sedazione profonda sia rifiutata dai genitori, il ricorso al Comitato etico pediatrico locale trascurando, però, che questa è una realtà poco diffusa a livello locale e che l’interesse del minore deve essere comunque perseguito avvalendosi, doverosamente, della competente Autorità giudiziaria. Come conferma peraltro l’art. 37 del Codice di deontologia medica; sempre che, naturalmente, la sedazione profonda sia un trattamento proporzionato che persegua il best interest del minore e non un rimedio di comodo per sopire le coscienze professionali e genitoriali.

Nel paragrafo 6, il CNB affronta il tema dell’Hospice e quello della formazione professionale auspicando che la formazione del personale dedicato alle cure palliative “dovrebbe incoraggiare approcci interdisciplinari collegando scienze umane e medicina e favorendo lo sviluppo di competenze etiche”. Perché la dimensione delle cure palliative si confronta “con i tradizionali principi etici che guidano le dimensioni cliniche: non maleficienza, beneficienza, consenso informato, equità” nella dichiarata consapevolezza “che i problemi di ordine etico, deontologico e sociale sono tanto più delicati e complessi quanto più si ha a che fare con persone fortemente vulnerabili che stanno tra la vita e la morte”.

Nel paragrafo 7, il CNB formula, infine, le nove Raccomandazioni finali che sintetizzano, peraltro, quanto già in precedenza affermato.

Note critiche al Parere del CNB

C’è subito da chiedersi se il Parere recentemente approvato dal Comitato nazionale per la bioetica sia un (dotto) “escamotage” che “con ammiccante ipocrisia […] consente a molti medici che operano nelle istituzioni di terapia intensiva di poter lavorare senza temere l’intervento della giustizia” come affermato da Carlo Flamigni in sede di postilla o se, al contrario, esso sia un’opportunità che, nella condivisione generale, consenta di fare davvero un passo in avanti a garanzia della raggiunta maturità della cura.

Il mio pensiero è che il Parere, pur esplorando una questione davvero complessa – vorrei dire quasi di frontiera – non affronta volutamente le molte questioni controverse lasciando irrisolte le incertezze di chi si trova quotidianamente ad affrontare le ampie zone d’ombra del fine della vita e della dignità della morte. Che, anzi, prendono la forma di un cono d’ombra ancora più ampio soprattutto perché il CNB dimostra, ancora una volta, di voler osservare da lontano le questioni difficili della pratica clinica mantenendo una prudente distanza di sicurezza. Scontentando però alla fine tutti, senza dimenticare i molti di noi che guardano ancora con fiducia al CNB per avere chiarezza sull’eticità dei comportamenti professionali sapendo cogliere le opportunità offerte dai valichi di frontiere che si sono progressivamente creati tra l’etica ed il diritto: funzionali ad entrambi perché se l’etica chiede al diritto il suo legittimo riconoscimento, il diritto chiede contestualmente ad essa l’osservanza consapevole (non supina) dei suoi obblighi e dei suoi vincoli.

Spiego le ragioni della mia delusione e del mio imbarazzo contestualizzandoli non già in astratto ma a partire dalla realtà italiana per come la stessa è stata di recente fotografata [9] (full text) in un’indagine trasversale condotta su 8.950 medici ospedalieri di 14 province diverse. L’indagine, finalizzata ad indagare l’atteggiamento dei medici italiani nel fine della vita, ha confermato l’alta prevalenza di pazienti che muoiono dopo essere stati sedati profondamente pur avendo evidenziato che scelte cliniche tra di loro molte diverse possono convergere sotto la stessa etichetta: essa ha, infatti, dimostrato che, sul totale dei 1.855 decessi segnalati dagli intervistati, il 79,2% degli stessi erano stati classificati come morti previste, che il 18,2% di questi decessi si era verificato in sedazione profonda praticata prevalentemente su indicazione dell’anestesista e che nell’8% dei casi la morte si era verificata a latere del brusco incremento del dosaggio degli oppioidi nell’ultimo giorno di vita somministrati al paziente non con finalità eutanasica ma dopo la sospensione delle terapie di sostegno vitale decisa dai familiari della persona non più competence.

La mia prima critica muove dalla scelta dei criteri operata dal CNB a qualificare l’eticità della sedazione continua e profonda. Perché, se si può essere d’accordo sull’esistenza di una malattia inguaribile giunta oramai in fase avanzata e con la presenza di uno o più sintomi refrattari alle cure mediche tradizionali, grande imbarazzo suscita il richiamo all’imminenza della morte: imminenza circoscritta dal Comitato addirittura a poche ore o a pochi giorni (ma quanti e con quale limite?). Perchè questo richiamo temporale è (a)tecnico non esistendo, al momento, nessun criterio scientifico di certezza che è in grado di prospettare come imminente la realtà della morte (come ha giustamente osservato Carlo Flamigni) e perché, anche laddove ne disponessimo, un tale criterio di subordinazione cronologica per iniziare la sedazione continua profonda è destinato a creare una irragionevole frattura tra chi è nell’imminenza della morte e chi non lo, pur essendo comunque affetto da una malattia inguaribile e con una non trattabile espressività clinica. Questa previsione, oltre che (a)tecnica) e così foriera di una profonda disuguaglianza considerato che, come sembra anche ammettere anche il CNB, il trattamento del dolore è un diritto inalienabile dell’essere umano che può incrinare e minare la sua stessa dignità. Non è così accettabile indicare un limite artificiale (disumano) alla progressione della malattia inguaribile per dar inizio alla sedazione palliativa a patto di non discriminare gli esseri umani ed a patto di voler proseguire su quella strada della cura che si confronta con la nostra stessa identità di genere: farlo significa disprezzare la persona e renderla ancor più vulnerabile rispetto alla sua umana vulnerabilità storicizzata da ogni malattia inguaribile.

La seconda critica che devo muovere al CNB riguarda l’aver confuso le dichiarazioni anticipate di trattamento con la pianificazione anticipata delle cure indicate come se le stesse fossero un’endiadi. Perché si tratta di realtà diverse pur essendo interferite dalle tante insufficienze che attraversano i diversi modelli antropologici su cui può essere fondata la relazione di cura.

Se è vero, infatti, che il paternalismo medico ha qualche indiscutibile peccato originale, altrettanto vero è che il modello che afferma la supremazia del principio di autonomia della persona finisce con lo spostare le asimmetrie e le solitudini, senza però comporle e risolverle. Con un ulteriore pericolo insito in questo modello rinvigorito dall’avvenuta costituzionalizzazione dei diritti inviolabili dell’essere umano: quello di convincere il medico ad agire comportamenti burocraticamente poco virtuosi, realizzati al di fuori degli standard ottimali della relazione dialogica a e con l’obiettivo di non avere/evitare guai. Pur convenendo sul fatto che il nostro ordinamento sancisce il legittimo diritto della persona umana di rifiutare un trattamento sanitario salvo le riserve di legge (artt. 13 e 32 Cost.), ciò non significa che esso possa essere preteso dalla persona o da chi per essa al di fuori (ed in spregio) delle prassi che qualificano il prudente esercizio dell’arte della cura ed il diligente rispetto delle sue regole cautelari. Regole che devono essere rispettose degli standard scientifici riconosciuti dalla comunità professionale e saper conto del principio di giustizia distributiva ; valutandone, dunque, l’impatto sulla collettività e sulla sostenibilità dei costi se si vuole, naturalmente, riconoscere a questo principio-cardine dell’etica medica il suo più autentico significato pratico. Con la conseguenza che ciò che è giusto e beneficiale fare sottostà a precise regole di comportamento che devono saper bilanciare tra loro questi principi senza riconoscere all’uno o all’altro il primato ed una supremazia per così dire dal carattere egemone. Anche se autorevoli interpreti del liberalismo politico [10] e [11] hanno enunciato una teoria della giustizia affermando la priorità del giusto sul buono in una prospettiva deontologica di matrice kantiana: con la conseguenza che le sue esigenze prevalgono su tutti gli altri interessi e che il bene viene subordinato dal diritto che ne fissa anche i limiti.

Se è, dunque, la persona l’indiscusso protagonista di ogni scelta nel campo della cura, questa libertà non può essere né illimitata né incondizionata perché il diritto al rifiuto non può trasformarsi nel diritto a ricevere quelle cure scientificamente non validate e, quindi, inappropriate e futili; anche a salvaguardia della responsabilità del medico, della sua indipendenza, integrità e libertà professionale che, come la libertà individuale, sono pure principi di rango costituzionale.

È in questa prospettiva che, a mio modo di vedere, occorre ripensare al paradigma fondante la relazione di cura, a patto che si voglia affrontare in termini compositivi le asimmetrie, i vuoti, i pieni, le solitudini e gli inevitabili conflitti che ne possono sempre conseguire. Nella direzione auspicata da quelle guideline internazionali che sviluppano il modello shared decision-making: un modello in cui le maturità dei protagonisti si incontrano non solo sul versante delle informazioni ma su quello biopsicosociale ed in cui la decisione condivisa non è il frutto di una mediazione o di un compromesso ma un vero e proprio riconoscimento reciproco in cui il sapere scientifico incrocia le diverse umanità, della persona, della sua famiglia ed anche del professionista. Con lo spostamento dell’asse comunicativo che risulta essere oggi prevalentemente focalizzato sui ‘pro’ e sui ‘contro’ di ogni trattamento, espressi, molto spesso, in termini di freddo rischio predittivo espresso in percentuale statistica. Di cui la persona viene informata non già con l’obiettivo di metterla nelle condizioni di assumere una decisione libera ed autentica ma, in non rari casi, allo scopo di precostituire quelle cause di giustificazione cui aggrapparsi nell’ipotesi malaugurata di comparsa di effetti collaterali gravi. In quella prospettiva difensivistica cui, purtroppo, si ispirano molti modelli di consenso (poco) informato che si chiede di documentare per iscritto, spesso anche alla presenza di testimoni.

Certo, il cambiamento di prospettiva che mi sento di proporre è radicale. Perché essa, sviluppata nel nostro Paese con la forma dell’empowerment, è centrata non già sui rischi ma sugli effetti del trattamento medico proposto sulla vita quotidiana della persona, mai fatta non di spesso ampi range numerici percentuali e di fredde statistiche alimentandosi di quelle piccole cose che ci consentono di essere persone umane in senso pieno, di sviluppare la nostra dimensione affettiva, personologica e relazionale e di percorrere la nostra parabola di vita che è costantemente messa alla prova dalla variabile tempo messo a nostra disposizione. In quella struttura identitaria che ci caratterizza e che ci fa essere persone umane uguali pur nella loro significativa diversità fenotipica (biografica) e che pretende il possesso di informazioni ampie, non già in astratto e fornite in prospettiva tecnica ed uni-direzionale dal professionista. Con l’obiettivo di tessere relazioni umane forti e significative per il tramite di quell’agire comunicativo [12] che deve saper guardare, lealmente e seriamente, ad una persona concreta e reale, inserita in quell’altrettanto ambiente reale che tesse la sua umanità, la sua identità, la sua biografia e la sua stessa dignità. Sapendo anche cogliere le opportunità che ci sono date dal processo della pianificazione anticipata delle cure discutendo, con la persona (e con chi ne ha eventualmente la rappresentanza giuridica), la possibile traiettoria della malattia ed i provvedimenti terapeutici che potranno essere presi in esame anche quando la stessa non avrà più voce. Per tenere comunque in considerazione i desideri, le sue preferenze e la sua volontà che, naturalmente, può riguardare anche la sedazione continua e profonda. Dunque, non con la sottoscrizione di uno tra i tanti documenti prestampati e disponibili anche on-line che fanno oramai parte di quel qualcosa ambiguamente noto come testamento biologico di cui qualche Autore ha segnalato l’esplicito fallimento [13]. Ma con la costruzione, graduale e progressiva, di una advance care planning che alcune guideline nordamericane indicano di documentare con l’utilizzo dei moduli MOLST (Medical Orders for Life Sustaining Treatment) non ancora entrati, purtroppo, in uso nel nostro Paese, che hanno il pregio di standardizzare le definizioni, di qualificare quei trattamenti che non possono essere genericamente definiti con la formula ambigua del sostegno vitale (o dei mezzi di prosecuzione artificiale della vita] e di seguire, passo a passo, il processo di formazione dinamica della volontà che può anche cambiare e modificarsi nel tempo.

Terza questione: confondere, come fa il CNB, la moral agency (o competence) con la capacità di intendere e di volere è un imperdonabile errore che deve essere segnalato auspicando un rapido intervento correttivo.

Capacità di intendere e di volere e moral agency sono, infatti, costrutti categoriali diversi, non sovrapponibili e non confondibili [14].

La prima è, infatti, un’attitudine della persona giuridica risultando dal combinato funzionamento di due diverse capacità: quella di intendere (di rappresentare il valore ed il disvalore giuridico delle azioni) e quella di volere, di determinarsi, cioè, in modo coerente con le rappresentazioni mentali: una capacità, la prima, di carattere sostanzialmente razionale ed una capacità, la seconda, di mantenere saldo il controllo razionale sulle emozioni, sui sentimenti e sulle passioni per agire comportamenti ritenuti doverosi (e legittimi) dall’ordinamento. Pacificamente, essa presuppone un mondo di obblighi fissati e predeterminati dall’ordinamento giuridico che fornisce un insuperabile (tassativo) elenco delle infrazioni e delle sanzioni previste nell’ipotesi di una loro violazione. Da ciò una libertà di azione limitata e condizionata dalla lex poli che è il tessuto vitale all’interno del quale prende forma e dimensione la capacità di intendere e di volere. Capacità che è così chiamata a confrontarsi con questo mondo esterno, popolato da libertà di tipo sostanzialmente negativo, che vive, in questa prospettiva, indipendentemente da ogni nostra biografia personale, dai nostri valori di riferimento, dai principi educativi che ci sono stati dati, dalle attese, dai nostri desideri, dalla parabola di vita che ciascuno di noi ha scelto responsabilmente di percorrere, dalla nostra umanità identitaria e, in ultima analisi, dalla nostra stessa idea di dignità. In termini ancor più ampi, dalla nostra memoria personale e dalla promessa che ciascuno di noi storicizza in ogni scelta di vita; da una biografia identitaria che è pur fatta di carne, di umanità, da un ‘io’ irripetibile che si confronta con il ‘noi’ delle relazioni personali e dei nostri affetti o, con una parola spesso abusata, da una coscienza individuale continuamente lacerata, quotidianamente e faticosamente ricostruita per dare ad essa una qualche forma di coerenza: cosa che richiede l’integrità della memoria, di ricordare ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare nel nostro arco di vita per realizzare, di conseguenza, quei progetti che ci siamo dati come obiettivo da realizzare. Anche se quest’idea può essere considerata alla sola condizione (teorica) che la parabola di vita sia di tipo lineare e che la nostra vicenda umana non sia interferita da difetti o rotture che incidono la nostra percezione del sé e quell’identità narrativa che è la base di ogni progetto di vita.

In questa chiave interpretativa, la persona umana capace di intendere e di volere è una maschera che l’ordinamento giuridico disumanizza proprio riguardo ai principi ed ai valori personali ponendola in relazione ad una sola parte del mondo esterno: quella della legalità e dell’ordine costituito che, naturalmente, tiene in principale conto gli interessi comuni e quelli collettivi. E non certo in modalità soft viste le sanzioni previste dall’ordinamento per ogni nostra infrazione alla legge scritta, finalizzate, evidentemente, a far soffrire il colpevole per la colpa commessa ma con una responsabilità, per così dire, ridotta ed amputata, considerata nella sua sola prospettiva negativa; come impedimento che lo Stato di diritto impone a ciascun cittadino e che lo pone di fronte alla sola ed esclusiva violazione della norma.

Diversamente, la moral agency. Perché essa, al di là dei diversi orientamenti filosofici che pur ci sono, è un’attitudine della persona umana che chiama in causa le sue libertà positive che non sono né illi positive che non sono né illimitate nè incondizionate. Libertà che, pur condizionate dall’ordinamento, esprimono la capacità della persona di avere, oltre agli interessi critici, anche interessi di esperienza, di provare gioia e dolere, di avere sentimenti e di formulare giudizi di valore indipendentemente dalla loro coerenza sul piano della biografia personale. Assumendo decisioni che – diversamente dalla capacità di intendere e di volere che pur le condiziona attraverso i divieti e le sanzioni – supportano ogni nostro processo di individuazione e di coscientizzazione anche simbolica; con una espressione della libertà in direzione aperta, costruttiva e coerente con ciò che siamo, pur con i condizionamenti provenienti dal mondo esterno, dai legami sociali ed affettivi, nel rispetto dei nostri valori di riferimento e della nostra stessa idea di dignità. In una prospettiva ampia che, pur nel rispetto delle prescrizioni date dall’ordinamento, ci consente di esprimerci per ciò che siamo e di sviluppare gradualmente e progressivamente la nostra stessa identità e personalità. Lungo un arco di vita che non è quasi mai di tipo lineare, per le sue variabili cronologiche ed esperienziali ed all’interno del quale la persona umana sviluppa il suo processo di individuazione e di coscientizzazione; non solo per il tramite delle esperienze provenienti dal mondo sensibile ma, soprattutto, grazie alla memoria ed alla promessa. Perché la memoria ci consente di dare un sostegno all’identità personale nonostante le sue trappole ed i fenomeni di oblio che sono giunti al punto estremo di negare i crimini e le atrocità commesse contro l’umanità nel secondo conflitto bellico nei lager nazisti; e perché la promessa, nonostante i sempre possibili tradimenti, ci permette di rivolgere lo sguardo al futuro e di mantenere l’integrità di quel sé che si genera nella fedeltà alla parola data, nell’affidabilità che ci consegna a noi stessi in quella dimensione fiduciaria che ci riappacifica con la concezione agostiniana del tempo recuperandone, soprattutto, gli spunti non metafisici. Dato che la memoria crea sempre un ponte con il passato, mentre la promessa è la piattaforma e la base di lancio del futuro. In questa dimensione, straordinariamente umana, vitale, non astratta e non condizionata dai soli precetti prescrittivi deve essere collocata la moral agency della persona umana. Rappresentando, essa, la capacità di autodeterminazione che dobbiamo valorizzare come una scelta sostanzialmente e prioritariamente morale.

Capacità di intendere e di volere e moral agency non sono, dunque, un’endiadi pur dovendo ammettere l’esistenza di qualche punto di contatto tra queste categorie concettuali. Perché le libertà positive della persona umana non possono certo prescindere dai divieti fissati dall’ordinamento giuridico e perché entrambe prevedono un doppio binario di giudizio. Il primo, uguale ad ambedue, è di tipo descrittivo essendo finalizzato ad individuare l’esistenza di una infermità che non è sempre e solo di mente. Il secondo è di tipo esplicativo, con una prospettiva però diversa: di tipo psichiatrico-forense nel caso della capacità di intendere e di volere che deve sviluppare il profilo criminodinamico e quello criminogenetico; in prospettiva biografica, invece, per la moral agency che richiede di essere considerata (ed esplorata) in riferimento all’identità di quella specifica persona posta in quel determinato contesto di vita. Investendo, quest’esplorazione, tutta una serie di luoghi o di abilità funzionali sulle quali esiste un sufficiente accordo nella letteratura internazionale [15] (full text) che le ha indicate: (a) nella capacità di manifestare una scelta; (b) nella capacità di comprendere le informazioni, (c) nella capacità di dare un giusto peso alle medesime, (d) e nella capacità di utilizzare razionalmente le informazioni. Suggerendo, di conseguenza, l’utilizzo di strumenti standardizzati, come ad es., la MacCAT-T e MacCAT-CR specifica per l’arruolamento delle persone in trials clinici sperimentali impiegati per ridurre la soggettività clinica anche se questi strumenti faticano a trovare un ampio utilizzo nel contesto clinico italiano anche perché non ancora validati. Per ragioni che non sono in grado di esprimere anche se, probabilmente, la causa di ciò è da ascrivere alla circostanza che essi non hanno score o livelli soglia al di sotto dei quali la moral agency della persona umana è sempre e comunque compromessa. Si tratta, infatti, di interviste semi-strutturate, di relativamente facile somministrazione, in tempi sufficientemente contenuti (15-30 m’), validate non con l’obiettivo di essere uno strumento esaustivo ma come un ausilio nella valutazione. Valutazione che, oltre agli aspetti clinici, deve indagare quelli personologici e biografici di quella specifica persona avendo la moral agency una dimensione individuale ed una valenza assiologica sostanzialmente umana. Abbandonando definitivamente quei pregiudizi che la confondono con la capacità di intendere e di volere, quegli stigmi in ragione dei quali esisterebbero malattie (ad es. le demenze) la comprometterebbero sempre e comunque e quelle becere ed (a)tecniche prassi purtroppo diffuse che la esplorano con batterie neuro-testistiche elaborate per altre finalità (il MMSE) riconoscendo ad esse un potere, per così dire, taumaturgico nel differenziare la capacità dall’incapacità sulla base di discutibilissimi valori soglia (pre)definiti non si capisce bene sulla base di che cosa.

Quarta questione che suscita imbarazzo: l’idea che la sospensione delle cure di sostegno vitale debba essere valutata, caso per caso e con ampia prudenza, dopo che la persona sedata in maniera continua e profonda eccezion fatta per l’idratazione e l’alimentazione che, a giudizio del CNB, sono terapie mediche che devono essere sempre sospese.

Questa tesi non mi convince per due ordini di ragioni.

Differenziare, anzitutto, per l’ennesima volta, l’idratazione e l’alimentazione forzata dalle altre terapie di sostegno vitale è un rischio gravissimo che pur corregge l’impostazione che lo stesso CNB aveva in precedenza seguito quando aveva ritenuto che queste ultime dovevano essere considerate come mezzi ordinari di prosecuzione della vita. L’affermare poi che le terapie di sostegno vitale non devono essere sospese affermando che esse riducono il dolore e la sofferenza è un controsenso che sembra mettere in secondo piano lo scopo reale della sedazione che è quello di sospendere la coscienza. A meno che il CNB non abbia voluto lanciare il sasso per poi nascondere la mano appellandosi alla necessità del sostegno senza però toccare la questione di fondo che è quella della anche quando è proporzionalità del trattamento. Che nella Guida al processo decisionale nell’ambito del trattamento medico nelle situazioni di fine vita approvata nel 2012 dal Comitato di Bioetica del Consiglio d’Europa (DH-BIO) viene ponderato in relazione: (a) ai benefici, ai rischi ed ai limiti del trattamento medico in base ai risultati attesi sulla salute del paziente; (b) alle aspettative della persona. Dal ponderato bilanciamento di questi aspetti deriva la valutazione del beneficio complessivo per la persona “non solo con riferimento ai risultati del trattamento della patologia o dei sintomi, ma anche alla qualità della vita del paziente e al suo benessere psicologico ed alle esigenze spirituali”. Quando il trattamento è sproporzionato ed irragionevole in relazione alla situazione globale della persona, allo sviluppo della patologia di base “il medico può legittimamente decidere, nel dialogo con il suo paziente, di non iniziare il trattamento o di interromperlo». anche se, in via generale, «non esiste alcun mezzo evidente per misurare a priori la sproporzione di un trattamento che possa applicarsi a tutte le situazioni individuali”. Con una difficoltà di base che deve essere depotenziata con “la relazione di fiducia tra medici, persone che si prendono cura dei malati (carers) e pazienti […]” nel non sempre facile bilanciamento tra l’autonomia della persona ed il rispetto della dignità di quelle persone vulnerabili e non più in grado di esprimere autenticamente la loro voce ed i loro desiderata. La Guida suggerisce, a questo riguardo, un particolare modo pratico di operare per decidere sulla proporzionalità o meno delle terapie di sostegno vitale prevedendo i seguenti steep: “definire le modalità pratiche della discussione (luogo, numero dei partecipanti, numero degli incontri previsti, ecc.); stabilire un arco temporale, tenendo conto, se necessario, dell’urgenza; identificare chi prenderà parte alla discussione, specificando ruolo e obblighi (colui che prenderà la decisione, relatore, verbalizzatore, coordinatore/ moderatore, ecc.); richiamare l’attenzione di tutti i partecipanti al fatto che essi devono essere pronti a cambiare le loro idee quando hanno ascoltato le visioni delle altre persone che prendono parte alla deliberazione”.

Merita riflettere su questa condivisione nell’assunzione di una decisione che non significa, per chi deve assumerla, abdicare alla propria personale responsabilità, ma decidere di non assumerla in piena solitudine e nella penombra delle stanze di degenza. Ma sotto la luce dei riflettori di chi può anche esprimere idee contrario alle nostre dandoci così l’occasione di sottoporle al vaglio critico della ragione e, se necessario, di rivederle anche per intero. Sempre lasciando traccia nella documentazioine clinica di ciò che si fa nell’interesse di quella persona e nella consapevolezza che la sostituzione vicaria, ovverosia il prendere sulle nostre spalle il peso delle persone più vulnerabili significa assumerci davvero la responsabilità di ciò che facciamo e la consapevolezza dei rischi che ci assumiamo. Sempre nel rispetto della dignità umana che resta.

Quinta ed ultima questione: il colpevole silenzio del CNB sull’uso di farmaci in modalità non label pur nella consapevolezza che la sospensione della coscienza nei minori si realizza, molto spesso, con questa modalità sulla quale poco si è riflettuto se non con qualche rara eccezione nel panorama italiano [16].

È da dire, a questo riguardo, che i vincoli normativi che limitano l’autonomia tecnico-professionale del medico non sono, almeno nel nostro Paese, una novità recente anche se l’interesse mediatico su questa questione è esploso dopo l’approvazione del Decreto ministeriale 9 dicembre 2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 15 del 20 gennaio 2016) che, in buona sostanza, ha esplicitato le condizioni di erogabilità a carico del Servizio sanitario nazionale e di appropriatezza prescrittiva di oltre 200 prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale (diagnostica e strumentale) prevendendo, per i medici inadempienti, sanzioni non certo modeste a carico degli stessi e, addirittura, del Direttore generale dell’ ASL. Questa libertà era già stata, infatti, negativamente interferita anche da interventi legislativi precedenti anche se gli stessi avevano riguardato la sola prescrizione farmaceutica per contenere quella specifica voce di spesa. Sulla questione, oltre all’Agenzia regolatoria italiana (AIFA) era, infatti, ripetutamente intervenuto il legislatore dell’urgenza a partire dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648 (‘Conversione in legge del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, recante misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996’) che ha disciplinato (art. 1, comma 4) il regime di rimborsabilità delle prescrizioni di farmaci non label: rimborsabilità che è stata circoscritta, da quella norma, all’inserimento dei “medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale», di quelli «sottoposti a sperimentazione clinica» e di quelli “da impiegare per un’indicazione diversa da quella autorizzata” in un £apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione Unica del farmaco conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa”.

La finalità generale di quella norma del 1996 è evidente e non è certo in discussione: essa si proponeva non già di limitare l’autonomia professionale del medico che è e resta un principio di rango costituzionale ma quello di contenere la spesa farmaceutica sostenuta dall’erario pubblico (con un tetto massimo allora indicato in 30 miliardi di vecchie lire).

A quella norma ha poi fatto seguito, in un periodo di grandissima turbolenza mediatica innescato dal diritto reclamato da molti pazienti oncologici di potersi curare gratuitamente con la multiterapia Di Bella, l’approvazione della legge n. 94 del 1998 (‘Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, recante disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria’). Questa legge, all’art. 3 (rubricato “Osservanza delle indicazioni terapeutiche autorizzate”), nel confermare una regola generale (quella che impone al medico di attenersi, in fase prescrittiva, alle “indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità”), ha tuttavia previsto che, “in singoli casi», si può da essa derogare potendo il medico stesso «prescrivere specialità medicinali per scopi terapeutici diversi da quelli riportati nell’autorizzazione d’immissione in commercio o per altra via o modalità di somministrazione”. Con un regime derogatorio non già incondizionato essendo lo stesso stato circoscritto dal legislatore a “singoli casi” selezionati non già astrattamente ma in “base a dati documentabili” dimostrativi che “il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purchè tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”, impegnando la “diretta responsabilità (del medico) […] previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso”.

La legge conferma, dunque, la regola generale anche se nella sola prospettiva del regime di rimborsabilità del medicinale e circoscrive, al tempo stesso, il perimetro dell’eccezione che deve essere rispettosa non solo delle conoscenze scientifiche consolidate a livello internazionale dovendo essere, anche, validata dalla manifestazione di volontà della persona previamente informata secondo la classica prospettiva personalistica data dalla nostra Costituzione (artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.). Dunque, la regola generale confermata da questa legge ordinaria è che il medico “nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente”, si debba attenere “alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità” sia pur con l’eccezione derogatoria di cui si è detto, dettata, naturalmente, ai fini della sua sola rimborsabilità.

Con una deroga non incondizionata visto che essa è stata subordinata dal legislatore dell’urgenza ad una serie di regole di tipo cautelare. Perché, in sintesi: (1) la prescrizione off-label è ammessa in singoli casi, dunque in situazioni circoscritte e non ordinarie; (2) previo consenso dell’interessato adeguatamente informato; (3) quando il medico ritenga, in base a dati documentabili di letteratura, che il paziente non può essere utilmente trattato in label; (4) purchè l’impiego off label sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo scientifico internazionale; (5) con oneri a carico del Servizio sanitario nazionale nell’ipotesi in cui il medicamento sia stato inserito nell’elenco approvato dall’Autorità regolatoria italiana come indicato dalla precedente legge del 1996.

La legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007’) è, poi, intervenuta ulteriormente sulla questione con una severità disarmante. Essa conferma che l’uso off-label di farmaci non è consentito quando quest’uso assuma “carattere diffuso e sistematico e si configuri, al di fuori delle condizioni di autorizzazione all’immissione in commercio, quale alternativa terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie per le quali risultino autorizzati farmaci recanti specifica indicazione al trattamento” circoscrivendolo ai soli trials sperimentali ed imponendo alle Regioni (ed alle Province autonome) la messa in campo di un rigido sistema di controllo interno per scoprire il “ricorso improprio” a questa pratica clinica individuando i “responsabili dei procedimenti applicativi” anche al fine della responsabilità amministrativa sotto il profilo del danno erariale. Quasi a confermare l’insufficienza di quelle regole cautelari precedentemente imposte con il richiamo ad una “diretta responsabilità” del medico confermata dal Codice di deontologia medica che, in queste situazioni, prevede addirittura la raccolta del consenso in forma scritta della persona ad ulteriore burocratizzazione ed appesantimento della relazione di cura.

Conclusioni

Il mio personale giudizio sul Parere recentemente approvato dal CNB sulla sedazione continua e profonda nell’imminenza della morte non è positivo.

Poche sono le luci e molti i coni d’ombra che restano tali e che sono stati anzi allargati da alcune idee che non convincono e che, alla fine, scontentano tutti, soprattutto le persone che soffrono. Peccato davvero e peccato che il CNB persegua la strada del non prendere una posizione chiara e definitiva sulle scelte etiche del fine della vita e sulle diverse opzioni individuali possibili. Perché una scelta di valore la si deve oggi pur fare anche se ciò non significare perseguire irresponsabilmente la rotta insidiosa della deriva eutanasica, a tutti i costi e con ogni mezzo.

A patto che si voglia davvero dare un volto espressivo a quella “decenza” [17] pubblica che non sembra più oggi essere un valore ed un’esigenza collettiva condivisa.

Bibliografia

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[16] C. A. Biagini et Al., Il trattamento farmacologico dei disturbi psicologici e comportamentali in corso di demenza. Aspetti clinici e medico-giuridici, in Psicogeriatria, 2 (suppl.), 2014.

[17] M. Avischai, (1998), La società decente, Milano, 1998.