Il trattamento del rigetto anticorpale acuto: stato dell’arte e prospettive future

Abstract

Nonostante i progressi nelle terapie immunosoppressive e i miglioramenti nella sopravvivenza del trapianto a breve termine, il rigetto anticorpo-mediato (AMR) nei portatori di trapianto di rene rappresenta ancora la principale causa di fallimento tardivo del trapianto.
Presentiamo un caso insidioso di AMR attivo tardivo che si è evoluto in un grave rigetto anticorpo-mediato cronico attivo, trattato con un approccio multifarmacologico.
In seguito, rivediamo la letteratura attuale su patogenesi, diagnosi e trattamento del AMR.
Il rigetto anticorpo-mediato si verifica tipicamente quando gli anticorpi anti-HLA donatore-specifici (DSA) si legano alle cellule endoteliali vascolari del rene trapiantato. I DSA possono preesistere al trapianto (DSA preformati) o svilupparsi dopo il trapianto (DSA de novo). I meccanismi patogenetici del AMR coinvolgono vie infiammatorie complemento-dipendenti e indipendenti che si attivano in modo variabile a seconda delle caratteristiche dell’antigene e degli anticorpi, o a seconda che il rigetto si sviluppi precocemente (0-6 mesi) o tardivamente (oltre i 6 mesi) dopo il trapianto. Il sistema di classificazione di Banff classifica il rigetto AMR in rigetto attivo mediato da anticorpi, rigetto cronico attivo mediato da anticorpi e rigetto cronico (inattivo) mediato da anticorpi.
Attualmente non esistono terapie approvate e le linee guida per il trattamento si basano su dati di bassa evidenza scientifica. Pertanto, la terapia standard è basata sul consenso degli esperti. Nel rigetto precoce, la terapia si basa su plasmaferesi, immunoglobuline endovena e anticorpi anti-CD20, mentre l’eculizumab, inibitore del complemento, viene utilizzato nei casi gravi e/o refrattari. Recenti evidenze suggeriscono che l’AMR tardivo può essere trattato efficacemente con farmaci anti -CD38, che hanno come bersaglio le plasmacellule e le cellule NK di lunga durata.

Parole chiave: trapianto di rene, rigetto d’organo, diagnosi del rigetto d’organo, terapia standard per il rigetto d’organo, farmaci emergenti

Caso clinico

Uomo di 44 anni sottoposto a trapianto di rene da donatore vivente (donatrice, la moglie) pre-emptive. La nefropatia di base era rene policistico autosomico dominante dell’adulto (ADPKD). Non aveva fattori di rischio immunologici, con un calculated Panel Reactive Antibody (cPRA) pre-trapianto pari a 0%, salvo 6 mismatch A/B/DR/DQ. Dopo aver ricevuto terapia di induzione con basiliximab e di mantenimento con tacrolimus, micofenolato mofetile (scarsamente tollerato) e metilprednisolone è stato dimesso in nona giornata post-trapianto con una creatinina alla dimissione pari a 1.3 mg/dl.

Undici mesi dopo il trapianto, dopo varie sospensioni del micofenolato mofetil legate ad intolleranza, e tentativi infruttuosi a causa di intolleranza di sostituzione con azatioprina ed everolimus, per cui il paziente è a lungo rimasto in terapia con solo tacrolimus e metilprednisolone a basse dosi, si è osservato un peggioramento della funzione renale (creatinina 2,2 mg/dl versus 1,3 mg/dl) associato al riscontro di DSA (anti-DQ7 e anti-DQA1, con Mean Fluorescence Intensity [MFI] ≈ 12000). Una prima biopsia evidenzia rigetto anticorpale acuto secondo Banff (t1 i0 iIFTA0 tIFTA0 ti2 v0 ptc3 C4d0 g3 ct0 ci0 cv1 ah0 cg0 mm0) associato a severa infiammazione microvascolare. Abbiamo pertanto trattato il paziente con tre boli di metilprednisolone endovenosi (ev) da 500 mg, sette sessioni di plasmaferesi, immunoglobuline ev ad alte dosi (2 g/kg) e l’anti-CD20 rituximab (375 mg/m2). Al termine del trattamento la creatinina ha cessato di aumentare, stabilizzandosi attorno a 2,0 mg/dl.

Diciassette mesi dopo (28 mesi post trapianto), la creatininemia ha mostrato un nuovo rialzo (2,7 mg/dl), quando la terapia immunosoppressiva di mantenimento era basata su steroide, tacrolimus ed everolimus. È stata ripetuta la biopsia del graft, che ha mostrato un quadro di rigetto anticorpale acuto cronico attivo (chronic aAMR) (t0 i0 i-IFTA1 ti1 v0 ptc 3 C4d0 g3 ct1 ci1 ah2 cg3 mm 0 secondo Banff). Pertanto, abbiamo intrapreso trattamento con tocilizumab (8 mg/kg ev per otto settimane, seguito da otto somministrazioni ogni due settimane e a seguire mensilmente).  A questo è seguita la stabilizzazione della funzione renale, pur in assenza di riduzione dei DSA. Diciotto mesi dopo (a quasi quattro anni di distanza dal trapianto) si è osservato un ulteriore rialzo della creatinina (3.6 mg/dl). Una terza biopsia ha confermato la diagnosi di rigetto anticorpale acuto cronico attivo (t0 i0 i-IFTA1 ti1 v0 ptc 3 C4d0 g3 ct1 ci1 cv1 ah2 cg3 mm0) in presenza di rialzo dei DSA (MFI DQ7, DQA1 ≈ 20000). Abbiamo sospeso allora il tocilizumab e avviato trattamento con daratunumab (16 mg/kg ev mensile) reintroducendo basse dosi di micofenolato al posto dell’everolimus. A ciò segue una immediata riduzione della creatinina, stabilizzata attorno a 2,5-2,6 mg/dl a cinque mesi dall’inizio del trattamento, in assenza però di una sensibile riduzione del livello degli anticorpi anti DSA.

Il rigetto anticorpo-mediato (AMR) si manifesta generalmente quando anticorpi circolanti anti-HLA donatore specifici (DSA) nel sangue del ricevente si legano ad antigeni del donatore presenti sulle cellule dell’endotelio vascolare del graft [1]. Nel caso dei trapianti AB0-incompatibili i DSA sono primariamente rappresentati dagli anticorpi anti-gruppo A/B. È controverso invece il ruolo di altri antigeni target espressi sulle cellule endoteliali (alcuni dei quali non sono alloantigeni ma autoanticorpi) come quelli contro il recettore di tipi 1 dell’angiotensina II e gli anticorpi anti-MICA (MHC class I chain-related gene A) [2]. A seconda delle caratteristiche dell’antigene e dell’anticorpo si possono attivare pattern diversi di risposta infiammatoria dipendenti o indipendenti dal complemento [3, 4]. I primi, si verificano più spesso nelle forme precoci (“early AMR”, 0-6 mesi dal trapianto), i secondi nelle forme tardive (“late AMR”, oltre sei mesi dal trapianto) [5].

Gli anticorpi anti-donatore specifici DSA possono essere presenti prima del trapianto (DSA preformati) o svilupparsi dopo il trapianto (DSA de novo).

L’AMR, nelle sue varie forme, rappresenta ancora la causa principale di perdita tardiva della funzione del graft. In circa la metà dei casi, è una forma “late” conseguenza della mancata aderenza terapeutica [6,7]. Considerando infatti il tempo intercorso tra il trapianto e l’insorgenza di rigetto gli studi dimostrano che la probabilità di sviluppare un rigetto anticorpale acuto entro il primo anno dal trapianto non supera il 10% mentre raggiunge circa il 30% negli anni successivi, avendo un andamento opposto rispetto al rigetto mediato da cellule T la cui diagnosi è rara nelle fasi tardive del trapianto e raggiunge una probabilità sino al 25% tra le sei settimane e i primi sei mesi dal trapianto [7, 8]. Inoltre, mentre il rigetto mediato da cellule T è generalmente un rigetto acuto, l’AMR, da un punto di vista epidemiologico è più frequentemente una forma “late”, che istologicamente si presenta come cronico-attivo.

Nel corso delle ultime decadi, grazie all’evoluzione della terapia immunosoppressiva (prevalentemente l’introduzione del tacrolimus e del micofenolato mofetil), l’incidenza del rigetto acuto si è ridotta molto: dall’80% degli anni ’60 sino a meno del 10% dei giorni nostri. Nel periodo 2018-2019, l’OPTN (Organ Procurement and Transplantation Network) riportava un’incidenza di solo 7% nel primo anno [8].

Le più recenti strategie terapeutiche hanno altresì migliorato la prognosi dell’early AMR, ma non avevano, fino agli anni più recenti, migliorato la prognosi di late AMR [5].

 

DSA preformati e rischio di AMR

Per i pazienti in lista di attesa di trapianto la presenza di anticorpi preformati circolanti diretti contro le molecole HLA rilevati, tramite metodica in fase solida Luminex, rappresenta il maggior biomarker disponibile per esplorare la memoria immunitaria verso alloantigeni. Non tutti gli anticorpi anti-HLA rilevati al Luminex sono considerati clinicamente rilevanti. Ad esempio, quelli non sviluppatisi a seguito di precedenti eventi sensibilizzanti, con bassi livelli di MFI (< 3000) e la cui presenza non persiste nel corso del tempo. In ogni caso, in Italia si usa un cutpoint di 3000 MFI per definire gli anticorpi anti-HLA significativi, e pertanto i loro antigeni target “proibiti” (un rene di un donatore cadavere la cui tipizzazione HLA mostra tali antigeni verrebbe definito HLA-incompatibile e pertanto non offerto al ricevente). Anche il calcolo del calculated Panel Reactive Antibody (cPRA), cioè la percentuale di donatori incompatibili, si fonda sul cutpoint di 3000 MFI. In Italia livelli elevati di cPRA associati ad una lunga permanenza in dialisi giustifica l’inscrizione a liste prioritarie di allocazione di organi. Quello che conta, per il rischio di AMR, non è però il cPRA in sé, ma invece la presenza/assenza di DSA preformati. Questo è stato ampiamente dimostrato recentemente grazie all’approfondimento patogenetico sulla memoria umorale dall’Eurotransplant Acceptable Mismatch program, dove, quando tramite studi di terzo livello si identificano i donatori verso i quali il paziente con alto cPRA non può sviluppare DSA, un c-PRA pre-trapianto elevato smette di essere un fattore di rischio di AMR [9].

Al fine di superare la mancanza di una definizione omogenea di rischio immunologico pre-trapianto nei confronti di uno specifico donatore (cadavere o vivente), il gruppo europeo ENGAGE ha proposto una categorizzazione del rischio di AMR post trapianto basato sull’integrazione della storia “immunologica” pregressa (intesa come pregressi trapianti e/o trasfusioni e/o gravidanza) con il test Luminex, e i crossmatch, che si fondano sull’uso dei linfociti del donatore [10]. In questa classificazione si definisce un rischio proibitivo e non percorribile per pazienti con DSA e crossmatch in citotossicità complemento mediata (CDC-XM) positivo, rischio intermedio in pazienti con DSA e crossmatch in citofluorimetria (FC-XM) positivo e rischio basso in pazienti senza DSA e con solo Luminex positivo [11]. Questo è stato retrospettivamente dimostrato nei pazienti sottoposti a desensibilizzazione presso l’Istituto John Hopkins per trapianto da vivente HLA incompatibile dove è riportata una perdita del graft a 5 anni nel 20% dei pazienti che avevano solo Luminex positivo (e negatività dei crossmatch) mentre si raggiungeva una perdita del graft di oltre il 40% in quelli che avevano CDC-XM positivo. Quest’ultimo gruppo di pazienti presentava anche una mortalità a 5 anni pari al 20% [12].

La stratificazione del rischio umorale del gruppo ENGAGE è stata raccomandata nelle recenti linee guida della Società Europea Trapianti di Organo ESOT [11].

Uno strumento aggiuntivo di stratificazione del rischio immunologico è il test Luminex che valuta la capacità dei DSA di legare il complemento (C1q o C3d) la cui positività è predittiva di un CDC-XM positivo e di un rischio di early AMR severo [13, 14].

 

La classificazione di Banff

Il gold standard per diagnosticare il rigetto acuto nel trapianto di rene è la biopsia renale la cui istologia viene interpretata usando la classificazione di Banff, entrato progressivamente in uso a partire dall’inizio degli anni ’90, e sottoposto a continui aggiornamenti nell’arco dei suoi 30 anni di storia [15].

La classificazione di Banff riconosce tre categorie principali di rigetto sulla base del meccanismo patogenetico: rigetto anticorpo-mediato, rigetto cellulo-mediato e lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato.

Le varie forme sono distinte sulla base della presenza di lesioni istologiche elementari a cui il Banff attribuisce uno score semiquantitativo con l’obiettivo di aumentarne la riproducibilità inter-osservatore.

Se nel corso delle ultime revisioni i criteri diagnostici del rigetto cellulo-mediato hanno subito minime modifiche, per quanto riguarda il rigetto anticorpo-mediato le revisioni dei criteri sono state numerose e particolarmente significative e questo è stato principalmente dovuto alla maggior conoscenza della sua patogenesi e all’introduzione dei test di diagnostica molecolare [16].

Ad oggi i tre criteri per la diagnosi rigetto anticorpale acuto (secondo la classificazione BANFF del 2017) sono:

  1. evidenza istologica di un danno tissutale con uno o più delle seguenti caratteristiche:
    • infiammazione microvascolare (g>0 e/o ptc>0) in assenza di una glomerulonefrite ricorrente o de novo;
    • arterite intimale o transmurale (v>0);
    • microangiopatia trombotica non correlata ad altre cause;
    • danno tubulare acuto non correlato ad altre cause;
  2. evidenza di una corrente o pregressa interazione tra gli anticorpi con l’endotelio vascolare (deposito lineare del C4d sui capillari peritubulari) o presenza di una moderata infiammazione microvascolare (MIV, g+ptc > o uguale a 2) o l’aumentata espressione dei trascritti genici nella biopsia fortemente associati con la diagnosi di AMR;
  3. evidenza sierologica di presenza di anticorpi anti DSA o presenza di C4d staining o l’evidenza di validati trascritti genici per AMR.

Il rigetto anticorpale AMR cronico attivo è il risultato del danno anticorpale cronico e si diagnostica con gli stessi criteri dell’aAMR con associati segni di danno endoteliale cronico rappresentato dalla presenza di una membrana dei capillari peritubulari multistrato (cg) e la presenza di un ispessimento intimale arteriolare (cv) [17].

 

Cenni patogenetici del rigetto anticorpo-mediato

La patogenesi del AMR è il risultato del danno che si manifesta sull’endotelio microvascolare dovuto ai DSA e i meccanismi effettori del danno coinvolti nei casi precoci di rigetto possono essere diversi rispetto a quelli responsabili dei casi tardivi e/o cronici.

I principali determinanti antigenici del rigetto anticorpale sono le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), che nell’uomo codificano le molecole HLA. Gli antigeni HLA possono essere distinti in due differenti classi: HLA di classe I (locus A, B e C), presenti su tutte le cellule nucleate, e HLA di classe II (locus DQ, DR e DP) espresse solo sulle cellule presentanti l’antigene (APC: cellule dendritiche (DC), macrofagi e cellule B). L’espressione di HLA di classe II può essere comunque indotta anche sulle cellule epiteliali ed endoteliali vascolari sotto l’azione di fattori pro-infiammatori [18].

Il rigetto iperacuto anticorpo-mediato è la reazione dovuta agli anticorpi anti DSA preformati considerati oggi proibitivi in quanto capaci di attivare in maniera massiva la cascata complementare (causando CDC-XM positivo). Diversi anni fa, quando non erano disponibili le tecniche di crossmatch questo tipo di rigetto si manifestava quasi immediatamente dopo la riperfusione del graft: l’attivazione massiva del complemento da parte degli anticorpi anti HLA causava immediata necrosi, emorragia e trombosi del graft, che richiedeva l’espianto immediato [19].

Quando i livelli di anticorpi anti-HLA non sono tali da produrre un’attivazione massiva del complemento si verificano gli eventi che conducono all’AMR classico nelle sue varie forme: nelle forme “early” acute con l’adesione dei leucociti neutrofili sui glomeruli responsabili della glomerulite, la marginazione dei neutrofili sui capillari peritubulari dilatatati, con/senza trombosi dei capillari peritubulari e l’ attivazione del complemento [19]. La frazione del complemento C4d, che non è attiva, ma è in grado di legare covalentemente l’endotelio dei capillari peritubulari, rappresenta un biomarker specifico di interazione DSA-endotelio.

Nelle forme meno acute, il microcircolo è invaso da monociti più che da neutrofili, le trombosi dei capillari glomerulari sono rare, e le cellule NK assumono un ruolo patogenetico fondamentale [20, 21].

Grazie allo sviluppo negli ultimi 10 anni delle tecniche di microarray e l’analisi dei geni coinvolti nel rigetto si è scoperto che una considerevole proporzione di rigetti AMR sono C4d negativi e anti HLA-DSA negativi aprendo il varco verso la conoscenza di meccanismi effettori di danno non mediati dal complemento [22–24]. Tra questi un ruolo patogenetico più importante negli anni è stato dato alle cellule Natural Killer (NK). Le cellule NK normalmente rappresentano circa il 5-10% dei linfociti circolanti e mediano le risposte immunitarie contro le cellule tumorali o le cellule infette. La loro attività citolitica si esplica con lisi diretta o con citotossicità cellulare anticorpo-dipendente (ADCC) attraverso il rilascio di citochine infiammatorie e chimiche come il granzima e la perforina [25]. Nella patogenesi del rigetto anticorpale è stato proposto un modello secondo cui il legame anticorpale DSA-endotelio vascolare rappresenterebbe un trigger per il reclutamento delle cellule NK. Le cellule NK hanno l’esclusiva capacità, attraverso l’interazione del recettore FcγRIII (CD16+) presente sulle cellule NK e gli anticorpi, di promuovere la citotossicità cellulare anticorpo dipendente (ADCC). Le stesse cellule NK possono aumentare la produzione di molecole HLA sulle cellule endoteliali attraverso il rilascio di citochine come IFN-γ e TNF-α che aggrava il danno immuno-mediato attraverso un aumento del numero di antigeni target per gli stessi anticorpi [26, 27].

Recenti modelli sperimentali di analisi delle biopsie hanno dimostrato l’importante ruolo delle cellule NK nel rigetto cronico anticorpo-mediato. Usando infatti dati di microarray sono stati individuati circa 503 geni alterati con una quota significativa per quelli del pathway NK correlato sottolineando il ruolo patogenetico di queste cellule in questo tipo di rigetto [28].

Le cellule NK esprimono una ampia varietà di recettori inibitori e attivatori e tra questi di particolare rilievo sono i KIRs (killer cell immunoglobulin-like receptors). Questi possono modificare le attività delle cellule NK controllando che rimangano inattive o, al contrario, diventino cellule effettrici che provocano citotossicità e citolisi della cellula bersaglio. Alcuni studi, comunque allo stato attuale non confermati, hanno dimostrato che il mismatch tra KIRs e il loro natural ligando HLA di classe I (“missing self”) esercita una forte influenza sull’outcome del trapianto indipendentemente dalla presenza o assenza di DSA [25].

Sempre più evidenze suggeriscono l’importanza delle cellule B non solo nella patogenesi del rigetto anticorpale acuto, ma anche nel rigetto mediato da cellule T, e ancor di più, nel late AMR. Le cellule B non solo agiscono da effettori ma possono modulare o regolare negativamente la risposta immune. La comprensione del delicato e complesso processo immunologico che porta alla produzione anticorpale nei pazienti sensibilizzati così come in quelli naïve è di fondamentale importanza per capire la varietà di presentazione dei quadri di rigetto AMR e le possibili opzioni terapeutiche [1].

In assenza dell’interazione con le cellule T follicular helper (Tfh) all’interno dei centri germinativi, le cellule B si differenziano in plasmablasti di breve durata capaci di produrre anticorpi di bassa affinità. Al contrario, l’interazione con le cellule Tfh nei centri germinativi produce la memoria immunitaria anticorpo-mediata che è alla base della sensibilizzazione dei candidati al trapianto e contribuisce al late AMR. Le cellule B attivate nel centro si trasformano in cellule B di memoria, plasmacellule che migrano in particolari nicchie favorevoli nel midollo osseo dove sono in grado di sopravvivere per decenni producendo anticorpi anti-HLA ad alta affinità. Queste ultime, identificate dalla positività al CD 138, sono considerate le cellule cardine della memoria anticorpo-mediata [29]. Varie interazioni all’interno delle nicchie del midollo osseo determinano la loro lungo-sopravvivenza, quali varie integrine, le cellule stromali e mesenchimali, l’IL-6 e il CXCl-12 [30].

 

Trattamento standard del rigetto acuto anticorpale precoce o tardivo

Standard of care dell’early AMR

Il trattamento ottimale del rigetto anticorpale acuto ad oggi è ancora non ben definito in quanto basato solo su ampie case series e su un numero molto limitato di trials randomizzati. A ciò si aggiunge l’evoluzione continua dei criteri diagnostici, l’incompleta comprensione dei meccanismi patogenetici, la mancata distinzione nelle casistiche pubblicate tra rigetti precoci o tardivi e presenza di anticorpi anti DSA preformati o de novo post trapianto, tutti fattori che possono avere un impatto significativo sulla prognosi [8]. Il trattamento standard del rigetto anticorpale acuto si basa su un approccio multifarmacologico che ha l’immediato obiettivo di rimuovere prontamente gli anticorpi presenti nel siero dei riceventi di trapianto di rene, impedirne il rebound e favorire l’immunomodulazione della risposta immune e in particolare della risposta B-cellulare [31]. Così come suggerito dal gruppo di lavoro di esperti della società trapiantologica nel 2019 l’approccio terapeutico andrà differenziato sulla base dei seguenti elementi: tempo di insorgenza dal trapianto (rigetto precoce e tardivo), presenza di DSA preesistenti o de novo e caratteristiche istologiche al momento della diagnosi (AMR cronico o attivo) [1].

Il trattamento dell’AMR attivo raccomandato dalle linee guida KDIGO del 2009 e confermato nel 2019 nel Transplantation Society Working Group Expert Consensus prevede l’avvio di un ciclo di plasmaferesi (PEX) (giornaliere o a giorni alterni per un totale di 6) e la somministrazione di immunoglobuline ev (IVIG) alla dose di 100 mg/kg dopo ogni PEX o ad alte dosi (2 g/kg) alla fine del ciclo di PEX [1, 32].

Tale approccio deriva dal protocollo del Cedars-Sinai Medical Center pubblicato da Jordan nel 2010 che prevedeva l’immediata rimozione degli anticorpi tramite cinque sedute di plasmaferesi eseguite a giorni alterni con rimpiazzo del volume plasmatico in parte con plasma fresco e in parte con albumina. Terminato il ciclo di plasmaferesi seguiva la somministrazione di IVIG ad alte dosi (2 g/kg per una massima dose di 140 g) e a seguire una singola somministrazione di Rituximab, anticorpo monoclonale anti-CD 20 [33].

Le IVIG sono riconosciute come importanti regolatrici dell’infiammazione e dell’immunità. I meccanismi di azione non sono ben definiti ma è dimostrata sperimentalmente la loro capacità di inibire le risposte B-cellulari attraverso la loro porzione Fc che lega il frammento Fc del recettore IgG2b sulle cellule B, di causare apoptosi attraverso il loro legame con il CD22 sulle cellule B mature e di inibire l’attivazione del complemento attraverso l’eliminazione diretta e potente delle anafilatossine (es. C3b) [34].

Il rituximab (RTX) è un anticorpo monoclonale anti CD-20; questo antigene è espresso sulle cellule B ma non sulle plasmacellule mature. La regione variabile del RTX legandosi al CD 20 porta alla morte cellulare attraverso tre meccanismi diversi: ADCC, citotossicità complemento-mediata CDC e attraverso l’apoptosi cellulo-mediata. Il RTX causa una sostenuta deplezione delle cellule B circolanti per un periodo compreso tra i sei e dodici mesi ed è in grado di ridurre in parte la popolazione B cellulare nella milza e nei linfonodi. Il farmaco fu inizialmente usato nel trattamento dei rigetti refrattari basandosi sulla dimostrazione della presenza di infiltrati di cellule B intrarenali considerati a lungo un fattore di rischio per la steroido-resistenza e quindi associati a peggior prognosi. Le cellule B infatti non solo agiscono come precursori di plasmacellule producenti anticorpi ma anche come cellule presentanti l’antigene che producono segnali costimolatori per le cellule T esitando anche nella produzione di citochine infiammatorie direttamente responsabili di danno cellulare [35]. Pertanto, il RTX non solo permette di attenuare la risposta immune anticorpo-mediata (sebbene non agisca sulle plasmacellule di lunga durata) ma anche indirettamente sopprimere la risposta immunitaria mediata dalle cellule T [36].

Nonostante il suo frequente impiego nei centri trapianto nel trattamento del rigetto AMR, ci sono limitate evidenze scientifiche a supporto della sua efficacia. Da una recente review sistematica della letteratura che ha incluso 9 studi sull’AMR e 7 sul cAMR è emerso che il RTX può avere qualche beneficio sulle forme acute pur mancando tuttavia di dati di alta qualità ma, al contrario, non ha alcun effetto beneficio sull’outcome nel rigetto AMR cronico attivo [36].

Gli stessi dati sono stati confermati nella recente metanalisi di Wan et al su studi controllati che esplorano il trattamento dell’AMR dove è emerso che lo standard of care nel trattamento è rappresentato da PEX + IVIG seppur con deboli evidenze scientifiche e che l’uso del RTX non si associa ad una differenza significativa sulla sopravvivenza del graft a breve termine [37].

Pertanto, nella raccomandazione delle società trapiantologiche e nelle più recenti revisioni della letteratura pubblicate lo standard of care nell’AMR precoce o tardivo in presenza di anticorpi anti DSA preesistenti al trapianto così come nel caso di AMR tardivo con DSA de novo è rappresentato da PEX + IVIG associato in tutti i casi ad ottimizzazione della terapia immunosoppressiva standard e a trattamento specifico di un eventuale contestuale forma di rigetto cellulo-mediato. Il RTX è considerato un trattamento aggiuntivo da valutare caso per caso [1, 38].

Inibitori del complemento

L’attivazione della via classica del complemento rappresenta uno dei meccanismi effettori principali nell’AMR e negli anni molto interesse ha rivestito l’inibizione del complemento come target terapeutico. I target terapeutici oggetto di studio sono la frazione complementare C5, il C3 e il C1q. L’eculizumab è un anticorpo monoclonale anti-C5 che blocca la cascata complementare terminale. È stato impiegato in modo promettente in alcuni trial randomizzati nella prevenzione del AMR in trapianti da cadavere e da vivente in pazienti con crossmatch positivo con risultati promettenti sulla sopravvivenza del graft a breve termine sebbene ad oggi non ci siano risultati altresì positivi su dati a lungo termine (incidenza di cAMR e perdita del graft) [39, 40]. In numerosi report, è stato descritto il suo uso nel trattamento del rigetto AMR precoce e refrattario [41]. Nell’unico studio randomizzato e controllato disponibile che valuta l’efficacia del farmaco somministrato per una durata di sei mesi non sono emerse differenze significative e nessun beneficio a lungo termine sulla funzione del graft [42]. Tuttavia, l’eculizumab era stato usato in circa la metà dei soggetti randomizzati al gruppo di controllo e, comunque, numericamente la sopravvivenza del graft era di 20% superiore nel gruppo che era stato randomizzato ad eculizumab.

Altri inibitori del complemento sono stati testati in studi pilota: il C1 esterasi inibitore (Cinryze) e il C1 inibitore con risultati non conclusivi [43, 44].

Un trial clinico di fase III che esplorava l’uso del C1 inibitore nel trattamento dell’AMR è stato prematuramente interrotto per inefficacia (NCT02547220), ma uno studio di fase II che prevede l’uso di un anticorpo monoclonale anti-C1s è in corso (NCT05156710). Altre promettenti molecole in studio sono il C3 inibitore (CP40 appartenente alla famiglia della COMPSTATINA) e gli inibitori del fattore B e del fattore D [45].

Imlifidase

L’Imlifidase (Hansa Biopharma AB) è un enzima che degrada le IgG derivato dallo Streptococco Pyogenes (IdeS). Si tratta di un’endopeptidasi capace di rompere i ponti di solfuro tra la frazione Fab e il frammento Fc inibendo la citotossicità complemento mediata e la citotossicità dipendente da anticorpo [46].

Si tratta del primo farmaco approvato dall’FDA senza uno studio randomizzato per la desensibilizzazione pre-trapianto in pazienti iperimmuni in quanto conduce con la scomparsa degli anticorpi anti DSA preesistenti alla negativizzazione nell’arco di poche ore dalla somministrazione (6-8 h) del crossmatch permettendo il trapianto. Tuttavia, dopo 7-10 giorni dalla sua somministrazione si verifica un rebound anticorpale e si sviluppano anticorpi anti IdeS che impediscono il riutilizzo del farmaco.

In questo scenario appare plausibile che, nell’ambito del rigetto AMR, potrebbe essere esplorata la possibilità di utilizzo del farmaco in aggiunta ad altre terapie per ridurre i DSA a lungo termine rispettando tuttavia specifici intervalli di somministrazione che tengano conto della capacità del farmaco di rompere tutte le IgG e quindi della possibilità di annullare l’effetto di altri farmaci comunemente impiegati nel trattamento (es RTX, eculizumab, IVIG) [47].

Bortezomib

Il Bortezomib, un inibitore del proteosoma usato nel trattamento del mieloma multiplo è stato impiegato nel trattamento dell’AMR attivo per la sua capacità di indurre apoptosi delle plasmacellule. Tuttavia, nell’unico trial disponibile (BORTEJECT Trial) pubblicato, il suo impiego non si è associato ad alcun miglioramento della funzione renale, della sopravvivenza del graft e dei livelli di DSA, ma si associava a significativi effetti collaterali gastrointestinali ed ematologici [48].

Ciclofosfamide

La ciclofosfamide è comunemente impiegata nel trattamento delle malattie autoimmuni (e.g. vasculiti, lupus). Il suo possibile impiego nel trattamento dell’AMR è stato valutato su 13 pazienti con diagnosi di rigetto AMR sottoposti a trattamento con PEX + IVIG e 6 somministrazioni ev di ciclofosfamide (15 mg/kg) ad intervalli di 3 settimane. Alla fine del trattamento la sopravvivenza del graft era del 77% e la funzione renale del graft era significativamente migliorata, inoltre, il trattamento era stato relativamente sicuro [49]. Tuttavia, non essendoci ulteriori dati a supporto del suo impiego non se ne consiglia l’uso.

Trattamento del late AMR

Standard of care

Il rigetto cronico attivo è un processo patologico dovuto alla tossicità anticorpale diretta o indiretta che porta a un rimodellamento del graft e a un danno cronico dell’endotelio.

Questo tipo di rigetto poco risponde alle attuali strategie terapeutiche usate per le forme attive precoci o tardive e ad oggi rappresenta la sfida terapeutica più difficile da affrontare per i clinici che si occupano di trapianto. L’obiettivo della terapia in questo caso dovrebbe essere quello di stabilizzare o ridurre il grado di declino della funzione renale, stabilizzare il danno istologico, ridurre la proteinuria e ridurre i livelli di DSA. Tuttavia, evidenze recenti dimostrano il ruolo attivo delle cellule NK nel causare il danno, indipendentemente dalla presenza di DSA [50-52].

Lo standard of care attuale raccomandato nel Consensus è quello di ottimizzare la terapia immunosoppressiva con la reintroduzione dello steroide se il paziente segue un regime steroid-free e il controllo dei fattori di rischio [1].

L’uso di IVIG e PEX con o senza RTX non ha dimostrato alcun miglioramento dell’outcome.

Tuttavia, un approccio multifarmacologico potrebbe essere impiegato avvalendosi di nuovi ed emergenti farmaci che hanno come target alcuni elementi patogenetici. Dopo un iniziale entusiasmo sul ruolo dell’inibizione dell’IL-6, che ha un’importanza nell’attivazione delle cellule T e nella maturazione delle cellule B, ora l’attenzione si è spostata sugli anticorpi anti CD-38. 

Inibizione IL-6

L’interleuchina 6 è una citochina pleiotropica multifunzionale che riveste un ruolo fondamentale nella patogenesi del rigetto AMR. IL6 previene l’apoptosi delle cellule B attivate e promuove lo sviluppo e la maturazione delle cellule B in plasmacellule che producono anti DSA; attiva e induce la proliferazione delle cellule T e, in presenza di interleuchina 2, induce la differenziazione delle cellule T mature e immature in cellule citotossiche [53]. Inoltre, è una importante regolatrice della risposta infiammatoria acuta attivando le cellule endoteliali e promuovendo il danno vascolare [54]. Tutto questo ha reso questa citochina un target terapeutico attrattivo nell’ambito del rigetto. Esistono due farmaci attualmente testati: il tocilizumab, un anticorpo monoclonale diretto contro il recettore dell’IL6 e il clazakizumab, anticorpo monoclonale diretto controllo l’IL6.

Il tocilizumab è stato inizialmente impiegato nel trattamento dei rigetti anticorpali refrattari alla terapia standard mostrando un miglioramento dello score microvascolare alle biopsie di controllo e una significativa riduzione dei DSA con stabilizzazione della funzione del graft a tre anni [55]. Tuttavia, altri studi non hanno dimostrato tale efficacia [56].

Di recente il tocilizumab (alla dose di 8 mg/kg ev mensili, massima dose di 800 mg) è stato impiegato nel trattamento del rigetto cronico attivo anticorpo mediato. Lavacca et al hanno trattato 15 pazienti con diagnosi di cAMR e li hanno seguiti per una media di 20 mesi. Nonostante la maggior parte dei pazienti presentasse alla diagnosi una glomerulopatia cronica avanzata (cg3) eGFR e proteinuria si sono stabilizzate durante il follow-up; nelle biopsie protocollari si è osservata una riduzione del danno microvascolare e anche i livelli di DSA si sono ridotti sensibilmente [57]. Questo effetto positivo è stato descritto in numerosi case report, tuttavia, mancano ad oggi trial di impiego del farmaco nelle fasi precoci del rigetto cronico attivo.

Il clazakizumab (somministrato alla dose 12.5-25 mg sottocute mensilmente per circa 6-12 mesi) è stato oggetto di uno studio randomizzato controllato di fase 2 nel trattamento del rigetto AMR cronico attivo in pazienti che non avevano storia di diverticolite o di malattie infiammatorie intestinali [58]. Dopo un periodo di 12 settimane che ha previsto la somministrazione mensile di 25 mg sottocute del farmaco o del placebo (10 pazienti per gruppo) tutti i soggetti arruolati hanno ricevuto il farmaco per un periodo in media di 40 settimane. Nella prima fase del trial si è assistito ad una riduzione dei DSA per i pazienti trattati ma non si sono osservate nelle biopsie significativi cambiamenti; interessanti, tuttavia, sono stati i risultati dopo 51 settimane di trattamento in quanto si è assistito, oltre ad una ulteriore riduzione dei DSA, soprattutto ad una significativa riduzione dello score di rigetto e dei depositi di C4d. Il farmaco è stato ben tollerato sebbene ci siano stati due casi di diverticolite perforata nei pazienti trattati con clazakizumab [58]. Per esplorare l’efficacia del clazakizumab e consentire l’approvazione da parte dell’Food Drug Administration (FDA) dell’uso del clazakizumab nel trattamento del rigetto anticorpale cronico attivo era in corso il trial IMAGINE (Interleukin-6 Blockade Modifying Antibody-mediated Graft Injury and Estimated Glomerular Filtration Rate Decline) (NCT03744910) uno studio di fase III che usava come endpoint surrogato il declino del filtrato stimato dopo un anno di terapia [54, 59]. Questo studio è però stato interrotto precocemente per inefficacia [52].

Anti-CD38 daratumumab e felzartamab

Il Daratumumab è un anticorpo monoclonale umano IgG1k che si lega al recettore CD38 e inibisce lo sviluppo delle cellule immunitarie che lo esprimono in particolare plasmacellule e cellule NK [60]. Nei modelli sperimentali animali si è osservato che il farmaco porta a riduzione degli anticorpi, riduzione dei plasmablasti e ritardo nell’insorgenza del rigetto sebbene un rapido rebound anticorpale sia stato osservato al termine del trattamento.  Il farmaco è somministrato alla dose di 16 mg/kg ev settimanalmente per otto settimane e poi ogni due settimane per altre otto somministrazioni e a seguire mensilmente. Ad oggi sono disponibili solo pochi case report in letteratura che descrivono il suo impiego nel rigetto. Dorberer et al ne hanno descritto l’impiego in un paziente con diagnosi di rigetto cronico anticorpale attivo osservando a distanza di tre mesi dall’avvio stabilizzazione della funzione renale, scomparsa dei DSA e miglioramento dell’infiammazione microvascolare [61].

Pertanto, il daratumumab potrebbe essere una promettente strategia per ridurre le plasmacellule; tuttavia, ha diversi effetti immunitari fuori target, tra cui la riduzione delle cellule t regolatorie CD38+ e anche delle cellule B regolatorie portando ad un aumentato rischio di rigetto cellulo-mediato [62].

Di recente è stato pubblicato il risultato di trial di fase II sull’uso di un altro anticorpo anti-CD38 il felzartamab nel rigetto anticorpale cronico attivo [63]. Si tratta di un anticorpo umanizzato IgG1 anti-CD38. In questo trial l’obiettivo principale dello studio è stato quello di stabilire il profilo di sicurezza e gli effetti collaterali del farmaco mentre obiettivi secondari sono stati la riduzione dei livelli di DSA e dell’infiammazione microvascolare. Dei 22 pazienti arruolati 11 hanno ricevuto nove infusioni endovenose settimanali di felzartamab (dose 16 mg/kg ev) per 4 settimane e poi una volta al mese per 5 mesi. Nello studio il farmaco ha mostrato un buon profilo di sicurezza e la risoluzione del quadro di rigetto è stata osservata nel 70% nei pazienti trattati (20% nel gruppo placebo). Tuttavia, un paziente ha sviluppato un rigetto cellulo-mediato probabilmente legato all’effetto del farmaco sulle cellule T-reg e dopo l’interruzione del farmaco 3 dei 9 pazienti trattati con il farmaco hanno ripresentato un quadro di rigetto anticorpale [63]. Il risultato positivo di questo piccolo trial esplorativo apre la strada ad ulteriori studi che potrebbero consentire la validazione dell’uso di questo farmaco nel trattamento del rigetto AMR cronico attivo [64].

 

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Schemi terapeutici di terapia immunosoppressiva cronica e loro significato

Abstract

Lo scenario del trapianto renale è profondamente cambiato nelle ultime due decadi sia nella tipologia dei donatori che dei riceventi. A questo fenomeno non si è accompagnato un significativo rinnovamento dell’arsenale terapeutico nella terapia di mantenimento, che possa essere maggiormente versatile e adeguata alle nuove esigenze di una terapia personalizzata. Rispetto ai farmaci tradizionali, l’unica concreta innovazione è rappresentata dagli inibitori della costimolazione linfocitaria il cui capostipite, e per ora unico rappresentante in pratica corrente, è il Belatacept con caratteristiche di assente nefrotossicità e impatto metabolico su dislipidemia e metabolismo glicidico, e maggior prevenzione rispetto agli inibitori delle calcineurine (CNI) nello sviluppo di anticorpi donatore-specifici. I dati dagli studi clinici randomizzati indicano chiaramente un significativo guadagno di GFR nel lungo termine rispetto ai CNI. Il rischio di rigetti acuti post-conversione a Belatacept è scongiurato da protocolli più recenti di embricazione con CNI. L’associazione con mTOR-inibitori appare promettente permettendo di sfruttare alcune caratteristiche peculiari di questa classe. In conclusione, nuovi regimi immunosoppressivi di mantenimento possono beneficiare della sinergia di farmaci consolidati con il belatacept che possiede caratteristiche uniche.

Parole chiave: immunosoppressioine, farmaci, rigetto, trapianto di rene

Lo scenario del trapianto di rene è notevolmente mutato negli ultimi 20 anni sotto molteplici aspetti [1]. L’espansione del pool dei donatori ha consentito di trasformare l’opzione trapiantologica da un approccio di nicchia a una terapia coinvolgente un numero significativo di pazienti tanto che in alcuni paesi, come per esempio la Spagna, la quota di pazienti trapiantati di rene supera quella dei pazienti in dialisi. L’auspicio è che anche in altre parti d’Europa il trapianto di rene diventi l’opzione prevalente per il trattamento del ESRD. Però l’estensione del numero dei donatori non è stata solo dovuta a una maggiore proclività alla donazione sia da deceduto che da vivente, ma anche e forse soprattutto nel considerare idonei alla donazione di rene donatori che in passato non lo venivano [1]. È il caso dei donatori a criteri estesi e dei donatori a cuore fermo: entrambe le categorie stanno dando un sostanziale contributo alla diffusione del trapianto, ma presentano caratteristiche che devono essere considerate nella gestione del ricevente anche da punto di vista dell’immunosoppressione: una maggiore quota di DGF, una maggiore sensibilità alla tossicità acuta e cronica da inibitori delle calcineneurine e per i donatori a criteri estesi una ridotta durata del graft per riduzione della riserva funzionale e minore integrità del micro circolo renale [1].

Parallelamente, la popolazione dei riceventi si è espansa anche a pazienti con maggiori comorbidità e di età più avanzata. Col passare del tempo e il crescere storico del numero dei trapianti, anche i ritrapianti sono in aumento con le loro problematiche di sensibilizzazione.

Inoltre, le conoscenze scientifiche hanno portato a focalizzare l’attenzione clinica anche sul lungo termine del “patient journey” ed è ormai chiaro che la maggior causa di perdita dei reni si ha in questa fase e non precocemente. Sono emerse realtà patologiche come il rigetto cronico anticorpo-mediato che rappresentano la prima causa di perdita del graft nel lungo termine e le cui caratteristiche sono in fase di studio con continue evoluzioni. Questo ha portato a riconsiderare i protocolli terapeutici storici che erano orientati ad una importante minimizzazione della terapia dopo il primo anno. D’altro canto, la maggior fragilità dei riceventi soprattutto dal punto di vista infettivo ma anche neoplastico sta ponendo delle serie remore a incrementare il carico immunosuppressivo nel lungo termine. Inoltre, l’emergenza di patogeni multiresistenti ha determinato un aumento del rischio di mortalità infettiva in queste popolazioni [2]. Anche virus che apparivano ben controllati dalla terapia antivirale classica come il CMV [3], hanno mostrato nello scenario attuale delle maggiori potenzialità di nocumento e pertanto auspicabilmente possono necessitare di migliore risposta terapeutica con farmaci più attuali.

È ben chiaro però che nei tempi moderni nella scelta dello schema immunosuppressive per un determinato paziente vi sia una necessità di personalizzazione estremamente complessa e difficile. Le caratteristiche anamnestiche e le situazioni reali del trapianto possono determinare presupposti conflittuali nella scelta dello schema immunosuppressivo e nelle sue modificazioni nel tempo (Figura 1).

Ad esempio l’occorrenza di tossicità da CNI insieme a rigetto anticorpo-mediato in un paziente anziano trapiantato con rene di donatore anziano pone una seria sfida sia per decidere la terapia anti-rigetto sia per la terapia di mantenimento successiva. Anche la semplice presenza di ipotensione cronica costitutiva del paziente, che di per sé può rappresentare un fattore di protezione vascolare, in caso di trapianto da donatore a criteri estesi rappresenta invece  un forte fattore di riduzione della sopravvivenza del graft [4]. In modo simile, ormai è evidente quanto il diabete pre-trapianto o insorto nel post trapianto possa essere una complicanza lesiva nel lungo termine e la terapia immunosuppressivo ha un ruolo chiave in questa dinamica [5, 6].

Gli schemi di trattamento di mantenimento correnti si rifanno principalmente a due studi clinici: lo studio Symphony [7] e lo studio Transform [8]. Con il primo si individuava con lo schema tacrolimus, micofenolato e steroide il regime a minor rischio di rigetto acuto; con il secondo si osservava l’equivalenza negli outcome principali dell’uso dell’everolimus invece del micofenolato all’interno dello stesso schema, anche se a diversi dosaggi dei CNI.

La pratica clinica corrente vede questi due schemi come prevalenti anche attualmente ma in molte situazioni si osservano anche i loro limiti, soprattutto per quanto riguarda la nefrotossicità da CNI.

Lo studio clinico che ha dimostrato il reale impatto della tossicità da CNI nel lungo termine è il BENEFIT che compara l’utilizzo del Belatacept con la Ciclosporina [9].

Il Belatacept, un bloccante selettivo della costimolazione costituito dalla proteina di fusione solubile CTLA4/IgG, previene il segnale CD28-mediato delle cellule T legandosi in modo efficiente con i suoi ligandi CD80 e CD86 espressi dalle cellule che presentano l’antigene (APC). Lo studio BENEFIT a lungo termine ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza del trapianto nei pazienti sottoposti a trapianto di rene rispetto alla ciclosporina. È stato inoltre osservato un miglioramento della funzionalità del graft anche rispetto al mantenimento con Tacrolimus.

Tuttavia, è stata osservata un’aumentata incidenza di rigetto acuto (AR) nei pazienti trattati con Belatacept, principalmente nel regime senza CNI, e ha sollevato preoccupazioni riguardo al suo utilizzo in pazienti con rischio immunologico moderato o alto. Recentemente, Adams et al hanno contenuto l’incidenza dell’AR nei pazienti che avevano iniziato il trattamento con Belatacept dall’inizio del trapianto combinando transitoriamente TAC con Belatacept [10].

Noi abbiamo ottenuto lo stesso risultato utilizzando il Belatacept in modalità di salvataggio dove un aumento del rischio di rigetto acuto con Belatacept può limitarne l’uso in particolare in pazienti ad alta complessità medica dove il rischio preesistente di rigetto si accoppia con tossicità CNI [11].

La nostra prima esperienza è stata sottoposta ad analisi retrospettiva in 19 KT passati a un’immunosoppressione basata su Belatacept con Tacrolimus a basso dosaggio (2-3 ng/mL) dopo evidenza di disfunzione dell’allotrapianto, inclusi pazienti con “primary non-function” (PNF), rigetto cronico anticorpo-mediato (cAMR), storia di precedenti KT e/o altri trapianti concomitanti (fegato, pancreas) [11]. I risultati hanno dimostrato una funzionalità renale è migliorata significativamente. Inoltre è stato osservato lo svezzamento definitivo dalla dialisi in 5/5 KT con PNF, mentre 7/8 pazienti hanno perso il trapianto entro il primo anno in un gruppo di controllo. Infine, non si sono verificati episodi di rigetto acuto, nonostante il rischio significativo suggerito dall’alta frequenza di TEM CD28+ CD4+ nella maggior parte dei pazienti.

Recenti osservazioni hanno anche segnalato l’indifferenza del Belatacept verso il metabolismo lipidico e glicidico, dato di utilità nella gestione dei metabolico-cardiovascolare in particolare dei pazienti con comorbidità.

Inotre, lo studio BENEFIT ha dimostrato che lo sviluppo di anticorpi anti-donatore (DSA) è marcatamente ridotto con il Belatacept, fenomeno estremamente interessante nella prevenzione del rigetto anticorpo-mediato tardivo [10].

Recentemente, studi osservazionali ed interventistici con switch a belatacept ed everolimus hanno dimostrato una efficiente protezione al rigetto post-conversione, rendendo possibile l’utilizzo degli mTOR-inibitori con le loro favorevoli peculiarità anche in combinazione con l’inibitore della costimolazione linfocitaria [12, 13].

Infine, la somministrazione endovenosa mensile può sicuramente contribuire a ridurre il rischio di non-compliance che colpisce diverse categorie di pazienti [14].

In conclusione, le sfide della trapiantologia moderna necessitano di un superamento degli schemi terapeutici storici almeno allorquando vi siano delle condizioni di base “caso per caso” che limitino la funzionalità del graft nell’ottica di una ricerca verso la medicina di precisione. Gli inibitori della costimolazione linfocitaria rappresentano una classe farmacologica che ha già una consolidata esperienza clinica e la cui caratteristica peculiare è l’assenza totale di nefrotossicità.

Fig. 1 Fattori correnti di complessità del trapianto di rene nel lungo termine.
Figura 1. Fattori correnti di complessità del trapianto di rene nel lungo termine.

 

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Onconefrologia nel paziente portatore di trapianto di rene: una sfida per il nefrologo trapiantologo

Abstract

L’onconefrologia, un ambito emergente nella medicina moderna, riveste crescente importanza grazie alla sua capacità di affrontare le intricate sfide che intersecano patologie tumorali e renali.
L’incidenza crescente di tumori nei pazienti trapiantati richiede strategie preventive e di monitoraggio accurato. Lo screening pre-trapianto si rivela cruciale, evidenziando la necessità di una valutazione ottimale prima di sottoporre al trapianto soggetti con precedenti oncologici. Il follow-up post-trapianto deve essere personalizzato, con piani di screening su misura che tengano conto della storia oncologica individuale.
La terapia immunosoppressiva, sebbene fondamentale per prevenire il rigetto dell’organo trapiantato, rappresenta un equilibrio delicato tra il controllo della risposta immunitaria al graft e la gestione del rischio oncologico. Gli inibitori dei checkpoint immunitari emergono come una prospettiva affascinante per la terapia oncologica, ma il loro utilizzo nei pazienti trapiantati richiede cautela ed ulteriori ricerche che ne valutino attentamente la sicurezza e l’efficacia, bilanciando i potenziali benefici con il reale rischio di rigetto.
In sintesi, l’onconefrologia è un campo in crescita che richiede un approccio interdisciplinare e una costante ricerca, mirata ad affrontare con successo le complesse sfide connesse alle malattie oncologiche nei pazienti nefropatici e trapiantati.

Parole chiave: Onconefrologia, Trapianto di rene, Terapia immunodepressiva, Inibitori del checkpoint immunitario

Introduzione: l’onconefrologia e le sue prospettive

L’onconefrologia sta emergendo come una disciplina chiave nella medicina moderna, richiedendo specialisti in grado di gestire le complessità delle patologie tumorali e renali.

L’addestramento specifico è limitato, e c’è un’urgenza crescente di formare più onconefrologi per far fronte alla domanda in crescita. L’integrazione di onconefrologi in squadre multidisciplinari è fondamentale per affrontare le innumerevoli sfide legate ai pazienti oncologici con malattia renale, inclusi coloro che hanno ricevuto un trapianto di rene.

La precisione nell’applicazione delle terapie oncologiche richiede una formazione continua specifica, e l’onconefrologia deve essere inclusa nei programmi di formazione specialistica, per mantenere aggiornati i professionisti sulle cure nei pazienti oncologici nel complicato setting della nefrologia.

L’onconefrologia deve anche affrontare sfide come la mancanza di linee guida adeguate e lo sviluppo di nuovi strumenti diagnostici, inoltre la comunicazione tra oncologi e nefrologi risulta essenziale per migliorare i risultati dei pazienti e la gestione delle lesioni renali acute e croniche.

Le sfide poste da questa particolare categoria di pazienti possono essere superate attraverso la collaborazione interdisciplinare precoce e l’uso di criteri di classificazione universali. In definitiva, l’onconefrologia rappresenta un campo in evoluzione che richiede attenzione, formazione e collaborazione per affrontare efficacemente le complessità della gestione delle malattie oncologiche nei pazienti nefropatici e portatori di trapianto di rene.

 

Epidemiologia, mortalità e fattori di rischio del tumore nel paziente portatore di trapianto di rene

Il tumore è una delle principali cause di morte nei pazienti sottoposti a trapianto di rene [1, 2].

Negli studi internazionali, la popolazione dei trapiantati mostra un tasso standardizzato di incidenza (SIR) di neoplasia di 2-4 volte in più rispetto alla popolazione generale, seppur con enormi variabilità in base alla neoplasia considerata [3-9].

L’incidenza all’interno della popolazione trapiantata mostra poi un prevedibile incremento con il passare degli anni, arrivando ad oscillare tra il 10% ed il 15% a circa 15 anni dal trapianto [3, 4].

Risultati simili sono stati riscontrati anche nella popolazione italiana [5, 6]. Questi numeri sono destinati a crescere, anche in considerazione dell’aumento dell’aspettativa di vita dei pazienti trapiantati e della maggiore efficacia delle terapie antirigetto, che permette un incremento della vita media del trapianto e quindi della durata totale di immunosoppressione.

Come è prevedibile, il rischio di mortalità in questi pazienti è più elevato rispetto alla popolazione generale. I dati osservazionali hanno difatti dimostrato che i tassi di mortalità standardizzati sono almeno 1,8-2,5 volte più elevati rispetto alla popolazione generale corrispondente per età e sesso [10, 11]. Questo vale soprattutto per quanto riguarda i linfomi non Hodgkin, i tumori urogenitali ed il melanoma, patologie che mostrano un rischio complessivo di morte che supera di cinque-dieci volte quello di coloro che non hanno ricevuto un trapianto di rene [10].

Diversi fattori di rischio per malattia oncologica sono stati identificati nel paziente trapiantato. Questi possono riguardare il paziente (età anagrafica, etnia, stile di vita e fumo, malattia renale di base, storia di neoplasia, storia di abuso di analgesici, suscettibilità alle infezioni virali, fattori genetici) o possono essere fattori più propriamente trapiantologici (grado di compatibilità immunologica, valore di vPRA, terapia immunosoppressiva) [12-24].

La trasmissione di malignità dal donatore è un evento raro, con un’incidenza stimata tra lo 0,01% e lo 0,05%. Questo rischio varia in base al tipo di neoplasia [25-27]. Tuttavia bisogna evidenziare come il rischio di mortalità sia, in caso di trasmissione, particolarmente elevato, verificandosi in circa il 20% dei soggetti colpiti [26, 27], per cui una scrupolosa valutazione del potenziale donatore d’organo è essenziale per ridurre al minimo questo rischio.

 

Screening pre trapianto e timing di trapianto nel paziente con storia oncologica

Un accurato screening prima del trapianto è fortemente raccomandato dalle principali linee guida, considerando il maggior rischio oncologico evidenziato anche nei pazienti con ESRD, specialmente se sottoposti a terapia dialitica e per alcuni istotipi specifici [28-32].

In aggiunta, non è sempre del tutto chiaro quale sia il momento opportuno per sottoporre al trapianto renale coloro che hanno una storia oncologica, e questo è tuttora motivo di dibattito nella letteratura medica. Infatti, anche se il tumore è stato adeguatamente trattato, il beneficio di un trapianto deve essere bilanciato ad un rischio di una eventuale recidiva, da considerare specialmente in corso di immunodepressione. Diverse linee guida, come ad esempio quelle della KDIGO [28] o quelle di recente formulazione da parte di Al-Adra e colleghi [33], hanno cercato di mettere luce sulla questione.

Le linee guida di Al-Adra e colleghi sono state sviluppate attraverso un consensus conference nel 2019, che ha coinvolto specialisti trapiantologi ed oncologi.

La valutazione del rischio oncologico nel lavoro di Al-Adra si basa sulla stadiazione TNM (tumore, coinvolgimento dei linfonodi regionali, metastasi) unitamente a strumenti di recente sviluppo, come l’analisi dei marcatori tumorali e l’epigenetica.

In generale, i tempi di attesa dalla guarigione sono stati decisi in base alla stadiazione, alle caratteristiche biologiche del tumore e alla probabilità di recidiva. Di conseguenza, sono stati suggeriti tempi di attesa che variano dall’assenza di attesa a 2 anni per i tumori a basso grado, fino a 5 anni per quelli ad alto grado. Per procedere all’eventuale trapianto si è deciso di considerare come cut-off un tasso di sopravvivenza almeno del 80% a 5 anni.

Benché non esaustive, queste raccomandazioni trattano le patologie tumorali più comuni, offrendo così un orientamento al trapiantologo clinico. È importante però ricordare che tali indicazioni si basano principalmente su dati provenienti dalla popolazione generale, vista la limitata disponibilità di evidenze sulle popolazioni trapiantate.

 

Screening nel paziente già sottoposto a trapianto di rene

Come già detto, dopo il trapianto di rene il rischio di tumore è come minimo raddoppiato rispetto alla popolazione generale. Per tale ragione, lo screening in senso oncologico è di vitale importanza. Le raccomandazioni [34, 35] variano tra diverse società, ma in generale lo screening dovrebbe almeno seguire le indicazioni già formulate per la popolazione generale, con alcune importanti eccezioni.

Nello specifico, per i tumori della pelle e delle labbra (tumori cutanei non melanoma), il rischio è considerevolmente elevato [36-43], e la maggior parte degli autori consiglia una valutazione dermatologica annuale, in aggiunta ad un costante e scrupoloso automonitoraggio.

Per quanto riguarda i tumori urologici, non esistono linee guida chiare per lo screening del carcinoma a cellule renali nei reni nativi dopo il trapianto. Tuttavia, si suggerisce di sottoporre i pazienti con malattia cistica acquisita, pregresso carcinoma a cellule renali o abuso di analgesici a controlli ecografici periodici ogni 1-3 anni dopo il trapianto. Inoltre, i pazienti con ematuria di recente insorgenza dovrebbero essere valutati per escludere una eventuale neoplasia urologica.

Altri tumori che meritano un follow-up specifico rispetto alla popolazione generale sono i tumori associati alla relazione tra immunodepressione e virus oncogeni, specialmente HPV, EBV, HHV-8. Tra questi ricordiamo il carcinoma della cervice, il carcinoma anale, la sindrome linfoproliferativa post trapianto (PTLD), il sarcoma di Kaposi ed il già menzionato tumore cutaneo non melanoma.

Nella Tabella I è schematizzato il programma di monitoraggio oncologico del paziente adulto portatore di trapianto di rene adottato dalla Rete Nefrologica Piemonte – Valle d’Aosta e dal Centro trapianti di rene “A. Vercellone” della Città della salute e della scienza di Torino.

Il rapporto costo-efficacia di queste raccomandazioni è comunque oggetto di discussione [8, 43], soprattutto in Paesi che adottano politiche sanitarie differenti dalle nostre.

Infine, al di là delle raccomandazioni generali, è ruolo del nefrologo trapiantologo identificare i pazienti a maggior rischio, ed impostare uno screening oncologico adattato sul singolo paziente. Una rete integrata ed interdisciplinare è necessaria per assicurare una corretta gestione dei casi complessi, ed è in grado di ridurre la morbilità e la mortalità in questi pazienti.

Nella Figura 1 è schematizzata la rete interdisciplinare di assistenza al paziente adulto portatore di trapianto di rene della Città della Salute e della Scienza di Torino.

Tipo di Neoplasia

Accertamenti proposti

Mammella

Mammografia annuale/biennale.

 Cervice 

Citologico cervice ed esame pelvico annuale.

Prostata

Visita annuale (DRE) e PSA in >50 anni.

 Stomaco/Colon-retto

SOF annuale; se positivo: colonscopia; se colonscopia negativa: EGDS.

Epatocellulare (Cirrosi HCV/HBV relata o da altra causa)

ETG semestrale; a-FP semestrale.

Cute

Autoesame mensile; visita dermatologica annuale.

 Kaposi Sarcoma

Autoesame mensile; visita dermatologica annuale, HHV-8 DNA nei soggetti a rischio per regione geografica.

PTLD

EBV-DNA ogni 6-12 mesi, se viremia in incremento progressivo: valutazione ematologica (+ ETG stazioni linfonodali).

Renale (reni nativi)                        

ETG semestrale/annuale. Nei pazienti ADPKD: TC addome mdc biennale/RM senza mdc.

 Polmone

Rx torace annuale.

 Tiroide

ETG tiroide al II anno; successivamente triennale.

Tabella I. Programma di monitoraggio oncologico del paziente adulto portatore di trapianto di rene adottato dalla rete nefrologica Piemonte – Valle d’Aosta.
Figura 1. Rete interdisciplinare adottata dalla Città della Salute e della Scienza di Torino per l’assistenza al paziente adulto portatore di trapianto di rene.
Figura 1. Rete interdisciplinare adottata dalla Città della Salute e della Scienza di Torino per l’assistenza al paziente adulto portatore di trapianto di rene.

 

La terapia Immunosoppressiva

Il principale fattore oncogeno nel paziente portatore di trapianto è rappresentato dall’immunosoppressione [18], intesa come intensità, durata e carico cumulativo [19, 21, 44].

Questa aumenta il rischio tumorale riducendo la sorveglianza immunitaria, compromettendo i meccanismi di difesa contro virus oncogeni e cellule neoplastiche ed anche attraverso vie molecolari specifiche [20, 22-24].

L’importanza del carico totale di immunosoppressione nel rischio oncologico è stata inizialmente evidenziata da dati storici che hanno suggerito come i pazienti sottoposti a trapianto cardiaco mostravano una maggiore incidenza di tumori rispetto ai pazienti sottoposti a trapianto di rene [21, 44]. Studi simili hanno suggerito un rischio maggiore di malignità, in particolare di disturbi linfoproliferativi post-trapianto (PTLD), nei pazienti che hanno ricevuto terapia depletiva linfocitaria [45], ma non è chiaro se il rischio aumenti con l’aumentare delle dosi utilizzate all’induzione [46, 47].

Gli inibitori delle calcineurine, come il tacrolimus e la ciclosporina, sono associati a un aumento del rischio di malignità. Questi farmaci sembrano agire attraverso la produzione aumentata di citochine come il fattore di crescita trasformante (TGF)-beta, il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) e IL-6 [20, 22, 23, 48]. Inoltre, questi inibitori riducono la capacità di riparare i danni al DNA indotti dalle radiazioni, evento importante soprattutto nella patogenesi dei tumori della pelle [49]. Alcuni studi evidenziano come dosi di farmaco maggiori siano direttamente correlati ad un maggior rischio di tumore [50, 51].

Gli antimetaboliti come l’azatioprina sono stati implicati nello sviluppo di malignità post-trapianto, in particolare dei tumori della pelle non melanoma [18]. Questo trova le sue motivazioni nella capacità mutagena di questa molecola e soprattutto nella sua capacità di ridurre l’attività di riparazione delle mutazioni del DNA indotte dalle radiazioni contribuendo all’aumento dello sviluppo di instabilità del DNA microsatellite [52, 53]. A differenza dell’azatioprina, gli analoghi del micofenolato (Micofenolato Mofetile, MMF, e Acido Micofenolico, MPA) sembrano associarsi a un rischio di malignità post-trapianto inferiore, con possibili effetti antiproliferativi dovuti all’inibizione dell’enzima inosine monophosphate dehydrogenase [18, 54]. Tuttavia, studi di popolazione suggeriscono che la riduzione del rischio oncologico potrebbe ricondursi almeno in parte alla minor incidenza di rigetto acuto e alla conseguente minore necessità di aumentare le dosi di immunosoppressori [55].

L’utilizzo degli inibitori del mTOR sembra invece ridurre l’incidenza di malignità post-trapianto rispetto ad altri regimi immunosoppressori. Anche se è stato osservato un tasso di mortalità più elevato nei pazienti in trattamento con inibitori di mTOR (prevalentemente per infezioni ed eventi cardiovascolari [56, 57]), il rischio di malignità sembra diminuire con questi farmaci, probabilmente per la loro attività antiproliferativa ed anti-angiogenetica, attività particolarmente evidente contro i tumori cutanei non melanoma [5, 23, 56-65]. In effetti l’everolimus è utilizzato anche per trattare il tumore mammario recettore ormonale-positivo, i tumori neuroendocrini e il carcinoma a cellule renali. Tuttavia, è importante notare che tali farmaci sono associati a un aumento del rischio di rigetto rispetto agli inibitori delle calcineurine [65, 66].

Infine, il belatacept è stato associato a un rischio elevato di disturbi linfoproliferativi post-trapianto, specialmente con coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Molti di questi casi si sono verificati in pazienti che erano sieronegativi per il virus di Epstein-Barr, motivo per cui il suo utilizzo in tali individui è sconsigliato [67, 68]. Un piccolo studio monocentrico sembra suggerire una riduzione del rischio oncogeno per quanto riguarda i tumori cutanei [69].

In caso di elevato rischio neoplastico o di effettiva diagnosi oncologica la riduzione della terapia immunodepressiva è quindi una delle prime contromisure che possono essere adottate. La riduzione dei livelli ematici target degli inibitori delle calcineurine, l’eventuale introduzione di un mTOR inibitore, la riduzione o la sospensione dei farmaci antimetaboliti (tra i quali bisognerebbe preferire il micofenolato mofetile o l’Acido micofenolico rispetto alla Azatioprina), la riduzione o la sospensione della terapia corticosteroidea, sono alcune delle contromisure che possono essere adottate. Casi particolarmente gravi potrebbero meritare riduzioni della terapia immunosoppressiva particolarmente aggressive, fino alla completa sospensione. Le principali linee guida internazionali rimangono tuttavia molto vaghe su come modificare la terapia immunodepressiva [34, 70], è ruolo del trapiantologo scegliere lo schema terapeutico ideale per il rischio oncologico del singolo paziente, sia in senso di prevenzione che in corso di terapia oncologica.

 

Inibitori del Checkpoint immunitario nel paziente portatore di trapianto di rene

Gli inibitori dei checkpoint immunitari (ICIs) hanno profondamente rivoluzionato l’approccio alla terapia oncologica, e le indicazioni per il loro utilizzo sono destinate ad estendersi ulteriormente [71]. Tuttavia, rimane ancora poco chiara la sicurezza e l’efficacia di questi farmaci nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido.

Il meccanismo d’azione di questi anticorpi monoclonali prevede infatti una stimolazione dell’attività immunitaria cellulo-mediata, al fine di eliminare le cellule neoplastiche. L’utilizzo di inibitori dei checkpoint immunitari nei pazienti con tumori avanzati che hanno ricevuto un trapianto potrebbe portare a miglioramenti nei risultati terapeutici, ma questo è evidentemente correlato ad un elevato rischio di rigetto [72-74].

Per i pazienti che hanno necessitato di terapie immunosoppressive, alcuni studi suggeriscono che l’efficacia degli inibitori dei checkpoint immunitari (ICI) non risulti eccessivamente influenzata [74-77]. Tuttavia, altri lavori indicano che l’uso precoce di corticosteroidi o l’adozione di terapie immunosoppressive insieme ai corticosteroidi siano associati ad esiti di sopravvivenza più sfavorevoli [78, 79]. Inoltre, nel valutare la possibilità di un nuovo trattamento con immunoterapia per pazienti che abbiano sperimentato eventi avversi immunomediati (irAE), l’uso simultaneo di terapie immunosoppressive è collegato a una ridotta efficacia dell’ICI. Per questo è comune pratica quella di ridurre o sospendere totalmente la terapia immunodepressiva in corso di terapia con questi farmaci, conferendo quindi un netto incremento del rischio di rigetto dell’allotrapianto.

Risultano in corso al momento attuale diversi trial clinici indirizzati proprio a chiarire la sicurezza e l’efficacia di questi farmaci nei pazienti portatori di trapianto di organo solido, alcuni dei quali mirano a valutarne gli outcome in seguito al mantenimento della terapia ID invariata (ACTRN12617000741381, NCT03816332, NCT04339062, NCT03966209, NCT04721132).

 

Conclusione

Non è un compito semplice quello di trovare il giusto equilibrio tra grado efficace di immunosoppressione e basso rischio oncologico. Questa è una sfida quotidiana per il nefrologo trapiantologo, che spesso deve adottare delle scelte terapeutiche di grande peso clinico in assenza di chiare indicazioni da parte delle linee guida. Sono quindi indispensabili ulteriori studi specificatamente rivolti alla popolazione trapiantata, che permettano una migliore comprensione del problema.

 

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La dialisi peritoneale rappresenta la tecnica sostitutiva di prima scelta per i pazienti candidabili al trapianto di rene?

Abstract

Il trapianto di rene è ampiamente riconosciuto come il trattamento sostitutivo d’elezione della malattia renale terminale. È stato, infatti, dimostrato che sottoporre il paziente a trapianto di rene ancor prima dell’inizio della terapia dialitica garantisce sia la migliore sopravvivenza del soggetto che dell’organo trapiantato. Tuttavia, a causa della considerevole discrepanza fra il numero di donatori e i soggetti in lista di attesa, la maggior parte dei candidati a trapianto di rene necessita di un lungo periodo di terapia dialitica prima di ricevere un organo.

Per molti anni la dialisi peritoneale e l’emodialisi sono state considerate terapie sostitutive contrastanti. Recentemente questa visione dualistica è stata messa in discussione da dati emergenti a supporto dell’idea che l’approccio più appropriato sia quello personalizzato. Infatti, passaggi di metodica dialitica accuratamente pianificati e coscienziosamente determinati sulla base delle particolari esigenze del singolo paziente nello specifico momento permettono di ottenere i risultati più soddisfacenti.

Degno di nota è il fatto che le attuali evidenze favoriscono nei pazienti candidabili a trapianto di rene l’utilizzo della metodica peritoneale. In questa specifica popolazione i vantaggi della dialisi peritoneale sono rappresentati, infatti, da un più lungo mantenimento della funzione renale residua, una superiore qualità di vita, una minore incidenza di ritardata ripresa funzionale dell’organo trapiantato, una migliore sopravvivenza e una riduzione dei costi associati alla metodica.

Parole chiave: dialisi peritoneale, trapianto di rene, emodialisi, terapia sostitutiva renale, lista di attesa, funzione renale residua, qualità di vita, ritardata ripresa funzionale

Introduzione

Il trapianto di rene (KT) è ampiamente riconosciuto come la terapia renale sostitutiva (RRT) d’elezione per la malattia renale terminale (ESRD) [13]. Idealmente, sottoporre il paziente a KT prima dell’inizio della terapia dialitica è la strategia che permette di ottenere i risultati più soddisfacenti [46]. Tuttavia, a causa della limitata disponibilità di donatori, la maggior parte dei soggetti candidati a KT necessita di un lungo periodo di trattamento dialitico prima di ricevere un organo [7]. Per molti anni l’emodialisi (HD) ha rappresentato l’unica opzione per i pazienti in lista di trapianto [8,9]. Negli anni ‘80 l’avvento della dialisi peritoneale (PD) nella pratica clinica ha sollevato la questione di quale fosse la terapia dialitica da preferire nei pazienti candidabili a KT [10,11].

Le preoccupazioni maggiori concernenti l’uso della PD sono rappresentate dalla possibile creazione di leakage/aderenze peritoneali, dal rischio di infezioni peri-trapianto e dalla convinzione che la metodica sia correlata ad una maggiore incidenza di episodi di rigetto acuto [1216].

Sebbene diversi studi abbiano dimostrato che la PD non influenza negativamente il numero di complicanze chirurgiche e mediche precoci, molti nefrologi sono ancora riluttanti a proporre la PD come terapia sostituiva iniziale nei pazienti candidabili a KT. Questa tendenza è alquanto discutibile poiché l’HD e la PD non devono essere considerate tecniche dialitiche competitive, quanto piuttosto strategie complementari finalizzate a ottenere i migliori risultati prima e dopo il trapianto di rene [17].

Infatti, la tecnica dialitica dovrebbe essere personalizzata sulla base delle particolari caratteristiche e esigenze del singolo paziente tenendo in considerazione la loro variabilità nel tempo. Dunque, trasferimenti accuratamente pianificati fra le diverse tecniche di terapia renale sostitutiva dovrebbero essere accuratamente considerati nelle specifiche circostanze [18].

A questo riguardo, sempre maggiori evidenze sembrano suggerire che nei pazienti candidabili a trapianto di rene la PD permette di ottenere migliori risultati rispetto all’HD. In particolare, i vantaggi della PD sono rappresentati da un più lungo mantenimento della funzione renale residua, da una superiore qualità di vita, una minore incidenza di ritardata ripresa funzionale dell’organo trapiantato (DGF), una migliore sopravvivenza e una riduzione dei costi associati alla metodica. Il presente lavoro si prefigge, dunque, lo scopo di discutere i vantaggi teorici della “PD-first policy” nell’ambito del paziente candidabile a KT.

 

Sopravvivenza del paziente durante la terapia dialitica

I pazienti affetti da ESRD presentano un’elevata prevalenza di malattie cardiovascolari, un più alto rischio di eventi cardiovascolari maggiori e un’aumentata mortalità rispetto alla popolazione generale [7]. Questi fattori, purtroppo, possono ridurre in modo significativo la possibilità di rimanere in lista attiva di trapianto e inficiano tanto la sopravvivenza dell’organo quanto quella del ricevente dopo KT. Dunque, la terapia renale sostitutiva in grado di garantire la minore mortalità e la più bassa incidenza di comorbidità è certamente da preferire.

In uno studio condotto su 398.940 pazienti che hanno iniziato la terapia sostitutiva fra il 1995 e il 2000, Vonesh et al. [19] mostrarono che la sopravvivenza dei pazienti in PD e HD variava secondo specifiche caratteristiche legate al paziente, quali la causa dell’insufficienza renale, l’età e le comorbidità. In particolare, gli autori osservarono che, eccetto per i pazienti anziani con diabete in cui la PD presentava uno svantaggio di sopravvivenza, in tutti gli altri sottogruppi la mortalità fra i pazienti era simile o perfino migliore in PD. Uno studio danese basato su 4568 pazienti in HD e 2443 in PD evidenziava che i pazienti in PD possedevano un vantaggio in termini di sopravvivenza nei primi due anni di RRT [20]. In modo simile, un’analisi eseguita su una coorte di pazienti dializzati canadesi dimostrava che negli individui giovani e non affetti da diabete la sopravvivenza in PD era superiore rispetto all’HD e, sebbene di minore entità, questo vantaggio si confermava anche negli altri sottogruppi [21].

Liem et al., analizzando il registro olandese di malattia renale terminale (16.643 pazienti), osservavano che la sopravvivenza differiva fra le due metodiche dialitiche a seconda della presenza o meno di diabete e dall’età del paziente all’inizio della dialisi [22]. In particolare, gli autori concludevano che il vantaggio della PD sull’HD diminuiva con l’aumento dell’età del paziente e in presenza di diabete.

Degno di rilevanza è il risultato proveniente da uno studio di confronto (PD vs HD) includente 6637 coppie di pazienti accoppiate secondo il metodo del propensity score in cui i pazienti trattati con PD mostravano un rischio di mortalità complessivo inferiore dell’8% rispetto ai pazienti che iniziavano l’HD [23].

Dunque, considerando globalmente le evidenze a disposizione in letteratura, i pazienti giovani e non diabetici trattati con PD presentano un vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto ai soggetti sottoposti a HD, in particolare nei primi anni di trattamento.

 

Sopravvivenza del paziente e dell’organo dopo trapianto di rene

Rispetto alla terapia dialitica, il trapianto di rene garantisce sia una migliore qualità che una più lunga aspettativa di vita [24,25]. Inoltre, il rientro in dialisi dopo il fallimento di un primo trapianto è caratterizzato da una maggiore mortalità in confronto al periodo di trattamento dialitico pre-trapianto [2628]. Dunque, la preservazione della funzione del trapianto è un requisito fondamentale al fine di ottimizzare la sopravvivenza del paziente.

Diversi studi hanno indagato l’impatto del tipo di metodica dialitica intrapresa dal paziente prima di essere sottoposto a trapianto sulla sopravvivenza dell’organo e del ricevente ottenendo, però, risultati divergenti.

Nei primi anni 90 uno studio includente 500 pazienti sottoposti a un primo trapianto di rene non mostrava né una differente percentuale di sopravvivenza a 5 anni dei soggetti (HD 88% vs PD 87%), né dell’organo (HD 67% vs PD 66%) confrontando i pazienti trattati precedentemente con HD o PD [29]. Simili valori sia di sopravvivenza dei pazienti che del trapianto venivano osservati in altri studi dall’Università dell’Ohio, dal CHRU di Lille e dall’Università di Glasgow su popolazioni più ridotte [3032], così come in una vasta analisi retrospettiva del database Medicare condotta su 22.776 soggetti [33].

Al contrario, Goldfarb-Rumyantzev et al. [34], utilizzando i dati provenienti dall’ U.S. Renal Data System (USRDS), osservavano che la PD era associata a una riduzione del rischio di fallimento del trapianto e di mortalità, pari al 3% in confronto al 6% dell’HD.

La maggior parte degli studi successivi non rilevavano, invece, la superiorità di una metodica rispetto all’altra, specialmente nel breve e medio termine [3539]. Tuttavia, estendo il follow-up a 10 anni, Lopez-Oliva et al. [40] riuscivano a dimostrare che la PD era associata a una minore mortalità rispetto all’HD [HR=2,62 (1,01–6,8); p=0,04], nonostante una sopravvivenza del trapianto pressoché sovrapponibile [HR=0,68 (0,41–1,10); p=0,12].

Allo stesso modo Schwenger et al. [41], utilizzando il vasto database dell’International Collaborative Transplant Study Group comprensivo di 60.008 riceventi, osservavano nei pazienti precedentemente trattati mediante PD una migliore sopravvivenza associata ad un’equivalente probabilità di fallimento dell’organo. L’analisi multivariata secondo il modello di Cox rivelava, infatti, che i pazienti in PD (n=11.664) mostravano una mortalità per tutte le cause del 10% inferiore (p=0,014) rispetto ai pazienti in HD (n=45.651) e una simile sopravvivenza del trapianto (p=0,39). Questa differenza in termini di mortalità appariva essere la conseguenza di una significativa riduzione di morte con organo funzionante secondaria a evento cardiovascolare nei pazienti che avevano ricevuto l’organo da un donatore a criteri espansi.

Valutando i risultati provenienti da tutti i riceventi di trapianto renale presenti nel Scientific Registry of Transplant Recipients, anche Molnar et al. [42] dimostravano che i pazienti in trattamento dialitico peritoneale prima del trapianto possedevano un minore tasso di mortalità (21,9/1000 paziente-anni, 95% intervallo di confidenza: 18,1–26,5) rispetto ai pazienti emodializzati (32,8/1000 paziente-anni, 95% intervallo di confidenza: 30,8–35,0). La PD pre-trapianto era associata ad una riduzione del 43% della mortalità corretta per diversi fattori confondenti e a un 66% di decremento della mortalità per evento cardiovascolare. Interessante è il fatto che la PD era, inoltre, associata a una riduzione del rischio di fallimento dell’organo trapiantato del 17% rispetto all’HD.

Nonostante la positività di queste evidenze, alcuni autori hanno riferito il vantaggio della PD in termini di risultati post-trapiantato a un possibile bias di selezione, in quanto i pazienti candidabili alla PD risulterebbero più sani rispetto a coloro che intraprendono la HD [4345]. Per smentire questa ipotesi, sono stati adoperati diversi modelli statistici con risultati alterni [33,34,36,46]. A riguardo, significativo è lo studio di Kramer et al. [47] che, utilizzando il metodo delle variabili strumentali al fine di minimizzare i potenziali bias derivanti da fattori confondenti non misurati, valutava i dati di 29.088 pazienti provenienti da registri regionali e nazionali europei. L’analisi standard corretta per l’età, il sesso, la malattia renale di base, la tipologia di donatore, la durata della dialisi e l’età del trapianto mostrava che la PD, come terapia sostitutiva prima del trapianto, era associata a una migliore sopravvivenza sia del ricevente [hazard ratio (HR) 95% CI = 0,83 (0,76–0,91)] che dell’organo trapiantato [(HR 95% CI 0,90 (0,84–0,96)] rispetto all’HD. Tuttavia, il metodo delle variabili strumentali dimostrava che la PD non correlava né con la sopravvivenza post-trapianto del paziente [HR (95% CI = 1,00 (0,97–1,04)], né con la sopravvivenza dell’organo [HR (95% CI) = 1,01 (0,98–1,04)].

Dunque, le evidenze disponibili suggeriscono che la PD come terapia sostitutiva pre-trapianto, a differenza dell’HD, possiede un effetto favorevole sulla sopravvivenza post trapianto del paziente, sebbene siano ancora mancanti solidi dati a lungo termine.

 

Ripresa funzionale ritardata

La DGF viene comunemente definita come la necessità di terapia dialitica durante la prima settimana successiva al trapianto o l’assenza di diminuzione della creatinina sierica di un valore pari o superiore del 50% (T Scr) alla terza giornata post-trapianto [48].

La DGF è stata considerata comunemente un surrogato di risultati a lungo termine, quali la sopravvivenza del paziente e dell’organo trapiantato [49], in quanto è un accertato fattore di rischio per il rigetto acuto, le complicanze peri-operatorie e la perdita precoce del trapianto [5053].

Giral-Classe et al. [54] dimostravano che la durata della DGF rappresenta un fattore predittivo indipendente di sopravvivenza a lungo termine dell’organo trapiantato. In particolare, gli autori identificavano un elevato rischio di fallimento del trapiantato nei pazienti con una DGF uguale o superiore a 6 giorni. Inoltre, Troppmann et al. [55] osservavano che la sopravvivenza dell’organo era ampiamente inferiore per i pazienti che manifestavano una DGF associata a rigetto. È stato, inoltre, dimostrato che il rigetto è più frequente nei casi in cui la biopsia venga eseguita per un mancato miglioramento della funzione renale (valore sierico di creatininemia stabile o decremento minore <10% per tre giorni consecutivi) [56].

L’influenza della modalità dialitica prima del trapianto sull’incidenza e la durata della DGF è stata oggetto di diversi studi. In particolare, Perez-Fontan et al. [50] valutarono l’incidenza e i fattori di rischio per il verificarsi della DGF confrontando i pazienti che erano stati trattati prima del trapianto mediante PD (n=92) rispetto con HD (n=587). Gli autori osservarono che la percentuale di DGF nel gruppo PD era pari a 22,5% mentre raggiungeva il 39,5% nel gruppo HD e che la modalità dialitica rappresentava il fattore predisponente più significativo per l’incidenza di DGF. Inoltre, stabilivano che una durata di DGF maggiore di 3 settimane si associava a una minore sopravvivenza dell’organo e ad un’aumentata mortalità.

In uno studio caso-controllo, 117 riceventi trattati in precedenza con PD venivano accoppiati per età, sesso, tempo in dialisi, compatibilità degli HLA e tempi di ischemia calda e fredda con altrettanti riceventi sottoposti a HD prima del trapianto renale [57]. La DGF si verificava nel 23,1% dei pazienti in trattamento con PD rispetto al 50,4% dei pazienti in HD (p=0,0001), mentre il sT1/2 Scr era pari a 5,0 ± 6,6 giorni nel gruppo PD in confronto a 9,8 ± 11,5 giorni del gruppo HD (p<0,0001).

Al contrario Caliskan et al., impiegando un simile metodo statistico non osservarono differenze in termini di incidenza di DGF fra i due gruppi [36].

Si specula che la più bassa incidenza di DGF descritta generalmente nei riceventi esposti in precedenza alla PD sia dovuto ad un bilancio idrico peri-operatorio più favorevole rispetto ai pazienti trattati con HD. A questo proposito, Issad et al [58] hanno dimostrato che i candidati al trapianto in PD possedevano una pressione arteriosa polmonare media pari a 21,1 mmHg e maggiore di 25 mmHg in più del 50% dei pazienti. Queste rilevazioni sembrano supportare la tesi che i pazienti in trattamento peritoneale siano spesso iper-idratati.

Tuttavia, analizzando i dati provenienti da soggetti sottoposti a primo trapianto di rene da donatore deceduto, un gruppo di ricercatori della università di Gent ha dimostrato che la PD come modalità dialitica pre-trapianto, così come l’ottimizzazione del bilancio dei liquidi pre-operatorio, rappresentavano due fattori predittivi indipendenti di immediata ripresa funzionale [48]. Questa osservazione suggerisce che gli effetti positivi della PD in termini di minore incidenza di DGF non dipendano unicamente dallo stato di idratazione del paziente.

Un’ulteriore evidenza che la PD riduca il rischio di DGF rispetto alla HD proviene dallo studio di Bleyer et al. [59] che, sfruttando l’archivio dati dello United Network of Organ Sharing, analizzavano i risultati precoci dopo trapianto di rene nei pazienti in PD e HD. In particolare, gli autori osservarono che la probabilità di manifestare oliguria nelle prime 24 ore post-trapianto era 1,49 (1,28–1,74) volte maggiore nei pazienti in HD. Questa differenza risultava perfino più pronunciata nei pazienti di etnia afroamericana.

Simili risultati sono stati descritti da lavori più recenti a conferma dell’ipotesi che la tecnica dialitica pre-trapianto può influenzare gli esiti post-intervento [32,33,42,60]. Diverse teorie sono state avanzate per spiegare la più bassa incidenza di DGF osservata nei pazienti in precedente trattamento con PD tra cui, oltre a un miglior equilibrio volemico, un ridotto stato di stress-ossidativo e una superiore funzione renale residua al momento del trapianto di rene.

 

Funzione renale residua

Nei pazienti affetti da malattia renale cronica si assiste ad una progressiva riduzione del valore di filtrazione glomerulare (GFR) associato nello stadio terminale a una riduzione graduale del volume urinario giornaliero. Questo fenomeno può, infine, determinare una riduzione della capacità vescicale, un’iperattività detrusoriale e un alterato svuotamento vescicale [6167].

È stato ampiamente documentato che i riceventi di trapianto renale con vescica atrofica o disfunzionale possiedono un elevato rischio di prolungato cateterismo vescicale, di complicanze urologiche precoci e di reflusso vescicoureterale [61,62,66]. È stata, inoltre, osservata una stretta correlazione tra la perdita della funzione renale residua (RRF) e specifici esiti post-trapianto, quali le complicanze urologiche post-intervento e la sopravvivenza dell’organo a breve termine [67].

Dunque, la preservazione della RRF nei pazienti in trattamento dialitico è fondamentale per minimizzare le complicanze urologiche precoci, il periodo di cateterismo vescicale post-procedurale e le infezioni urinarie. Ad oggi la durata della RRT rappresenta il fattore predittivo maggiormente associato all’atrofia vescicale e all’esaurimento della RRF [61,62,66,67]. Tuttavia, numerose evidenze suggeriscono che anche la tecnica dialitica pre-trapianto giochi un ruolo significativo nel rallentare la perdita della RRF.

La prima segnalazione della migliore preservazione della RRF nei pazienti in PD risale al 1983 [68]. Successivamente, diversi lavori hanno dimostrato la superiorità della PD rispetto alla HD nel mantenere la RRF con una riduzione relativa della perdita di GFR compresa fra il 20 e l’80% a seconda degli studi considerati [6973].

Nello studio prospettico NECOSAD-2 (prospective study Netherlands Cooperative Study on the Adequacy of Dialysis phase 2) venivano valutati per 12 mesi i valori di GFR di 522 pazienti in terapia dialitica. I risultati mostravano che la PD garantiva una migliore preservazione della RRF rispetto alla HD, anche dopo correzione per il GFR basale, l’età, la malattia renale di base, le comorbidità, l’indice di massa corporea, la pressione sanguigna sistemica, l’uso di farmaci antipertensivi e la causa di fallimento della metodica [74].

Inoltre, qualche studio ha valutato l’impatto dei nuovi regimi emodialitici. Come osservato precedentemente, la velocità di diminuzione della RRF risultava minore nei pazienti in PD, nonostante l’impiego di tecniche emodiafiltrative finalizzate alla minimizzazione dell’instabilità emodinamica [72,75,76].

La PD può favorire la preservazione della RRF attraverso multipli meccanismi. La metodica garantisce, infatti, minori squilibri volemici così come ridotte fluttuazioni della pressione osmotica rispetto alla HD diminuendo gli eventi di instabilità emodinamica transitoria [70]. Questo effetto è probabilmente associato sia ad una pressione glomerulare più stabile, sia a un valore di filtrazione più costante. L’assenza di rapidi cambiamenti del volume circolante e dell’osmolarità plasmatica può anche prevenire eventuali episodi di ischemia parenchimale [73]. Lo stato di modesto sovraccarico idrico frequentemente osservato nei pazienti in PD potrebbe giocare un ruolo nel mantenimento della RRF [77].

È interessante notare che esistono molteplici evidenze a supporto dell’influenza positiva della RRF sia nei pazienti in trattamento peritoneale [74,7885] che emodialitico [74,86]. Il contributo relativo della RRF e della clearance peritoneale nei confronti della sopravvivenza del paziente in PD è stato oggetto di numerose indagini. In particolare, lo studio NECOSAD-2 [74] e lo studio ADEMEX [84] hanno mostrato una riduzione della mortalità del 12 e dell’11%, rispettivamente, per ogni 10 litri/settimana/1,73 m2 di incremento di clearance della creatinina, mentre non si osservava una relazione fra la sopravvivenza del paziente e la dose di PD o il valore totale di rimozione delle piccole molecole. Inoltre, l’analisi multivariata, condotta su pazienti dell’Andalusia (n=402) incidenti in PD negli anni compresi fra il 1999 e il 2005, dimostrava che una RRF al di sotto del valore mediano (4,33 ml/min) era un fattore di rischio indipendente di mortalità [85].

Ulteriori benefici derivanti dalla preservazione della RRF sono rappresentati dalla diminuzione della pressione sistemica [87], dalla protezione dall’ipertrofia ventricolare sinistra [8890], dall’incremento della rimozione del sodio [91,92], da un più adeguato equilibrio volemico [92,93], da una maggiore clearance di b2-microglobulina [9497], da più elevati valori di emoglobina sierica [88,89], da un più adeguato stato nutrizionale [83,88,96,98], e dalla riduzione della quantità di molecole infiammatorie circolanti [99]. Inoltre, la RRF facilita il raggiungimento degli obbiettivi depurativi [74,75,81,82,86,88,100] e aiuta a controllare i livelli di fosfato/acido urico [88,91,101], bicarbonato [96] e colesterolo [102].

Dunque, il mantenimento a lungo termine della RRF rappresenta probabilmente il vantaggio più significativo della PD rispetto alla HD nei primi anni di RRT per i pazienti candidabili a trapianto.

 

Qualità di vita

Il trapianto renale garantisce una migliore qualità di vita (QoL) rispetto alla terapia dialitica [25,103,104]. Il tempo trascorso dai pazienti in lista trapianto varia a seconda della nazione considerata. Tuttavia, durante questo periodo una quota significativa dei candidati viene rimosso dalla lista o va incontro a decesso ancora prima di ricevere un organo.

Per esempio, analizzando i più recenti dati italiani del Centro Nazionale Trapianti, nel corso del 2020 2843 dei 7941 (circa 36%) pazienti in lista di attesa al 31 dicembre 2019 sono usciti di lista: 1623 per trapianto, 239 per decesso e 980 per inidoneità temporanea o definitiva. Inoltre, il tempo mediano di attesa prima di ricevere un organo era pari a circa 3 anni e 3 mesi [105].

Lo stadio terminale della malattia renale associato alla necessità di terapia dialitica cronica può inficiare diversi aspetti della vita del paziente influenzando negativamente il benessere fisico, psichico, sociale ed economico. Dunque, nei candidati al KT il mantenimento di una elevata qualità di vita anche durante l’attesa in lista rappresenta un obbiettivo di vitale importanza.

A differenza dell’HD, la metodica dialitica peritoneale può essere eseguita a domicilio dal paziente indipendentemente o con il supporto di un familiare/badante. Inoltre, il breve tempo richiesto per effettuare uno scambio, permette di stilare uno schema dialitico flessibile concedendo al paziente di viaggiare e di partecipare ad attività ricreative.

Come per i risultati clinici, il confronto della QoL sperimentata dai pazienti in HD rispetto ai soggetti in PD è un compito di non semplice realizzazione. A questo scopo, lo strumento maggiormente impiegato per la valutazione della QoL dei pazienti in trattamento dialitico è rappresentato dal questionario “Kidney Disease Quality of Life” (KDQOL) [106]. Successivamente, sono state proposte multiple versioni di questo score, quali la KDQOL-Short Form Version 1.3 [107], la KDQOL-Short Form 36 e la Short Form-12 [108]. Un altro questionario frequentemente utilizzato è il CHOICE Health Experience Questionnaire (CHEQ), formulato nello studio “Choices for Healthy Outcomes in Caring for End-Stage Renal Disease (CHOICE)”. Il CHEQ permette di integrare lo SF-36, essendo stato progettato per rilevare differenze più sottili fra la HD e la PD [109].

Tramite lo score KDQOL-SF 1.3, Wakeel et al. [110] confrontavano la QoL di 200 pazienti in HD o PD in Arabia Saudita. Dopo aver escluso i pazienti con difetti cognitivi, deficit neurologici e patologie psichiatriche, gli autori dimostravano che la PD era associata ad un punteggio più elevato in quasi tutti i domini esplorati. In un altro lavoro riguardante più di 300 pazienti, attraverso l’utilizzo del KDQOL-SF36, si evidenziava che i pazienti in PD possedevano un punteggio più alto nei domini inerenti allo stato lavorativo (25,00 vs 14,64; p=0,012), il supporto dallo staff dialitico (96,12 vs 83,11; p=0,008) e la soddisfazione complessiva del trattamento (81,61 vs 71,47; p <0,005) [111]. Un maggiore sostegno dal personale sanitario così come una maggiore soddisfazione globale rispetto alla terapia dialitica venivano osservati anche nello studio di De Abreu et al. [112]. Evidenze, invece, che la PD si associ a un minore stress emotivo in confronto alla HD sono state fornite dal più recente lavoro di Griva et al. [113] e dalla metanalisi di Cameron [114].

In uno studio trasversale condotto su 736 pazienti con ESRD (PD n=256 e HD n=480), gli autori formulavano uno specifico questionario basato sugli elementi specifici che i pazienti stessi percepivano come più rilevanti per la loro QoL. Analizzando i risultati ottenuti, i pazienti in PD mostravano una soddisfazione per la terapia dialitica in corso superiore agli individui in HD anche quando il punteggio veniva corretto per multipli fattori quali l’età, l’etnia, lo stato lavorativo e familiare, la distanza dal centro dialitico e il tempo trascorso dall’inizio della dialisi [115].

La capacità di preservare l’attività lavorativa dopo l’inizio della terapia dialitica è un altro significativo aspetto della QoL del paziente in RRT [116]. A questo riguardo, numerosi studi hanno dimostrato che la PD offre maggiori possibilità di occupazione rispetto alla HD [43,116118]. In particolare, secondo i dati dello studio CHOICE la percentuale di pazienti occupati in PD era 27% mentre solo 8,6% in HD [43].

Dunque, alla luce delle evidenze disponibili in letteratura, i pazienti in PD mostrano una più elevata soddisfazione, un migliore benessere psicologico, un minore stress emotivo e una maggiore probabilità di mantenere la propria occupazione rispetto ai pazienti in HD.

 

Costo

La RRT cronica rappresenta certamente uno dei costi più rilevanti dei sistemi sanitari pubblici e privati di tutto il mondo. Attuali stime prevedono che la prevalenza della ESRD aumenterà ulteriormente nel prossimo futuro sia a causa dell’aumento dell’incidenza di patologie quali l’ipertensione, il diabete e l’obesità, sia per il progressivo invecchiamento della popolazione [119121].

A questo riguardo, il trapianto renale garantisce una migliore sopravvivenza e qualità di vita rispetto alla terapia dialitica a costi decisamente minori [25,122,123]. Tuttavia, la maggior parte dei candidati a KT trascorrono inevitabilmente una considerevole quantità di tempo in dialisi prima di ricevere un organo [124]. Dunque, i costi della terapia sostitutiva provenienti dai pazienti in lista di attesa non dovrebbero essere ignorati [121].

Numerosi studi sono stati concepiti per confrontare le spese sostenute dalle modalità dialitiche. In una revisione della letteratura pubblicata nel 2008, Just et al. [125] concludevano che l’HD era più costosa della PD nei paesi economicamente più sviluppati, mentre risultati contrastanti venivano osservati nell’analisi dei costi dei trattamenti dialitici in Asia e Africa [126,127]. Questi dati rispecchiano probabilmente l’impatto delle differenze geografiche, sociali e culturali che determinano le effettive spese legate alla RRT. A questo riguardo, recentemente Karopadi et al. [128] hanno valutato i costi della PD e della HD in 46 nazioni con differente sviluppo economico. I risultati venivano espressi come spesa media annuale per paziente in HD diviso la spesa media annuale per paziente in PD (rapporto HD/PD). Il valore di questo rapporto era compreso fra 1,25 e 2,35 in 22 paesi (17 a intenso sviluppo economico e 5 a basso sviluppo), tra 0,9 e 1,25 in 15 stati (2 a intenso sviluppo economico e 13 a basso sviluppo), e compreso fra 0,22 e 0,9 in 9 nazioni (1 a intenso sviluppo economico e 8 a basso sviluppo). Globalmente, questi dati confermano l’evidenza che negli stati economicamente sviluppati la PD è meno costosa dell’HD, mentre nei paesi a minore sviluppo economico la PD può essere considerata un’opzione finanziariamente vantaggiosa solo nel caso in cui si crei un’economia di scala con una produzione locale del materiale di dialisi o si instaurino bassi costi di importo [128].

Analizzando le informazioni presenti nell’USRDS 2020 Annual Data Report [7], è possibile notare che la spesa del Medicare (corretta per l’inflazione totale) per paziente con ESRD è aumentata dal 2009 al 2018 di più del 2%, passando da 40,9 a 49,2 bilioni di dollari americani (USD). L’HD con i suoi 93.191 USD per persona/anno rimane la modalità di RRT più costosa seguita dai 78.741 USD della PD e dai 37.304 USD del trapianto renale. È stato, tuttavia, obbiettato che essendo relativamente breve la sopravvivenza della metodica peritoneale, dovrebbero essere presi in considerazione anche i costi legati al passaggio alla HD. In ogni caso i dati a disposizione sembrano suggerire un risparmio annuale di circa 15.000 USD/paziente e una spesa minore anche nei soggetti che vengono trasferiti dalla PD alla HD rispetto a coloro che sono trattati mediante HD [129,130].

Alla luce di questi risultati, è possibile osservare che la PD rappresenta una tecnica dialitica economicamente vantaggiosa in molti paesi. Questa conclusione è corroborata dal fatto che la maggior parte dei confronti fra le due metodiche non considerano numerosi costi indiretti della HD, come la perdita di produttività del paziente e dei suoi familiari e il costo legato ai trasporti. Infatti, come sottolineato in precedenza, la PD grazie alla flessibilità dello schema dialitico e la possibilità di eseguire gli scambi al domicilio permette più frequentemente la preservazione dell’attività lavorativa. Il mantenimento dell’occupazione è, infatti, un fattore di risparmio che raramente viene considerato.

Perciò, il vero rapporto HD/PD potrebbe essere perfino più elevato di quello riportato in quanto, scotomizzando i costi indiretti, tenderebbe a sottostimare il reale vantaggio economico della PD rispetto all’HD. Dunque, il costo legato alla metodica rappresenta sicuramente un ulteriore motivo per privilegiare la PD nei pazienti in attesa di trapianto renale.

 

Conclusioni

Storicamente, l’HD è stata considerata la metodica dialitica d’elezione per la maggior parte dei pazienti affetti da ESRD in attesa di trapianto renale. Nel corso degli anni, diversi studi hanno dimostrato, tuttavia, che l’ipotetico vantaggio dell’HD rispetto alla PD non era supportato da solide evidenze. Al contrario, un’analisi critica della letteratura mostra come la PD rappresenti la metodica sostitutiva di prima scelta per i pazienti in attesa di trapianto per i seguenti motivi (fig.1):

  • una migliore qualità di vita e sopravvivenza (perlomeno nel paziente giovane non diabetico);
  • una più lunga preservazione della diuresi residua, che permette di minimizzare l’incidenza delle complicanze urologiche e il tempo di cateterismo vescicale post-intervento;
  • una più bassa incidenza di ritardata ripresa funzionale dell’organo trapiantato;
  • un minore costo della tecnica.

Tuttavia, deve essere sempre perseguito un approccio integrato delle due modalità dialitiche, soppesando vantaggi e svantaggi di ogni trattamento alla luce delle peculiari caratteristiche di ogni singolo caso.

Figura 1: Sinossi dei vantaggi conferiti dalla dialisi peritoneale ai pazienti affetti da malattia renale cronica allo stadio terminale candidabili a trapianto di rene
Figura 1: Sinossi dei vantaggi conferiti dalla dialisi peritoneale ai pazienti affetti da malattia renale cronica allo stadio terminale candidabili a trapianto di rene

 

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Il trapianto renale nell’anziano

Abstract

Il costante incremento del numero di pazienti in lista di attesa per trapianto renale è prevalentemente dovuto ad un aumento dei pazienti delle fasce di età ≥65 anni.

Il trapianto da cadavere o da vivente rappresenta un beneficio in termini di maggiore attesa di vita anche per il paziente anziano ben selezionato. Il guadagno netto di sopravvivenza si evidenzia dopo circa due anni dal trapianto.

La strategia old for old di allocazione del trapianto da cadavere risponde a criteri di beneficialità ma anche a considerazioni immunologiche, assegnando un rene più immunogeno a un paziente meno immunoreattivo.

L’entità del beneficio di sopravvivenza deve essere rivalutato alla luce del progresso della sopravvivenza in dialisi registrato negli ultimi anni.

Il riconoscimento di uno stato di fragilità e la sua misurazione possono aiutare nella selezione del paziente anziano da avviare al trapianto.

Gli schemi di terapia più diffusi prevedono una immunosoppressione piena iniziale e una terapia di mantenimento ai limiti inferiori dei target usuali.

In considerazione dell’effetto sfavorevole di un lungo tempo dialitico sulla durata del trapianto e sulla sopravvivenza del paziente trapiantato è importante condurre il paziente anziano al trapianto senza perdere tempo.

Il trapianto di rene da donatori con criteri estesi, in riceventi di età superiore o uguale a 60 anni, è associato a maggiore sopravvivenza rispetto al rimanere in dialisi. Il trapianto di rene da donatore vivente rimane l’opzione con i migliori risultati.

Parole chiave: Trapianto di rene, anziani, farmaci immunosoppressivi, fragilità

Introduzione

Il lento ma progressivo aumento dei trapianti renali riguarda prevalentemente riceventi di età più avanzata. In particolare la fascia di età ≥65 anni è quella che beneficia del maggior incremento (1).

Ciò può essere il risultato di un’efficace cura della malattia renale che ha innalzato l’età di ingresso in dialisi e anche della maggiore disponibilità di organi da donatore cadavere anziano; infatti grazie alla riduzione dei decessi per casa traumatiche, incidenti stradali o incidenti sul lavoro, è mutata la fonte di organi per trapianto che oggi è rappresentata prevalentemente da donatori deceduti per evento cerebrovascolare, quindi di fascia di età più avanzata. 

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Il donatore di rene vivente anziano

Abstract

In questi anni, il trapianto di rene da donatore vivente è diventato una opzione terapeutica possibile anche per molti anziani con ESRD. In questi casi, il loro donatore sarà spesso parimenti anziano. Questo comporta un processo di selezione più complesso.
Donatore anziano definisce una età ≥ 65 anni. In questi donatori, il filtrato glomerulare (FG) minimo accettabile per la donazione diminuisce con l’aumentare dell’età, ma secondo le linee guida KDIGO dovrebbe essere sempre > 60 ml/min/1,73m2. Le linee guida inglesi accettano anche 55 ml/min/1,73m2.
Dopo donazione, anche nell’anziano si osserva sia un aumento del volume del rene residuo con aumento del FG di circa 20%. Questo permette di mantenere un FG stabile nel tempo, senza un aumentato rischio di ESRD. Il rischio di morte associato alla donazione è risultato superiore a quello dei donatori più giovani ma inferiore a quello associato ad una colecitectomia
La sopravvivenza del rene trapiantato è risultata inferiore a quella da donatore più giovane ma uguale o superiore a quella da donatore “standard” deceduto.
Per la valutazione del FG vengono suggerite le note formule come CKD-EPI o MDRD. Tuttavia, la clearance della creatinina, sebbene poco considerata dalle linee guida, nell’anziano può risultare perfino più affidabile, ed è ancora largamente utilizzata.
La selezione del donatore richiede molti altri accertamenti. Nell’anziano, a differenza che nel giovane, può risultare difficile distinguere tra uno esito patologico o parafisiologico. Per interpretare correttamente queste condizioni è necessaria grande esperienza e competenza che solo centri trapianto con alto volume di attività possono garantire.

Parole chiave: donatore vivente, donatore anziano, trapianto di rene

Introduzione

Da alcuni anni, Il trapianto di rene da donatore vivente è in progressiva crescita anche in Italia. I dati del SIT (Sistema Informativo Trapianto) documentano 191 trapianti da donatore vivente effettuati nel 2010, aumentati a 302 nel 2015. Oggi, il trapianto da donatore vivente rappresenta il 20% di tutti i trapianti di rene effettuati in un anno in Italia. Una percentuale che tutti auspichiamo possa crescere nei prossimi anni. 

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Un’esperienza di donazione samaritana

Abstract

L’esigenza dei pazienti affetti da insufficienza renale cronica in terapia dialitica di intraprendere un percorso trapiantologico, pone la necessitàdi individuare delle strategie chirurgiche alternative ed efficaci a eludere il numero non sufficiente di donatori cadavere. Ciò allo scopo di permettere alla considerevole popolazione di pazienti in lista d’attesa per trapianto di rene di affrontare il percorso di cura indicato nei tempi e nelle condizioni cliniche più favorevole. In tal senso, in ambito nazionale e internazionale, si diffonde sempre più la donazione di rene da vivente in cui, un familiare o una persona emotivamente significativa per il paziente, decide di donare in favore del proprio caro sofferente. Negli ultimi anni, inoltre, alcune esperienze cliniche documentano e descrivono una peculiare modalità di trapianto di rene da vivente: la donazione samaritana, in cui il donatore non ha nessun tipo di legame, di sangue e/o affettivo, con il ricevente e compie tale gesto come puro atto di generosità senza alcun tipo di remunerazione o contraccambio. Il presente articolo, dopo una breve analisi del fenomeno attraverso la rilevazione di dati emersi da alcuni recenti studi internazionali, si propone di condividere l’esperienza diretta del Servizio di Psicologia Clinica ISMETT nella valutazione psicologica e nell’accompagnamento lungo il percorso clinico di un donatore di rene samaritano. L’esigenza di condividere tale esperienza e attivare delle riflessioni sull’argomento nasce dalla necessità di individuare delle linee guida condivise rispetto all’approccio psicologico con i potenziali candidati alla donazione di rene samaritana.

PAROLE CHIAVE: trapianto di rene, donazione d’organo da vivente, donazione samaritana, valutazione psicologica, altruismo

Introduzione

Il trapianto di rene da donatore vivente è una tecnica chirurgica ormai diffusa in ambito trapiantologico che permette di far fronte alla condizione di insufficienza renale in maniera efficace, evitando di sottoporre il paziente ai rischi psicoclinici connessi a trattamenti emodialitici prolungati. 

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La terapia dietetica nutrizionale nella gestione del paziente con Malattia Renale Cronica in fase avanzata per ritardare l’inizio e ridurre la frequenza della dialisi, e per il programma di trapianto pre-emptive

Abstract

La nefrologia italiana ha una lunga tradizione ed esperienza nell’ambito della terapia dietetico-nutrizionale (TDN). Questa rappresenta una componente importante della gestione conservativa del paziente affetto da malattia renale cronica, che precede e si integra con le terapie farmacologiche. Gli obiettivi della TDN comprendono il mantenimento di uno stato nutrizionale ottimale, la prevenzione e/o correzione di segni, sintomi e complicanze dell’insufficienza renale cronica e l’allontanamento dell’inizio della dialisi.

La TDN comprende la modulazione dell’apporto proteico, l’adeguatezza dell’apporto calorico, il controllo dell’apporto di sodio e di potassio e la riduzione dell’apporto di fosforo. Per tutte le terapie dietetico-nutrizionali, ed in particolare quelle mirate al paziente con insufficienza renale cronica, l’aderenza del paziente allo schema dietetico-nutrizionale è un elemento fondamentale per il successo e la sicurezza della TDN. Questa può essere favorito da un approccio interdisciplinare e multi-professionale di informazione, educazione, prescrizione dietetica e follow-up. Questo documento di consenso, che definisce 20 punti essenziali dell’approccio nutrizionale al paziente con insufficienza renale cronica avanzata, è stato preparato, discusso e condiviso dai nefrologi italiani insieme con i rappresentati dei dietisti (ANDID) e dei pazienti (ANED).

Parole chiave: Insufficienza renale cronica, Dieta, terapia nutrizionale, trapianto di rene, dialisi.

Abbreviazioni

BMI              indice di massa corporea (Body Mass Index)
CDDP          programma combinato dietetico dialitico
DASH          dietary approaches to stop hypertension
DP               dialisi peritoneale
DPi              dialisi peritoneale incrementale
EAA             aminoacidi essenziali
EPO             eritropoietina
ESA             agenti stimolanti l’eritropoiesi
FRR             funzione renale residua
GFR             velocità di filtrazione glomerulare
IBW             ideal body weight
IDDP           programma integrato dietetico dialitico
KAA             chetoacidi
LEA              livelli essenziali di assistenza
MIS              malnutrition inflammation score
MRC            malattia renale cronica
NNT            numbers needed to treat
PDTA          percorsi di diagnosi, terapia e assistenza
PEW            deplezione proteico-energetica
PTH             paratormone
pmp            pazienti per milione di popolazione
QALY           quality-adjusted life-year
RAPA           rapid assessment of physical activity
SCFA           short-chain fatty acids
SGA             subjective global assessment
SRAA           sistema renina angiotensina aldosterone
sVLPD         supplemented very low protein diet
TDN             terapia dietetico nutrizionale
THD             emodialisi temporanea
VLPD            very low-protein diet

 

Introduzione

La terapia dietetico-nutrizionale (TDN) è una componente importante della gestione conservativa del paziente affetto da malattia renale cronica (MCR) che deve anticipare ed integrarsi con le terapie farmacologiche. Gli obiettivi della TDN comprendono il mantenimento di uno stato nutrizionale ottimale, la prevenzione e/o correzione di segni, sintomi e complicanze dell’insufficienza renale cronica e l’allontanamento nel tempo dell’inizio della dialisi o anche integrandosi con essa permettendo una riduzione della dose dialitica settimanale. I programmi di terapia conservativa e di dialisi incrementale, possono migliorare la qualità della vita e ridurre i costi di assistenza sanitaria. Recentemente è stato anche riportato che corretti stili di vita, che comprendono la DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension) o la nostra “dieta mediterranea”, sono in grado di ridurre l’incidenza di malattia renale cronica ed il rischio cardio-vascolare.

I nefrologi italiani hanno una lunga tradizione ed esperienza della TDN, che ha il suo cardine nella riduzione dell’apporto proteico ma non si limita a questo. Infatti, il concetto di TDN comprende anche un adeguato apporto calorico, il controllo dell’apporto di sodio e di potassio e la riduzione dell’apporto di fosforo. Oltre agli aspetti quantitativi, il supporto dietetico prevede anche la modifica della qualità degli alimenti, in particolare favorendo cibi di origine vegetale che inducono effetti favorevoli sul metabolismo del fosforo e sull’equilibrio acido-base con miglior controllo della pressione arteriosa e dell’emodinamica renale.

Per tutte le terapie nutrizionali, ed in particolare quelle mirate al paziente con insufficienza renale cronica, l’aderenza del paziente allo schema dietetico è un elemento fondamentale per il successo e la sicurezza della TDN. L’implementazione di un approccio interdisciplinare e multi-professionale di informazione, educazione, prescrizione dietetica e follow-up rappresenta un elemento chiave per una maggiore diffusione e successo della TDN in ambito nefrologico.

Questo consensus è un esempio di come sia difficile dimostrare quanto è clinicamente ovvio (l’impiego di tutti i mezzi possibili per ritardare la necessità di dialisi in pazienti che hanno verosimilmente un vantaggio aggiunto, in quanto idonei o in lista d’attesa per un trapianto) e di come vi sia una grande necessità di studi ulteriori per affinare le nostre conoscenze.

La Società Italiana di Nefrologia, attraverso il Gruppo di Studio Trattamento Conservativo della Malattia Renale Cronica, ha inteso definire alcuni punti essenziali riguardanti l’approccio nutrizionale al paziente con insufficienza renale cronica avanzata. È stato preparato un documento di consenso composto da 20 punti, discusso e condiviso anche dai dietisti e pazienti, tramite l’Associazione Nazionale Dietisti (ANDID) e l’Associazione nazionale Pazienti Emodializzati Dialisi e Trapianto (ANED) (Tabella 1). Questo è il primo documento che ha la condivisione della società scientifica nefrologica, dei dietisti e dei pazienti, su alcuni punti essenziali riguardanti l’approccio nutrizionale alla fase avanzata dell’insufficienza renale cronica.

  1. Nel paziente con MRC 4-5, una dieta non controllata nell’apporto di calorie, proteine, sale e fosforo anticipa e aggrava le alterazioni clinico metaboliche proprie dell’insufficienza renale cronica avanzata

Con il progredire della MRC, specialmente negli stadi più avanzati, svariate funzioni del rene tendono progressivamente a divenire sempre più deficitarie ed inefficienti. Infatti, si osserva una progressiva incapacità di eliminare carichi elevati di sodio, acqua, potassio, fosforo e ioni idrogeno (1) con tendenza alla loro ritenzione. Un apporto libero e non controllato di nutrienti e di proteine favorisce la comparsa delle alterazioni metaboliche e cliniche proprie dello stato uremico. In particolare, l’eccesso di sodio e acqua è responsabile della comparsa di ipertensione arteriosa, edemi e scompenso cardiaco, oltre ad incrementare lo stress ossidativo (2). Un bilancio positivo del fosforo causa iperparatiroidismo secondario e calcificazioni arteriose e delle valvole cardiache, con incremento della mortalità cardiovascolare (3). La ridotta capacità di eliminare un carico di acidi fissi, derivati dal catabolismo delle proteine, determina un accumulo di acidi con conseguente acidosi metabolica (4). L’acidosi metabolica è un forte stimolo al catabolismo proteico e muscolare, alla demineralizzazione ossea, all’insulino-resistenza, all’iperpotassiemia, ecc (5). Viene anche meno la funzione di eliminazione delle scorie azotate provenienti dal catabolismo delle proteine con conseguente loro ritenzione insieme a quello di “tossine uremiche”, tra cui urea, composti indolici, cresoli e guanidine (6). L’accumulo di queste sostanze contribuisce alla comparsa di anoressia, nausea e vomito, con conseguente riduzione dell’apporto di calorie, proteine e altri nutrienti (7). L’insieme di questi eventi determina la riduzione delle riserve proteiche ed energetiche dell’organismo, configurando il quadro di protein-energy wasting (PEW) e della cachessia, a loro volta causa di aumentata ospedalizzazione e mortalità (8). Contribuiscono alla deplezione proteico-energetica, la progressiva riduzione dell’attività fisica e uno stato microinfiammatorio, che sono più frequenti nella MRC in fase avanzata (9, 10)

 

  1. Nel paziente con MRC 4-5, una dieta non controllata nell’apporto di calorie, proteine, sale e fosforo può ridurre l’efficacia della terapia farmacologica o richiederne l’aumento di posologia

Un eccessivo apporto calorico può contribuire all’obesità e alla dislipidemia e aggrava la resistenza all’insulina; limita l’efficacia delle terapie antidiabetiche ed ipolipidemizzanti e ne richiede l’aumento della posologia.

Un elevato apporto di sale riduce l’efficacia delle terapie anti-ipertensive e anti-proteinuriche in particolare degli inibitori del sistema renina angiotensina aldosterone (SRAA) con aumento del rischio di progressione della MRC e del consumo di farmaci, in particolare dei diuretici. (11-14).

Un elevato carico dietetico di fosforo riduce l’efficacia dei chelanti intestinali del fosfato e/o ne richiede un aumento di posologia. Contribuisce ad un cattivo controllo dell’iperparatiroidismo secondario riducendo la sicurezza terapeutica dell’uso dei preparati di vitamina D attiva. Un peggior controllo della fosforemia e del paratormone (PTH) si associa ad una ridotta risposta terapeutica ad agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA) e agli ACE-inibitori (15-17).

Un elevato apporto di acidi fissi, associato al consumo di proteine animali, rende arduo prevenire l’acidosi metabolica e obbliga all’uso di maggiori quantità di sodio bicarbonato per la sua correzione (18, 19).

 

  1. Il mancato compenso metabolico con comparsa di segni e sintomi uremici rappresenta un’indicazione all’inizio del trattamento dialitico, a parità e indipendentemente dal livello di funzione renale residua

La dialisi viene intrapresa anche a valori relativamente elevati di GFR in presenza di sintomatologia uremica o per la convinzione che la dialisi dia benefici clinici, migliore qualità di vita e minore morbilità e mortalità (20).

La relazione tra il livello di GFR a inizio dialisi e gli effetti clinici, tuttavia, è controversa. Il trial randomizzato IDEAL ha valutato la sopravvivenza associata a inizio precoce (10-14 ml/min) o tardivo (5-7 ml/min) e non ha mostrato alcun vantaggio o svantaggio associato al livello di GFR di inizio dialisi. Iniziare la dialisi ad un valore di GFR più basso non comporta dunque un rischio maggiore per il paziente (21). La dialisi ha un impatto drammatico sullo stato funzionale del paziente, specialmente se anziano, e dopo un anno solo un paziente su otto conserva la sua capacità funzionale (22). La dialisi, pur migliorando molti sintomi uremici non è in grado di garantire una qualità di vita accettabile in molti pazienti.

L’ottimizzazione del trattamento conservativo della MRC è un’alternativa razionale alla dialisi precoce e la dialisi dovrebbe essere iniziata solo se i sintomi uremici non sono più controllabili, indipendentemente dal grado di funzione renale (23). Infatti, le linee guida indicano che in un range ampio di GFR (6-12 ml/min) sono le caratteristiche del quadro clinico (segni e sintomi uremici ed eventuali comorbidità) che impongono l’inizio della terapia sostitutiva. Il quadro clinico dell’uremia non trattata (anoressia, iperazotemia, iperfosforemia, acidosi metabolica, ritenzione idrosalina, malnutrizione, ecc.) può essere controllato con la TDN (24). Quindi, la TDN è in grado di posticipare l’inizio della dialisi anche in presenza di un GFR molto ridotto, grazie al miglior controllo di segni e sintomi uremici. Quando ben condotta e con apporto calorico adeguato, non ha effetti negativi sullo stato di nutrizione e sulla sopravvivenza, sia durante la fase di MRC sia dopo l’inizio della dialisi (25, 26). Il raggiungimento di un buon compenso metabolico grazie al trattamento nutrizionale permette di posticipare l’inizio del trattamento sostitutivo renale ad una fase più avanzata della malattia, senza rischi per il paziente (27, 28).

 

  1. L’insufficienza renale cronica non trattata conduce alla iponutrizione per la comparsa di inappetenza, nausea e anoressia.

La storia naturale dell’insufficienza renale cronica porta il paziente a ridurre l’apporto dietetico di calorie e proteine con la progressiva riduzione della funzione renale residua (29, 30). Le alterazioni proprie dell’insufficienza renale compromettono l’appetito e lo stato nutrizionale conducendo alla cachessia e alla malnutrizione (31).

Perdita di appetito, anoressia, nausea o vomito possono essere causati dalla tossicità uremica e dallo stato di acidosi metabolica scompensata che sono indicatori per l’inizio del trattamento sostitutivo dialitico.

L’anoressia associata alla MRC era stata attribuita, in passato, alla ritenzione di “medie molecole” (32, 33). Più recentemente, modelli sperimentali di uremia cronica suggeriscono che alla base dell’anoressia ci possano essere alterazioni a carico dei complessi percorsi neuroendocrini che operano principalmente a livello ipotalamico. Infatti, sostanze che si accumulano in corso di MRC avanzata quali ormoni (l’insulina, la leptina, il PYY3-36 prodotto dal colon, grielina) e tossine uremiche (cresoli, indoli, fenoli) potrebbero essere responsabili dell’anoressia attraverso meccanismi neuroendocrini (34) che vedono coinvolto il recettore 4 della melacortina (MC4-R). Un’aumentata stimolazione di questo recettore, sopprimendo l’attività della AMPK (AMP-activated protein kinase), determina una riduzione dell’assunzione di cibo.

Altre condizioni che causano anoressia sono il ritardato svuotamento gastrico (come nella gastroparesi diabetica), le alterazioni del gusto, l’alitosi uremica, la gastrite uremica e l’elevato numero di compresse che i pazienti assumono. L’infiammazione cronica, le comorbidità e la depressione o situazioni socioeconomiche difficili possono contribuire alla malnutrizione.

L’adeguato intervento dietetico-nutrizionale, con l’indicazione alla corretta quantità e qualità dell’apporto proteico accoppiata ad un adeguato apporto energetico ed eventuale aggiunta di supplementi di bicarbonato di sodio (migliorando l’acidosi metabolica e riducendo l’intossicazione uremica) è un presidio terapeutico in grado di ridurre l’anoressia e la deplezione proteico-energetica nei pazienti con insufficienza renale cronica avanzata (35).

 

  1. In considerazione della fisiopatologia della insufficienza renale cronica avanzata, una terapia dietetica nutrizionale corretta prevede:
  • riduzione dell’apporto di proteine
  • riduzione dell’apporto di fosforo
  • riduzione/controllo dell’apporto di sodio
  • controllo dell’apporto di potassio
  • limitazione del carico di acidi fissi

La TDN della MRC avanzata non può che essere basata sulla limitazione dell’introito di proteine in particolare di origine animale, fosforo e sodio, sul controllo del potassio e sul soddisfacimento della richiesta calorica. Tale approccio ha un razionale preciso nella fisiologia umana: se la funzione renale diminuisce deve ridursi conseguenzialmente il carico per permettere ai nefroni residui un controllo ancora adeguato dell’escrezione delle tossine uremiche e degli acidi fissi (24).

Una corretta gestione della TDN per la MRC in fase avanzata prevede una riduzione dell’apporto proteico al di sotto di 0,8 g/kg/die, che corrisponde all’introito raccomandato per la popolazione generale sana (36).

Non vi è alcun razionale scientifico per una dieta iperproteica anche in caso di proteinuria elevata (24). Anzi, esistono evidenze che la riduzione di proteine alimentari abbia effetti anti-proteinurici (37, 17).

Il controllo dell’introito di fosforo dovrebbe iniziare negli stadi iniziali di MRC. Infatti, fisiologicamente il rene sano ha la capacità di regolare l’escrezione urinaria di fosforo all’introito alimentare, ma la perdita progressiva del filtrato glomerulare, conseguenziale alla progressione della MRC, rende razionale una riduzione dell’apporto alimentare di fosforo al di sotto di 700 mg/die, livello raccomandato nella popolazione generale adulta (36). Sicuramente, educare i pazienti ad evitare di assumere il fosforo “nascosto” degli additivi presenti nei cibi conservati è sicuramente utile (38, 39). La selezione di alimenti a minor contenuto di fosforo o l’utilizzo di alimenti di origine vegetale è utile per limitare il carico netto di fosforo (40). Infine, sono importanti anche i consigli circa i metodi di cottura dei cibi (41); è infatti ben noto che la bollitura causa una demineralizzazione dell’alimento.

Il controllo dell’introito di sodio è indispensabile per una popolazione in cui l’ipertensione è pressoché sempre presente. La limitazione dell’apporto alimentare di sodio può migliorare gli effetti protettivi dell’inibizione del SRAA e potenziare la loro azione anti-proteinurica (42). I pazienti con ipertensione e MRC fin dagli stadi iniziali dovrebbero limitare l’introito alimentare di sale a 5-6 g/die (corrispondenti ad una sodiuria delle 24 ore di 90-100 mmol/die) (43, 44). La dieta iposodica deve essere evitata in tutte le condizioni di nefropatie sodio-disperdenti per evitare la deplezione di sodio, l’ipotensione e il peggioramento della funzione renale. Inoltre, la riduzione combinata dell’introito alimentare di sodio-cloruro e del fosforo può avere un effetto sinergico anti-proteinurico nei pazienti in terapia con ACE-inibitori o sartani (17).

Negli stadi avanzati (MRC 4-5) l’introito di potassio dovrebbe essere modulato sulla base dei livelli ematici e dovrebbe essere ridotto se la kaliemia è > 5.5 mmol/l. In questi casi deve essere valutata la possibilità di sospensione o riduzione della posologia dei farmaci che provocano iperpotassiemia (es. ACE inibitori o sartanici, anti-aldosteronici) – dopo aver corretto l’acidosi metabolica – o l’uso di resine intestinali chelanti il potassio.

Un ridotto carico di acidi (derivanti soprattutto dalle proteine di origine animale) è indispensabile per ridurne l’accumulo e quindi per prevenire o correggere l’acidosi metabolica (19). L’alimentazione ricca di vegetali è la via più naturale per fornire basi senza ricorrere a supplementi (18). La riduzione del carico netto di acidi ottenuta con diete vegetariane ha permesso di ridurre del 50% la prescrizione di bicarbonato (19) e di migliorare la resistenza insulinica nei diabetici (45). Altro dato importante è che la correzione dell’acidosi metabolica (ottenuta con la somministrazione di bicarbonato di sodio o con frutta e verdura) può ridurre la velocità di perdita del filtrato glomerulare nei pazienti con MRC (18). Diviene per questo importante l’integrazione di bicarbonato per os e l’assunzione di frutta e verdura, pur mantenendo attenzione ai livelli di potassiemia. Il rischio di iperpotassiemia è soprattutto associato all’assunzione di anti-aldosteronici e/o ACE inibitori.

 

  1. Per assicurare l’adeguatezza della terapia dietetica nutrizionale dell’insufficienza renale cronica è necessario verificare il rispetto delle seguenti condizioni:
  • soddisfacimento del fabbisogno calorico
  • adeguato apporto di amino acidi essenziali
  • correzione dell’acidosi metabolica
  • buon controllo glicometabolico

L’equilibrio del bilancio azotato è elemento essenziale per mantenere un buono stato di nutrizione e di composizione corporea. Nel paziente nefropatico stabile, al di fuori di condizioni acute come febbre, sepsi, ustioni, interventi chirurgici o terapia steroidea, anche a fronte di un ridotto apporto proteico, il bilancio azotato si mantiene grazie ad un meccanismo di adattamento metabolico, che consiste nella capacità dell’organismo di ridurre il catabolismo proteico (46-49). Questo adattamento alla dieta ipoproteica è ostacolato da tutte quelle condizioni che aumentano la richiesta azotata, come quelle analizzate di seguito.

Un apporto calorico inferiore alla richiesta comporta un utilizzo delle proteine a scopo energetico: questa quota sarà tanto maggiore quanto maggiore è la negatività del bilancio energetico. Un elevato apporto calorico permette un risparmio delle proteine e consente una riduzione del loro apporto in sicurezza (50).

Un inadeguato apporto esogeno di aminoacidi essenziali aumenta il catabolismo azotato endogeno. Benché ridotto in quantità, l’apporto proteico deve garantire il fabbisogno di aminoacidi essenziali sotto forma di cibi naturali o di supplementazione farmacologica.

L’acidosi metabolica accelera il catabolismo proteico e aminoacidico muscolare, in particolare stimolando il sistema ubiquitina-proteasoma, che impedisce l’adattamento alla dieta ipoproteica. La correzione dell’acidosi metabolica è quindi un prerequisito essenziale per la sicurezza nutrizionale di un regime normo/ipoproteico (51-53).

L’insulina è un ormone anabolico che stimola l’ingresso di aminoacidi nella cellula, aumenta la sintesi e riduce il catabolismo proteico: ne consegue che in condizioni di insulino-resistenza o di scarso controllo glicometabolico nel paziente diabetico, aumenta la richiesta proteica per mantenere il bilancio azotato (54). Nei nefropatici diabetici, oltre alle tre condizioni sopracitate, è richiesto un ottimale controllo glicometabolico per poter ottenere gli obiettivi terapeutici di una restrizione proteica mantenendo il bilancio azotato e la sicurezza nutrizionale.

 

  1. I prodotti aproteici sono costituiti da carboidrati e pressoché privi di proteine, fosforo, sodio e potassio. Essi consentono di elevare l’apporto energetico lasciando più spazio ad alimenti ricchi in proteine ad alto valore biologico per garantire l’apporto di amino acidi essenziali. Si otterrà così migliore efficacia terapeutica con minor rischio di inadeguatezza nutrizionale

I prodotti aproteici rappresentano un presidio fondamentale per la corretta elaborazione e attuazione di una dieta ipoproteica nell’insufficienza renale cronica. L’uso di prodotti aproteici permette di mantenere un apporto energetico adeguato escludendo/riducendo cereali e derivati che contengono proteine a basso valore biologico e di mantenere il consumo di alimenti animali contenenti proteine ad alto valore biologico. Rappresentano quindi una fonte di energia “pulita”, senza prodotti di scarto azotati e con un contenuto trascurabile di potassio, sodio e fosforo.

Le principali barriere all’ampio utilizzo di questi prodotti sono la scarsa palatabilità e consistenza (55, 56), il costo elevato e una disomogeneità inter-regionale nelle modalità di erogazione. Recentemente, il Ministero della Salute ha revisionato i livelli essenziali di assistenza (LEA) inserendo le malattie renali croniche nell’elenco delle patologie croniche esentate dalla partecipazione al costo. Quindi si attende una omogeneizzazione sul territorio nazionale delle modalità di erogazione (57).

Le differenze organolettiche tra prodotti aproteici e i corrispondenti prodotti comuni sono legate principalmente all’assenza di glutine, proteina che, nonostante il suo basso valore biologico, presenta straordinarie proprietà tecnologiche che costituiscono la base dei processi di produzione e cottura della pasta e dei processi di panificazione (58, 59). L’assenza di glutine limita la consistenza, l’aroma, la fragranza e l’aspetto di questi prodotti ma negli ultimi anni l’industria alimentare ha sviluppato percorsi di produzione alternativi, ottenendo buoni risultati grazie a nuove tecnologie di produzione e aggiunta di ingredienti sostitutivi, quali le fibre (55, 60, 61).

 

  1. Le compresse di aminoacidi essenziali e chetoanaloghi costituiscono una fonte di integrazione aminoacidica nella MRC 4-5 e sono la necessaria supplementazione nella dieta fortemente ipoproteica

Tra i regimi dietetici proposti ai pazienti con MRC 4-5, hanno un ruolo significativo le terapie nutrizionali a ridotto apporto proteico (0.3-0.6 g di proteine/kg di peso corporeo) integrate dall’utilizzo di miscele contenenti aminoacidi essenziali (EAA) e chetoacidi (KAA) (41, 24). Tali trattamenti nutrizionali sono da impiegare in pazienti motivati, che hanno una buona aderenza alla terapia e che non presentano comorbidità severe (62, 26). Per convenzione, una terapia nutrizionale ipoproteica standard è basata su un apporto di 0.6 g di proteine/kg di peso corporeo; una terapia nutrizionale fortemente ipoproteica è caratterizzata da un apporto di 0.3-0.4 g di proteine/kg di peso corporeo e di natura vegetale (63). Una dieta fortemente ipoproteica e vegetariana è di per se stessa inadeguata per l’apporto di aminoacidi e necessita della supplementazione di KAA e EAA (64, 65). L’utilizzo di queste miscele può rendersi utile anche in tutti i casi di insufficiente apporto spontaneo di amminoacidi essenziali.

Nelle supplemented very low protein diet (sVLPD) si utilizza una compressa di KAA e EAA ogni 5 chilogrammi di peso corporeo ideale. Una compressa di KAA e EAA contiene circa 500 mg di miscela e fornisce un apporto di 45 mg di calcio elemento (66).

Infine, la miscela di KAA e EAA ha anche un effetto farmacologico in quanto contiene una significativa quantità di cheto-leucina, che ha un’azione inibitoria sulla degradazione proteica, mentre la leucina è in grado di promuovere la sintesi proteica a livello muscolare (67).

Quindi le compresse di amino e chetoacidi utilizzate nelle terapie nutrizionali a basso o bassissimo apporto proteico soddisfano il fabbisogno di EAA consentendo di limitare al massimo l’apporto di azoto, fosforo e acidi fissi (68, 69).

 

  1. La terapia dietetica nutrizionale nella MRC 4-5 deve essere gestita con le fasi ed i criteri di una qualsiasi altra terapia farmacologica:
  • indicazioni
  • controindicazioni
  • effetti collaterali
  • modifiche della posologia
  • verifica dei risultati
  • follow-up

Indicazioni sono rappresentate dall’esistenza di alterazioni metaboliche e idroelettrolitiche o acidosi metabolica, deplezione proteico-energetica od obesità, segni e sintomi di intossicazione uremica, volontà o necessità di allontanare nel tempo l’inizio della terapia sostitutiva (dialisi o trapianto) (24, 70, 28).

Controindicazioni sono rappresentate dal rifiuto o dalla incapacità del paziente a seguire norme dietetiche per indigenza socio-economica, disagio psicologico, disturbo di masticazione, assenza di motivazione, peggioramento della qualità di vita, ecc.

Effetti collaterali che limitano la durata e l’aderenza del trattamento nutrizionale sono rappresentati dalla perdita di peso legata a riduzione dell’apporto energetico per la scarsa palatabilità e gusto dei cibi, monotonia della dieta o difficoltà nel praticarla, depressione, problemi relazionali (71, 56). Questi, se non risolti, possono e devono portare alla revisione e/o sospensione della TDN.

Modifiche della posologia: le modifiche dell’apporto proteico, energetico o di altri nutrienti come fosforo, sodio e potassio, devono essere adattate secondo le necessità cliniche nello stesso paziente e non aprioristicamente determinate dal livello di funzione renale residua (FRR) (72, 73).

Verifica dei risultati: utilizzando indicatori come urea, fosforemia, PTH, emoglobina, bicarbonatemia, albuminemia, peso corporeo, pressione arteriosa, necessità di dialisi, qualità di vita, ecc. (74).

Follow-up: programmazione dei controlli clinici, biochimici e nutrizionali, sulla base del livello di funzione renale residua, tipologia di TDN e quadro clinico. Interventi educativi interattivi fra le diverse figure professionali coinvolte nella gestione clinica della MRC al fine di migliorare la conoscenza, l’autogestione e i risultati della terapia conservativa dei pazienti con insufficienza renale cronica e di un coinvolgimento diretto del paziente nei processi decisionali diagnostici e terapeutici (75, 76).

 

  1. La regolare valutazione dello stato nutrizionale e funzionale all’inizio e durante il follow-up del paziente con MRC 4-5 è essenziale per la gestione dietetica

La malattia renale cronica in fase avanzata può essere aggravata da malnutrizione, meglio definita come PEW: questa condizione rappresenta un elemento prognostico negativo.

È importante predire, diagnosticare e caratterizzare la malnutrizione e monitorare la risposta alla terapia nutrizionale. Per la valutazione dello stato nutrizionale devono essere utilizzati più parametri compresi in 4 grandi categorie: 1) massa corporea; 2) massa muscolare; 3) dati biochimici; 4) apporti dietetici. Secondo un recente report (8) la diagnosi di PEW viene fatta quando sono presenti 3 segni/sintomi rilevati nelle diverse categorie e documentati per 3 volte in 2-4 settimane consecutive.

Massa corporea: fanno parte di questa categoria il peso corporeo e le sue variazioni, l’indice di massa corporea. Il peso è il più semplice ed efficace indicatore dell’adeguatezza dell’apporto energetico e deve essere rilevato dal paziente a casa ogni giorno e ad ogni visita. Sia il peso che l’indice di massa corporea (BMI) sono influenzati dallo stato di idratazione e non danno informazioni sulla composizione corporea.

Massa muscolare e massa grassa: possono essere stimati attraverso la misurazione di circonferenze e pliche sottocutanee. I limiti della plicometria sono la formazione del rilevatore e la presenza di edemi importanti o anasarca (77). Per la valutazione della composizione corporea può essere utilizzata la bioimpedenziometria. A fronte di un’agevole e ripetibile applicazione clinica, la stima dei compartimenti corporei deriva da algoritmi matematici che limitano la precisione e l’affidabilità del metodo (78).

Dati biochimici: comprendono il monitoraggio dell’albumina, della prealbumina, del colesterolo e della transferrina. Condizioni come l’infiammazione, il livello di funzione renale o l’assetto marziale ne limitano però sensibilità e specificità.

Apporti dietetici: sono monitorati mediante la ripetizione della storia dietetica, il 24 ore recall e i diari alimentari (79). La determinazione dell’urea, sodio e fosforo sulle urine delle 24 ore è di ausilio per la valutazione oggettiva degli apporti dietetici (80) in condizioni cliniche stabili.

Ulteriori metodi di valutazione dello stato nutrizionale comprendono il Subjective Global Assessment (SGA) (81) ed il Malnutrition Inflammation Score (MIS) (82).

Recentemente sono raccomandate, anche valutazioni funzionali e di performance. I test proposti comprendono l’indice di Bartel, la scala di Karnowsky, l’handgrip, il Sit-To-Stand test, il test del cammino di 6-minuti, il Rapid Assessment of Physical Activity (RAPA), contapassi, etc. (83).

La regolare valutazione dello stato nutrizionale e funzionale del paziente permette di intervenire tempestivamente e concordare modifiche della dieta prescritta. Il dietista renale è il professionista sanitario che deve collaborare con il nefrologo di riferimento del paziente per realizzare gli interventi nutrizionali più efficaci e sicuri nel paziente con MRC (84).

 

  1. Una corretta terapia nutrizionale ipoproteica non determina malnutrizione a breve e lungo termine

Nella MRC la quantità minima di proteine alimentari per mantenere il bilancio dell’azoto è circa 0,55 g/kg di peso corporeo (50). Il metabolismo proteico è strettamente legato all’apporto energetico e la richiesta azotata correlata inversamente con quella calorica. La maggior parte dei pazienti con MRC avanzata riesce a mantenere un bilancio dell’azoto neutro o positivo con 0,55 g/kg/die di proteine solo se ha un introito di energia superiore a 30 kcal/kg/die (50). In corso di dieta ipoproteica, se il paziente non soddisfa il fabbisogno energetico, il bilancio dell’azoto diventa negativo con degradazione proteica e perdita di massa magra corporea.

La maggior parte dei pazienti con MRC a cui viene prescritta una dieta ipoproteica ha un effettivo introito di proteine superiore alla prescrizione, mentre l’introito energetico è molto spesso ridotto al di sotto della soglia di sicurezza (85, 86). Questa incapacità di mantenere un apporto energetico sufficiente è dovuta a molti fattori in gran parte legati alla tossicità uremica (es. anoressia, nausea, astenia, depressione, anomalie del gusto e dell’olfatto).

L’aderenza rigorosa alla prescrizione di energia (35 kcal/kg/die nei soggetti di età < 60 anni e 30 kcal/kg/die nei soggetti > 60 anni) è essenziale per mantenere l’equilibrio del bilancio azotato durante una dieta ipoproteica; la prescrizione di una terapia nutrizionale personalizzata, con counseling e stretto monitoraggio nutrizionale da parte di dietisti esperti, consente di individuare tempestivamente anomalie ed errori alimentari e ridurre così il rischio di malnutrizione (24).

In uno studio randomizzato comprendente più di 400 pazienti con MRC stadio 3-5 seguiti per oltre 30 mesi, solo 3 soggetti hanno sviluppato malnutrizione (87), anche con diete a bassissimo contenuto proteico, sia durante la fase pre-dialitica che dopo l’inizio della dialisi (88, 89). Inoltre, una dieta ipoproteica molto rigorosa protratta fino all’inizio della dialisi non aumenta il rischio di morte nel successivo periodo di dialisi (26). Al contrario, circa la metà dei pazienti con MRC avanzata lasciati a dieta libera riduce spontaneamente l’assunzione di proteine ed energia, e per questo ha un rischio elevato di malnutrizione (86, 30).

Una TDN correttamente prescritta e con un attento monitoraggio clinico previene la malnutrizione ed è sicura nel breve e lungo periodo (90).

 

  1. Una corretta terapia dietetica nutrizionale nella MRC avanzata può permettere di ritardare la necessità di terapia sostitutiva. Per questo il suo impiego è particolarmente indicato nel paziente in lista di trapianto pre-emptive, aumentando le possibilità di successo di questo programma

La deplezione proteico-energetica rappresenta uno dei principali determinanti, insieme alla comorbidità cardiovascolare, dell’elevata mortalità dei pazienti in dialisi. È provato che i risultati del trapianto renale sono inversamente proporzionali alla durata del periodo di dialisi pretrapianto (il cosiddetto “dialysis vintage”) e sono migliori nei soggetti con trapianto pre-emptive (91-94).

Lo stato nutrizionale condiziona anche i risultati del trapianto renale, ma i dati sono meno numerosi ed esaustivi (95-97).

In questo contesto, mancano dati in letteratura che combinino le diete ipoproteiche, il trattamento nutrizionale e il trapianto pre-emptive. L’unica eccezione è rappresentata da un lavoro del 2004, su 9 pazienti diabetici in attesa di trapianto rene e pancreas, in 6 dei quali una dieta vegana supplementata con EAA e KAA ha costituito un periodo ponte verso un trapianto combinato (98).

In assenza di dati oggettivi, sono considerazioni generali quelle che portano a cercare di dilazionare l’inizio della dialisi, mediante un approccio nutrizionale integrato, in attesa di un trapianto renale o combinato.

L’approccio seguito dalla scuola italiana consiste, in generale, in una dieta normocalorica, ridotta in proteine e fosforo, associata ad un controllo dell’acidosi, con un apporto sodico limitato e sotto stretto controllo clinico. L’esperienza italiana dimostra, in linea con le differenti esperienze raccolte nel resto del mondo, le potenzialità di una dieta ipoproteica standard, e in casi selezionati fortemente ipoproteica supplementata con EAA e KAA, in differenti popolazioni di pazienti con malattia renale cronica avanzata. Tale approccio non comporta un’aumentata mortalità dopo l’avvio della dialisi (26, 99).

A favore dell’impiego sistematico di un regime adattato a stabilizzare la funzione renale in attesa di un trapianto pre-emptive pesano specificamente due elementi: il primo è il vantaggio di evitare la dialisi (va sottolineato come i dati favorevoli al trapianto pre-emptive siano stati raccolti in dialisi tri settimanali “standard”); il secondo è rappresentato dalla compliance terapeutica che è superiore in pazienti motivati, con una prospettiva “in positivo”. In tal senso, ci si può attendere che una dieta sia seguita con particolare attenzione, in fase pre-trapianto, in linea con esperienze differenti, quali l’attesa della maturazione di un accesso vascolare o una gravidanza (100, 62).

Può essere quindi opportuno offrire una TDN ai pazienti che possono beneficiare di un trapianto in fase predialitica. La carenza di dati rende comunque necessario investire in studi per meglio definire l’efficacia dell’approccio nutrizionale nel trapianto pre emptive.

 

  1. Una corretta terapia dietetica nutrizionale può permettere un programma integrato, dietetico e dialitico, della MRC stadio 5, con riduzione della frequenza delle sedute di emodialisi (una alla settimana)

Negli anni ‘80 e ’90, Giovannetti e Locatelli realizzarono il Programma Integrato Dietetico Dialitico (IDDP) in pazienti con VFG anche < 3 ml/min/1,73 m2, costituito da un’emodialisi mono settimanale integrata da una prescrizione dietetica fortemente ipoproteica pari a 0,3-0,4 g/Kg/die (Very Low-Protein Diet – VLPD) supplementata da aminoacidi essenziali e loro chetoanaloghi, normocalorica, iposodica (101, 102). Già allora si consolidava la percezione che la TDN costituisse un importante mezzo terapeutico per ritardare l’inizio della dialisi (103-105). Numerose segnalazioni dimostrano che durata e/o frequenza del ritmo dialitico producono uno stress citochinico pro-infiammatorio e pro-ossidativo che conduce alla riduzione della FRR (106). Nel 1998, Locatelli et al. sospesero l’IDDP per rischio di malnutrizione e scarsa compliance dei pazienti, riportando un drop-out del 66,6% (107). Un approccio simile, denominato Programma Combinato Dietetico Dialitico (CDDP) (108), ha trattato sino ad oggi oltre 126 pazienti. Il CDDP modificava alcuni aspetti dell’IDDP: apporto proteico 0,6 g/Kg/die con dieta libera il giorno della dialisi, filtrato glomerulare tra i 5-8 ml/min/1,73 m2, comunque ben superiore alle esperienze precedenti. Il calcolo della compliance dietetica veniva effettuato con la formula dell’Urea Nitrogen Appearance e la FRR con la media di tre raccolte settimanali utilizzando la media delle clearance dell’urea e della creatinina. In uno studio controllato, non randomizzato sono stati dimostrati sensibili vantaggi della CDDP rispetto ai pazienti in emodialisi tri settimanale, sul controllo della β2-microglobulina e della fosfatemia e mantenimento della funzione renale e diuresi residua (108). A 24 mesi la sopravvivenza cumulativa tra i 38 pazienti in CDDP ed i 30 in emodialisi temporanea (THD) era identica. Successivamente, i pazienti ancora presenti a 96 mesi di follow-up dimostravano una sopravvivenza cumulativa superiore nella CDDP (p < 0,05) evidenziando anche un notevole risparmio sui costi indiretti (ospedalizzazioni) e costi diretti ridotti del 75% (109, 110). Quindi, benché i dati derivino da uno studio non randomizzato, la CDDP in pazienti selezionati collaboranti potrebbe essere la migliore scelta “bridge” onde iniziare un programma di emodialisi incrementale.

 

  1. Una corretta terapia dietetica nutrizionale può permettere un programma integrato di dialisi peritoneale incrementale

L’utilizzo della dialisi peritoneale incrementale (DPi) è giustificato dalle linee guida vigenti che, stabilendo target minimi depurativi da raggiungere sommando la depurazione peritoneale e la FRR, permettono di iniziare con una dose dialitica ridotta (111).

La DPi non è ad oggi definita in modo conclusivo. La definizione prevalente è di 1-2 stasi giornaliere in dialisi peritoneale (DP) ambulatoriale continua e di un massimo di 4 sedute settimanali in DP automatizzata. Deve essere sottolineato che la DPi non è una dialisi precoce e richiede il controllo mensile della FRR per adeguare tempestivamente la dose dialitica.

A fronte di scarse evidenze in letteratura, la DPi è largamente utilizzata, soprattutto in Italia (112).

La DPi è risultata sicura per il paziente e ha mostrato vantaggi in termini di minore ospedalizzazione, incidenza di peritonite e di velocità di decremento della FRR (113), oltre ad un minore impatto sulla qualità di vita del paziente.

Le indicazioni per la TDN sono ben definite per la MRC 5 (43) e per la DP standard (114). E sono disponibili esperienze di associazione fra TDN ed emodialisi incrementale (109). In merito alla DPi non vi sono, ad oggi, indicazioni specifiche. La TDN in DPi potrebbe ridurre la possibilità di insorgenza di sintomatologia uremica, migliorare il controllo metabolico e contribuire a ritardare il declino della FRR. I principali problemi potrebbero derivare da scarsa tolleranza o aderenza alla TDN o dal rischio di peggioramento dello stato nutrizionale, con necessità quindi di un periodico monitoraggio metabolico e antropometrico (28).

Nel centro di Brescia, l’esperienza in DPi è partita nel 2002. Ad oggi più del 50% dei pazienti inizia in DPi e in prevalenza con metodica manuale. In tutti i casi viene intrapresa o proseguita una TDN con apporti giornalieri di 0,6-0,8 g proteine per kg peso corporeo, 30-35 Kcal/kg peso corporeo e 5 g/die di NaCl.

Al di là della nostra esperienza, studi controllati saranno necessari per confermare che una corretta TDN, associata al monitoraggio dello stato nutrizionale e della FRR, permettono di ottimizzare un programma di DPi. Del resto, è ben nota l’importanza della clearance renale rispetto a quella peritoneale.

 

  1. La malattia renale cronica avanzata è caratterizzata da una disbiosi del microbiota intestinale, che contribuisce all’intossicazione uremica e al danno cardiovascolare. Una terapia nutrizionale ipoproteica, associata a un adeguato introito di fibre può contrastare la disbiosi e ridurre la produzione di tossine uremiche.

Nella fase avanzata della MRC è presente uno stato di disbiosi del microbiota intestinale, con alterazione della permeabilità intestinale e della composizione batterica, sbilanciamento del metabolismo microbico in senso proteolitico, aumentata produzione di tossine uremiche, quali p-cresolo ed indossile solfato (115). Tali tossine, normalmente escrete per via renale, si accumulano nel paziente in relazione allo stadio della malattia e contribuiscono all’accelerata progressione verso la morte renale e alle complicanze infiammatorie e cardiovascolari (116).

La disbiosi è peggiorata nei casi di restrizione dietetica di vegetali e fibre, nel tentativo di controllare i livelli di potassio (117).

Pertanto, la TDN ideale per il paziente con MRC avanzata dovrebbe prevedere una restrizione proteica e un apporto di 20-30 g/die di fibra alimentare, orientando la scelta verso alimenti contenenti meno fosforo e potassio, a parità di contenuto in fibra (117). Le auspicabili ricadute benefiche di tale TDN nella MRC avanzata potrebbero essere:

  1. riduzione della disbiosi intestinale (118, 119 – (dimostrato in soggetti sani/contesti clinici diversi dalla MRC);
  2. riduzione delle tossine uremiche circolanti (118-121);
  3. riduzione di azotemia e creatininemia (122-124);
  4. aumento della fermentazione saccarolitica e di short-chain fatty acids (SCFA) a livello del colon ascendente (dimostrato in soggetti sani/contesti clinici diversi dalla MRC) (119);
  5. aumento del transito intestinale (125) e della massa fecale con aumentata escrezione di composti azotati (122);
  6. riduzione dell’infiammazione (126);
  7. potenziale riduzione della permeabilità intestinale (dimostrato in soggetti sani/contesti clinici diversi dalla MRC) (127);
  8. potenziale rallentamento della progressione della MRC.

 

Tali effetti potrebbero essere potenziati da una periodica somministrazione di integratori probiotici o simbiotici (118).

 

  1. In termini di farmaco-economia, una corretta terapia dietetica nutrizionale permette il risparmio di costi e di risorse nella gestione dei pazienti con insufficienza renale cronica avanzata.

La MRC è un problema sociale (7-8% della popolazione) (128), che deve essere precocemente individuata e trattata in maniera congrua impedendone la progressione verso la dialisi al fine di ridurre morbilità, mortalità e costi individuali e sociali.

Indagini di screening nella popolazione generale non sono state ritenute costo-efficaci (129).

I pazienti con insufficienza renale progressiva che iniziano la terapia sostitutiva renale entro 4 mesi dalla prima visita del nefrologo presentano un aumento dei costi rispetto ai riferimenti precoci (early referral) (130).

La dialisi ha costi molto elevati se comparati alla predialisi (131, 132). Dati del CENSIS 2008 (133) evidenziano che un paziente in dialisi costa circa 50.000 € / anno (35.000 in dialisi peritoneale) compresi i costi sociali.

I dati del Registro Italiano Dialisi e Trapianto riportano un’incidenza di circa 160 pazienti per milione di popolazione (pmp) con stima di circa 9600 pazienti che ogni anno entrano in dialisi e con 40.000 dializzati prevalenti. Se la spesa è di circa 50.000 € per paziente/anno, possiamo stimare che la spesa totale per la dialisi arrivi in Italia a circa 2.000.000.000 € all’anno.

Ritardare di un solo anno l’ingresso in dialisi comporta risparmi notevolissimi: molti pazienti, soprattutto i più anziani, con alta probabilità di decesso entro il primo anno di dialisi, potrebbero arrivare a fine vita senza essere mai sottoposti alla dialisi evitando sofferenze per i pazienti e le loro famiglie e contribuendo alla sostenibilità del SSN.

Il trapianto di rene è la terapia d’elezione per l’insufficienza renale cronica e il trattamento più economico nel lungo periodo. Il costo, in un periodo di osservazione di tre anni, ammonta a 95.247 €; di questi, 52.543 € sono relativi al trapianto stesso, corrispondenti all’intervento chirurgico e alla degenza presso il centro trapianti (134).

Per tutti questi motivi, ritardare l’inizio della dialisi potrebbe comportare un significativo risparmio economico. Una metanalisi della Cochrane ha evidenziato che la riduzione dell’apporto proteico riduce del 31% il rischio di iniziare la dialisi, con un valore NNT (Numbers Needed to Treat) pari a 17. L’uso della TDN, attraverso un’analisi costo efficacia, ha dimostrato un notevole risparmio (135) considerando i QALY (quality-adjusted life-year) guadagnati in successione. Un trattamento conservativo efficace in grado di posporre la dialisi, riduce i costi fino a circa 21.180 € a paziente nel primo anno, 6.500 nel secondo anno e 682 nel terzo anno di trattamento con un significativo beneficio in favore della dieta supplementata con chetoanaloghi anche nei casi peggiori (136).

La VLPD consente un risparmio di circa 20 mila € / anno quale consumo di risorse per eritropoietina (EPO) (137).

Dobbiamo anche considerare i costi dell’intervento nutrizionale che migliorando la qualità assistenziale comporta una riduzione dei costi da ospedalizzazione prima dell’inizio della dialisi e dalla preparazione tempestiva dell’accesso vascolare con risparmio sui cateteri venosi centrali..

 

  1. È necessario implementare modelli organizzativi per una più efficace e più agevole gestione clinica della malattia renale cronica avanzata: integrare diverse figure professionali

La MRC rappresenta un problema di sanità pubblica per l’elevata prevalenza e l’elevato impatto sulla morbilità e mortalità della popolazione (138, 139).

È necessario sviluppare interventi mirati all’inquadramento diagnostico precoce, al rallentamento della progressione del danno e alla prevenzione delle complicanze. Queste attività devono essere coordinate dal nefrologo che si avvale di altre figure professionali (infermiere, psicologo, dietista, ecc.). Lo strumento più efficace a questi fini è rappresentato dalla creazione di percorsi di diagnosi, terapia e assistenza (PDTA) in accordo con gli assessorati alla Sanità delle Regioni.

Percorsi di questo tipo sono stati attivati in alcune Regioni: il progetto PIRP (Prevenzione insufficienza renale progressiva) della Regione Emilia Romagna (140), è attivo dal 2004. Nei centri nefrologici di questa Regione sono stati strutturati ambulatori specifici e un percorso di collaborazione con la medicina del territorio; i dati raccolti rappresentano un importante patrimonio per l’analisi della progressione della malattia renale e si è ottenuta una riduzione dell’incidenza di casi di uremia terminale. La Rete Nefrologica lombarda (141) ha sviluppato programmi di coinvolgimento dei medici di medicina generale. Analoghe esperienze sono presenti in altre aree del Paese.

In Piemonte la rete nefrologica ha strutturato un modello di intervento relativo alla malattia renale avanzata, recepito in un Decreto di Giunta (142). Questo progetto ha contribuito alla creazione, presso tutti i centri di nefrologia, dell’Ambulatorio per la Malattia Renale Avanzata (MaReA). Il nefrologo, referente regionale, coordina un team di cura (infermiere, psicologo, dietista) e stabilisce i tempi, i modi di accesso e i controlli pianificando il processo di avvio del trattamento sostitutivo. I dati dei pazienti trattati sono registrati su un database regionale, collegato al Registro Dialisi e Trapianto. A 4 anni dall’avvio, sono stati evidenziati molti aspetti positivi ma anche alcune problematiche.

È stata data maggior attenzione ai diversi aspetti legati all’avvio del trattamento sostitutivo, si è stimolata una immissione più precoce in lista trapianto anche pre-emptive, si è ridestato un certo interesse verso il trattamento domiciliare (dialisi peritoneale ed emodialisi); sono stati attivati processi di collaborazione con i servizi di dietetica. Questi ultimi sono risultati problematici in alcune realtà, anche per la contemporanea riorganizzazione sanitaria regionale. Una soluzione al problema verrà ricercata in una più stretta collaborazione con la rete regionale della nutrizione clinica.

Per meglio governare il corso della MRC e razionalizzare l’intervento in tutti i suoi aspetti sarà necessario estendere il campo di azione a stadi più precoci di danno renale con necessità di coinvolgimento di figure operanti sul territorio (medici di medicina generale, distretti sanitari).

È necessario cogliere l’occasione offerta dal Piano Nazionale Cronicità (143) che le Regioni devono recepire, sviluppando processi e percorsi che consentano al nefrologo di poter disporre dei corretti strumenti per coordinare l’attività clinica rivolta al paziente con MRC.

 

  1. Livelli di supporto dietetico-nutrizionale:
  • dietista dedicata alla nefrologia a tempo pieno/parziale
  • dietista ospedaliera
  • materiale informativo
  • supporti informatici (internet)

Il dietista impegnato nel trattamento nutrizionale della MRC partecipa, in collaborazione con il nefrologo, al programma dietetico-nutrizionale mediante la valutazione dello stato nutrizionale del paziente e l’elaborazione di un piano dietetico personalizzato. Inoltre, interagisce con gli altri membri del team (psicologo, fisioterapista, ecc.) per identificare e promuovere i fattori individuali che possono favorire l’adesione al piano terapeutico complessivo (144).

La TDN fornita da un dietista è raccomandata per le persone con MRC dallo stadio 1 fino allo stadio 5, inclusi dialisi e trapianto (145). Il dietista, in collaborazione con il nefrologo, coinvolge il paziente e il caregiver, in tutte le fasi del trattamento nutrizionale, dalla storia dietetica alla formulazione, realizzazione e implementazione del piano dietetico. L’attività del dietista prevede un adeguato percorso informativo ed educazionale finalizzato all’autogestione dell’alimentazione secondo obiettivi specifici condivisi.

L’ANDID supporta le raccomandazioni della National Kidney Foundation (NKF) cioè che sia disponibile un dietista esperto ogni 150 pazienti nefropatici (84). La durata degli incontri è un fattore che condiziona la qualità della TDN (144). L’evidenza disponibile riporta che sono necessari 60-90 minuti per il primo incontro e 45-60 minuti per gli incontri successivi (146). Le Linee Guida Europee per l’Assistenza Nutrizionale dei pazienti adulti con MRC evidenziano che non viene prescritto un apporto proteico < 0,8 g/kg di ideal body weight (IBW)/die se non è regolarmente disponibile un dietista renale (147).

Il dietista ospedaliero, full time o part time con la Nefrologia, svolge la propria attività in collaborazione con i professionisti coinvolti nell’assistenza, adeguando la TDN ai differenti stadi della MRC. Svolge attività didattico-educativa e di informazione rivolta rispettivamente al personale di assistenza sanitaria e al personale dei servizi di ristorazione collettiva. Elabora tabelle dietetiche per i differenti stadi della MRC, pianificando capitolati per l’acquisto dei prodotti dietetici aproteici e menu per pazienti di qualsiasi età e cultura. Organizza e coordina i diversi attori coinvolti nei servizi di alimentazione per garantire il rispetto dei protocolli dietetici ipoproteici. Assicura la continuità assistenziale attraverso l’elaborazione di un piano dietetico personalizzato da attuare dopo la dimissione.

La capacità di coniugare nella giusta misura gli aspetti biologici e psico-sociali della storia dietetica costituisce l’abilità centrale del dietista esperto nel trattamento nutrizionale della MRC. Tale abilità consente l’elaborazione di piani dietetici personalizzati che incontrino sia i gusti sia le necessità del paziente (148). Nel caso di pazienti anziani i supporti cartacei vengono illustrati con il coinvolgimento dei familiari o caregivers a garanzia della migliore applicazione pratica possibile. Liste di scambio, brochure informative e indicazioni basate sulle abitudini alimentari tradizionali sono elaborate anche con la collaborazione del team e devono garantire ai pazienti un’ampia varietà di scelta, limitando la monotonia e la sensazione di divieto associata agli approcci tradizionali (149); porre l’accento su quello che si può e si deve consumare piuttosto che su quanto è “proibito”. Un servizio di consulenza telefonica/piattaforma web può costituire un supporto nelle realtà assistenziali in cui non è disponibile un dietista dedicato all’ambito nefrologico. L’istituzione di questo servizio dovrebbe prevedere la prescrizione del piano terapeutico da parte del nefrologo, l’elaborazione del piano TDN da parte del dietista e la successiva validazione da parte del nefrologo che ha in cura il paziente.

Vari sono stati i tentativi di produrre programmi computerizzati per l’elaborazione di piani dietetici ma ciò non garantisce la personalizzazione dei protocolli e ne limita la sicurezza e l’efficacia.

 

  1. L’aderenza alle prescrizioni dietetiche è una criticità così come nelle terapie farmacologiche. La condivisione del programma dietetico mediante una corretta informazione ed educazione rimane alla base di una corretta gestione della cronicità da parte del paziente

Nel documento di indirizzo per la malattia renale cronica emerge l’insoddisfazione dei pazienti per essere scarsamente informati e coinvolti nella propria cura (150). Il decreto sulla cronicità pone come punto fondamentale la presa in carico del paziente. C’è quindi molto da fare per coinvolgere il paziente nefropatico all’aderenza alla cura, che è indispensabile per migliorare i risultati e ridurre i costi in sanità (151-153).

Il termine “compliance” definisce il grado in cui la consapevolezza del paziente coincide con le raccomandazioni fornite dai sanitari (80), ed è spesso usato come sinonimo di “aderenza”. In generale, l’aderenza del paziente a una terapia dietetica nutrizionale è circa del 31%. Il coinvolgimento di un paziente è un percorso sistematico che identifica e qualifica le possibili modalità di relazione della persona, la famiglia, il caregiver con gli operatori sanitari. Il coinvolgimento è funzione di una capacità di scelta graduale delle persone di assumere un ruolo attivo nella gestione della propria salute. Questo processo è influenzato da fattori individuali, sociali, ambientali e socioeconomici.

È molto difficile agire sui processi correlati alla malattia del singolo paziente, più facile è agire sui processi di consapevolezza, informazione, presa in carico e preparazione del team. Il coinvolgimento del paziente e del team di cura deve divenire la regola all’interno della pratica clinica, essere misurato con adeguate scale validate (154) poiché fa parte dei criteri di valutazione e di accreditamento nazionale e certificazione Joint Commission International (JCI) ai punti in cui si richiamano gli aspetti di comunicazione al paziente e di sostegno all’autogestione.

Fondamentale per la riuscita di qualunque tipo di trattamento è la presa in cura (155, 156) che può avvenire solo se si è attuato un corretto coinvolgimento del paziente, della sua famiglia, dei caregiver e dei professionisti sanitari (empowerment). La formazione è fondamentale per lo sviluppo di competenze (157) e deve essere valutata e misurata se si vuole veramente aumentare l’efficacia e l’efficienza degli interventi clinico-assistenziali. L’acquisizione di tecniche di comunicazione è fondamentale e di supporto per una migliore informazione e coinvolgimento del paziente e dei familiari. I sistemi audiovisivi, applicazioni e social favoriscono il processo di engagement (158). I video possono essere strumenti potenti come fonti di medicina narrativa, catturando più facilmente l’attenzione dei pazienti.

 

  1. Gli operatori sanitari coinvolti nella gestione del paziente con MRC 4-5 devono promuovere la regolare attività fisica come parte integrante della terapia dietetica nutrizionale.

L’attività fisica rappresenta uno degli elementi chiave per la prevenzione delle patologie croniche dato che migliora molti aspetti tra i quali il controllo della pressione arteriosa, il metabolismo glicidico e lipidico, lo stato di nutrizione e la funzione endoteliale (159). Al contrario, la letteratura è concorde nell’indicare come la sedentarietà sia associata all’aumento del rischio di morbilità e mortalità (160-162).

Ci sono ormai dati forti a supporto degli effetti favorevoli dell’attività fisica nel paziente affetto da MRC e in dieta ipoproteica (163) inclusi i pazienti anziani (164). In questi pazienti l’attività fisica può rappresentare un importante stimolo anabolico che favorisce l’utilizzazione dei nutrienti e contrasta la perdita di massa magra (163). Nonostante questo, programmi di attività e/o di esercizio fisico sono raramente raccomandati ai pazienti con MRC (165).

Uno dei compiti del nefrologo è quello di superare le barriere che frequentemente si oppongono all’attuazione di programmi “riabilitativi” (166). La scarsa conoscenza e consapevolezza dell’importanza dell’attività fisica nella MRC richiede la necessità di creare gruppi multidisciplinari per implementare programmi di attività fisica adeguati al paziente nefropatico (167).

Gli operatori sanitari coinvolti nella gestione del paziente con MRC dovrebbero promuovere la regolare attività fisica come parte integrante della TDN, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia.

Tabella 2 mostra un summary dei 20 punti analizzati in questo Consensus Document.

 

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Gli inibitori del segnale di proliferazione (inibitori di mTor) nel trapianto di rene

Abstract

I protocolli immunodepressivi più comunemente usati nella terapia di mantenimento del trapianto renale, che includono un inibitore della calcineurina (CNI), un derivato dell’acido micofenolico e gli steroidi, hanno ridotto notevolmente l’incidenza di rigetto acuto, un effetto che non si è però tradotto in un aumento della sopravvivenza a lungo termine del rene trapiantato. Un recente approccio al trattamento immunosoppressivo nel trapianto di rene considera un’ottica più ampia che include non solo il rischio di rigetto, ma anche gli effetti avversi dei farmaci, il profilo di rischio infettivologico, il rischio oncologico e cardiovascolare. Osservazioni recenti indicano che l’introduzione precoce di mammalian target of rapamycine inhibitor (mTORi) in associazione a CNI a basso dosaggio nel paziente a basso rischio immunologico possa fornire questi vantaggi sistemici. Questa revisione si propone l’obiettivo di riassumere i principali vantaggi e svantaggi dell’utilizzo di mTORi nei protocolli di immunosoppressione del trapianto di rene.

Parole chiave: trapianto di rene, mTOR inibitori, terapia immunosoppressiva

Introduzione

I protocolli immunodepressivi più comunemente usati nella terapia di mantenimento del trapianto renale includono un inibitore della calcineurina (CNI) (più spesso tacrolimus -Tac che ciclosporina -CsA), un derivato dell’acido micofenolico (micofenolato sodico o micofenolato mofetile– MMF o MPA) e gli steroidi (CS).

 

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