Caso Clinico: dose booster Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA e insorgenza di vasculite ANCA-associata (MPO)

Abstract

Riportiamo un raro caso di vasculite pauci-immune ANCA-positiva (MPO) con coinvolgimento polmonare e renale a seguito della 3° dose di richiamo con vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA, insorta in un uomo sano di 71 anni. La biopsia renale confermava la diagnosi di vasculite necrotizzante con proliferazione extra capillare ANCA-associata. A seguito dei trattamenti emodialitici, infusione di steroide ad alto dosaggio, somministrazione di Rituximab e cortisone a dosaggio ridotto, è emerso un miglioramento della sintomatologia associato a un parziale recupero della funzione renale. Da segnalare assenza di recidiva della AVV dopo somministrazione della 4° dose di richiamo e successiva positività da infezione SARS-CoV-2.

Parole chiave: AAV, dose booster, tempesta di citochine, vaccino mRNA, SARS-CoV-2

Introduzione

L’Efficacia e la sicurezza dei vaccini contro il COVID-19 sono ampiamente dimostrati da autorevoli studi scientifici. Tuttavia, l’incremento delle vaccinazioni è associato a possibili effetti collaterali a lungo termine [1]. Le dosi di richiamo con vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA che codificano la glicoproteina SARS-CoV-2S, risultano essere efficaci a contrastare lo sviluppo di nuove varianti da SARS-CoV-2 [2]. Nonostante la sicurezza di questi vaccini, sono riportati eventi avversi comuni sia lievi che moderati che riguardano principalmente il sito d’iniezione, manifestazioni febbrili, sindromi parainfluenzali, mialgie, cefalea [3, 4]. Tuttavia, in letteratura emergono segnalazioni di casi clinici che evidenziano una possibile correlazione tra vaccini a COVID-19 mRNA e insorgenza di malattia autoimmuni in soggetti predisposti [5, 6]. La stimolazione sistemica del sistema immunitario, da parte dei nuovi vaccini mRNA, potrebbe scatenare la tempesta di citochine causando infiammazione dei vasi di piccolo e medio calibro fino alla necrosi e danneggiando anche organi e tessuti [7]. Queste rare forme di vasculiti secondarie a vaccinazione mRNA sono tipicamente associate alla predominante presenza di anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA) contro le proteine mieloperossidasi (MPO) [8].

 

Caso clinico

Uomo di 72 anni, affetto da ipertensione arteriosa senza storia di malattia renale nota, si presentava al nostro Pronto Soccorso dopo 15 giorni a seguito della 3° dose di richiamo del vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA per parestesia braccio e spalla sinistra, riferita sindrome influenzale, tampone molecolare COVID-19 negativo, un esame di routine mostrava creatinina 1,5 mg/dL (0,5-1,2). Dopo 1 mese e 10 giorni, nuovo ricovero per astenia, vomito e dolore addominale. Esami di routine mostravano un quadro di IRA tale da richiedere trattamento dialitico d’urgenza: creatinemia 16 mg/dL (0,5-1,2), Hb 10 gr/dL (12-18), K 4,9 mEq/L (3,5-5,1), azotemia > 300 mg/dL (10-50), proteinuria 24h: 2,4 g/24h (<0,5). Durante il ricovero risultava positività per MPO-P-ANCA 260 Ui/mL (<10), una TC del torace documentava “ispessimenti interstiziali con aspetto ad alveare” (Tabella 1).

Mesi Gennaio 2022 Giugno 2022 Gennaio 2023 Valori di riferimento
Manifestazioni cliniche Dispnea assente Assente N.A.
TC torace

 

 

Parametri sierologici

ispessimenti interstiziali con aspetto ad alveare Enfisema bolloso

con aspetto alveolare

N.A.
Creatinina 16 3 2 0,5-1,20 mg/dL
Urea 330 130 91 10-50 mg/dL
K 4,9 4,1 4,3 3,5-5,1 mEqL
Hb 10 12,4 11,7 12-18 gr/dL
Ab anti MPO P- ANCA 260 6,4 7,1 UI/mL <10
Ab Anti Nucleo assenti assenti assenti Dil. 1:160*
Ab anti PR3 C -ANCA 4,1 0,0 0,0 UI/mL<10
IgA 184 Nd Nd 70-400 mg/dL
IgG 1.051 Nd Nd 700-1600 mg/dL
IgM 93 Nd Nd 40-230 mg/dL
C3 103 Nd Nd 90-180 mg/dL
C4 55 Nd Nd 10-40 mg/dL
Linf.T periferici CD3 Nd 81,3 81,1 55-84 %
Linf.T helper CD4 Nd 32,6 32 31-60%
Linf.T suppressor CD8 Nd 46,8 45,9 13-41%
Natural Killer CD16+CD56 Nd 17,4 16,9 5-27%
Linf. B Ig CD19 Nd 0,2 0,0 5-25%
Rapporto CD4/CD8 Nd 0,7 0,0 >10
Proteinuria 24h 2 0,5 0,8 g/24h <5
Tabella 1: Manifestazioni cliniche, parametri sierologici, urinari e strumentali dopo 1 mese e 15 giorni dalla 3° dose booster vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA (gennaio 2022), a 6 mesi (giugno 2022) e a 1 anno (gennaio 2023).
*Immunofluorescenza indiretta; Nd: non dosato; NA: non applicabile; MPO: mieloperossidasi; PR3: proteinasi 3

Nel sospetto di una vasculite ANCA positiva (MPO), si poneva indicazione alla biopsia renale che confermava diagnosi di glomerulonefrite pauci-immune ANCA-associata (Figura 1 e Tabella 2).

Biopsia Renale
Figura 1: Biopsia Renale – Colorazioni eseguite: PAS (A) 5 preparati, PASM (B) 1 preparato, mostrano aspetti cellulari conservati (freccia gialla) e fibrosi cellulare (freccia rossa), semi lune e alterazioni della membrana basale (punta azzurra). Immunofluorescenza su materiale congelato n=3 di glomeruli (C) negativa per IgG, C3 e IgM. L’interstizio è sede di fibrosi e infiltrato infiammatorio linfomononucleato con occasionali granulociti neutrofili. Il complesso dei reperti morfologici e di immunofluorecenza pone diagnosi di glomerulnefrite pauci-immune ANCA accociata. PAS: acido periodico -reattivo di Schiff; Jones Silver Metenamina.
Glomeruli totali 24

7 sclerosi globale

12 con semilune

Gomerulosclerosi 10-25% (score1)
Fibrosi interstiziale 10-25% (score 1)
Atrofia tubulare 10-25% (score 1)
Arteriolosclerosi Spessore intimale<spessore media (score 0)
Grado totale 3 Modificazioni croniche lievi
Tabella 2: Biopsia Renale – Esame macroscopico e indice di cronicità.

Il paziente ha iniziato infusione di steroide ad alto dosaggio (3 boli di metilprednisolone 500 mg/die per 3 giorni consecutivi e mantenimento con 1mg/kg/die). Per la persistenza del quadro uremico, iniziava terapia con Rituximab 1 g/die per un totale di 2 somministrazioni ben tollerate a distanza di 40 giorni invece di 15 per riscontro di positività da cytomegalovirus che ha richiesto terapia con ganciclovir nel sospetto di polmonite da CMV. Durante tale periodo il paziente ha ricevuto la 4° dose booster. Dopo circa 6 mesi, veniva sospesa la terapia dialitica per miglioramento della funzione renale: creatinina 3,0 mg/dL, Hb 12,4 gr/dL, azotemia 130 mg/d, MPO-P-ANCA negativi, proteinuria 24h: 0,5 gr/24h. Il paziente veniva dimesso con terapia di mantenimento: prednisone 5 mg/die.  Successivamente ha contratto positività per infezione da SARS- CoV- 2 senza esiti. Ultimo controllo, mostra parziale recupero della funzione renale (creatinina 2,0 mg/dL) (Tabella 1, Figura 2).

Variazione della funzione renale
Figura 2: Variazione della funzione renale (creatinina mgdL) – T0: (dicembre 2021) 15 giorni dalla vaccinazione della 3° dose booster del vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA. T1: (gennaio 2023) ultima creatinina durante follow-up ambulatoriale. (boli di metilprednisolone 500 mg/die per 3 giorni consecutivi e mantenimento con 1 mg/Kg/die; Rituximab 1g/die).

 

Discussione

È noto che la prima dose del vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA prepara il sistema immunitario innato a creare una risposta che diviene più potente dopo le dosi booster [9]. È possibile che tale risposta immunitaria potenziata, osservata dopo la 3° dose, in presenza di una qualsiasi infezione virale, tipica della stagione invernale, possa essere responsabile dell’attivazione degli autoanticorpi ANCA-MPO [10]. I recettori toll-like (TLR), TLR-3, TLR-7, TLR-8, capaci di riconoscere i profili molecolari conservati nei microorganismi patogeni, facilitano l’attivazione e infiammazione del sistema immunitario [11]. L’attivazione del TLR-2 e TLR-9 in risposta alla glicoproteina SARS-CoV-2S può stimolare l’autoimmunità coinvolgendo l’attivazione delle cellule T; successivamente, fenomeni quali il mimetismo molecolare, l’attivazione policlonale o risposte sistemiche transitorie di citochine proinfiammatorie possono contribuire allo sviluppo di forme di vasculite ANCA-associate principalmente diretti contro le proteine mieloperossidasi (MPO) stimolati sia da un processo infiammatorio esteso che da una qualsiasi infezione virale [12].

La prolungata attivazione dei Linfociti T, nei confronti della glicoproteina SARS-CoV-2S a seguito della dose booster, potrebbe essere dovuta ad un’alterazione dei meccanismi stimolatori e inibitori dell’espressione delle cellule CD4 e CD8 causando ipercitochinemia e incontrollata secrezione di INF-β [13, 14]. La tempesta di citochine, i prodotti di degradazione del complemento, i mediatori dell’infiammazione attivati, attraverso meccanismo ancora da chiarire, sarebbero responsabili della perdita di tolleranza nei confronti delle trappole extracellulari (NET) e degli enzimi litici (MPO) dei neutrofili [15, 16]. L’esposizione prolungata e incontrollata di questi autoantigeni rappresenterebbe un passo cruciale verso lo sviluppo della AAV [17, 18]. Sono stati recentemente descritti anche casi di correlazione tra vaccinazione antinfluenzale a base di mRNA e insorgenza di AAV. Si ipotizza che la presenza dei polietilenglicati (PEG), contenuti nella maggior parte dei vaccini a mRNA, compreso nel Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA, in soggetti predisposti, possano essere riconosciuti erroneamente come DAMPs (Danger Associated Molecular Patterns). Inoltre, una qualsiasi infezione virale genera frammenti di PAMPs (Pathogen Associated Molecular Patterns); sia i DAMPs che i PAMPs attiverebbero l’inflammasoma intracellulare (NLP3), attraverso la via dei TLR i quali stimolano i PRRS (patterns recognition receptor) innescando così uno stato infiammatorio cronico [19, 20].

I meccanismi molecolari descritti sarebbero responsabili della attivazione e progressione di diverse malattie autoimmunitarie [21]. Abbiamo riportato un raro caso di vasculite AAV insorto in un paziente sano a seguito della 3° dose buster Pfizer-BioNTech COVID-19 mRNA, con parziale recupero della funzione renale dopo il trattamento proposto, successivamente ha ricevuto anche la 4° dose booster del medesimo vaccino e infine ha contratto positività per infezione da SARS- CoV- 2 senza recidiva della AVV. La dose booster è stata consigliata e somministrata a tutti i dializzati del nostro centro (compreso il nostro paziente senza considerare, in quel momento, l’eventuale correlazione tra dose e malattia) per la recrudescenza di contagi da SARS-CoV2. Abbiamo individuato in letteratura 7 casi clinici che mostrano insorgenza di vasculite pauci-immune ANCA-positiva (MPO) con coinvolgimento polmonare, renale e manifestazioni cliniche a seguito della dose di vaccino COVID mRNA (Pfizer-BioNTech, Moderna) e da vettore virale (Oxford AstraZeneca) con una variabilità temporale da 1 a 18 giorni e 40 giorni includendo il nostro paziente (Tabella 3). Considerato il limite temporale dalla vaccinazione all’insorgenza della malattia, riteniamo utile indagare sui meccanismi responsabili che collegano l’autoimmunità ai vaccini COVID-19 mRNA [2830].

Età Sesso Vaccino Dose N° di giorni dalla dose Manifestazioni cliniche Terapia Outcome

FGR

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84 m P II 1 IRA, dolore, febbre S r [26]
72 f A/M III M 18 IRA, dolore, astenia S, CYC r [27]
72* m P III 40 IRA, Dispena, dolore HD, S, RTX IRC Mazza F. 2023
Tabella 3: Casi clinici riportati in letteratura (*compreso il paziente del presente report) che mostrano insorgenza di vasculite pauci-immune ANCA-positiva (MPO) con coinvolgimento polmonare, renale e manifestazioni cliniche a seguito dalla dose con vaccino COVID mRNA (Pfizer-BioNTech, Moderna) e con vettore virale (Oxford AstraZeneca).
P: Pfizer-BioNTech; A: Oxford AstraZeneca; M: Moderna; S: terapia steroidea; HD: dialisi; CYC: ciclofofsamide; RTX: Rituximab; PEX: plasmaferesi plasma exchange; r: recupero della funzione renale.

 

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Poliradicolopatia infiammatoria cronica post Covid-19 e ruolo dell’aferesi terapeutica: caso clinico

Abstract

Esiste una stretta correlazione tra infezione da SARS-CoV-2 ed insorgenza di malattie autoimmuni neurologiche con atipica presentazione clinica e caratterizzate da una limitata risposta alla terapia medica, probabilmente causata dal meccanismo eziologico del virus stesso.

In situazioni come queste, dopo il fallimento della terapia farmacologica, è possibile procedere con le aferesi terapeutiche, tra cui l’immunoadsorbimento.

I trattamenti con le colonne adsorbenti IMMUSORBA TR-350 si sono dimostrate particolarmente efficaci nel gestire le forme refrattarie di neuropatie post Covid-19, consentendo un recupero completo della disabilità ed un annullamento dei segni e sintomi neurologici.

Discutiamo il caso di un paziente affetto da una poliradicolopatia cronica infiammatoria post Covid-19, resistente alla terapia medica, efficacemente trattato con l’immunoadsorbimento.

Parole chiave: Poliradicolopatie, SARS-CoV-2, Aferesi, Immunoadsorbimento

Introduzione

L’utilizzo dell’aferesi terapeutica per il trattamento di patologie neurologiche autoimmuni, non responsive alla terapia immunomodulante, è da anni oggetto di numerosi studi. Da una accurata analisi della letteratura, emergono alcune considerazioni: se da una parte vediamo un numero in aumento di varianti patologiche definite in alcuni casi atipiche o idiopatiche e correlate prevalentemente ad una assenza di risposta alla terapia di prima linea, dall’altra non sembra ancora del tutto chiaro e definito un approccio standardizzato, in caso di mancata risposta clinica.

Studi scientifici stanno evidenziando come l’infezione da SARS-CoV-2 possa essere responsabile sia del comportamento atipico di alcune patologie neurologiche infiammatorie e disimmuni, sia della loro refrattarietà alla terapia standard.

La nostra esperienza si è focalizzata sulla risposta efficace e quindi sul ruolo indispensabile dell’aferesi terapeutica, in una forma atipica di polineuropatia disimmune, resistente alla terapia medica.

 

Caso clinico

Esponiamo il caso clinico di un paziente di 48 anni, inviato alla nostra attenzione dai colleghi della SC Neurologia, affetto da poliradicolopatia demielinizzante cronica post Covid, resistente a somministrazione di immunoglobuline e quindi candidato a trattamento aferetico.

Il paziente, anamnesticamente affetto da tiroidite di Hashimoto dall’età di 29 anni, aveva presentato durante l’età adulta alcuni sporadici episodi di acufeni ed ipoacusia, trattati con terapia vasoattiva e steroidea con beneficio. All’età di 44 anni compariva progressivamente alopecia areata idiopatica su tutto il capo per la quale veniva tentato ciclo di terapia steroidea, risultato inefficace.

A marzo 2022, in seguito ad episodio febbrile, comparsa di astenia, malessere generalizzato e lievi sintomi respiratori, riceveva diagnosi di infezione da SARS-CoV-2: il paziente non presentando necessità di ospedalizzazione seguiva isolamento domiciliare con remissione spontanea della sintomatologia dopo circa 7 giorni. Circa una settimana dopo la guarigione il paziente presentava comparsa di parestesie dolorose distali agli arti inferiori con andamento ascendente e coinvolgimento delle mani e veniva pertanto ospedalizzato presso la SC di Neurologia del nostro presidio.

L’esame neurologico all’ingresso risultava nella norma eccetto per ipoestesia dolorifica alle piante dei piedi e allodinia. I riflessi osteotendinei non risultavano aboliti. La rachicentesi diagnostica mostrava un aumento della componente proteica a fronte della normalità del numero assoluto dei globuli bianchi. Agli esami ematochimici si evidenziava un aumento degli indici di flogosi con test sierologici negativi per Campylobacter jejuni, complesso TORCH, Mycoplasma pneumoniae ed Epstein-Barr virus; risultava invece positiva la ricerca di anticorpi anti SARS-CoV-2 su liquor e siero e negativa la PCR per SARS-CoV-2 su liquor. Gli esami neurofisiologici eseguiti mostravano esclusivamente una ridotta persistenza dell’onda F nel solo nervo peroneo profondo di sinistra, mentre la RMN dell’encefalo evidenziava un’anomalia vascolare del tronco, del tutto aspecifica. Nell’ipotesi di neuropatia delle piccole fibre associata a infezione da Covid-19 veniva avviata terapia steroidea.

Durante il ricovero si assisteva a peggioramento clinico per comparsa di atassia della marcia, lieve ipostenia distale agli arti superiori e prossimale agli inferiori, progressiva riduzione dei riflessi osteotendinei degli arti inferiori, deficit completo bilaterale del VII nervo cranico, accentuazione delle parestesie ed associazione di stipsi. Concomitava comparsa all’esame elettromiografico di un quadro di polineuropatia sensitivo-motoria di tipo demielinizzante a distribuzione simmetrica e distale di grado lieve suggestivo per poliradicolonevrite infiammatoria acuta demielinizzante con evidenza clinica di coinvolgimento delle piccole fibre.

Si avviava, quindi, ciclo di immunoglobuline umane endovena ad alte dosi (0,4 g/kg per 5 giorni consecutivi) associata a terapia sintomatica con netto miglioramento del deficit facciale e della forza, ed attenuazione della sintomatologia parestesica.

Seguiva breve ricovero presso struttura di riabilitazione neurologica, dove, a 14 giorni dal termine della somministrazione delle immunoglobuline, ricomparivano sia le parestesie sia l’ipostenia diffusa ai 4 arti. Nuovamente ricoverato presso la SC Neurologia, l’esame elettrofisiologico evidenziava un peggioramento della poliradicoloneuropatia. Nell’ipotesi di peggioramento correlato alla terapia, dopo consulto congiunto tra Neurologi e Nefrologi, si poneva indicazione a trattamento aferetico.

Previo posizionamento eco-guidato di catetere venoso centrale in vena giugulare interna destra e previo controllo dei valori di fibrinogemia, il paziente veniva sottoposto a 8 sedute di aferesi selettiva mediante tecnica di immunoadsorbimento. Veniva usata la colonna adsorbente IMMUSORBA TR-350 e si impostava un ritmo di trattamento a giorni alterni. Progressivamente, con l’esecuzione dei trattamenti aferetici, si assisteva ad una risoluzione quasi completa della sintomatologia neurologica e miglioramento del quadro elettromiografico.

A circa 30 gg dal termine della terapia aferetica il paziente presentava nuova riacutizzazione della sintomatologia neurologica per cui veniva posta diagnosi di polineuropatia Infiammatoria Cronica demielinizzante ad andamento recidivante remittente e, in regime di ricovero, venivano eseguite ulteriori 6 sedute di aferesi selettiva mediante tecnica di immunoadsorbimento.

Alla dimissione il paziente veniva avviato a follow-up congiunto Neuro-Nefrologico, tuttora in corso, durante il quale ha eseguito trattamento aferetico settimanale per il primo mese, bisettimanale per il secondo mese e mensile dal terzo mese in associazione all’avvio di terapia con ciclosporina, senza evidenza clinica o strumentale di ripresa di malattia.

 

Discussione

Le neuropatie disimmuni acute e croniche rappresentano al momento una importante causa di disabilità neurologica. Esse rientrano nel gruppo delle malattie autoimmuni poiché determinate da una iperattività dell’immunità cellulare ed umorale in risposta ad uno stimolo antigenico. Se in alcuni casi il trigger scatenante il meccanismo patogenetico è riconducile ad un’infezione da microrganismo noto, in tanti altri la noxa patogena rimane sconosciuta, comportando un ritardo diagnostico, una ritardata programmazione terapeutica ed un maggiore probabilità che il danno assonale diventi irreversibile [14].

Già nei primi mesi del 2020, si erano osservati numerosi casi di neuropatie disimmuni non riconducibili ad altri trigger se non all’infezione da SARS-CoV-2. In effetti, nei mesi successivi, la letteratura ha confermato una correlazione tra questa infezione virale e diverse malattie neurologiche immunomediate [57].

Il nostro paziente aveva un’anamnesi patologica suggestiva per una predisposizione ad una patologia autoimmune: sin dalla giovane età aveva manifestato episodi di sordità neurosensoriale e di alopecia, entrambi parzialmente controllati dalla somministrazione di una terapia immunomodulante.

Il sospetto che questa patologia neurologica fosse connessa all’infezione virale da Covid-19 è supportato dalla correlazione temporale con l’infezione, dall’elevato titolo anticorpale contro SARS-CoV-2 e dalla negatività sierologica e colturale di tutti i più importanti agenti microbici, solitamente causa di neuropatie post-infettive.

Non è ancora del tutto noto in che modo l’infezione virale da SARS-CoV-2 possa determinare un danno neurologico periferico e centrale: sussistono due teorie che ipotizzano da una parte un danno diretto causato dall’internalizzazione del virus nelle cellule nervose e dall’altro un danno post infettivo per la presenza costante di citochine pro-infiammatorie che determinano un’iperattivazione del sistema immunitario [811].

L’approccio terapeutico per queste forme di neuropatia prevede una prima scelta costituita da corticosteroidi ed immunoglobuline: in caso di risposta clinica inefficace o di insorgenza di recidiva di malattia sono previste terapie combinate tra immunosoppressori ed aferesi terapeutiche [3, 12].

Se da un lato le Linee Guida dell’American Society For Apheresis (ASFA) del 2019 ci indicano che le CIDP sono patologie suscettibili di trattamento aferetico, dall’altro non si esprimono su quali protocolli usare: non esistono infatti in letteratura approcci terapeutici univoci e standardizzati circa la metodica aferetica da prediligere, il filtro e la colonna adsorbente da usare o il timing delle sedute, lasciando una discreta libertà ai Centri Operanti [12, 13].

Nel nostro caso la terapia impostata mediante i corticosteroidi prima ed immunoglobuline dopo, aveva solo parzialmente controllato la patologia: alla sospensione, infatti, si era rapidamente manifestata una recidiva, ancora più aggressiva, rivelatasi poi resistente alla terapia stessa e pertanto necessitante di trattamento aferetico.

Al contrario di altre patologie neurologiche in cui immunoadsorbimento (IA) e plasmaexchange (PE) sono state confrontate in termini di efficacia, risultando equivalenti, per le CIDP non esistono al momento studi in tal senso [12, 1422].

IA e PE si differenziano tra loro per alcune caratteristiche: se la PE comporta una rimozione meno selettiva di molecole circolanti a fronte di una maggiore specificità fornita dall’IA, la stessa PE prevede che il plasma sottratto al paziente venga sostituito da un liquido di reinfusione esogeno.

I trattamenti di IA consistono, infatti, nel passaggio del plasma attraverso colonne caratterizzate dalla proprietà di assorbire selettivamente alcune particolari sostanze patogene, evitando la perdita di elementi essenziali e la conseguente infusione di plasma o di soluzioni sostitutive (Figura 1).

Figura 1: schematizzazione di un circuito usato per l’aferesi terapeutica.
Figura 1: schematizzazione di un circuito usato per l’aferesi terapeutica.

In considerazione del rischio aumentato di sviluppare infezioni o reazioni allergiche in seguito a reinfusione di liquido esogeno, di una potenziale efficacia sovrapponibile tra le due metodiche e della letteratura presente, la nostra scelta è ricaduta sull’IA, metodica con un profilo di rischio più accettabile [12, 23].

Abbiamo utilizzato la colonna assorbente IMMUSORBA TR-350, la cui membrana è costituita da Triptofano in gel di polivinilalcool, in grado di assorbire gli immunocomplessi circolanti mediante interazione chimico-fisica con il triptofano stesso [24] (Figura 2).

Figura 2: colonna adsorbente IMMUSORBA TR-350.
Figura 2: colonna adsorbente IMMUSORBA TR-350.

Come già anticipato, non essendo previsti dei protocolli univoci e standardizzati, dopo il posizionamento di un catetere venoso centrale in vena giugulare interna destra, abbiamo sottoposto il paziente a sedute di IA, a giorni alterni, per un totale di 6 sedute.

Ad ogni seduta di IA sono stati trattati, in considerazione del valore di ematocrito e del peso corporeo del paziente, tra i 2 litri e i 2,5 litri di plasma per una durata media della singola seduta di circa 2 ore (Figura 3).

Figura 3: formula per calcolare il volume di plasma durante il trattamento aferetico di Immunoadsorbimento.
Figura 3: formula per calcolare il volume di plasma durante il trattamento aferetico di Immunoadsorbimento.

Non essendo presenti alterazioni dei valori della coagulazione e non essendoci anomalie nel numero assoluto delle piastrine è stato usato come anticoagulante l’eparina a basso molecolare (4000 UI a trattamento).

Durante le singole sedute il paziente non ha manifestato alcuna intolleranza o effetto collaterale, mantenendo una stabilità dei parametri emodinamici.

Il giorno seguente il trattamento, veniva dosata la fibrinogemia: solo in un caso, è stato necessario somministrare fibrinogeno esogeno, poiché, come da letteratura, consumato dal trattamento aferetico al di sotto dei valori di sicurezza (200 mg/dl) [25, 26].

Dopo ogni seduta aferetica si è potuto osservare un progressivo miglioramento delle condizioni cliniche del paziente. Questa evidenza da noi osservata risulta essere in linea con i dai presenti in letteratura che confermano come IA sia un trattamento efficace nel ridurre a breve e a lungo termine la disabilità delle poliradicolopatie demielinizzanti croniche post infettive [2729]. Al termine del ciclo terapeutico, infatti, in considerazione della riduzione e poi scomparsa della sintomatologia neurologica, del netto miglioramento delle autonomie e della riduzione della disabilità, al paziente è stato indicato un follow-up ambulatoriale congiunto polispecialistico che ha previsto una progressiva riduzione del timing delle sedute, fino al raggiungimento di una singola seduta aferetica mensile.

 

Conclusioni

Non si conosce ancora molto circa le conseguenze cliniche a lungo e medio termine, dell’infezione da SARS-CoV-2. Molte condizioni patologiche su base autoimmunitaria, fino ad ora ritenute idiopatiche, dal 2020 in poi hanno visto una potenziale correlazione con la nota pandemia virale.

La letteratura sembra ipotizzare come l’andamento clinico e la risposta terapeutica di alcune patologie possa essere influenzata negativamente dall’infezione virale stessa, identificando delle varianti atipiche di malattia. Anche le CIDP possono rientrare in questa casistica ed il nostro caso clinico lo conferma.

L’aferesi, l’IA in particolare, si è rivelata un’ottima opzione terapeutica in grado di controllare e risolvere il meccanismo eziopatogenetico scatenante la patologia neurologica, dimostrandosi inoltre sicura: i potenziali effetti avversi dati dalla somministrazione di immunoglobuline e corticosteroidi da un lato e quelli dovuti all’infusione di liquido di sostituzione dall’altra sono stati completamente azzerati.

Questa esperienza conferma ulteriormente la necessità di realizzare percorsi multidisciplinari centralizzati, che vedano la condivisione tra più specialisti nell’approccio olistico al paziente.

Appare evidente come la mancata realizzazione di protocolli univoci e standardizzati relativi al paziente resistente o refrattario probabilmente abbia scoraggiato nel tempo il clinico nell’utilizzo di trattamenti aferetici, limitando così la possibilità di casistiche più ampie e sempre più differenziate.

 

Bibiliografia

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Vaccino mRNA anti SARS-CoV-2 nei pazienti in emodialisi: esperienza di un singolo centro

Abstract

È ormai noto come il paziente in trattamento emodialitico abbia un maggior rischio di sviluppare complicanze severe in corso di infezione da SARS-CoV-2 rispetto alla popolazione generale. L’introduzione del vaccino anti SARS-CoV-2 ha rappresentato un notevole progresso nel limitare le forme gravi di malattia, sia nella popolazione generale che nei pazienti fragili come gli emodializzati.

Il focus del nostro studio è stato quello di rilevare la presenza e la durata della risposta immunitaria anticorpale al vaccino a mRNA BNT162b2 (Comirnaty, Pfizer-BioNTech) nei pazienti in emodialisi afferenti al nostro Centro, vaccinati con 3 dosi secondo criteri ministeriali. Il titolo anticorpale è stato rilevato mediante ElectroChemiLuminescence ImmunoAssay (ECLIA) in 57 pazienti. La risposta al vaccino è stata definita come titolo anticorpale sopra il livello di sensibilità dalla metodica utilizzata (> 0,8 UI/ml); un titolo > 250 UI/ml è invece stato associato ad una buona risposta immunologica. Durante lo studio è stata osservata la comparsa di infezioni da SARS-CoV-2 oltre che gli effetti avversi al vaccino.

Il nostro Studio ha dimostrato che i pazienti sottoposti a vaccinazione presentavano un titolo anticorpale rilevabile al primo richiamo pari al 93% e del 100% dopo la terza dose. Nel nostro campione non sono stati osservati eventi avversi gravi al vaccino. Dopo la terza dose, sono state osservate comunque infezioni da SARS-CoV-2, ma con la manifestazione di lieve sintomatologia. Pertanto è possibile concludere che un ciclo vaccinale contro l’infezione da SARS-CoV-2 con tre dosi di BNT162b2 nel paziente dializzato si associa ad una buona risposta immunitaria e protegge dalle infezioni gravi.

Parole chiave: Emodialisi, SARS-CoV-2, vaccino mRNA BNT162b2, ElectroChemiLuminescence ImmunoAssay (ECLIA)

Introduzione

Il primo cluster di polmonite atipica causata da SARS-CoV-2 (severe acute respiratory syndrome coronavirus 2), un virus della famiglia dei Coronaviridae, fu riscontrato per la prima volta a Wuhan nel dicembre del 2019. Le manifestazioni cliniche di questa infezione possono variare e presentarsi come forme gravi: polmonite severa fino all’ARDS, insufficienza renale acuta ed eventi tromboembolici [1], oppure avere manifestazioni lievi e ascrivibili a sintomi simil-influenzali. Ad oggi l’infezione da SARS-CoV-2 ha causato in tutto il mondo circa 7 milioni di decessi, mettendo a dura prova i sistemi sanitari [2].

Il paziente emodializzato presenta maggior rischio di sviluppare manifestazioni severe in seguito all’infezione da SARS-CoV-2. Il sistema immunitario del paziente affetto da malattia renale cronica è compromesso tra l’altro per uno stato infiammatorio cronico determinato dalle tossine uremiche [3]. È dimostrato come i pazienti sottoposti a terapia sostitutiva della funzione renale presentino una ridotta risposta anticorpale ai vaccini, come accade per il vaccino per l’epatite B [4].

Lo sviluppo dei vaccini ha determinato un enorme progresso nel corso della pandemia da SARS-CoV-2 [5]. In Italia la prima dose di vaccino anti SARS-CoV-2 è stata somministrata alla fine del dicembre 2020 [6]. Esistono vari tipi di vaccini tra cui: (1) i vaccini a mRNA, (2) i vaccini a vettore virale e (3) i vaccini che utilizzano proteine ricombinanti [7]. Il principio su cui si basano i vaccini a mRNA è la codifica per la proteina Spike del virus, che viene quindi in contatto con le cellule immunitarie del paziente e permette la generazione di una risposta immunitaria. Il vaccino mRNA si è dimostrato sicuro ed efficacie sia nella popolazione generale che nei pazienti emodializzati [8 11].

 

Pazienti, metodi e campioni

Questo studio è uno studio osservazionale di coorte, prospettico e monocentrico. Lo scopo del nostro studio è stato quello di valutare la risposta al vaccino in termini di titolo anticorpale nei pazienti in emodialisi. Abbiamo inoltre valutato la durata della risposta anticorpale mediante successive rilevazioni del titolo anticorpale. Infine abbiamo provveduto a registrare gli effetti avversi al vaccino e le infezioni occorse nel periodo di osservazione.

I pazienti dializzati presso il nostro Centro sono 72. Nel nostro Studio per vari motivi (per esempio: non acconsentito al vaccino, infezione da SARS-CoV-2 dopo la prima dose) sono stati inclusi 57 pazienti in T1, di cui 46 pazienti hanno raggiunto T5. Il grafico Supplemento 1 mostra una flowchart dei pazienti inclusi nello studio.

Criteri di inclusione: pazienti emodializzati cronici vaccinati con 3 dosi di vaccino anti SARS-CoV-2 mRNA BNT162b2 (Comirnaty, Pfizer-BioNTech) secondo criteri ministeriali. Tutti i pazienti hanno sottoscritto un consenso informato.

Criteri di esclusione: infezione da SARS-CoV-2 nei tre mesi precedenti al vaccino, infezione da SARS-CoV-2 dopo la prima dose di vaccino, rifiuto da parte del paziente di sottoscrivere il consenso allo studio.

La prima dose di vaccino è stata somministrata a fine gennaio 2021, la seconda dose 21 giorni dopo la prima dose, mentre la terza dose è stata somministrata a fine settembre del 2021. Il follow-up è stato proseguito fino a 6 mesi dopo la terza dose del vaccino (fine marzo 2022).

Il titolo anticorpale è stato rilevato tramite l’ElectroChemiLuminescence ImmunoAssay (ECLIA) (Elecsys Anti-SARS-CoV-2 S; Roche Diagnostics). Sono stati titolati gli anticorpi anti-Spike in UI/ml: il limite di sensibilità del test è un titolo di 0,8 UI/ml. Valori sotto tale soglia li abbiamo classificati come non-responder, valori sopra questa soglia come responder. È da segnalare che la soglia per una buona risposta anticorpale è 264 U/ml [12]. Poiché gli anticorpi anti-Spike non distinguono tra infezione naturale o vaccinazione, abbiamo dosato anche gli anticorpi anti-Nucleocapside in maniera qualitativa: se presenti, il risultato è stato considerato indicativo di una pregressa, anche asintomatica, infezione da SARS-CoV-2. Per rilevare la presenza di anticorpi anti-Nucleocapside era stato utilizzato Electrochemiluminescence Immunoassay (ECLIA).

L’eventuale infezione da SARS-CoV-2 era stata rilevata mediante tampone nasofaringeo PCR. Durante la pandemia SARS-CoV-2 i pazienti venivano sottoposti a tamponi di sorveglianza a cadenza settimanale o se erano presenti sintomi simil-influenzali.

Il dosaggio anticorpale è stato eseguito in tempi diversi: a 3 settimane, 3 e 6 mesi dalla seconda dose di vaccino (T1, T2 e T3, rispettivamente); 5 settimane (T4) e 6 mesi dopo la terza dose (T5).

Gli effetti avversi al vaccino sono stati segnalati mediante questionari sottoposti ai pazienti, mentre i dati anagrafici, le comorbidità e le terapie, sono stati rilevati attingendo alla cartella elettronica presente nel nostro archivio informatico.

L’analisi statistica è stata eseguita tramite Statistics, versione 22 (IBM Statistics 22, IBM Corp. NY, USA).

Supplemento 1: Flowchart dei pazienti inclusi nello studio.
Supplemento 1: Flowchart dei pazienti inclusi nello studio.

 

Risultati

Caratteristiche
Pazienti 57
Sesso (n) maschi, femmine 39 (68%); 18 (32%)
Età media (DS) 71 (13,0)
BMI medio [kg/m²] (DS) 23,8 (5,54)
Tabella 1: Caratteristiche dei pazienti inclusi nello studio.
Comorbidità n %
Ipertensione arteriosa 40 70,2
Cardiopatia ischemica 16 28,1
Insufficienza cardiaca 14 24,6
Aritmia cardiaca 17 29,8
Diabete mellito tipo 2 22 38,6
Vasculopatia periferica 13 22,8
Trapianto in passato, di cui tx renale, tx cuore 7 (6, 1) 12,3 (10,5%; 1,8%)
Malattia neoplastica 15 26,3
Malattia autoimmune 6 10,5
Tabella 2: Comorbidità dei pazienti inclusi nello studio.
Farmacoterapia n %
ACE – inibitori/AT-1 antagonisti 24 42,1
Altri antiipertensivi 34 59,6
Coumadin 10 17,5
Cortisone 9 15,8
Terapia immunosoppressiva 4 7,0
Terapia antiretrovirale 4 7,0
 Tabella 3: Farmacoterapia dei pazienti inclusi nello studio.

A tre settimane dalla seconda dose di vaccino (T1), il 93% del nostro campione ha mostrato una risposta anticorpale al vaccino anti SARS-CoV2, mentre 4 pazienti (7%) non hanno risposto al vaccino (Fig. 1). La Tabella 4 mostra le caratteristiche dei pazienti senza risposta anticorpale al vaccino.

Paziente Sesso Età Comorbidità  Outcome
1 Maschio 80

Ipertensione arteriosa

Diabete mellito tipo 2

Neoplasia vescica

Ricoverato e morto a causa di polmonite SARS-CoV-2
2 Femmina 84

Arteriopatia obliterante

Cardiopatia ischemica

Pregressa calcifilassi

Morta a causa di infezione da SARS-CoV-2
3 Maschio 78

Ipertensione arteriosa

Cardiopatia ischemica

Scompenso cardiaco cronico

Pregressa calcifilassi

Mai positivo per SARS-CoV-2
4 Maschio 87

Scompenso cardiaco cronico

Ipertensione arteriosa

Fibrillazione atriale

Carcinoma prostata

Mai positivo per SARS-CoV-2
Tabella 4: Caratteristiche dei pazienti non-responder.

Dopo la terza dose anche tali ultimi 2 pazienti hanno raggiunto un titolo anticorpale > 250 UI/ml.

Figura 1: Titolo anticorpale a 3 settimane dalla seconda dose di vaccino (T1).
Figura 1: Titolo anticorpale a 3 settimane dalla seconda dose di vaccino (T1).

A sei mesi dalla seconda dose, è stato osservato un calo del titolo anticorpale (Fig. 2).

Figura 2: Titolo anticorpale a 6 mesi dalla seconda dose di vaccino (T3).
Figura 2: Titolo anticorpale a 6 mesi dalla seconda dose di vaccino (T3).

Dopo la terza dose del vaccino, il 100% dei pazienti ha sviluppato una risposta anticorpale ed è stato notato un incremento significativo del titolo (Fig. 3).

Figura 3: Titolo anticorpale a 5 settimane dalla terza dose di vaccino (T4).
Figura 3: Titolo anticorpale a 5 settimane dalla terza dose di vaccino (T4).

Tranne 3 pazienti, tutti hanno raggiunto il livello massimo dosabile di 250 UI/ml. 1 paziente maschio di 78 anni sotto tale soglia, affetto da ipertensione arteriosa e diabete mellito tipo 2, è deceduto a causa di una infezione da SARS-CoV-2.

6 mesi dopo la terza dose del vaccino (T5) tutti i pazienti tranne 3 (5,3%) hanno mantenuto una risposta anticorpale elevata.

La Figura 4 mostra l’andamento degli anticorpi a ogni tempo di misurazione.

Figura 4: Titolo anticorpale [UI/ml] nei vari tempi di titolazione.
Figura 4: Titolo anticorpale [UI/ml] nei vari tempi di titolazione.
Durante il periodo della pandemia SARS-CoV-2 nel nostro Centro sono stati trattati anche pazienti positivi al SARS-CoV-2 provenienti da un altro Centro convenzionato. A tale Centro afferiscono 54 pazienti. Solo una parte dei pazienti emodializzati ad entrambi i Centri sono stati inclusi nel nostro studio.

Nei 6 mesi successivi alla terza dose del vaccino, nel nostro Centro hanno dializzato 35 pazienti positivi per SARS-CoV-2, di cui 18 provenienti dal nostro Centro e 17 pazienti provenienti da un Centro convenzionato. 5 pazienti (14,3%) avevano bisogno di un ricovero ospedaliero, di cui nessuno in ambito di terapia intensiva. Sono deceduti 3 pazienti dializzati (8,6%), di cui un paziente incluso nello studio aveva un titolo anticorpale < 250 UI/ml a T4, mentre degli altri due pazienti non era noto il titolo anticorpale.

 

SARS-CoV-2 nei pazienti immunosoppressi

I pazienti immunosoppressi erano 9, di cui 4 in duplice terapia con azatioprina e steroide o Advagraf e steroide, 5 erano in monoterapia con solo steroideo. Sono stati inclusi nello studio sia pazienti con esiti di trapianto renale, le quali assumevano terapia immunosoppressiva (4; 44,4%), che pazienti con malattie autoimmuni (5; 55,6%). In questa categoria di pazienti abbiamo osservato una risposta anticorpale ridotta in T1. Solo 2 pazienti hanno raggiunto un titolo > 250 UI/ml al T1. Inoltre, il loro titolo anticorpale si è ridotto notevolmente sei mesi dopo la seconda dose (T3). Esclusi 2 pazienti (22,2%), dopo la terza dose (T4) tutti hanno raggiunto un titolo > 250 UI/ml.

La Figura 5 mostra il titolo anticorpale nei vari tempi di titolazione.

Figura 5: Titolo anticorpale [UI/ml] nei vari tempi di titolazione nei pazienti immunosoppressi.
Figura 5: Titolo anticorpale [UI/ml] nei vari tempi di titolazione nei pazienti immunosoppressi.

Confronto dei dati delle prime 3 ondate di COVID-19

Durante la prima ondata (dal marzo 2020 a fine luglio 2020) hanno dializzato nel nostro Centro 29 pazienti positivi: 14 provenienti dal nostro Centro e 15 provenienti da un Centro convenzionato. Dei 29 pazienti positivi, in base alla gravità dei sintomi, 18 pazienti (62,1%) sono stati ricoverati in ambito internistico e 1 (3,4%) in ambito intensivo. La durata mediana dei ricoveri è stata di 18 giorni. 5 (17,2%) dei pazienti positivi sono deceduti a causa dell’infezione da SARS-CoV-2.

Durante la seconda/terza ondata (tra l’ottobre 2020 e fine aprile 2021), 42 pazienti positivi hanno dializzato presso il nostro Centro, di cui 18 provenienti dal nostro Centro e 24 pazienti abitualmente dializzati nel Centro convenzionato. 25 pazienti (59,5%) sono stati ricoverati a causa di una infezione da SARS-CoV-2. Il 26,2% (11 pazienti) dei pazienti positivi è deceduto a causa del COVID-19. Segnaliamo che non tutti i pazienti emodializzati sono stati inclusi per la titolazione anticorpale.

 

Anticorpi anti-Nucleocapside

3 settimane dopo la seconda dose di vaccino 16 pazienti avevano anticorpi anti-Nucleocapside (28%), di cui 4 pazienti (25%) hanno sviluppato una infezione asintomatica e passata inosservata. I pazienti positivi al SARS-CoV-2 sono stati identificati tramite tampone nasofaringeo SARS-CoV-2 PCR. A T5, 19 pazienti (43%) hanno presentato anticorpi anti-Nucleocapside. Tutti i pazienti con anticorpi anti-Nucleocapside positivi avevano un titolo anti-Spike > 250 UI/ml. Tutti i pazienti, escluso uno, hanno mantenuto la positività per gli anticorpi anti-Nucleocapside nelle rilevazioni successivi. Tre pazienti con anticorpi anti-Nucleocapside hanno presentato un’infezione da SARS-CoV-2 dopo la terza dose, tutti e tre avevano un titolo anticorpale anti-Spike > 250 UI/ml. Nessuno di loro ha avuto una malattia grave o ha necessitato di ventilazione invasiva o di ricovero in terapia intensiva. Le infezioni da SARS-CoV-2 nei 3 pazienti con anticorpi anti-Nucleocapside sono avvenute 118, 120 e 151 giorni dopo la terza dose del vaccino.

 

Effetti avversi al vaccino

Effetti avversi al vaccino  
Pazienti con effetti avversi [n] (%) 22 (38,6)
Febbricola [n] (%) 11 (50,0)
Gastralgia [n] (%) 6 (27,3)
Brividi [n] (%) 3 (13,6)
Tabella 5: Reazioni avverse al vaccino.

Dopo la terza dose del vaccino, soltanto 4 pazienti (8%) hanno riferito effetti avversi al vaccino: 2 pazienti febbricola, 1 paziente gastralgie, 1 paziente cefalea.

Non era stata osservata nessuna reazione avversa grave al vaccino (allergie, sintomatologia neurologica…).

 

Discussione

Il nostro studio conferma la risposta anticorpale al vaccino anti SARS-CoV-2 nel paziente emodializzato; il 93% dei pazienti inclusi nel nostro Studio ha mostrato un titolo anticorpale dosabile. Ciò è conforme a quanto rilevato in altri studi. In uno studio di Bassi et al., dopo la seconda dose, è stato riscontrato nei pazienti emodializzati un tasso di sieroconversione del 94,4%, contro un 100 % nei probandi sani [13].

È noto da diversi studi che solitamente il paziente trapiantato presenta una scarsa risposta anticorpale alla vaccinazione [14]. In uno studio di Paal et al. era stata riscontrata una correlazione negativa significativa tra il titolo anticorpale e la terapia immunosoppressiva nel paziente emodializzato [15]. Anche i dati del nostro Studio confermano che i pazienti emodializzati immunosoppressi farmacologicamente presentano una risposta anticorpale ridotta. Con la terza dose la maggior parte di loro ha raggiunto un titolo anticorpale > 250 UI/ml, che si è tuttavia mantenuto anche a distanza di 6 mesi dalla terza dose. 6 dei pazienti inclusi nello studio erano trapiantati di rene, tutti hanno risposto al vaccino dopo la terza dose, raggiungendo un titolo anticorpale > 250 UI/ml. Tra questi, nessuno di quelli che si era positivizzato dopo il vaccino ha sviluppato una malattia severa. Nello studio di Thomson et al., che includeva 724 pazienti nefrotrapiantati, era stata riscontrato un tasso di non-responder al vaccino anti SARS-CoV-2 del 24% [14]. Verosimilmente tale riscontro è correlato al fatto che i nostri pazienti con pregresso trapianto renale, al momento dello studio, non assumevano più terapia immunosoppressiva oppure la assumevano a basso dosaggio.

È stato registrato un importante calo del titolo anticorpale a distanza di 6 mesi dalla seconda dose. Tale riscontro è sovrapponibile a dati osservati in altri studi [16].

Tuttavia, abbiamo rilevato un incremento notevole del titolo anticorpale dopo la terza dose di vaccino. Anche gli iniziali non-responder e i pazienti con terapia immunosoppressiva hanno raggiunto titoli elevati dopo la terza dose di vaccino. Nello studio di Barda et al. pubblicato su Lancet sono stati inclusi più di 1 000 000 pazienti, suddivisi in 2 gruppi, un gruppo vaccinato con 2 dosi e un altro gruppo vaccinato con 3 dosi. Sono stati riscontrati in maniera significativa meno positivi e meno decessi nel gruppo di vaccinati con 3 dosi [17]. Dopo la terza dose, nel nostro Centro abbiamo riscontrato comunque dei pazienti positivi, ma i casi hanno presentato manifestazioni cliniche molto meno gravi, e solo pochi pazienti sono stati ricoverati oppure sono deceduti a causa dell’infezione da SARS-CoV-2. Questi dati sottolineano l’importanza del vaccino.

Oltre agli anticorpi anti-Spike, nel nostro Studio abbiamo titolato anche gli anticorpi anti-Nucleocapside, suggestivi per un contatto pregresso con il SARS-CoV-2. Abbiamo riscontrato la persistenza degli anticorpi anti-Nucleocapside per la durata di un anno nella maggior parte dei pazienti. Tutti i pazienti che avevano anticorpi anti-Nucleocapside avevano un titolo anti-Spike > 250 UI/ml, indipendentemente dall’aver contratto l’infezione in maniera sintomatica o meno. Abbiamo riscontrato dei casi di pazienti con anticorpi anti-Nucleocapside positivi con una reinfezione del SARS-CoV-2, ma nessuno di questi ha sviluppato una malattia grave. Lo studio di Alcazar et al., al contrario, descrive la scomparsa degli anticorpi anti-Nucleocapside già a 4 settimane dal vaccino, più rapida nei pazienti asintomatici [18]. Lo studio di Clarke et al., invece, ha rilevato che i pazienti emodializzati con anticorpi anti-Nucleocapside, titolati al baseline, si positivizzano meno frequenti per SARS-CoV-2 [19].

Il nostro Studio mostra che il vaccino anti-SARS-CoV-2 è sicuro nel paziente emodializzato. Infatti, abbiamo osservato pochi effetti avversi e quelli osservati non sono stati gravi. Abbiamo riscontrato una tolleranza migliore della terza dose del vaccino in confronto alle prime due. Anche nello studio di Bensouna et al., dopo la terza dose del vaccino, non sono stati riscontrati più effetti avversi o effetti avversi più gravi in confronto alle prime due dosi [20].

La valutazione della sola risposta umorale non è sufficiente garanzia di protezione ottimale. Infatti, non esiste una correlazione netta tra titolo anticorpale e outcome clinico (ospedalizzazione, mortalità…). Un limite del nostro studio è sicuramente non aver valutato la risposta immunitaria cellulare. Infatti, lo studio di Espi et al. suggerisce che entrambe le risposte contribuiscano alla difesa immunitaria [21].

 

Conclusione

Il nostro Studio evidenza l’importanza del vaccino anti SARS-CoV-2 nel paziente emodializzato al fine di ridurre la quantità e la severità delle infezioni.

Il vaccino SARS-CoV-2 si è mostrato sicuro. Sono stati osservati pochi effetti avversi, e quelli osservati non erano gravi.

Saranno comunque utili in futuro ulteriori studi al fine di determinare l’efficacia e la sicurezza del vaccino anti SARS-CoV-2 nella popolazione dei pazienti emodializzati.

 

Bibliografia

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  3. Nowak, K.L. and M. Chonchol, Does inflammation affect outcomes in dialysis patients? Semin Dial, 2018. 31(4): p. 388-397. https://doi.org/10.1111/sdi.12686.
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  5. Creech, C.B., S.C. Walker, and R.J. Samuels, SARS-CoV-2 Vaccines. Jama, 2021. 325(13): p. 1318-1320. https://doi.org/10.1001/jama.2021.3199.
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  11. Peiyao, R., et al., Immunogenicity and safety of SARS-CoV-2 vaccine in hemodialysis patients: A systematic review and meta-analysis. Frontiers in Public Health, 2022. 10. https://doi.org/10.3389/fpubh.2022.951096.
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  13. Bassi, J., et al., Defective neutralizing antibody response to SARS-CoV-2 in vaccinated dialysis patients. medRxiv, 2021: p. 2021.10.05.21264054. https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.10.05.21264054v1.full.
  14. Thomson, T., et al., Immune responses following 3rd and 4th doses of heterologous and homologous COVID-19 vaccines in kidney transplant recipients. eClinicalMedicine, 2022. 53. https://doi.org/10.1016/j.eclinm.2022.101642.
  15. Paal, M., et al., Antibody response to mRNA SARS-CoV-2 vaccines in haemodialysis patients. Clinical Kidney Journal, 2021. 14(10): p. 2234-2238. https://doi.org/10.1093/ckj/sfab127.
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  17. Barda, N., et al., Effectiveness of a third dose of the BNT162b2 mRNA COVID-19 vaccine for preventing severe outcomes in Israel: an observational study. Lancet, 2021. 398(10316): p. 2093-2100. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(21)02249-2.
  18. Alcázar-Arroyo, R., et al., Rapid decline of anti-SARS-CoV-2 antibodies in patients on haemodialysis: the COVID-FRIAT study. Clinical Kidney Journal, 2021. 14(7): p. 1835-1844. https://doi.org/10.1093/ckj/sfab048.
  19. Clarke, C.L., et al., Longevity of SARS-CoV-2 immune responses in hemodialysis patients and protection against reinfection. Kidney Int, 2021. 99(6): p. 1470-1477. https://doi.org/10.1016/j.kint.2021.03.009.
  20. Bensouna, I., et al., SARS-CoV-2 Antibody Response After a Third Dose of the BNT162b2 Vaccine in Patients Receiving Maintenance Hemodialysis or Peritoneal Dialysis. Am J Kidney Dis, 2022. 79(2): p. 185-192.e1. https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2021.08.005.
  21. Espi, M., et al., The ROMANOV study found impaired humoral and cellular immune responses to SARS-CoV-2 mRNA vaccine in virus-unexposed patients receiving maintenance hemodialysis. Kidney Int, 2021. 100(4): p. 928-936. https://doi.org/10.1016/j.kint.2021.07.005.

Possibile forma sfumata di trombocitopenia trombotica immune indotta da vaccino in un paziente con diabete e malattia renale cronica o associazione casuale?

Abstract

Presentiamo il caso di un uomo di 75 anni, che a 12 ore dalla somministrazione della prima dose di vaccino ChAdOx1 nCov-19 ha sviluppato un infarto acuto del miocardio. Tale evento è associato alla comparsa di riduzione della conta piastrinica transitoria e al riscontro, a circa 45 giorni dall’evento, di positività degli anticorpi anti-PF4.
La trombocitopenia trombotica indotta da vaccino (VITT) è caratterizzata dalla comparsa di trombosi venose o arteriose in stretta relazione temporale alla somministrazione di vaccini anti-Sars-Cov-2 a vettore virale (ChAdOx1 nCov-19 e Ad26.COV2.S), sviluppo di trombocitopenia e produzione di anticorpi anti-PF4. Essa si presenta spesso in giovane età, con un’età mediana tuttavia di 54 anni, spesso con trombosi in sedi atipiche, come il seno cerebrale.
Il caso da noi riportato non presenta tutti i criteri diagnostici di VITT. Tuttavia, la stretta relazione temporale tra somministrazione del vaccino ChAdOx1 nCov-19, trombosi e la concomitante positività degli anticorpi anti-PF4 rende suggestivo il caso come possibile forma sfumata di VITT.

Parole chiave: Sars-CoV-2, malattia renale cronica, vaccino, ChAdOx1 nCov-19, trombocitopenia trombotica immune indotta dal vaccino, VITT

Introduzione

Il virus Sars-CoV-2 è responsabile di una pandemia senza precedenti a livello mondiale, che ha causato quasi 300 milioni di infezioni, più 5 milioni di decessi [1] e gravi ripercussioni dal punto di vista sociale ed economico. Grazie a uno sforzo senza precedenti, solo dopo nove mesi dall’inizio della pandemia, sono stati resi disponibili diversi vaccini contro il virus Sars-CoV-2. In particolare, due di questi (Pfizer mRNABNT162b2 e Moderna mRNA-1273) utilizzano una tecnologia innovativa, basata su molecole di RNA messaggero che contengono le istruzioni per produrre temporaneamente la proteina “spike” del Sars-CoV-2.

Al contrario, altri due vaccini disponibili in Italia, ChAdOx1 nCov-19 (Astazeneca) e Ad26.COV2.S (Johnson & Johnson) sono basati su una tecnologia più tradizionale, che utilizza un vettore virale ad adenovirus per introdurre la proteina “spike” del Sars-CoV-2 nell’organismo e indurre la risposta anticorpale.

Nel febbraio 2021, dopo alcuni mesi dall’inizio della campagna vaccinale, sono stati segnalati i primi casi di trombosi atipiche, in particolare a livello del seno venoso cerebrale, insorte dopo 5-30 giorni dalla somministrazione di vaccini anti-Sars-CoV-2 a vettore virale [24]. I casi di trombosi si associavano alla comparsa di trombocitopenia e presenza di anticorpi anti-fattore 4 delle piastrine (anti-PF4); la nuova sindrome è stata denominata trombocitopenia trombotica immune indotta da vaccino (VITT) [2]. 

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A volte ritornano: recidiva di COVID-19 in paziente in emodialisi cronica. Case report

Abstract

La pandemia COVID-19, causata da SARS-CoV-2, ha finora causato milioni di infezioni e morti in tutto il mondo. Dopo la guarigione è stata segnalata la possibilità di reinfettarsi.

I pazienti in emodialisi sono ad alto rischio di contrarre infezione da SARS-CoV-2 e di sviluppare gravi complicanze. Inoltre, in essi è sinora solo parzialmente conosciuta la percentuale di sviluppo e la durata della risposta immune e anticorpale, trattandosi di una popolazione relativamente ipo-anergica. Questo potrebbe avere un ruolo nella eventuale suscettibilità alla reinfezione. Ad oggi sono stati segnalati in letteratura solo 3 casi di reinfezione da SARS-CoV-2 da ceppi antecedenti la variante Omicron in pazienti in emodialisi cronica. In essi la prima infezione è stata rilevata per screening, in assenza di sintomi, il che giustificherebbe una scarsa risposta immune, e non vi sono dati sul titolo anticorpale eventualmente sviluppato.

Riportiamo il caso di una recidiva di COVID-19 risalente al 2020 – prima infezione verosimilmente da ceppo di Wuhan; reinfezione verosimilmente da variante inglese (Alpha) a distanza di 7 mesi – in un paziente emodializzato con sintomi clinici, alterazioni ecografiche polmonari e positività al tampone nasofaringeo in entrambi gli episodi. Si segnala la negatività dei tamponi seriati nel periodo intercorrente, che escludeva quindi una eventuale persistenza di positività, nonché la documentata mancanza di protezione anticorpale dopo la prima infezione al test sierologico.

Il ruolo della potenziale mancanza (o rapida perdita) della protezione immunitaria dopo esposizione a SARS-CoV-2 nei pazienti in emodialisi deve essere ancora meglio definito, anche nell’ottica delle vaccinazioni anti-COVID e dell’avvento della variante Omicron che appare eludere l’immunità indotta dai vaccini e dalle precedenti varianti. A tale scopo sono in corso studi multicentrici prospettici in diversi paesi europei.

Questo caso evidenzia anche la necessità di uno screening attento con tamponi nasofaringei nelle sale dialisi, anche dopo superamento dell’infezione e/o dopo vaccinazione.

Parole chiave: SARS-CoV-2, COVID, emodialisi, recidiva COVID-19

Introduzione

L’infezione e la reinfezione da SARS-CoV-2: epidemiologia e meccanismi di risposta immune

La pandemia causata da SARS-CoV-2 ha finora causato oltre 270 milioni di infezioni e 5 milioni di morti in tutto il mondo [1]. Si tratta di una malattia virale estremamente contagiosa, sia nella forma “wild type” che nelle successive varianti emerse.

Dopo guarigione dalla COVID-19 la reinfezione è un evento possibile e documentato in letteratura, seppur raro prima dell’arrivo della variante Omicron: il rischio è stato difatti stimato allo 0,02% e il tasso di incidenza di reinfezione a 0,36 per 10.000 settimane-persona [2]. Il meccanismo della reinfezione da SARS-CoV-2 appare sostenuto dalla dimostrazione che non tutti gli individui infettati sviluppano una immunità protettiva, oppure possono perderla in un breve lasso di tempo, soprattutto in caso di forme di COVID-19 lievi-moderate nell’infezione primaria o stati di immunodepressione.

Le valutazioni relative allo sviluppo o meno di immunità sono state per lo più incentrate sulla quantificazione della presenza di anticorpi specifici nel siero, al loro titolo e alla loro durata nel tempo [3,4] seppure siano ben note problematiche di standardizzazione delle metodiche e di individuazione di cut off sierologici condivisi.

Con tutti i limiti suddetti, nella popolazione generale è stato stimato che dopo infezione da SARS-CoV-2 mediamente si verifica una sieroconversione IgM e IgG dopo circa una settimana dall’insorgenza dei sintomi. Il titolo anticorpale aumenta fino alla quarta settimana e si riduce successivamente; entro la settima settimana le IgM non vengono più rilevate nella maggior parte casi, mentre le IgG persistono più a lungo, anche se per un periodo di tempo ancora sconosciuto [5].

In merito al ruolo dell’immunità cellulo-mediata, anche nella infezione da SARS-CoV-2 le cellule T CD4+ appaiono cruciali nel network che conduce alla generazione di anticorpi neutralizzanti, e le cellule T CD8+ di memoria antigene-specifiche sono fondamentali per prevenire le reinfezioni. A dimostrazione di ciò, cellule T CD4+ e CD8+ specifiche sono state identificate nel sangue periferico rispettivamente del 100% e del 70% di pazienti da poco guariti da COVID-19 [6]. Tuttavia − dal momento che le analisi delle risposte immunitarie cellulari sono proceduralmente più complesse rispetto alle analisi anticorpali − esse sono state meno utilizzate su larga scala a scopo di dimostrare la presenza o meno dello sviluppo di immunità protettiva dopo infezione e/o dopo vaccinazione versus SARS-CoV-2, anche perché a complicare il quadro vi è la possibilità della presenza di cellule T di memoria cross-reattive derivanti da precedenti incontri con altri coronavirus, il cui ruolo funzionale non è affatto chiaro [7].

Indipendentemente dai diversi meccanismi alla base, ciò che è stato postulato anche dal punto di vista epidemiologico è che la protezione immunitaria vs SARS-CoV-2 sia transitoria e, particolarmente in alcune situazioni, labile. Tale assunto sta alla base dell’indicazione a procedere a vaccinazione anche negli individui che abbiano superato l’infezione naturale, nonché costituisce il razionale per la somministrazione − dopo ciclo vaccinale primario e/o infezione naturale − di dosi vaccinali addizionali e booster.

La pandemia COVID-19 nella popolazione dialitica

Per quanto riguarda nello specifico la popolazione dialitica, la pandemia di COVID-19 ha avuto un impatto particolarmente importante: nei pazienti in dialisi è stato infatti dimostrato un maggior rischio di contagio rispetto alla popolazione generale (favorito dagli spostamenti ripetuti, dalla permanenza protratta in ambienti comuni e dai frequenti accessi ospedalieri) ed un tasso di mortalità assai più elevato (oltre 1/3 di decessi nei pazienti infettati) [8,9,10].

Questo eccesso di mortalità riscontrato nei dializzati è verosimilmente correlato anche all’elevato tasso in questa specifica popolazione di comorbidità quali diabete, ipertensione, pregresso uso di farmaci immunodepressori etc. Tali fattori di rischio rendono questi pazienti più fragili rispetto alle probabilità a priori di poter avere un decorso negativo, sia in generale che specifico della patologia COVID-19.

Un’altra motivazione che sta alla base di questa maggiore suscettibilità ad ammalarsi e a sviluppare forme gravi è legata all’effetto deleterio che l’uremia ha sul sistema immunitario: i pazienti uremici sono difatti noti per essere ipo-anergici, sia sul versante dell’immunità innata (deplezione e disfunzione delle cellule dendritiche, alterazione della degranulazione e delle capacità fagocitarie dei PMN) che su quello dell’immunità adattativa (precoce “ageing” immunologico, alterazione del microambiente citochinico, scarso rinnovo del comparto T e B cell con aumentata apoptosi delle cellule memoria) [11,12,13]. A conferma di questa senescenza immunitaria precoce, recenti studi hanno dimostrato un accelerato accorciamento dei telomeri leucocitari nei pazienti emodializzati [14].

Inoltre, al di là dell’uremia in senso stretto, un importante ruolo nella demodulazione immunitaria dei pazienti dializzati può essere attribuito anche allo stato di flogosi e attivazione infiammatoria cronica. Esso appare legato alla MIA syndrome [15], al contatto con le membrane artificiali, alle soluzioni dializzanti, a tutto ciò che – pur nell’aumentata biocompatibilità raggiunta grazie ai progressi della tecnica [16,17] – rende il paziente dializzato un paziente cronicamente infiammato, e pertanto maggiormente soggetto alla “cytokine storm” così cruciale nella COVID-19 [18].

Si deve tenere in conto anche il fatto che i pazienti dializzati abbiano una risposta spesso insoddisfacente nei confronti degli stimoli vaccinali, come per esempio è stato dimostrato per la vaccinazione anti HBV [19,20].

Per tutte le motivazioni suddette, nel corso della pianificazione della campagna vaccinale anti-COVID gli individui sottoposti a trattamento dialitico sono stati considerati “super fragili”, ottenendo quindi la priorità sia rispetto al ciclo vaccinale primario che per le dosi booster e/o addizionali [21].

I dati riguardanti la percentuale di sviluppo e la durata della risposta immune sia ai vaccini che all’infezione primaria da SARS-CoV-2 sono solo parzialmente conosciute nei dializzati, e non è altrettanto chiaro se la loro nota ipo-anergia o meglio dissinergia immunitaria possa giocare un ruolo non solo nelle probabilità di contrarre l’infezione, ma anche nella suscettibilità alla reinfezione, nonché quale parte abbia in esso la dimostrazione dell’aver sviluppato o meno un titolo anticorpale specifico.

A nostra conoscenza ad oggi sono stati segnalati in letteratura solo 3 casi di reinfezione sospetta da SARS-CoV-2 da ceppi antecedenti la variante Omicron in pazienti con ESRD sottoposti a emodialisi cronica [22,23]; in tutti e 3 i casi la prima infezione è stata documentata per screening, in assenza di sintomi (fattore rilevante, poiché pare che l’infezione asintomatica causi una risposta immune inferiore) [24].

Descriviamo qui il caso di una recidiva di COVID-19 risalente al 2020 – prima infezione verosimilmente da ceppo di Wuhan; reinfezione verosimilmente da variante inglese (Alpha) – in un paziente emodializzato il quale ha avuto sintomi clinici e alterazioni laboratoristiche ed ecografiche polmonari in entrambi gli episodi. Essi si sono verificati a distanza di 7 mesi, con conferma di positività per SARS-CoV-2 al tampone nasofaringeo con RT-PCR in entrambi gli episodi e negatività dei tamponi seriati nel periodo intercorrente tra le due infezioni, escludendo quindi una eventuale persistenza di malattia tra i due episodi. Inoltre, è stata documentata l’assenza di protezione anticorpale dopo la prima infezione al test sierologico, comparsa invece dopo il secondo episodio, seppure a basso titolo.

 

Il caso

Un paziente di sesso maschile di 89 anni in emodialisi trisettimanale da 1 anno, con anamnesi di ipertensione e insufficienza renale cronica “end stage” da nefropatia proteinurica di origine sconosciuta, ha segnalato in data 3 aprile 2020 la comparsa nelle 24 ore precedenti di nausea, iporessia, mialgia e tosse senza distress respiratorio. È stato sottoposto il giorno stesso a tampone rinofaringeo per SARS-CoV-2, ed è risultato positivo all’analisi in RT-PCR.

Oltre alla patologia renale aveva una storia medica di ipertensione, diabete di lieve entità in trattamento con linagliptin e presenza in anamnesi di una linfocitosi B monoclonale a tipo leucemia linfatica cronica (considerata clinicamente irrilevante dagli ematologi, e pertanto non in follow up specialistico) con lieve trombocitopenia.

Al momento della positività era in buone condizioni cliniche, pressione arteriosa 140/60 mmHg, frequenza cardiaca 65 bpm, saturazione di ossigeno 99% in aria ambiente, temperatura corporea normale. L’obiettività polmonare non era significativa.

Il paziente è stato immediatamente posto in isolamento domiciliare e sottoposto a trattamento dialitico in sala contumaciale dedicata con trasporto individuale, come da protocollo del nostro centro dialisi per i pazienti positivi. Nell’ambito della sorveglianza clinica riservata ai pazienti emodializzati affetti da COVID-19 è stato sottoposto a:

  • panel di ematochimici, che ha mostrato globuli bianchi normali (7.000/mm3 con neutrofili 50%, linfociti 37%), anemia compatibile con ESRD con emoglobina 11 g/dL e trombocitopenia cronica nota 105.000/mm3. I marker infiammatori erano moderatamente elevati (Proteina C-reattiva 9,8 mg/dL, D-dimero 16.450 ng/mL, LDH 422 UI/L, IL-6 21,8 pg/mL e Ferritina 520 ng/mL);
  • controllo ecografico polmonare e calcolo del LUS score. Si tratta di una tecnica bedside non invasiva per la diagnostica di diversi quadri polmonari molto utilizzata nell’ambito della medicina d’urgenza [25,26]. Viene applicata una valutazione a 12 zone in cui ciascun emitorace è virtualmente suddiviso in tre aree longitudinali (anteriore, laterale e posteriore) e ognuna di queste è ulteriormente suddivisa in due ulteriori zone, superiore e inferiore. Ogni zona viene esaminata mediante sonda convex a media frequenza con un piano di scansione sia coincidente con gli spazi intercostali che trasversale. Vengono valutati la linea pleurica (aspetto e movimento), il parenchima (artefatti e immagini tissutali) e il contenuto pleurico (spazio virtuale, gas o fluido). In particolare, per quanto riguarda la sindrome interstiziale tipica della malattia COVID-19, il coinvolgimento viene espresso da un punteggio che esprime diversi livelli di severità da 0 (normale) a 3 (severo) che sono applicati a ognuna delle 12 zone e che possono essere sommati per definire un LUS score generale (minimo 0, massimo 36) [27]. Il paziente aveva alcune linee B isolate in due sezioni, con un punteggio LUS score di 2.
Figura 1: Immagine tratta da Cibinel GA, Paglia S, Magnacavallo A, et al. [27]
Figura 1:Immagine tratta da Cibinel GA, Paglia S, Magnacavallo A, et al. [27]
Come da protocollo di trattamento adottato nella cosiddetta “prima ondata” di COVID-19 il paziente è stato quindi sottoposto a terapia con idrossiclorochina 200 mg/die ed eparina a basso peso molecolare a dose profilattica aggiustata per ESRD per 10 giorni. Si è osservato un buon decorso clinico con la gestione ambulatoriale, senza necessità di ricovero ospedaliero. Il paziente si è infatti ripreso rapidamente dai sintomi, ed è risultato negativo a ripetuti tamponi il 21/4, 28/4, 11/9, 20/10 e 3/11/2020.

In data 17/11/2020 a fine dialisi ha riportato un episodio ipotensivo con transitoria perdita di coscienza seguita da brividi, febbricola, subcianosi ungueale senza desaturazione e tosse senza dispnea. È stato pertanto eseguito un altro tampone nasofaringeo RT-PCR per SARS-CoV-2, risultato nuovamente positivo dopo 7 mesi dalle precedenti manifestazioni di COVID-19, in un periodo di elevata circolazione della cosidetta “variante inglese” (Alpha).

Al momento della seconda positività il paziente era in buone condizioni cliniche, con una saturazione di ossigeno del 97% in aria ambiente. Gli esami di laboratorio hanno rivelato una normale conta leucocitaria (6.590/mm3 con neutrofili 53%, linfociti 32,5%), lieve anemia emoglobina 9 g/dL e trombocitopenia 84.000/mm3. I marker infiammatori sono risultati meno elevati rispetto al primo episodio (proteina C-reattiva 0,7 mg/dL, D-dimero 7.907 ng/mL, LDH 272 UI/L, IL-6 11,8 pg/mL e Ferritina 1211 ng/mL), e l’esame ecografico polmonare ha mostrato un punteggio LUS score di 4, lievemente superiore rispetto al primo episodio.

Il paziente è stato quindi trattato con sintomatici come paracetamolo e copertura antibiotica con amoxicillina/clavulanato, come da indicazioni relative alla gestione clinica della “seconda ondata”. Anche nel caso della reinfezione non ha necessitato di ricovero ospedaliero.

In occasione del riscontro della seconda positività, nel sospetto di una mancata risposta alla infezione primaria (o ad una rapida perdita della protezione immunitaria) è stata effettuata la misurazione degli anticorpi contro la spike protein di SARS-CoV-2 (S1/S2) mediante immunodosaggio in chemiluminescenza indiretta: essa ha dimostrato una completa assenza di anticorpi (IgG e IgM entrambi negativi).

In data 2/12/2020 – dopo 15 giorni dalla reinfezione – si è riscontrata la comparsa di una iniziale risposta anticorpale vs S1/S2, seppure a basso titolo: IgM negative; IgG 26 UA/mL (test positivo >15).

Il paziente si è rapidamente ripreso dai sintomi, ed è risultato negativo al tampone nasofaringeo di controllo in data 9/12/2020.

Si è poi monitorato il titolo anticorpale a distanza, riscontrando un ulteriore aumento delle IgG anti S1/S2 a 41,6 UA/ml il 17/02/21 (a 3 mesi dalla reinfezione).

In data 7/6/21 e 28/6/21 è stato sottoposto a vaccinazione con Comirnaty Pfizer, senza complicanze.

Paziente uomo, 89 anni, età dialitica 12 mesi

Sintomi clinici Score ecografico polmonare (LUS) PaO2/FiO2 PCR (mg/dL) IL-6 (ng/mL) Ddimero (ng/mL)

Durata malattia (tampone pos → neg)

1^ episodio (apr 2020)

Tosse, mialgia, nausea

2 300 9,8 21,8 16.454 28 gg
2^ episodio (nov 2020)

Febbricola, tosse, astenia

4 620 0,7 11,8 7.907 23 gg
Tabella I: Quadro clinico, laboratoristico e strumentale nei due episodi
  IgM (UA/mL; cut off>15) IgG (UA/mL; cut off>15)
Dopo 7 mesi dal 1^ episodio neg neg
Dopo 15 gg dal 2^ episodio neg pos (26)
Dopo 3 mesi dal 2^ episodio neg pos (41,6)
Tabella II: Andamento sierologia nei due episodi

 

Discussione

La risposta immunitaria a SARS-CoV-2 nella popolazione dialitica

È stato recentemente ipotizzato che la ridotta protezione immunitaria nei confronti specificamente di SARS-CoV-2 nella popolazione dialitica sia dovuta proprio ad una risposta T difettosa e alla mancata generazione di titoli anticorpali neutralizzanti, così come evidenziato in uno studio francese dopo due dosi di vaccino a mRNA [28].

La relativa anergia del paziente dializzato e quindi la sua relativa difficoltà a montare una risposta immunitaria adeguata potrebbe condizionare una maggiore suscettibilità non solo ad infettarsi, ma anche a reinfettarsi, rispetto alla popolazione generale.

Infatti, ciò che pare evidenziarsi in letteratura è che una robusta risposta immunitaria iniziale – sia umorale che cellulo-mediata – sembra proteggere più a lungo dal rischio di reinfezione [29]; nello stesso tempo l’invecchiamento (sia anagrafico che – come nel caso dei pazienti dializzati – biologico) determina un impairment immunitario in particolare sul versante adattativo, con maggior suscettibilità e sviluppo di malattia COVID-19 più grave [30].

Al momento i dati relativi specificamente all’efficacia clinica dello sviluppo e della durata di una risposta immunitaria – cellulare e/o anticorpale, indotta da infezione contratta o da vaccinazione – versus SARS-CoV-2 nei dializzati, e quale ruolo essa possa avere nello sviluppo di forma più o meno gravi di COVID-19, sono ancora in via di acquisizione. In particolare, non vi sono ancora esiti di ampi trial con end-point clinici in merito [35].

Tuttavia, in letteratura sono presenti (e in incremento) diversi lavori che – avendo valutato la risposta immune sia alla vaccinazione che all’infezione nei dializzati – possono fornire un panorama e consentire di formulare alcune ipotesi.

In merito alla risposta dopo infezione, uno studio inglese ha valutato i titoli anticorpali specifici per SARS-CoV-2 6 mesi dopo l’infezione in pazienti dializzati, riscontrando che l’85% dei pazienti con sieroconversione dopo l’infezione aveva ancora anticorpi specifici per SARS-CoV-2, ma il cui titolo significativamente diminuiva nel tempo [38].

In merito alla risposta dopo vaccinazione, in alcuni lavori viene segnalata una risposta nei dializzati ai vaccini a mRNA (mRNA-1273 and BNT162b2) ragguardevole, pari al 97% [34]. Parrebbe invece inferiore nella popolazione dializzata la risposta ai vaccini adenovirus-based, come AZD1222 [37]. Tuttavia, questa buona risposta immune – umorale e cellulare – conseguente al vaccino nei dializzati non appare durevole: essa pare infatti diminuire 4 mesi dopo completamento del ciclo vaccinale primario e perdersi del tutto nel 17,1% (razionale sul quale la popolazione dializzata è stata ritenuta prioritaria per la somministrazione delle dosi booster) [36].

Tutti questi lavori si basano su dati antecedenti alla comparsa della variante Omicron, la quale parrebbe eludere ulteriormente la risposta immune sia da infezione naturale dei pregressi ceppi che da vaccinazione anche con dosi booster; in tal senso, sarà interessante capire se e come la popolazione dializzata si discosterà dal tasso di reinfezione da variante Omicron rispetto alla popolazione generale.

In tale ottica appaiono assai importanti i risultati in itinere che arriveranno da due studi osservazionali prospettici europei, l’italiano COVID-VAX (Studio di coorte su efficacia e sicurezza della vaccinazione anti COVID-19 nelle persone in dialisi) promosso da SIN e ISS e il francese ROMANOV (Response of Hemodialyzed Patients to COVID-19 Vaccination) in merito all’incidenza e gravità della malattia COVID-19 in pazienti dializzati anche in base al loro stato di vaccinazione e al ruolo delle “terze” e “quarte” dosi vaccinali nell’aumento di effettori immunitari in questa peculiare popolazione [28,31].

Peculiarità del nostro caso rispetto agli altri casi di reinfezione in emodializzati in letteratura

A nostra conoscenza ad oggi sono stati segnalati in letteratura solo 3 casi di sospetta reinfezione da SARS-CoV-2 in pazienti con ESRD sottoposti a emodialisi cronica da ceppi antecedenti la variante Omicron [22,23]; in tutti e 3 i casi la prima infezione è stata documentata per screening, in assenza di sintomi (fattore che potrebbe giustificare lo sviluppo di una scarsa risposta immune dopo l’infezione primaria).

In uno dei tre casi il tampone molecolare in occasione del primo episodio è addirittura risultato negativo, e la prima infezione è stata supposta solo sulla base della sierologia, lasciando aperto il quesito se si trattasse realmente di una reinfezione o invece di una problematica di cross reazione del test per rilevare le IgG, come giustamente sottolineato dagli autori [22]. Negli altri due casi invece la documentata negatività dei tamponi tra un episodio e l’altro sembrerebbe confermare che si sia trattato effettivamente di una reinfezione, anche se in entrambi i casi vi è stato solo 1 tampone negativo tra i due episodi, e tutti ben conosciamo la possibilità di avere un tampone negativo e poi nuovamente uno positivo a breve distanza, come riscontrato più volte nella “prima ondata” quando il protocollo di guarigione prevedeva l’effettuazione doppio tampone negativo. Inoltre, in uno di questi due casi mancano completamente dati relativi alla sierologia [23].

Rispetto al nostro caso, in nessuno dei 3 casi riportati in letteratura sono stati svolti esami strumentali in entrambi gli episodi e pertanto non è noto se vi fosse un coinvolgimento polmonare o meno nel primo evento (anche se l’asintomaticità dei pazienti lascia supporre di no) e non sono noti dati ematochimici che possano fornire informazioni riguardo al livello di attivazione citochinica avvenuto.

Il tempo intercorso tra primo e secondo episodio in tutti e tre i casi precedentemente riportati risulta al massimo di 2 mesi, mentre nel nostro caso esso risulta di 7 mesi. Tale latenza temporale, unita ai ripetuti tamponi negativi tra i due episodi (ben 5), conferma in maniera inequivocabile che, nel nostro paziente, si sia trattato di una reale reinfezione a distanza.

Caratteristiche paziente

Sintomi clinici

(1^ episodio/
2^ episodio)

Tampone molecolare (1^episodio/
2^ episodio)
Sierologia IgG (1^ episodio/
2^ episodio)
Tempo intercorso tra 1^ e 2^ episodio

Tamponi negativi tra i 2 episodi (n°)

Uomo, 51 aa

Nessuno/

Febbre, dispnea,desaturazione

Neg/Pos Pos/Pos 2 mesi No
Uomo, 70 aa

Nessuno/

Tosse, dispnea, mialgie

Pos/Pos Non disponibile/

Pos

1 mese Si (1)
Donna, 55 aa

Nessuno/

Febbricola, mialgie

Pos/Pos Non disponibile/Non disponibile 2 mesi Si (1)
Tabella III: Caratteristiche degli altri casi di reinfezione da SARS-CoV-2 in pazienti in dialisi cronica segnalati in letteratura

Allo stato attuale pertanto il caso da noi riportato appare l’unico in letteratura relativo ad un paziente in emodialisi con reinfezione documentata in RT-PCR mediante tampone nasofaringeo risalente al 2020, ossia antecedente ai vaccini e alla variante Omicron. La prima infezione verosimilmente è stata determinata dal ceppo originale di Wuhan, mentre la reinfezione si è verificata a causa della variante inglese (Alpha). I ripetuti controlli intermedi negativi, l’evidenza di interessamento polmonare all’ecografia e le alterazioni in senso flogistico agli ematochimici in entrambi gli episodi, nonché l’assenza di risposta anticorpale dopo il primo episodio e la comparsa della stessa dopo il secondo episodio, costituiscono elementi di interesse di questo caso.

Il ruolo dell’ecografia polmonare (LUS) nei pazienti dializzati affetti da COVID-19

Considerando le suddette problematiche connesse alla morbilità e mortalità da COVID-19 nei pazienti in dialisi, nonché la possibilità che i sintomi possano essere in fase iniziale lievi o confondersi con altre problematiche (es. dispnea da sovraccarico), appare opportuno che nei pazienti infetti vi siano mezzi diagnostici opportuni per quantificare l’entità del coinvolgimento respiratorio e differenziare precocemente coloro gestibili ambulatorialmente da quelli meritevoli di ricovero.

In particolare, sarebbero consigliabili strategie di stratificazione del rischio e di definizione diagnostica pratiche, sensibili, affidabili, ripetibili e possibilmente utilizzabili al letto del paziente (onde evitare spostamenti in radiologia con rischio di diffusione del virus), e possibilmente prive di radiazioni ionizzanti.

In quest’ottica, presso il nostro centro dialisi abbiamo attuato nelle prime due ondate pandemiche – prima dell’avvento dei vaccini anti-COVID – una sorveglianza specifica dedicata ai pazienti ambulatoriali positivi per SARS-CoV-2, integrando al monitoraggio clinico e al panel di esami ematochimici l’applicazione dell’ecografia polmonare (LUS) secondo l’apposito score.

Monitoraggio clinico Esami ematochimici

Esami strumentali

Temperatura corporea, PA, FC, saturazione dell’ossigeno, rilevamento sintomatologia specifica

Emocromo con formula, proteina C reattiva, IL-6, LDH, ferritina, coagulazione completa, EGA arteriosa se sintomi respiratori

Ecografia polmonare con calcolo LUS score

Tabella IV: Protocollo sorveglianza 1° livello sala dialisi COVID pazienti ambulatoriali – prime due ondate pandemiche

Un LUS score all’ingresso superiore a 8-10 costituiva elemento di allarme, in particolare in associazione a alterazioni ematochimiche come linfopenia, PCR >2x e IL-6 >4x, anche in assenza di alterazioni della saturazione. I pazienti con tali caratteristiche venivano considerati per il ricovero ospedaliero.

La LUS prima della pandemia COVID-19 veniva effettuata di routine presso il nostro centro per la definizione del peso ideale dialitico in abbinamento alla valutazione del diametro e della collassabilità della vena cava inferiore, ma ha trovato una sua applicazione peculiare nei pazienti dializzati affetti da COVID-19, trattandosi come già detto di un esame molto affidabile ed utilizzato in ambito urgentistico [25,26,27].

Per quanto riguarda nello specifico i pazienti in dialisi, l’esame viene effettuato a inizio della seduta dialitica, mediante ecografo dedicato ai pazienti positivi. Le immagini ecografiche della polmonite da COVID-19 mostrano un tipico aspetto bilaterale caratterizzato da linee B multiple o confluenti con aree risparmiate, linea pleurica ispessita e irregolare e rari consolidamenti subpleurici; tali peculiarità, integrate con la valutazione della vena cava inferiore in termini di diametro e collassabilità inspiratoria, consentono di effettuare una diagnostica differenziale con le linee B da sovraccarico di volume.

L’approccio ultrasonografico polmonare al paziente dializzato positivo per SARS-CoV-2 appare quindi assai utile per la stratificazione e la gestione dei pazienti, in parallelo con quanto evidenziato nelle casistiche di medicina d’urgenza, ed è stato adottato anche in altri centri dialisi, come segnalato da alcune esperienze della letteratura [32].

Il ruolo dello screening con tampone nasofaringeo nelle sale dialisi

Le sale dialisi possono essere potenzialmente sede di focolai/cluster e per tale motivo i pazienti devono essere adeguatamente protetti con l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (DPI). Rispetto allo screening periodico con tamponi nasofaringei, in letteratura le posizioni variano tra l’indicazione ad un periodico controllo a tappeto in tutti i pazienti all’effettuazione dell’esame solo nei sintomatici, così come variano i cut-off ritenuti indicati rispetto alla temperatura corporea al triage, la distanza ottimale tra i pazienti, e quando concludere l’isolamento dei positivi (e se applicare differenze nelle tempistiche e nella gestione tra vaccinati e non) [33].

Presso il nostro centro dialisi, in base anche all’esperienza di COVID-hospital durata 9 mesi e avendo sottoposto da inizio pandemia a trattamento dialitico più di 80 pazienti positivi, attuiamo:

  • trattamento in sala dialisi contumaciale per i positivi, sia vaccinati che non. In questi pazienti, in presenza di sintomi, effettuiamo sorveglianza mediante panel di ematochimici e ecografia polmonare (LUS). Rientro in sala dialisi solo dopo documentazione di tampone molecolare negativo secondo le tempistiche determinate dalle indicazioni ministeriali;
  • effettuazione immediata di tampone molecolare e trattamento in sala dialisi grigia dei sintomatici e degli asintomatici entrati in contatto con positivi, per una durata stabilita secondo le indicazioni ministeriali relative alla quarantena (differenziata pertanto tra vaccinati con booster, vaccinati solo parzialmente e non vaccinati). Tale approccio si applica anche ai pazienti guariti da precedente COVID-19;
  • screening periodico di tutti i pazienti mediante tamponi molecolari o antigenici di terza/quarta generazione, con cadenza differenziata e modulabile a seconda dello status vaccinale e della fase epidemiologica;
  • utilizzo costante per tutti i pazienti dei DPI (forniti dal centro dialisi stesso), misurazione della temperatura corporea e rilevamento di eventuali sintomi sentinella in tutte le sedute di dialisi;
  • controllo sierologico nei pazienti in lista attiva trapianto dopo guarigione dall’infezione. Non sono programmati controlli sierologici di routine negli altri casi.

 

Conclusioni

A nostra conoscenza questo è il 4° caso riportato in letteratura di recidiva di COVID-19 in un paziente con ESRD sottoposto a emodialisi cronica da ceppi antecedenti la variante Omicron.

La peculiarità del nostro caso rispetto a quelli segnalati in precedenza sta nella presenza di sintomi e alterazioni ecografiche polmonari ed ematochimiche in entrambi gli episodi, nella documentata assenza di risposta sierologica dopo il primo episodio, e nella ripetuta negatività dei tamponi intermedi nel tempo che esclude una persistenza di malattia.

In uno scenario di pandemia, rispetto alla quale i meccanismi patogenetici e immunologici che stanno alla base delle dinamiche della suscettibilità all’infezione da SARS-CoV-2 e della severità della malattia COVID-19 non sono stati ancora del tutto chiariti, il ruolo della rapida perdita o mancanza di sviluppo della protezione anticorpale e più in generale immunitaria dopo infezione e/o dopo vaccinazione nei pazienti in dialisi, e il suo impatto clinico, deve essere ulteriormente indagato.

Ciò appare particolarmente importante in una popolazione fragile e ipo-anergica come quella dializzata, anche per definire le strategie gestionali attuali e future.

Questo caso evidenzia a nostro parere anche la necessità di mantenere uno screening attento mediante tamponi nasofaringei per la ricerca di SARS-CoV-2 nelle sale dialisi, anche nei pazienti che abbiano superato l’infezione e/o siano stati vaccinati, nonché la prosecuzione attenta delle precauzioni di barriera e del distanziamento.

Sono in corso studi clinici multicentrici di numerosità ampia in diverse nazioni europee, come il COVID-VAX in Italia e il ROMANOV in Francia, i quali auspicabilmente dovrebbero poter aumentare la comprensione di tali questioni ancora aperte, soprattutto in merito alle dinamiche infettive post vaccinazione e post infezione.

 

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Anno nuovo, variante nuova: gli anziani fragili ci insegnano a fare tesoro dell’esperienza

Abstract

Un recente studio intitolato FRASNET ha arruolato una coorte di 1240 anziani, su base volontaria, tra i pazienti afferenti agli ambulatori dell’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale San Raffaele di Milano, gli ospiti di RSA, i soci delle Università della Terza età di Milano e Monza-Brianza (città e provincia) e di diversi centri socio-ricreativi-culturali per anziani. Di questi soggetti sono stati raccolti dati demografici, antropometrici, biochimici, oltre che informazioni su patologie concomitanti e terapie farmacologiche utilizzate, test psicofisici e campioni biologici.

Dopo la prima ondata della pandemia da SARS-Cov-2, abbiamo raccolto dati relativi all’infezione da coronavirus all’interno della medesima coorte, per valutarne l’impatto sui soggetti fragili. Dai dati raccolti possiamo affermare che, nella nostra coorte, la prevalenza di infezione da SARS-CoV-2 si attesta allo 0,7%. Questo risultato sembrerebbe essere attribuibile all’efficacia delle misure preventive messe in atto durante la prima fase della pandemia.

Parole chiave: studio FRASNET, soggetti fragili, anziani, SARS-CoV-2

Introduzione

A partire dal mese di febbraio 2020 la pandemia da SARS-CoV-2 ha severamente colpito l’Italia, con, ad oggi, più di 7.300.000 di casi accertati e più di 138.000 morti [1].

I dati pubblicati dall’Istat [2] ci mostrano che il numero di casi notificati di infezione da SARS-CoV-2 è aumentato dalla prima ondata (marzo-maggio 2020) alla seconda ondata (ottobre-dicembre 2020) e ha continuato a crescere fino all’attuale quarta. Il vertiginoso aumento dei casi diagnosticati è da imputarsi a due fattori principali: l’aumento della capacità diagnostica, con l’identificazione di un numero sempre maggiore di casi paucisintomatici o asintomatici, e la diffusione epidemica su tutto il territorio nazionale. Le principali analogie tra la quarta ondata e quelle precedenti sono sicuramente la stagionalità, che aumenta il margine di suscettibilità all’infezione, e la contagiosità che rinforza la necessità di rispettare le precauzioni base. Il vantaggio attuale è la barriera vaccinale.

Dalla storia della pandemia si evidenzia un cambiamento delle fasce di età colpite, con un’età media di 60-64 anni nella prima ondata, di 45-49 anni nella seconda (con un calo in termini percentuali dei contagi registrati nella popolazione più anziana) e di 40-49 anni nella quarta ondata.

Se, invece, si prende invece in considerazione la mortalità dell’infezione da SARS-CoV-2 nella popolazione generale, secondo i dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), l’età media dei pazienti positivi deceduti durante la prima ondata è stata di 80 anni, maggiore di oltre 35 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione ma che sono sopravvissuti [3]. La maggiore mortalità nell’età anziana si conferma anche nelle ondate successive.

Possiamo quindi osservare come, soprattutto nelle ultime ondate, l’infezione, pur colpendo maggiormente soggetti giovani, è nei soggetti più anziani che manifesta maggiormente la sua letalità. Nei soggetti giovani l’infezione da SARS-CoV-2 tende a manifestarsi con sintomi più lievi rispetto all’infezione nei soggetti anziani, soprattutto se con pluripatologie.

Infatti, secondo gli ultimi dati forniti dall’ISS, è possibile notare come il tasso di letalità vari a seconda della fascia d’età: 26.6% per gli ultranovantenni, 18.5% tra 80 e 89 anni, 8.1% tra 70 e 79 anni, 2.4% tra 60 e 69 anni, 0.5% tra 50 e 59 anni, 0.1% tra 40 e 49 anni. Questi dati confermano quindi che i soggetti più anziani sono più a rischio di sviluppare forme severe e letali di infezione da SARS-CoV-2 anche nel corso di questa quarta ondata. Risulta quindi fondamentale per tutti, ma soprattutto per le fasce d’età più avanzate, mettere in atto in maniera rigorosa e costante tutte quelle misure di precauzione utili ad evitare il contagio (DPI e distanziamento sociale).

È oramai assodato che la co-presenza di altre patologie – quali ipertensione, cardiopatie, patologie respiratorie, insufficienza renale cronica, tumori o patologie del sistema immunitario – unitamente a un basso status socio-economico aumentano il rischio di sviluppare forme gravi di COVID-19.

La fragilità è una sindrome età-correlata caratterizzata da una riduzione delle riserve funzionali e da una diminuita resistenza agli stressor, cioè a tutti quegli stimoli (fisici, ambientali, metabolici, affettivi) che causano stress all’organismo e alla psiche. Questa sindrome che si associa allo sviluppo di vulnerabilità e predispone all’insorgenza di eventi avversi [4], è stata considerata fattore di rischio per lo sviluppo di forme COVID-19 severe [5].

La definizione di fragilità elaborata da Fried prende in considerazione sia aspetti psicologici (depressione e deficit cognitivi) che indici fisici (fatica e calo ponderale) [6]. L’infiammazione cronica sembra essere un fattore critico che contribuisce allo sviluppo della fragilità direttamente o indirettamente attraverso diversi sistemi quali il muscolo scheletrico (sarcopenia), il rene (perdita di funzione renale), il sistema endocrino ed ematologico [7]. Inoltre, sembra che anche l’interazione di diversi pattern genetici e fattori ambientali possa essere coinvolta nello sviluppo di fragilità e del processo di invecchiamento [810].

 

Lo studio FRASNET

Uno studio appena concluso, condotto di recente dai gruppi Manunta-Manfredi, intitolato “Renal ageing-Sarcopenia NETwork: a combined genetic, immunological and psychological approach to dissect FRAilty” (FRASNET study) aveva lo scopo di analizzare i fattori genetici e bioumorali che modulano l’effetto dell’infiammazione cronica dovuta all’età sul rene, sul muscolo scheletrico, sui processi cognitivi.

È stata arruolata una coorte di 1240 anziani, su base volontaria, tra i pazienti afferenti agli ambulatori dell’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale San Raffaele di Milano, gli ospiti di RSA, i soci delle Università della Terza età di Milano e Monza-Brianza (città e provincia) e di diversi centri socio-ricreativi-culturali per anziani della medesima area. Di questi soggetti sono stati raccolti dati demografici, antropometrici, biochimici, oltre che informazioni su patologie concomitanti e terapie farmacologiche utilizzate, test psicofisici e campioni biologici.

I criteri di inclusione comprendevano un’età superiore a 65 anni, una capacità di deambulazione (autoriferita) superiore a 500m, un MMSE (Mini Mental State Examination) [11] con punteggio superiore o uguale a 18, assenza di problemi di salute recenti e gravi che comportassero un’aspettativa di vita inferiore a 6 mesi e un’anamnesi negativa per terapie invasive nei 6 mesi precedenti.

Per definire la fragilità di ogni paziente sono stati valutati l’affaticabilità riferita nello svolgimento delle attività quotidiane (per almeno 3 giorni durante la settimana), la riduzione dell’attività fisica nella sua frequenza settimanale (PASE, Physical Activity Scale for the Elderly), la riduzione nella velocità del cammino (TUG, Timed Up and Go Test oppure SPPB – test della marcia), e la riduzione della forza muscolare (SPPB – test della sedia).

Sulla base dei dati raccolti, i pazienti sono stati suddivisi in tre classi di fragilità utilizzando l’indice di Fried modificato. Il 33.7% del totale sono risultati fragili, il 35.9% pre-fragili e il 26.7% robusti.

 

Effetti della Pandemia sulla popolazione FRASNET

Dopo la prima ondata della pandemia da SARS-Cov-2, abbiamo raccolto dati relativi all’infezione da coronavirus per valutarne l’impatto sui soggetti fragili e con lo scopo di capire se la condizione di fragilità potesse predisporre a forme più gravi di COVID-19 e se si associasse ad un aumento della mortalità.

Nel periodo giugno-settembre 2020, i soggetti che avevano preso parte allo studio sono stati intervistati telefonicamente al fine di raccogliere dati riguardanti la prevalenza dei sintomi da infezione da SARS-CoV-2 manifestatisi nel periodo di tempo compreso tra Gennaio 2020 e Agosto 2020. 821 pazienti hanno risposto alla chiamata telefonica, 419 non sono stati raggiunti. Per i soggetti che non hanno risposto telefonicamente abbiamo ricercato informazioni sull’eventuale data di decesso tramite il servizio “anagrafica” sul portale SISS.

Il questionario telefonico veniva sottoposto al diretto interessato o al caregiver. Nel caso in cui il paziente fosse deceduto, si richiedeva di indicare il periodo (pre-covid, prima di gennaio 2020, o durante la pandemia da SARS-CoV-2, a partire da gennaio 2020) e la causa di morte.

Tra i sintomi indagati, si richiedeva di indicare l’eventuale comparsa di febbre, dispnea, tosse, mal di gola, raffreddore, anosmia, disgeusia, nausea, vomito, diarrea, addominalgia, dolore toracico, otalgia, mialgie, artralgie, cefalea, confusione, sincope, convulsioni, congiuntivite, rash cutaneo, ulcere cutanee, nel periodo gennaio-agosto 2020. Nel caso di insorgenza di una o più di queste manifestazioni si richiedeva di indicarne il periodo di comparsa e la durata.

Il questionario, inoltre, chiedeva di indicare eventuali contatti stretti con casi sospetti o confermati di COVID-19, se erano stati fatti tamponi e test sierologici per SARS-CoV-2 (in quella fase molto rari), e se il soggetto si era sottoposto alle vaccinazioni anti-influenzale e anti-pneumococcica nel 2019. Nei soggetti con certa o probabile infezione dal SARS-CoV-2 sono stati raccolti anche dati riguardanti una possibile variazione della terapia farmacologica anti-ipertensiva.

Per valutare la probabilità di aver contratto il COVID, in assenza di tampone o di test sierologico positivo, ad ogni sintomo è stato attribuito un punteggio da 0.25 a 1. È stata quindi considerata certa l’infezione da COVID in caso di punteggio superiore a 3, probabile se compreso tra 1 e 3 ed improbabile se minore di 1. In Tabella I è mostrata l’attribuzione dei punteggi per singolo sintomo.

SINTOMO PUNTEGGIO SINTOMO PUNTEGGIO
Addominalgia 0,25

Disgeusia

0,5
Anosmia 0,5

Dispnea

1,0
Artralgia 0,5

Dolore toracico

0,25
Cefalea 0,5

Faringodinia

0,5
Confusione 0,25

Febbre

0,5
Congiuntivite 0,25

Mialgie

0,5
Convulsioni 0,25

Nausea

0,25
Diarrea 0,25

Otalgia

0,25
Raffreddore 0,25

Rash cutaneo

0,25
Sincope 0,25

Tosse

1,0
Ulcere cutanee 0,25

Vomito

0,25
Tabella I: Valutazione sintomi compatibili con COVID-19

Degli 821 pazienti che hanno risposto alla chiamata telefonica, 6 sono risultati casi di accertata infezione da SARS-CoV-2 (tampone o test sierologico positivo), 26 casi sospetti (presenza di sintomi e punteggio maggiore di 1), 768 non sospetti (nessun sintomo o score minore di 1).

Dei 419 che non hanno risposto, 23 erano deceduti. 7 decessi risalgono a prima di marzo 2020, 11 tra marzo e settembre 2020, 5 dopo settembre 2020.

 

Considerazioni

Dai dati raccolti possiamo affermare che, nella nostra coorte, la prevalenza di infezione da SARS-CoV-2 si attesta allo 0,7%. Questo risultato sembrerebbe essere attribuibile all’efficacia delle misure preventive messe in atto durante la prima fase della pandemia. Infatti, abbiamo potuto constatare che i soggetti da noi arruolati nello studio, nonostante prima della pandemia fossero abituati ad una vita piena di interazioni, stimoli e attività svolte nei circoli ricreativi oppure nell’Università della Terza età, si sono dimostrati particolarmente ricettivi alle disposizioni e regole entrate in vigore per arginare la diffusione della pandemia da SARS-CoV-2.

Lo stesso impegno nel rispetto delle norme lo abbiamo potuto notare nei familiari dei nostri soggetti in studio, soprattutto in coloro che avevano contatti con anziani più fragili, che hanno avuto accorgimenti fondamentali per la tutela dei loro cari. Per esempio durante le nostre interviste telefoniche molti anziani hanno raccontato di aver ricevuto, da parte di figli o altri parenti, la spesa o generi di prima necessità fuori dalla porta di casa proprio per evitare ogni contatto non strettamente necessario.

Oltre al distanziamento sociale anche l’utilizzo dei DPI è stato recepito dai soggetti in studio e dai loro familiari come essenziale per la loro tutela.

In Tabella II abbiamo riportato i dati sulla probabilità di aver contratto l’infezione da SARS-CoV-2 per i soggetti dello studio. I soggetti più fragili hanno avuto meno contatti con altre persone e sono stati più rispettosi e attenti alle regole di distanziamento sociale e di utilizzo dei DPI; al contrario dei soggetti considerati robusti. Infatti, è proprio tra questi ultimi che si sono verificati più casi di infezione da SARS-CoV-2.

P_COVID Classe di fragilità Totale
Robusti Pre-fragili Fragili
Certa N° pazienti 4 4 2 10
% pazienti 40% 40% 20% 100%
% nella classe fragilità e sul totale 1,8% 1,3% 0,7% 1,2%
Possibile N° pazienti 10 7 5 22
% pazienti 45,5% 31,8% 22,7% 100%
% nella classe fragilità e sul totale 4,5% 2,3% 1,8% 2,8%
Improbabile N° pazienti 207 290 271 768
% pazienti 27% 37,8% 35,2% 100%
% nella classe fragilità e sul totale 93,7% 96,3% 97,5% 96%
Tabella II: Probabilità di infezione da SARS-CoV-2 (P_COVID) nei soggetti dello studio FRASNET distribuita per classi di fragilità

Questi dati relativi alla prima ondata, anche alla luce dei dati della quarta ondata, confermano l’efficacia dei DPI e delle norme di distanziamento sociale, sempre e per tutti, soprattutto al fine di garantire la protezione delle categorie di soggetti più fragili, suscettibili delle forme più gravi di infezione.

In questa quarta ondata stiamo osservando come la variante Omicron abbia una contagiosità molto elevata, e che, nonostante nei soggetti giovani porti allo sviluppo di una malattia spesso paucisintomatica, nei soggetti più fragili e anziani può comunque portare all’insorgenza di malattia severa.

In ambito nefrologico abbiamo spesso potuto constatare, per esempio nei soggetti che devono periodicamente essere sottoposti a trattamenti dialitici, come la difficoltà a mantenere il distanziamento sociale e a evitare contatti con molte persone possa essere un fattore determinante nella diffusione del contagio.

I dati emersi dalla nostra casistica confermano anche l’importanza della educazione sanitaria e della corretta informazione forniti da circoli ricreativi e associazioni nel favorire la prevenzione.

Un’ulteriore arma attualmente a nostra disposizione per proteggere noi stessi e gli altri è il vaccino contro il SARS-CoV-2. Esso aiuta non solo a prevenire le forme gravi di infezione, ma anche a ridurre la diffusione del SARS-CoV-2. Al momento dell’intervista il vaccino contro SARS-CoV-2 non era disponibile. Nell’ambito del nostro studio abbiamo ottenuto quindi solo dati riguardanti la prevalenza della somministrazione dei vaccini anti-influenzale e anti-pneumococcica: soltanto 408 pazienti sono risultati vaccinati con vaccino anti-influenzale (49,6%), 1 con il solo vaccino anti-pneumococcico, 40 con entrambi i vaccini.

La Tabella III riporta la distribuzione di questi dati nella nostra coorte. Questi dati dimostrano la scarsa adesione a vaccini già fortemente consigliati ai soggetti fragili, e quindi la necessità di far comprendere a tutti, ma soprattutto ai soggetti più fragili, l’importanza dei vaccini, a partire dal vaccino per il SARS-CoV-2 e i vantaggi che essi possono garantire. Sarà quindi necessario comunicare in maniera corretta ed efficace le informazioni relative alle vaccinazioni, in modo tale che tutti, ma soprattutto i soggetti più fragili possano usufruirne.

N° soggetti P_COVID-19
Certa Probabile Improbabile
Nessun vaccino 352 3 8 341
Anti-influenzale o Anti-pneumococco 409 9 12 388
Entrambi i vaccini 40 0 2 38
Tabella III: Prevalenza di infezione da SARS-CoV-2 rispetto alla Probabilità di infezione da SARS-CoV-2 (P_COVID) nei soggetti dello studio FRASNET vaccinati con anti-influenzale e/o con anti-pneumococco

Quindi, proprio in questo momento in cui la variante Omicron sta causando un consistente aumento dei contagi, nonostante siano passati due anni dall’inizio della pandemia, resta fondamentale, per la tutela nostra e di chi ci circonda, non abbassare la guardia e continuare a educare a rispettare le norme e le disposizioni attualmente in vigore.

 

Limitazioni

I dati raccolti non includono eventuali casi asintomatici che non hanno effettuato test sierologici e/o tamponi.

Inoltre, bisogna considerare eventuali imprecisioni nelle risposte fornite al questionario e che alcuni decessi dei mesi di gennaio e febbraio 2020 potrebbero essere comunque dovuti all’infezione da COVID-19.

 

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Frailty score before admission as risk factor for mortality of renal patients during the first wave of the COVID pandemic in London

Abstract

Background: Frailty is a known predictor of mortality and poor outcomes during hospital admission. In this large renal retrospective cohort study, we investigated whether frailer COVID-19 positive renal patients had worse outcomes.

Design: All SARS-Cov-2 positive renal patients aged ≥18 years who presented to the emergency department at the Royal Free Hospital or at the satellite dialysis centres from 10th of March until the 10th of May 2020, with recent data on frailty, were included. The follow up was until 26th of May 2020. Age, gender, ethnicity, body mass index, chronic kidney disease stage, modality of renal replacement therapy, co-morbidities, Rockwood clinical frailty score (CFS), C reactive protein and the neutrophil-to-lymphocyte count were collected at presentation. The primary outcome was the overall mortality rate following COVID-19 diagnosis. Secondary outcomes included the need for hospital admission.

Results: A total of 200 renal patients were SARS-Cov-2 positive. In the 174 patients who had a CFS recorded, the age was 65.4 years ± 15.8 (mean ± SD) and 57,5% were male. At the end of follow up, 26% had died. Frail patients (CFS 5-7) were more than three times more likely to die compared to less frail patients (CFS of 1-4) (odds ratio (OR) 3.3, 95% confidence interval (CI) 1.0-10.6). 118 patients (68%) required admission, but there was no difference in hospital admission rates for frail vs non-frail patients (OR 0.6, CI 0.3-1.7).

Conclusions: Frailty is a better predictor of mortality than age and co-morbidities in COVID-19 positive renal patients.

Keywords: frailty, renal patients, SARS-Cov-2

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in inglese.

Introduction

Frailty is defined as a biologic syndrome of decreased reserve and resistance to stressors, resulting from cumulative declines across multiple physiologic systems and causing vulnerability to adverse outcomes [1].

In a recent systematic review of 32 articles (36,076 participants) the prevalence of frailty ranged from 7% in chronic kidney disease (CKD) stages 1-4 up to 73% in patients on haemodialysis and was associated with increased risk of mortality and hospitalisation [2].

Frailty is not only a challenge for the elderly on renal replacement therapy (RRT). In a prospective cohort of 146 haemodialysis patients, 56.2% were younger than 65 years and 35% were frail, described as a combination of weight loss, weakness, exhaustion and slowed walking speed. In the whole cohort, frailty was associated with a higher risk of death, 2.60-fold (95% CI: 1.04-6.49, P=0.041), and a higher chance of hospitalisation [3]. Clinical frailty scale (CFS) is a clinical scale ranging from one (very fit) up to nine (terminally ill) [4].

In the National Institute for Health and Care Excellence (NICE) guideline for COVID-19 positive patients, the use of CFS is recommended to guide the decision-making process on whether to admit a patient to the intensive care unit or not [5]. According to this guideline, frailty score was associated with in-hospital mortality in a retrospective cohort of 1564 patients [6].

The CFS has been recorded since 2016 for the renal patients at the Royal Free Hospital, so frailty data were available for most patients admitted with COVID-19 infection. The aim of this study was to determine whether preexisting frailty was a risk factor for hospital admissions and mortality in renal patients in the first wave of the COVID pandemic.

 

Material and methods

Ethics statement

This study was conducted in accordance with the principles of the Declaration of Helsinki. This study was approved by the NHS ethics committee 20/SW/0077. Individual patient consent was waved, and data anonymised.

Study population

All SARS-Cov-2 positive renal patients (dialysis 88.5%, CKD patients 7.5% and transplant recipients 4%) aged ≥18 years who presented to the emergency department at the Royal Free Hospital or at the satellite dialysis centres between 10th of March and the 10th of May 2020 and with prior data on frailty were included in the analysis. Patient outcomes were followed until 26th of May 2020.

Data collection and measurements 

Age, gender, ethnicity, body mass index (BMI), CKD stages, modality of renal replacement therapy (including kidney transplantation), history of diabetes, hypertension, coronary artery disease, chronic lung disease, historical clinical frailty scale (CFS), C-reactive protein (CRP) and the neutrophil-to-lymphocyte count (NLR) were collected at presentation. Quantitative real-time PCR (RT-PCR) assay of nasopharyngeal swab were utilised for detection of SARS-Cov-2, using a UK Public Health Authority approved assay. CRP and the neutrophil-to-lymphocyte count (NLR) were measured by standard laboratory techniques.

Outcomes

The primary outcome was the overall mortality rate following a COVID-19 diagnosis. Secondary outcomes included the need for hospital admission due to respiratory failure.

Statistical Methods

Patients were divided in two groups according to their frailty score (group 1: score 1-4, non-frail; group 2: score 5-7, frail). There were no patients with a frailty score >7. Normality of data distribution was assessed using the Shapiro-Wilk test. Comparisons among these two groups were performed using the analysis of variance (ANOVA) or the Kruskal-Wallis test for quantitative parameters and the Chi-squared test or the Fisher’s exact test for qualitative parameters. Logistic regression analysis was performed in order to assess how much each of the included parameters affects the need for admission and mortality. All the tests were two-tailed. The 25th edition of the Statistical Package for Social Sciences (SPSS) (IBM Corporation, Armonk, NY, USA) was used for the statistical analysis. The statistical models were adjusted for gender, age, ethnicity, presence of obesity, diabetes mellitus, hypertension, coronary heart disease and chronic lung disease, renal treatment group (CKD, dialysis, transplant), as well as NLR and CRP on presentation.

 

Results

200 SARS-Cov-2 positive renal patients were admitted during the study period. 174 patients had a prior CFS score recorded (Figure 1). There were 154 dialysis patients, 13 patients with CKD and 7 kidney transplant recipients. Of the 26 patients who did not have a frailty score recorded 16 (61.5%) had CKD, 2 (7.7%) were on dialysis and 8 (30.8%) were transplant recipients. The majority of patients were >65-year-old and male (57.5%); 37.4% were black (Table I). The most common comorbidities were hypertension (82.8%) and diabetes (55.2%). Obesity was considered as a BMI ≥30 and was present in 35.3%. The mean CFS was 4.8 ± 1.5 (mean ± SD). Patients with a frailty score of 5-7 were older, had more diabetes, coronary disease, chronic pulmonary disease and a higher CRP levels compared to those patients with a frailty score of 1-4 (Table I).

Figure 1: Number of patients in the cohort
Figure 1: Number of patients in the cohort
Parameter All patients Frailty score 1-4 (N=72) Frailty score 5-7 (N=102) P-value
Gender

Male

Female

 

100 (57.5%)

74 (42.5%)

 

42 (58.3%)

30 (41.7%)

 

58 (56.9%)

44 (43.1%)

 

 

0.847

Age (years)

Mean ± SD

Median (min-max)

 

65.4 ± 15.8

67 (20-99)

 

56.3 ± 14.5

55 (20-86)

 

71.5 ± 13.6

73 (29-99)

 

 

<0.001

Ethnicity

White

Black

Asian

 

61 (35.1%)

65 (37.4%)

48 (27.6%)

 

27 (37.5%)

32 (44.4%)

13 (18.1%)

 

34 (33.3%)

33 (32.4%)

35 (34.3%)

 

 

 

0.052

Obesity

No

Yes

 

110 (64.7%)

60 (35.3%)

 

48 (66.7%)

24 (33.3%)

 

62 (63.3%)

36 (36.7%)

 

 

0.647

Renal group

CKD

Dialysis

Transplant

 

13 (7.5%)

154 (88.5%)

7 (4%)

 

4 (5.6%)

62 (86.1%)

6 (8.3%)

 

9 (8.8%)

92 (90.2%)

1 (1%)

 

 

 

0.052

Diabetes mellitus

No

Yes

 

78 (44.8%)

96 (55.2%)

 

41 (56.9%)

31 (43.1%)

 

37 (36.3%)

65 (63.7%)

 

 

0.007

Hypertension

No

Yes

 

30 (17.2%)

144 (82.8%)

 

15 (20.8%)

57 (79.2%)

 

15 (14.7%)

87 (85.3%)

 

 

0.292

Coronary disease

No

Yes

 

120 (69%)

54 (31%)

 

57 (79.2%)

15 (20.8%)

 

63 (61.8%)

39 (38.2%)

 

 

0.015

Chronic lung disease

No

Yes

 

151 (86.8%)

23 (13.2%)

 

67 (93.1%)

5 (6.9%)

 

84 (82.4%)

18 (17.6%)

 

 

0.04

NLR

Mean ± SD

Median (min-max)

 

8.2 ± 10.8

5.5 (0.3-78.8)

 

6.9 ± 7.4

5.4 (0.8-50.2)

 

9.1 ± 12.5

5.7 (0.3-78.8)

 

 

0.437

CRP

Mean ± SD

Median (min-max)

 

93.7 ± 86.4

62.5 (1-402)

 

71.7 ± 78.5

40 (1-402)

 

108.5 ± 88.7

82 (3-346)

 

 

0.002

Frailty score

Mean ± SD

Median (min-max)

 

4.8 ± 1.5

5 (1-7)

Table I: Patient characteristics and analysis frailty scores

Mortality

At the end of follow up, 26% (44/174) of the patients had died. Except for 2 patients, all died within 28 days of follow up. The crude odds ratio (OR) for mortality was 5.3 (95% CI 2.2-12.7; p <0.001) for CFS 5-7 compared with CFS of 1-4. Compared to patients younger than 65 years, the crude OR was 2.6 (95% CI 1.2-5.7; p=0.013) for those aged 65-80 years and 4.5 (95% CI 2.0-10.4; p <0.001) for those aged >80. The presence of coronary disease, chronic lung disease, NLR >10 and CRP >50 mg/L at presentation were also associated with increased mortality in the unadjusted analysis (Table II). After adjusting for other factors, frailty was associated with mortality for CFS 5-7 OR 3.3 (95% CI 1.0-10.6) compared with CFS 1-4. The only other factors that remained statistically significant were a NLR >10 and CRP >50 mg/L (Table II). There was no significant difference between the number of admissions to the intensive care unit for the frail (4.9%) versus the non-frail (12.5%) patients (p=0.07).

Parameter Unadjusted Adjusted
OR 95% CI P-value OR 95% CI P-value
Frailty score (reference: 1-4)

5-7

 

5.286

 

2.197-12.717

 

<0.001

 

3.311

 

1.033-10.607

 

0.044

Gender (reference: male)

Female

 

0.612

 

0.316-1.188

 

0.147

 

0.828

 

0.302-2.266

 

0.713

Age (reference: ≤65)

65-80

>80

 

2.635

4.527

 

1.226-5.665

1.972-10.392

 

0.013

<0.001

 

0.731

3.162

 

0.223-2.395

0.773-12.94

 

0.604

0.109

Ethnicity (reference: White)

Black

Asian

 

0.591

1.164

 

0.271-1.292

0.547-2.474

 

0.188

0.693

 

0.737

0.808

 

0.239-2.273

0.246-2.657

 

0.595

0.726

Obesity (reference: no)

Yes

 

0.583

 

0.277-1.228

 

0.156

 

0.786

 

0.269-2.303

 

0.661

Renal group (reference: CKD)

Dialysis

Transplant

 

0.633

0.691

 

0.271-1.478

0.174-2.738

 

0.291

0.599

 

5.172

4.788

 

0.47-56.913

0.137-167.752

 

0.179

0.388

Diabetes mellitus (reference: no)

Yes

 

1.213

 

0.643-2.29

 

0.552

 

0.97

 

0.331-2.836

 

0.955

Hypertension (reference: no)

Yes

 

0.898

 

0.411-1.962

 

0.788

 

1.365

 

0.336-5.549

 

0.663

Coronary disease (reference: no)

Yes

 

2.552

 

1.321-4.93

 

0.005

 

2.607

 

0.875-7.762

 

0.085

Chronic lung disease (reference: no)

Yes

 

3.017

 

1.278-7.123

 

0.012

 

1.524

 

0.442-5.252

 

0.504

NLR (reference: ≤10)

>10

 

6.776

 

2.866-16.023

 

<0.001

 

4.87

 

1.376-17.24

 

0.014

CRP (reference: ≤50)

>50

 

6.502

 

2.846-14.855

 

<0.001

 

4.442

 

1.556-12.676

 

0.005

Table II: Mortality

Hospital admission

118 patients (68%) required hospital admission. All patients were admitted within one week of the positive COVID test except for 3 (respectively after 8, 9, and 15 days). The crude OR for hospital admission for CFS 5-7, compared with CFS of 1-4, was 1.6 (95% CI 0.85-3.0; p=0.15). Hospital admission was greater for those aged 65-80 years compared to patients younger than 65 (crude OR was 1.6 (95% CI 0.8-3.2; p=0.168)) and even higher for those aged >80 (OR 12.6 (95% CI 2.9-55.1; p=0.001)). NLR >10 and CRP >50 mg/L were also associated with a greater need for hospital admission, as was treatment by haemodialysis. However, the dialysis group was the largest, and the frailty scores were higher. After adjusting for other covariates, only age >80 years and CRP >50 mg/L remained independent factors associated with hospital admission (Table III).

Parameter Unadjusted Adjusted
OR 95% CI P-value OR 95% CI P-value
Frailty score (reference: 1-4)

5-7

 

1.602

 

0.845-3.038

 

0.149

 

0.693

 

0.287-1.676

 

0.416

Gender (reference: male)

Female

 

0.736

 

0.398-1.36

 

0.327

 

0.943

 

0.411-2.166

 

0.89

Age (reference: ≤65)

65-80

>80

 

1.616

12.559

 

0.817-3.194

2.864-55.08

 

0.168

0.001

 

1.292

19.292

 

0.52-3.212

2.107-176.623

 

0.581

0.009

Ethnicity (reference: White)

Black

Asian

 

0.503

0.811

 

0.241-1.049

0.364-1.808

 

0.067

0.609

 

1.026

1.018

 

0.378-2.785

0.344-3.01

 

0.959

0.975

Obesity (reference: no)

Yes

 

0.72

 

0.38-1.366

 

0.315

 

0.967

 

0.404-2.315

 

0.94

Renal group (reference: CKD)

Dialysis

Transplant

 

0.066

0.143

 

0.009-0.495

0.013-1.516

 

0.008

0.106

 

0.5

1.532

 

0.031-8.146

0.041-57.719

 

0.626

0.818

Diabetes mellitus (reference: no)

Yes

 

1.696

 

0.919-3.128

 

0.091

 

1.768

 

0.682-4.581

 

0.241

Hypertension (reference: no)

Yes

 

0.925

 

0.426-2.007

 

0.843

 

0.687

 

0.212-2.221

 

0.53

Coronary disease (reference: no)

Yes

 

2.022

 

0.981-4.167

 

0.056

 

1.53

 

0.53-4.418

 

0.432

Chronic lung disease (reference: no)

Yes

 

2.406

 

0.788-7.344

 

0.123

 

1.569

 

0.327-7.532

 

0.574

NLR (reference: ≤10)

>10

 

5.637

 

1.287-24.684

 

0.022

 

2.829

 

0.517-15.47

 

0.23

CRP (reference: ≤50)

>50

 

4.596

 

2.287-9.236

 

<0.001

 

3.877

 

1.688-8.902

 

0.001

Table III: Need for admission

 

Discussion

This paper reports on the impact of pre-existing frailty in COVID-19 positive renal patients with CKD, kidney transplant and on renal replacement therapy, and the positive association with mortality. The prevalence of frailty, defined as CFS >4, was 58.6% in our cohort of patients compared to 49.9% from a retrospective study of 1564 patients admitted to European hospitals with COVID-19 [6]. We report a mortality of 26.0% in our cohort, which included CKD, kidney transplant recipients and patients receiving renal replacement therapy. This is comparable to the mortality reported in a UK study of 20133 participants, 26% [7] and with that reported in a cohort of 1564 admitted patients in Italy, 27.2% [6]. These populations, however, were quite different to our cohort with respect to CKD. The first cohort had 16% patients with CKD and the second one 36.4% CKD (eGFR <60 mL/min per 1.73 m2).

As for two smaller studies reporting exclusively on COVID-19 positive patients receiving renal replacement therapy, Valeri et al. reported a mortality of 31% in 59 patients [8] and Goicoechea et al. of 30.5% in 39 hemodialysis patients [9]. The small differences could be due to the fact that our cohort was more mixed, included CKD patients as well as kidney transplant recipients and was younger (65.4 +/- 15.8) compared to the cohort of Goicoechea et al. (mean age 71 +/- 12). Similar data on mortality, as compared to our cohort, were reported in 44 patients on maintenance haemodialysis in Paris: 27.3% [10]. The most common comorbidities in our cohort were hypertension (82.8%) and diabetes (55.2%). This was quite similar to the other 3 cohorts: in the cohort by Valeri et al. 98% had hypertension and 69% had diabetes [8]; 97% had hypertension and 64% had diabetes in the cohort by Goicoechea et al. [9]; 97.7% had hypertension and 50% diabetes mellitus in the cohort by Tortonese et al. [10]. Two of the tree studies analysed only admitted patients [8,9]. Only in the French study the admission rate was reported 93.2% [9] compared to 67% in our cohort. Explanations for this phenomenon could be a more mixed group in our study and relatively more comorbidity, especially chronic cardiac disease (38.6%) and respiratory (27.3%) diseases, in the French cohort compared to our cohort (31% and 13,2% respectively).

A part of our cohort has already been described by Hendra et al. [11]. 148 out of 746 hemodialysis developed symptomatic COVID-19, 93 of whom (62.8%) required hospital admission. Frailty was a predictor for mortality, however no comparison between frail and the non-frail group was performed.

Data on frailty are available from the ERACODA (European Renal Association COVID-19 Database) [12]. Of the 1073 patients with a previous frailty score enrolled 305 (28%) were kidney transplant and 768 (72%) received dialysis. The 28 days mortality was 21.3% for kidney transplant recipients and 25% for dialysis patients. Advanced age and frailty (CFS >4) were predictors for mortality in dialysis patients. While hypertension, diabetes mellitus, coronary artery disease, heart failure and chronic lung disease did not emerge as independent risk factors. These findings are comparable to ours. No formal analysis for the difference between frail and non-frail patients was however performed.

The strengths of our study are the large number of renal patients included and the pre-existing frailty score. There are no data available yet on pre-existing frailty in renal patients and COVID-19 positive patients from other studies. The main limitation is, of course, that this is a single centre retrospective experience.

 

Conclusions

Frailty is a better predictor of mortality than age and co-morbidities in COVID-19 positive renal patients. Frailty is associated with death and hospitalisation in dialysis patients [2,3].

Since there has been a 13-fold increase of ESRD patients aged >75 in the past 3 decades [13] we need to be aware that common renal practice has shifted from general nephrology to the field of geriatric nephrology and, as such, frailty has become a better predictor of mortality compared to age, gender, ethnicity, or comorbidities. In the future, frailty could be used as a prognostic factor and interventions could be designed to reduce the burden that comes with it.

 

References

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  2. Chowdhury R, Peel NM, Krosch M, et al. Frailty and chronic kidney disease: A systematic review. Arch Gerontol Geriatr 2017 Jan-Feb; 68:135-42. https://doi.org/10.1016/j.archger.2016.10.007
  3. McAdams-DeMarco MA, Law A, Salter ML, et al. Frailty as a novel predictor of mortality and hospitalization in individuals of all ages undergoing hemodialysis. J Am Geriatr Soc 2013 Jun; 61(6):896-901. https://doi.org/10.1111/jgs.12266
  4. Dalhousie University, Clinical Frailty Scale. https://www.dal.ca/sites/gmr/our-tools/clinical-frailty-scale.html
  5. National Institute for Health and Care Excellence. COVID-19 rapid guideline: critical care in adults. 2020. https://www.nice.org.uk/guidance/ng159
  6.  Hewitt J, Carter B, Vilches-Moraga A, et al. The effect of frailty on survival in patients with COVID-19 (COPE): a multicentre, European, observational cohort study. Lancet Public Health 2020 Aug; 5(8):e444-51. https://doi.org/10.1016/S2468-2667(20)30146-8
  7. Docherty AB, Harrison EM, Green CA, et al. Features of 20 133 UK patients in hospital with covid-19 using the ISARIC WHO Clinical Characterisation Protocol: prospective observational cohort study. BMJ 2020 May 22; 369:m1985. https://doi.org/10.1136/bmj.m1985
  8. Valeri AM, Robbins-Juarez SY, Stevens JS, et al. Presentation and Outcomes of Patients with ESKD and COVID-19. J Am Soc Nephrol 2020 Jul; 31(7):1409-15. https://doi.org/10.1681/ASN.2020040470
  9. Goicoechea M, Sánchez Cámara LA, Macías N, et al. COVID-19: clinical course and outcomes of 36 hemodialysis patients in Spain. Kidney Int 2020 Jul; 98(1):27-34. https://doi.org/10.1016/j.kint.2020.04.031
  10. Tortonese S, Scriabine I, Anjou L, et al. COVID-19 in Patients on Maintenance Dialysis in the Paris Region. Kidney Int Rep 2020 Sep; 5(9):1535-44. https://doi.org/10.1016/j.ekir.2020.07.016
  11. Hendra H, Vajgel G, Antonelou M, et al. Identifying prognostic risk factors for poor outcome following COVID-19 disease among in-centre haemodialysis patients: role of inflammation and frailty. J Nephrol 2021 Jan 30; 34:315-23. https://doi.org/10.1007/s40620-020-00960-5
  12. Hilbrands LB, Duivenvoorden R, Vart P, et al. COVID-19-related mortality in kidney transplant and dialysis patients: results of the ERACODA collaboration. Nephrol Dial Transplant 2020 Nov 1; 35(11):1973-83. http://doi.org/10.1093/ndt/gfaa261
  13. Vandecasteele SJ, Tamura MK. A Patient-Centered Vision of Care for ESRD: Dialysis as a Bridging Treatment or as a Final Destination? J Am Soc Nephrol 2014 Aug; 25(8):1647-51. https://doi.org/10.1681/ASN.2013101082

Vaccino anti Covid-19 e malattia renale, stato dell’arte: dalle paure alla consapevolezza per ristabilire le vere priorità

Abstract

L’infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19) ha colpito circa 124 milioni di persone nel mondo con circa 2.7 milioni di decessi. Una caratteristica enigmatica dell’infezione è l’ampia variabilità clinica, dalla totale assenza di sintomi a forme gravi con compromissione multiorgano ed esito fatale. Molti studi hanno evidenziato come l’insufficienza renale rappresenti un fattore di rischio importantissimo per lo sviluppo delle forme severe di malattia e l’aumentata mortalità. Una preesistente nefropatia o un danno renale acuto sono stati infatti significativamente correlati con un elevato rischio di morte per Covid-19.

Uno studio effettuato dalla Società Italiana di Nefrologia ha riportato una mortalità dieci volte maggiore tra i pazienti dializzati rispetto alla popolazione generale, specialmente nella seconda fase della pandemia (26% vs 2.4%). Questi numeri richiedono una risposta tempestiva.

Attualmente esistono tre vaccini approvati già in corso di somministrazione, Pfizer-BioNTech e Moderna, con lo stesso meccanismo d’azione e Il vaccino Vaxzevria (AstraZeneca), che sfrutta una tecnologia più tradizionale. Tutti i vaccini sono sicuri, ognuno con le proprie caratteristiche: AIFA ha suggerito di utilizzare quelli a mRNA per i pazienti anziani e fragili e riservare Vaxzevria per i pazienti maggiori di 18 anni. Il futuro è luminoso, ci sono tanti altri vaccini in fase di studio, i cui risultati preliminari sono promettenti; una parte di questi potrebbero essere approvati a breve per l’utilizzo su larga scala.

L’alta morbidità e mortalità dei pazienti affetti da malattia renale cronica e dializzati dovrebbero imporre la massima priorità per la vaccinazione contro SARS-CoV-2.

Parole chiave: SARS-CoV-2 (Covid-19), insufficienza renale cronica, vaccino

Introduzione

L’infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19) ha colpito circa 124 milioni di persone nel mondo e si contano a tutt’oggi circa 2.7 milioni di decessi. Una caratteristica ancora enigmatica di tale infezione è l’ampia gamma di manifestazioni cliniche che variano dalla pressoché totale assenza di sintomi a forme estremamente gravi con compromissione multiorgano dall’esito inesorabilmente fatale [1]. L’elevata frequenza di infezioni asintomatiche inoltre ha indubbiamente contribuito alla rapida diffusione mondiale di SARS-CoV-2. Il principale quesito clinico a cui dare una risposta resta quindi ancora strettamente legato alla individuazione precoce dei soggetti ad alto rischio di sviluppare malattia grave. Questi individui possono trarre particolare vantaggio dall’isolamento precauzionale e soprattutto essere un gruppo prioritario per la vaccinazione [1].

 

Sebbene l’età sia il principale fattore di rischio, è stato osservato che anche gli anziani possono essere asintomatici, paucisintomatici o presentare una malattia lieve dando origine a ulteriore diffusione del virus [2].

Il livello di esposizione al virus e la carica virale, nonché fattori genetici e immunologici ancora non del tutto delineati, molto probabilmente giocano un ruolo importante, ma è stato sicuramente osservato che alcune patologie concomitanti predispongano con una elevata probabilità a sviluppare una forma di malattia più grave e spesso mortale. Diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari sono stati elencati come fattori di rischio per forma grave di malattia sin dalla prima segnalazione nel gennaio 2020 [2].

Analizzando infatti i dati di oltre 65.000 pazienti provenienti da 25 studi in tutto il mondo, è stato evidenziato che il rischio di morte per Covid-19 viene raddoppiato dalla presenza di altre condizioni preesistenti, in particolar modo le patologie cardiovascolari. Questo risultato è stato ottenuto grazie a una ricerca nei database MEDLINE, SCOPUS, OVID, Cochrane Library e medrxiv.org dal 1° dicembre 2019 al 9 luglio 2020.

Soltanto più recentemente, la malattia renale cronica (CKD) è stata individuata come il fattore di rischio più comune, dopo l’età avanzata, per forma severa di malattia. È emerso infatti che i soggetti affetti da CKD presentano un rischio di mortalità tre volte maggiore rispetto alla popolazione generale [3,4].

 

Malattia renale e suscettibilità alle infezioni

I pazienti affetti da malattia renale, acuta e cronica, generalmente presentano di per sé un’aumentata mortalità rispetto alla popolazione generale [5], a causa di problemi correlati all’aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e tumorali, ma anche sicuramente alla maggiore incidenza di complicanze infettive.

È stato osservato che i pazienti affetti da CKD non in dialisi hanno un rischio 3-4 volte maggiore dei pazienti con normale funzione renale di essere ricoverati per cause infettive, rischio che diventa 8 volte maggiore nei pazienti dializzati [6]. Inoltre, i pazienti affetti da CKD presentano una mortalità maggiore per polmonite rispetto alla popolazione generale [7]. Peraltro, lo stress fisiologico causato dalla risposta infiammatoria a un processo infettivo potrebbe ulteriormente indebolire organi già deficitari a causa della malattia renale o peggiorare la funzione renale stessa [5].

Le cause di questa maggiore predisposizione possono essere molteplici e, in particolare, non vanno dimenticate le patologie alla base della CKD, come per esempio il diabete mellito o le glomerulonefriti a genesi autoimmune, per citarne alcune; tali comorbilità possono giustificare un deficit immunitario di per sé o in ragione delle terapie messe in atto. Inoltre, la stasi di fluidi a livello polmonare, caratteristica dello scompenso cardiaco (spesso associato alla CKD) o dell’uremia terminale, sono una ragione ulteriore di abbassamento delle difese locali.

Il deficit immunitario dei pazienti insufficienti renali sembra essere correlato a un deficit delle cellule presentanti l’antigene (APC), che impediscono un’adeguata attivazione T-cellulare, più che a un deficit specifico di questa popolazione linfocitaria. Tale deficit può spiegare infatti anche una ridotta risposta ai vaccini antivirali da parte dei pazienti CKD [8]. Inoltre, tali pazienti presentano anche un elevato grado di infiammazione sistemica multi-fattoriale che sopprime a sua volta la risposta immunitaria, oltre ad avere grosse implicazioni cardiovascolari, come detto sopra [9].

Ciononostante, la vaccinazione antinfluenzale sembra essere efficace nel ridurre significativamente la mortalità nei pazienti dializzati [10] e insufficienti renali in stadio avanzato, per cui ormai da anni le linee guida KDIGO la raccomandano per tutti i pazienti affetti da CKD, salvo controindicazioni specifiche [11].

 

Malattia renale e infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19)

Nel caso di SARS-CoV-2 l’ipotesi di una particolare suscettibilità all’infezione e allo sviluppo di complicanze più gravi da parte dei pazienti affetti da malattia renale risulta ulteriormente coerente con il fatto che rene e cuore presentano la più alta espressione di recettori ACE2, a cui è stato appunto dimostrato che il virus si lega [12]. Questo si traduce clinicamente in forme più importanti di infezione e maggior tasso di ospedalizzazione e mortalità nei pazienti che presentano una preesistente nefropatia.

L’infezione da SARS-CoV-2 può essere essa stessa causa di danno renale acuto (AKI), ma è sicuramente un fattore di rischio indipendente di elevata mortalità nei pazienti con nefropatia preesistente. I recettori ACE2, il danno virale diretto e il danno immuno-mediato svolgono ruoli importanti nella correlazione tra malattia renale e infezione severa [3]. L’AKI nel corso dell’infezione potrebbe derivare dall’effetto sinergico citotropico del virus e dalla risposta sistemica infiammatoria secondaria all’attivazione citochinica. Sono stati riportati casi di Collapsing Glomerulopathy in alcune biopsie renali di pazienti, come variante della glomerulosclerosi segmentale focale indotta dal danno virale [13,14].

L’incidenza di AKI in base agli studi epidemiologici disponibili è infatti significativamente più alta nel contesto di infezione più severa [1517]. Altri possibili meccanismi responsabili di AKI potrebbero essere ricondotti a necrosi tubulare acuta (ATN), a insufficienza multiorgano e a stato di shock. Anche la tossicità delle terapie e l’eventuale esposizione al mezzo di contrasto per esami di imaging possono certamente svolgere un ruolo [18].

L’impatto dell’infezione da SARS-CoV-2 sulla CKD è parimenti molto importante. Numerosi studi hanno documentato una mortalità significativamente maggiore in questa coorte di pazienti. È stata riportato che l’incidenza di AKI è sicuramente più elevata nei pazienti già affetti da CKD. Per contro, l’incidenza di CKD residuata in seguito a danno renale acuto in corso di Covid-19 è risultata variabile dallo 0,7-47,6%, in base agli studi effettuati [19,20].

È stato inoltre osservato che la malattia renale e il danno renale acuto sono sicuramente associati a un più alto rischio di morte nei pazienti Covid-19. Un recente studio condotto nel Regno Unito in ambiente intensivo ha infatti esaminato l’associazione tra malattia renale ed esiti clinici sfavorevoli nei pazienti con Covid-19. Il lavoro, condotto all’Imperial College di Londra, ha contato 372 pazienti affetti da Covid-19 (per il 72% uomini, media di circa 60 anni) ricoverati in terapia intensiva in quattro ospedali in UK dal 10 marzo al 23 luglio 2020 [21]. Nel 58% (216) dei pazienti è stata riscontrata insufficienza renale in diverso stadio. Nel 45% si è assistito all’insorgenza di danno renale acuto (AKI), mentre il 13% era già noto per una nefropatia preesistente. Nei pazienti che hanno presentato AKI, non era nota alcuna malattia renale antecedente al loro ricovero in terapia intensiva, suggerendo che il danno sia stato direttamente indotto dall’infezione. La mortalità osservata è stata invece assolutamente maggiore nel gruppo con malattia renale preesistente, confermando questa come uno dei fattori di rischio principali per lo sviluppo di infezione grave a prognosi sfavorevole [21].

La medesima evidenza è stata confermata da Fominskiy et al [22] in uno studio condotto su 195 pazienti affetti da Covid-19 e ricoverati presso reparti di terapia intensiva dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano nel corso della prima ondata. È stato infatti riportato che 3 su 4 pazienti sottoposti a ventilazione invasiva hanno sviluppato danno renale acuto, di cui 1 su 6 è stato trattato con terapia renale sostitutiva in continuo (CRRT). I pazienti con AKI hanno presentato una mortalità approssimativamente del 40% e i pazienti trattati con CRRT di circa il 50% [22].

Gli studi hanno confermato l’età avanzata come importante fattore di rischio per AKI e necessità di CRRT, ma tale fattore di rischio è risultato nettamente aumentato se in presenza di preesistente nefropatia, confermando l’insufficienza renale come fattore prognostico assolutamente sfavorevole di per sé [15,23,24].

Certamente va ricordato che molti pazienti con malattia renale cronica presentano comorbilità multiple come diabete e ipertensione, che possono ulteriormente predisporli a Covid-19. Una recente meta-analisi ha mostrato infatti che circa il 20% dei pazienti con CKD che hanno contratto Covid-19 soffriva contestualmente di altre patologie gravi con un rischio 3 volte superiore rispetto però a quelli senza CKD [25].

Va segnalato inoltre l’impatto del Covid-19 sulla popolazione di nefropatici nel nostro paese. Gli effetti dell’epidemia sui pazienti dializzati, secondo quanto evidenziato e riportato da un’indagine dalla Società Italiana di Nefrologia, sono stati decisamente importanti. Fra i dializzati si è infatti registrata una mortalità dieci volte superiore a quella a oggi stimata nella popolazione generale, soprattutto durante la seconda fase della pandemia (26% vs 2.4%) [26]. L’analisi è stata condotta su pazienti con malattia renale in stadio avanzato, pazienti in emodialisi, emodialisi domiciliare, dialisi peritoneale e trapiantati. I dati hanno documentato che nel corso della seconda ondata il numero totale dei pazienti affetti da insufficienza renale con tampone positivo è quadruplicato: il numero dei pazienti in emodialisi positivi è passato dal 3,4% della prima ondata all’11,6% della seconda ondata; il numero dei pazienti in dialisi peritoneale e domiciliare è andato dall’1,3% al 6,8%. È stato documentato inoltre un picco pure per i pazienti trapiantati, la cui positività è passata dallo 0.8% al 5%. I dati rilevati hanno inoltre documentato un rischio di mortalità estremamente elevato per i malati affetti da CKD (soprattutto dializzati e trapiantati).

Con particolare riferimento ai pazienti trapiantati di rene, è noto da precedenti epidemie di coronavirus diverse da Covid-19 come questi pazienti siano particolarmente suscettibili, anche in relazione alle concomitanti terapie immunosoppressive [27,28]. I pazienti trapiantati sono a maggior rischio di infezione, in particolare per la depressione della risposta immunitaria T-cellulare secondaria all’immunosoppressione. Il rischio è più elevato durante i primi 3 mesi dopo il trapianto, in particolare se i pazienti ricevono una terapia di induzione con agenti che riducono i linfociti [29,30]. Pertanto, durante la pandemia Covid-19, il trapianto di rene elettivo deve essere eseguito con cautela e spesso ritardato.

Nei casi di Covid-19 relativi a pazienti trapiantati sono stati descritti sintomi iniziali lievi, come febbre di basso grado, tosse lieve e normale conteggio dei globuli bianchi, verosimilmente a causa dell’effetto inibitorio della terapia immunosoppressiva sulla tempesta citochinica [29]. Quindi, anche i sintomi lievi o atipici non dovrebbero essere sottovalutati e non possono escludere un successivo decorso insidioso e dall’esito fatale.

Pertanto, i pazienti affetti da insufficienza renale rappresentano realmente una coorte di soggetti estremamente a rischio a cui è necessario prestare massima attenzione, adottando ogni sforzo per prevenire la progressione della malattia o del danno al fine di ridurne la mortalità. L’elevata prevalenza di CKD in combinazione con l’elevato rischio di mortalità da SARS-CoV-2 richiede quindi un’azione urgente di tipo preventivo, prima ancora che terapeutico.

Figura 1: Insufficienza renale come fattore di rischio di mortalità in corso di Covid-19
Figura 1: Insufficienza renale come fattore di rischio di mortalità in corso di Covid-19

Vaccini anti SARS-CoV-2 attualmente disponibili

I vaccini si configurano da sempre come un bene fondamentale oltre che come la strategia principale con cui l’umanità è riuscita a sconfiggere molte malattie infettive. In soli undici mesi è stato ottenuto un vaccino e questo ha rappresentato una conquista senza precedenti [31].

Il vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), noto come Pfizer-BioNTech, è stato il primo vaccino disponibile in Italia ai soggetti a partire dai 16 anni di età per prevenire Covid-19 [32,33]. Il vaccino è stato autorizzato da EMA (European Medicines Agency – Agenzia Europea per i Medicinali) [34] e AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) [35,36]. Per la sua realizzazione sono state regolarmente rispettate tutte le abituali fasi di verifica finalizzate alla valutazione di sicurezza e di efficacia [37]. In Italia la sua somministrazione è stata avviata il 27 dicembre, secondo il piano nazionale di vaccinazione che prevede più tappe.

Il vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è stato il primo ad arrivare in Italia, seguito da Covid-19 Vaccine mRNA-1273, noto più comunemente come vaccino Moderna e con il medesimo meccanismo d’azione [37], approvato da EMA il 6 gennaio 2021 [38] e da AIFA il giorno successivo [39].

Ma come si comporta SARS-CoV-2 all’interno dell’organismo? E come funzionano i vaccini a disposizione? La singola particella di SARS-CoV-2 ha forma rotondeggiante e sulla sua superficie presenta delle “punte” rendono il virus simile a una corona (da cui il nome Coronavirus) [37]. La proteina Spike presente sulle punte si lega all’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2) presente sulle cellule dell’epitelio polmonare, ed entra nella cellula impedendo all’enzima di esplicare la propria funzione protettiva verso infezioni ed agenti esterni. La proteina Spike può essere quindi paragonata a una chiave che consente l’inclusione del virus nelle cellule dell’organismo. Dentro la cellula il virus rilascia la propria identità genetica (RNA) e induce la cellula alla produzione di proteine virali che generano nuovi coronavirus: questi a loro volta infettano altre cellule, sostenendo quindi il processo alla base della malattia [3,20].

I vaccini Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) e Covid-19 mRNA-1273 sono stati pensati per stimolare una risposta immunitaria atta a neutralizzare la proteina Spike, al fine di inibire l’infezione delle cellule. Essi contengono le molecole di RNA messaggero (mRNA), ossia le “istruzioni” necessarie per costruire le proteine Spike del virus SARS-CoV-2. Le molecole di mRNA sono inserite in una vescicola lipidica che protegge l’mRNA stesso per evitarne la degradazione da parte delle difese immunitarie, in quanto riconosciuto come estraneo all’organismo [32,33,40]. All’interno dell’organismo, il mRNA è internalizzato nel citoplasma delle cellule e induce la creazione della sola proteina Spike, che, riconosciuta estranea, stimola la produzione di anticorpi specifici. Con il vaccino quindi si inocula nelle cellule solamente l’informazione genetica fondamentale per costruire copie della proteina Spike [32,33,40]. La vaccinazione inoltre determina anche una attivazione delle cellule T che preparano le cosiddette “cellule di memoria” del sistema immunitario. Dopo aver svolto l’azione di induzione anticorpale, il mRNA del vaccino si degrada naturalmente nell’arco di pochi giorni. Non esiste pertanto alcun rischio che venga integrato nel DNA delle cellule dell’organismo in via definitiva. Il vaccino Covid-19 m RNA BNT162b2 (Comirnaty) prevede due somministrazioni a distanza di almeno 21 giorni l’una dall’altra.

Il vaccino Pfizer BioNTech e il Moderna sono sicuri, come conferma anche il New England Journal of Medicine [33]. Il dubbio mediaticamente espresso su una troppo rapida produzione e distribuzione di questo vaccino può essere facilmente fugato. Gli studi sui vaccini anti Covid-19 hanno avuto inizio nel corso della prima ondata e certamente sono durati un periodo relativamente breve rispetto ai tempi abituali. Questo perché gli studi hanno coinvolto un numero di soggetti dieci volte maggiore rispetto a quanto osservato in studi analoghi standardizzati per la messa a punto di altri vaccini. È stato pertanto condotto un lavoro di enormi proporzioni, sufficienti documentare l’efficacia e la sicurezza del vaccino, senza saltare nessuna fase sperimentale normalmente prevista [40]. A questo ha indubbiamente contribuito anche la ricerca precedentemente effettuata su altri vaccini a RNA, frequentemente usati in malattie tumorali, e anche le enormi risorse umane ed economiche messe a disposizione rapidamente, non ultima la tempestiva supervisione delle agenzie regolatorie. Tutti questi fattori insieme hanno reso possibile risparmiare anni sui tempi di approvazione, in un momento storico che rendeva necessario l’avvio della campagna vaccinale quanto prima.

Gli studi si sono svolti in sei Paesi: Stati Uniti, Germania, Brasile, Argentina, Sudafrica e Turchia, con l’adesione di più di 44mila persone. La metà dei soggetti ha ricevuto il vaccino, l’altra metà ha ricevuto un placebo. La stima dell’efficacia è stata valutata su oltre 36mila persone a partire dai 16 anni di età (compresi soggetti di età superiore ai 75 anni) in assenza di segni di precedente infezione [33]. È stato quindi dimostrato che il numero di casi sintomatici di Covid-19 si è ridotto del 95% nei soggetti che hanno ricevuto il vaccino rispetto a quelli che hanno ricevuto il placebo [41].

Il vaccino è stato somministrato inizialmente in modalità prioritaria alle categorie più a rischio, in primis agli operatori sanitari. Attualmente, è disponibile su larga scala. Va segnalato inoltre un recente studio del Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie [42] che rileva come i vaccini mRNA Covid-19 siano molto efficaci nel prevenire la malattia tra sanitari e operatori essenziali. Lo studio ha dimostrato che la vaccinazione parziale con un vaccino mRNA ha ridotto il rischio di infezione del 80% (due settimane dopo la singola dose), mentre la vaccinazione completa ha abbattuto il rischio di infezione del 90% (due settimane dopo la seconda dose).

Per quanto riguarda le prospettive future, un terzo vaccino con tecnologia RNA è il CVnCoV, sviluppato dalla farmaceutica tedesca CureVac e dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovation (CEPI), ed è in attesa di autorizzazione da parte di EMA dal febbraio 2021 [43].

Un’altra tipologia di vaccino anti SARS-Cov-2 attualmente a disposizione è il vaccino Covid-19 AstraZeneca, approvato in prima battuta da EMA [44] e da AIFA [36] rispettivamente in data 29 e 30 gennaio 2021, destinato ai soggetti di età pari o superiore ai 18 anni [45]. Questo vaccino ha un meccanismo sostanzialmente differente dai precedenti. È composto infatti da un adenovirus di scimpanzé incapace di replicarsi (ChAdOx1 – Chimpanzee Adenovirus Oxford 1) e modificato per veicolare l’informazione genetica destinata a produrre la proteina Spike del virus SARS-CoV-2. In sintesi, l’adenovirus è stato geneticamente modificato per sostituire una delle proteine dell’adenovirus con la proteina Spike del SARS-CoV-2, verso cui si genererà la risposta immunitaria nell’organismo ospite [45].

Quale è il potenziale vantaggio di questo approccio rispetto a quello usato per gli altri vaccini? Uno è indubbiamente la maggiore stabilità dell’“involucro” del vaccino, in quanto rappresentato da un altro agente virale: mentre gli altri vaccini richiedono per la loro conservazione temperature molto basse, questo tipo di vaccino può essere invece tranquillamente conservato sei mesi in un comune frigorifero [45].

Quattro studi clinici randomizzati, in doppio cieco, di cui due condotti nel Regno Unito, uno in Brasile e uno Sudafrica, hanno documentato che tale vaccino è sicuro ed efficace nella prevenzione della malattia sintomatica nelle persone a partire dai 18 anni di età [46]. Questi studi hanno coinvolto più di 20.000 persone. I partecipanti, di età ≥18 anni sono stati randomizzati e assegnati a uno dei due gruppi: gruppo di soggetti che hanno ricevuto il vaccino e il gruppo di controllo, che in questo caso ha ricevuto vaccino antimeningococcico coniugato ACWY o soluzione salina, con un rapporto di allocazione 1:1. I dati di sicurezza sono basati sull’analisi ad interim di dati aggregati provenienti dai quattro studi clinici di riferimento [46]. Le reazioni avverse registrate più frequentemente erano generalmente lievi-moderate e si sono risolte dopo pochi giorni dalla vaccinazione. Le più comuni sono state: dolore nel sito di iniezione, cefalea, astenia, mialgie, malessere generalizzato, brividi, febbre, artralgie e nausea [46].

I risultati ottenuti sono sicuramente confortanti; la domanda da porsi è quindi se questo vaccino sia sicuro ed efficace al pari di quelli precedentemente descritti. A questo quesito rispondono gli studi clinici. I dati di sicurezza emersi dagli studi preliminari sono risultati molto buoni. Per quanto riguarda il profilo di efficacia i dati sinora disponibili la hanno attestata a circa il 60% [46]. Seppure in termini puramente numerici, l’efficacia sembri quindi significativamente minore rispetto al vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2; in realtà, il vaccino AstraZeneca presenta una buona efficacia, sicuramente superiore per esempio a quella del comune vaccino antiinfluenzale impiegato annualmente e che ogni anno fornisce comunque una ottima copertura contro l’influenza stagionale, in special modo nei soggetti fragili. Il vero limite che riguarda invece il vaccino AstraZeneca sembrerebbe verosimilmente correlato alla sua incapacità nel prevenire le infezioni asintomatiche. In sintesi, le persone sono protette dalla malattia, ma possono infettarsi in maniera asintomatica e forse trasmettere il virus ad altri [45].

L’AIFA aveva in prima battuta autorizzato l’utilizzo di questo vaccino sino ai 55 anni di età [36], limite attualmente in estensione a soggetti più anziani. Tuttavia, un’adeguata protezione è comunque auspicabile, sia in base all’esperienza ottenuta con altri vaccini, sia per la buona risposta immunitaria riscontrata in questa fascia di età. Poiché esistono peraltro dati attendibili sulla sicurezza in questa coorte, gli esperti dell’EMA ritengono che il vaccino possa essere perciò utilizzato a breve anche negli adulti più anziani.

Quindi, al momento attuale il vaccino AstraZeneca non può essere considerato lo strumento ideale per raggiungere l’obiettivo fondamentale dell’immunità di gregge. Tuttavia, presenta un rapporto beneficio/rischio favorevole ed è sicuramente un’arma per il contenimento dell’infezione. È bene sottolineare che la sicurezza del vaccino è stata comunque dimostrata in tutti e quattro gli studi presi in esame [46].

Il vaccino AstraZeneca non è l’unico prodotto che sfrutta la tecnologia dei vettori virali non replicanti. Su questo tipo di meccanismo d’azione si riconoscono altri vaccini come quello russo Gam-COVID-Vac (Sputnik V) [47], quello cinese AD5-nCOV Convidecia [48] e il vaccino Ad26.COV2.S progettato dalla farmaceutica belga Janssen sotto la società americana Johnson & Johnson [48]. Convidecia e il vaccino di Janssen Johnson & Johnson [48] sono entrambi vaccini “single-dose”, che offrono una logistica meno complicata, e possono essere conservati in refrigerazione ordinaria per diversi mesi. Questi ultimi vaccini non sono ancora in utilizzo in Italia, seppure la loro immissione nel programma vaccinale dovrebbe essere prevista a breve.

Va invece riportato che in seguito all’introduzione del vaccino AstraZeneca in UE sono emerse segnalazioni di eventi trombotici potenzialmente correlabili, producendo allarme generalizzato nella popolazione. Tuttavia, l’EMA ha comunicato che alla data del 10/3/2021, il sistema di vigilanza europea degli eventi avversi EudraVigilance aveva registrato 30 casi di eventi trombotici in 5 milioni di soggetti vaccinati e che tale numero risultava paragonabile al tasso di trombosi abitualmente registrato nella popolazione generale. Negli studi registrativi (condotti peraltro sotto stretta sorveglianza degli eventi avversi) non risultava segnalato alcun aumento del rischio di eventi trombotici. In data 18/3/2021 EMA e AIFA, dopo una revisione dei casi segnalati, si sono espresse nuovamente in modo favorevole verso tale vaccino definendolo sicuro ed efficace, escludendo relazioni tra casi di trombosi e la somministrazione dei sieri e reinserendolo nella campagna vaccinale.

A tutt’oggi il vaccino AstraZeneca rappresenta pertanto un’alternativa assolutamente utile. In seguito al caos conseguente allo stop imposto dall’UE per la somministrazione del vaccino, l’azienda ha deciso però di cambiarne il nome in Vaxezevria, modificando la scheda tecnica e riportando tra gli effetti collaterali anche le trombosi (seppure non siano stati dimostrata associazione causale tra i decessi e la somministrazione del vaccino).

Attualmente la Commissione tecnico-scientifica dell’AIFA ha indicato pertanto il seguente utilizzo preferenziale dei vaccini [35,36]:

  • vaccini a mRNA nei soggetti anziani e/o a più alto rischio di sviluppare una malattia grave
  • vaccino Vaxezevria nei soggetti maggiori di 18 anni, ad eccezione però dei soggetti estremamente vulnerabili tra cui vanno certamente annoverati i pazienti dializzati e trapiantati. Sulla scorta dei dati di immunogenicità e di quelli di sicurezza, il rapporto beneficio/rischio del vaccino resta comunque vantaggioso nei soggetti più anziani in assenza di specifici fattori di rischio.

 

Conclusione

La storia insegna da sempre che i vaccini sono sinonimo di vita. Non esiste malattia che sia meglio contrarre piuttosto che vaccinarsi, perché il rischio di ammalarsi supera sempre e comunque quello vaccinale.

L’elevato rischio di infezione grave e di aumentata mortalità in presenza di insufficienza renale è ormai documentato da plurime evidenze cliniche e rende il vaccino altamente raccomandato per questa coorte di pazienti, anche indipendentemente dal fattore età. È necessario quindi che in ambiente nefrologico ci si muova in un’unica direzione al fine di delineare quanto prima una regolamentazione che definisca questi pazienti come appartenenti a una categoria ad elevato rischio e di condurre a una rapida somministrazione di vaccini in modalità prioritaria, soprattutto per i soggetti affetti dalla malattia in stadio avanzato, per i pazienti dializzati e per i pazienti trapiantati.

A questo proposito va segnalato lo sforzo dimostrato dalla Società Italiana di Nefrologia che, con l’impegno congiunto di altre associazioni di settore come ANED (Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e Trapianto) e FIR (Fondazione Italiana del Rene), ha ottenuto l’aggiornamento del piano strategico nazionale di vaccinazione da parte del Ministero della Salute, dell’AIFA, del Comitato Tecnico Scientifico e del Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19. Infatti, nella lettera di impegno del 9 Febbraio firmata dal già Commissario Arcuri, vengono inseriti nella categoria di persone vulnerabili e con priorità per la vaccinazione tutti i pazienti con patologia renale, dializzati e soggetti portatori di trapianto renale. Questo importante traguardo dimostra che la collaborazione sinergica da parte di tutti gli enti coinvolti nel settore migliora la possibilità di raggiungere importanti obiettivi in modo più tempestivo ed efficace.

I malati affetti da nefropatie croniche, in dialisi o trapiantati hanno pagato un tributo molto alto alla pandemia Covid-19. Per tale motivo è necessario che questa popolazione particolarmente fragile sia non soltanto protetta nel minor tempo possibile ma anche monitorata nel tempo, per rilevare la risposta immunologica che seguirà alla vaccinazione e la sua reale efficacia.

 

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