Protetto: La terapia conservativa in CKD: le nuove frontiere

Abstract

La malattia renale cronica (CKD) rappresenta ad oggi una condizione patologica sempre più diffusa. L’aumento del numero di soggetti affetti da CKD a livello mondiale è legato a una maggiore sopravvivenza dei pazienti grazie ai progressi raggiunti in ambito terapeutico. La necessità di strategie terapeutiche volte a prevenire l’insorgenza di CKD e a rallentarne la progressione ha condotto all’applicazione di una terapia di associazione rappresentata da un inibitore del Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone (RAASi) e un inibitore del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT-2i), con una dimostrata efficacia nel ridurre l’insorgenza di eventi cardiovascolari e la progressione della CKD. Le maggiori linee guida aggiornate raccomandano una strategia multifarmacologica “sartorializzata” sul rischio cardiorenale residuo del singolo individuo. Le linee guida KDIGO raccomandano un approccio graduale per la gestione del diabete mellito e della CKD, con RAASi e SGLT-2i come terapia di prima linea e GLP-1 RA e MRAs non steroidei indicati in aggiunta successiva per una ulteriore protezione cardiorenale. Gli antagonisti del recettore di tipo A dell’endotelina (ERAs), farmaci di più recente diffusione, hanno dimostrato i loro effetti antiproteinurici e nefroprotettivi in differenti trial. L’obiettivo della messa in atto di strategie terapeutiche sempre più efficaci e quanto più personalizzate sul singolo paziente, vede la necessità di combinare l’utilizzo di più classi di farmaci in grado di agire in maniera combinata su diversi pathway.

Parole chiave: CKD, proteinuria, rischio cardiovascolare, diabete mellito, terapia di associazione

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Low-Dose Rituximab in the Treatment of Primary Membranous Nephropathy – A Systematic Review and Meta-Analysis

Abstract

Introduction. Rituximab (RTX) holds promise as a treatment for idiopathic membranous nephropathy (IMN). While effective in standard regimens, the application of RTX is hampered by cost burdens and severe side effects. To address these issues, low-dose RTX has been proposed as an intervention strategy. Yet, the efficacy of this approach in treating IMN remain subject of debate. This systematic review and meta-analysis seek to examine the effectiveness of low-dose RTX in adult patients with IMN.
Methodology. A literature search was conducted using PubMed, Wiley Online Library, ScienceDirect, Cochrane Library, Springer and other sources, published between 2004 and 2024. Specifically, articles reporting the intravenous application of RTX at doses lower than four weekly infusions of 375 mg/m² or two infusions of 1 gram each on day 0 and day 15 were considered for inclusion. The primary outcomes were complete response (CR) and partial response (PR) rates at last follow-up. Secondary endpoints included serum creatinine levels, serum albumin levels, 24-hour proteinuria levels, protein-creatinine ratio (PCR), estimated glomerular filtration rate (eGFR) and anti-PLA2R antibody levels.
Results. Sixteen articles were included in this meta-analysis. The pooled analysis of odds ratios (OR) revealed that both main-line (OR = 0.48, 95% CI = 0.30-0.75, p = 0.001) and second-line (OR = 0.27, 95% CI = 0.11-0.67, p = 0.005) RTX treatments induced complete remission (CR) in IMN patients. At the last follow-up, patients treated with both main-line (mean difference [MD] = 1.45, 95% CI = 1.00-1.91, p < 0.00001) and second-line (MD = 0.88, 95% CI = 0.23-1.53, p < 0.00001) RTX treatments showed a significant increase in serum albumin levels. Conversely, in the analysed second line RTX therapy patients, low eGFR trend was noted in the post treatment arm compared to baseline levels (MD = 10.57, 95% CI = 0.30-20.83, p = 0.04). Moreover, RTX was found to be effective in reducing PCR (MD = 24.10, 95% CI= 1.07 to 47.13, p = 0.04) and depleting PLA2R antibody levels (MD = 127.36, 95% CI = 14.90-239.81, P = 0.03). However, RTX might be less effective in lowering proteinuria and serum creatinine levels in patients with nephrotic syndrome. Conclusion. Rituximab in a low-dose regimen is quite effective in treating adult patients with IMN. Therefore, it can be considered a promising treatment for both main-line and rescue therapy. More randomized controlled trials and research on optimizing the low-dose regimen, based on various health factors, are warranted.

Keywords: Low-dose rituximab, primary membranous nephropathy, systematic review, proteinuria, creatinine

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Introduction

Membranous nephropathy (MN) is an immune-mediated disorder that negatively affects the kidney glomerulus of humans [1]. Approximately 80% of MN occurs due to unidentifiable reasons, termed as either primary MN (PMN) or idiopathic MN (IMN) [2]. In the remaining 20% of individuals, MN develops secondarily due to various clinical conditions, such as bacterial or viral infections (hepatitis B and C, syphilis), malignancies, drug toxicities (penicillamine, gold salts) and other rheumatological or immunological diseases (rheumatoid arthritis, systemic lupus erythematosus) [3]. Annual prevalence rates vary globally, with higher incidences reported in North America and Europe [4], indicating greater tendencies among Caucasians followed by Asians, Blacks and Hispanics [5]. Although membranous glomerulopathy can affect individuals of any age, it predominantly manifests in adults than in children [6], with the average age occurring between 50 and 60 years [7]. Studies suggest a male preponderance in IMN cases, with a male-to-female ratio of 2:1, though the underlying reasons remain elusive [8].

PMN is characterized by B-cell abnormalities and the accumulation of immune complexes along the glomerular capillary walls, leading to membranous thickening [4, 9]. Several potential immunological mechanisms proposed include entrapment of preformed immune complexes in the subepithelial space, localization or implantation of circulating antigens in the subepithelial sites and binding of autoantibodies to podocyte membrane antigens (leading to the subepithelial deposition of immune complexes) [10]. Immune deposits consist of several components, including the immunoglobulin G (IgG) subclass of antigens and the membrane attack complex (MAC) formed from the complement components to create C5b–9 [11]. Figure 1 elaborates the treatment targets and immunological mechanisms in primary membranous nephropathy. 

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Glifozine, contenimento della proteinuria e nefroprotezione

Abstract

Negli ultimi anni, la prevalenza della malattia renale cronica (CKD) ha subito un incremento significativo, con una stima di circa 843,6 milioni di individui affetti nel 2017 [1]. Questo aumento è strettamente correlato alla crescente incidenza di fattori di rischio quali il diabete mellito e l’obesità. I pazienti con nefropatia diabetica (DKD), una delle complicanze più comuni del diabete, sono caratterizzati da un’alta morbilità e mortalità cardiovascolare. Evidenze recenti indicano che gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) hanno un ruolo determinante nella riduzione della progressione sia della DKD sia della CKD, grazie ai loro effetti nefroprotettivi e cardioprotettivi. Gli SGLT2i agiscono diminuendo l’iperfiltrazione glomerulare, migliorando il feedback tubulo-glomerulare e riducendo la glicemia.

Parole chiave: malattia renale cronica, SGLT2i, nefroprotezione, proteinuria, iperfiltrazione

Introduzione

Attualmente, a livello globale, si stima una prevalenza di 537 milioni pazienti diabetici, numero destinato ad aumentare fino a 643 milioni entro il 2030 e a 783 milioni entro il 2045 [2]. L’obesità e il diabete rappresentano un riconosciuto fattore di rischio per la CKD e il link fisiopatologico che lega tali patologie, spesso coesistenti sul piano clinico, è rappresentato dall’iperfiltrazione [3]. Negli ultimi anni, numerose molecole sono state studiate al fine di rallentare la progressione della CKD, queste, sebbene differenti da un punto di vista biochimico, sono accomunate dall’effetto sull’iperfiltrazione. Tra queste, gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) hanno rappresentato una vera e propria svolta grazie ai loro effetti nefro e cardio protettivi e attualmente sono farmaci di prima linea per il trattamento della DKD e della CKD. . Numerosi studi clinici, tra cui CREDENCE, DAPA-CKD ed EMPA-KIDNEY [4–6], hanno dimostrato l’efficacia degli SGLT2i nel ridurre il rischio di progressione della CKD nei pazienti diabetici e non diabetici. Inoltre, ricerche recenti suggeriscono che gli SGLT2i possano avere effetti benefici anche nei pazienti affetti da glomerulonefriti e nei trapiantati di rene. Questi risultati supportano l’impiego degli SGLT2i come trattamento di prima linea nella gestione della DKD e della CKD.

 

Il ruolo degli SGLT2i nella DKD e nella CKD

La nefropatia diabetica è una patologia multifattoriale che coinvolge diversi processi fisiologici, emodinamici e infiammatori. Tra i fattori che giocano un ruolo predominante nella DKD, vi è sicuramente l’iperglicemia, infatti, è stato dimostrato che i pazienti con emoglobina glicata in range di normalità non sviluppano DKD [7]. L’iperglicemia induce l’aumento dell’attività del cotrasportatore SGLT2, responsabile di circa il 90% del riassorbimento del glucosio e della maggior parte del riassorbimento del sodio nel tubulo prossimale. Questo meccanismo ha un ruolo centrale nello sviluppo della DKD, infatti, a livello renale, l’assorbimento di glucosio non è mediato dallo stimolo insulinico (come per muscoli, adipociti ed epatociti), ma aumenta in proporzione alla concentrazione di glucosio nel plasma. Nel contesto del diabete di tipo II, questo assorbimento non regolato di glucosio induce un aumento di glucosio nelle cellule glomerulari e dei tubuli renali e devia il glucosio verso vie non glicolitiche, con conseguente glicosilazione delle proteine ​​e generazione dei prodotti di glicazione avanzata. I prodotti finali di queste vie promuovono la disfunzione mitocondriale, lo stress ossidativo e l’infiammazione [8].

Nella fisiopatologia della DKD un ruolo fondamentale è rivestito anche dall’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) e attori fondamentali della nefroprotezione sono gli ACE inibitori e gli ARB [9,10]. L’effetto nefroprotettivo dei bloccanti del RAAS si esplica sia nella riduzione dell’ipertensione arteriosa ma, soprattutto, nella riduzione dell’elevata pressione intraglomerulare, e della conseguente iperfiltrazione, caratteristica della DKD [9–12]. Tuttavia, i bloccanti del RAAS non annullano completamente la progressione della DKD, probabilmente a causa del fenomeno dell’aldosterone breakthrough, che porta ad un aumento dell’attività della renina a seguito di una prolungata inibizione del RAAS [13]. Ormai numerose evidenze hanno dimostrato come gli SGLT2i abbiano un effetto additivo a quello dei bloccanti del RAAS nel ridurre la progressione della DKD [14,15].

Gli SGLT2i riducendo i livelli di glucosio plasmatico sia a digiuno che postprandiali [16], riducono il glucosio nelle cellule glomerulari e nei tubuli renali e la conseguente produzione dei prodotti di glicazione avanzata. Gli SGLT2i riducono la soglia renale per l’escrezione del glucosio da ~10 mmol/l (180 mg/dl) a ~2,2 mmol/l (~40 mg/dl) [17] e la glicosuria che ne risulta, oltre a ridurre la concentrazione media di glucosio plasmatico, migliora la glucotossicità, con conseguente miglioramento della funzione delle cellule β pancreatiche che si traduce in una maggiore sensibilità all’insulina [16–18].

L’azione degli SGLT2i si esplica attraverso il ripristino del feedback tubulo-glomerulare, infatti, è ormai noto come il rilascio del cloruro di sodio alle cellule della macula densa dell’apparato iuxtaglomerulare giochi un ruolo centrale nella regolazione della frazione di filtrazione glomerulare (GFR) e della pressione intraglomerulare [19,20]. Nello specifico, una riduzione nel rilascio di cloruro di sodio a livello nella macula densa, attraverso la vasodilatazione della arteriola afferente aumenta e la pressione intraglomerulare. Al contrario, un aumento del rilascio di cloruro di sodio nella macula densa riduce la GFR e la pressione intraglomerulare attraverso la riattivazione del feedback tubulo-glomerulare. Alcuni studi su modelli animali hanno dimostrato come il diabete scarsamente controllato, inducendo un aumento del carico filtrato di glucosio, porti a un aumento del riassorbimento del glucosio accoppiato al sodio da parte del tubulo prossimale e ad una diminuzione del rilascio di sodio alla macula densa [21,22]. Questa diminuzione dell’apporto di sodio alla macula densa determina l’attivazione intrarenale del RAAS, la vasocostrizione dell’arteriola efferente, l’ipertensione glomerulare e l’iperfiltrazione renale [19,21,22]. Inoltre, il ridotto apporto di sodio alla macula densa inibisce la conversione dell’ATP in adenosina che ha a sua volta un effetto vasocostrittore, questo genera la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento del flusso plasmatico renale, con conseguente aumento della pressione intraglomerulare e dell’iperfiltrazione [23].

Anche a questo livello gli SGLT2i giocano un ruolo fondamentale, infatti, aumentando il ​​rilascio di sodio alla macula densa favoriscono la conversione dell’ATP in adenosina con conseguente vasodilatazione dell’arteriola efferente, diminuzione del flusso plasmatico renale, riduzione dell’ipertensione glomerulare e, a lungo termine, attenuano la progressione della DKD anche in pazienti con efficace inibizione del RAS [24]. Gli effetti sul feedback sono alla base del calo iniziale del GFR osservato nei pazienti che iniziano SGLT2i, e che risulta simile a quello osservato dopo l’inizio della terapia con antagonisti del RAS. La riduzione dell’iperfiltrazione si traduce in riduzione della proteinuria con conseguente miglioramento dell’outcome renale e cardiovascolare [25]. (Figura 1)

Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.
Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.

Ulteriori meccanismi sono coinvolti nella progressione della DKD tra cui: l’aumento dello stato infiammatorio, la disfunzione e la perdita sia delle cellule endoteliali che del podocita. In tutti questi meccanismi gli SGLT2i svolgono un ruolo protettivo fondamentale, infatti, alcuni studi hanno dimostrato la loro capacità di ridurre i markers di infiammazione [26,27], la disfunzione endoteliale e la perdita della funzionalità del podocita [9,28].

Negli ultimi anni diversi studi hanno dimostrato che gli effetti nefroprotettvi degli SGLT2i non si esplicano solo nella DKD ma anche nella CKD; infatti, gli effetti sull’emodinamica renale possono offrire una nefroprotezione efficace indipendente dai livelli ematici di glicemia [29]. L’iperfiltrazione secondaria all’alterazione del meccanismo di feedback tubuloglomerulare è infatti un meccanismo comune nella patogenesi sia nella CKD che nella DKD [30]. Nella CKD, l’iperfiltrazione rappresenta un meccanismo inizialmente di tipo adattativo secondario alla riduzione della popolazione dei nefroni funzionanti al fine di compensare le richieste metaboliche ma che diventa successivamente maladattativo favorendo la progressione del danno renale. In entrambe le condizioni patologiche, Il ridotto apporto di sodio alla macula densa induce la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento della pressione intraglomerulare[31–33]. L’inibizione del SGLT2, anche nella CKD, aumenta il rilascio distale di sodio, che a sua volta promuove il feedback tubuloglomerulare portando al ripristino della pressione intraglomerulare.

 

La nefroprotezione mediata dagli SGLT2i nei trial clinici

Nell’ultimo decennio, gli SGLT2i sono stati studiati in numerosi trial clinici randomizzati con outcome primario incentrato sugli eventi cardiovascolari, dimostrando un’efficacia nella riduzione del rischio di eventi cardiovascolari maggiori nei pazienti trattati. Inoltre, le analisi secondarie di questi studi hanno dimostrato un effetto protettivo sulla progressione della DKD e CKD.

Lo studio CREDENCE, pubblicato nel 2019, ha rappresentato una vera svolta nella storia della CKD e degli SGLT2i, infatti, è stato il primo trial creato per valutare l’effetto degli SGLT2i, e precisamente del canaglifozin, sull’outcome renale. In questo studio vennero arruolati 4401 pazienti diabetici di tipo II con malattia renale cronica (eGFR di 30-90 mL/min/1,73 m2) e albuminuria (UACR di 300-5000 mg/g) già in terapia stabile con inibitori del RAS alla massima dose tollerata. La terapia con canaglifozin dimostrò, in un follow up medio di 2,6 anni, di ridurre significativamente il rischio dell’outcome composito (progressione della CKD fino allo stadio terminale, raddoppio della creatinina sierica o morte per cause renali) (HR [IC al 95%] 0,66 [0,53–0,81]) [4]. I risultati furono così incisivi da causare l’interruzione prematura per il raggiungimento dei criteri di efficacia prespecificati, inoltre, dopo la pubblicazione dello stesso, le linee guida KDIGO per la gestione del diabete nella CKD raccomandarono l’uso di SGLT2i come trattamento di prima linea associato alla metformina [34].

Dopo la pubblicazione dello studio CREDENCE, diversi studi hanno valutato l’efficacia degli SGLT2i nella CKD cercando di rispondere alla domanda se questi farmaci potessero avere un ruolo anche nei pazienti affetti da CKD non diabetici.

Nello studio DAPA-CKD, vennero arruolati 4.304 pazienti diabetici e non diabetici con CKD (eGFR di 25–75 mL/min/1,73 m2 e UACR da 200 a 5.000 mg/g) già in trattamento stabile con inibitori del RAS [46]. Lo studio dimostrò la netta superiorità del dapaglifozin, pari al 39%, nel ridurre il rischio dell’endpoint primario combinato (declino del GFR > 50%, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali o cardiovascolari). Inoltre, la superiorità veniva mantenuta anche quando le componenti dell’endpoint primario venivano considerate separatamente (HR [IC al 95%] 0,56 [0,45-0,68]). Lo studio dimostrò, inoltre, che il dapaglifozin era efficace nel ridurre il rischio di endpoint primario (HR [IC al 95%] 0,50 [0,35-0,72]) anche nei pazienti con CKD non diabetici [5]. Anche questo studio venne interrotto precocemente dopo 2,4 anni per dimostrata efficacia.

L’azione nefroprotettiva degli SGLT2i è stata, inoltre, confermata dallo studio EMPA-KIDNEY. Questo trial, su 6609 pazienti con CKD (eGFR tra 20 e 90 ml/min/1,73 m2 e UACR >200 mg/g) diabetici e non con un follow-up medio di 2 anni, dimostrò l’efficacia dell’empaglifozin di ridurre il rischio dell’endpoint primario composito (diminuzione dell’eGFR ≥40% rispetto al basale, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali) e morte cardiovascolare (HR [IC al 95%] 0,72 [0,64–0,82]) [6]. Inoltre, fu osservata una riduzione del rischio di progressione renale del 29% e una riduzione significativa dell’ospedalizzazione per qualsiasi causa (HR [IC 95%] 0,86 [0,78-0,95]). Inoltre, estendendo i criteri di inclusione fino alla CKD IV stadio ha dimostrato come l’effetto protettivo di questi farmaci si mantenga anche nei pazienti con malattia renale cronica avanzata [6].  (Tabella 1)

  CREDENCE DAPA-CKD EMPA-KIDNEY
Intervento Canaglifozin 100mg/die Dapaglifozin 10 mg/die Empaglifozin 10 mg/die
Popolazione 4.401 pazienti diabetici in terapia con RAAS inibitore 4.304 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore 6.609 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore
eGFR (ml/min) da 30 a 90 da 25 a 75

da 20 a 45

da 45 a 90 con albuminuria

Albuminuria (mg/gr) 300-5.000 200-5.000 >200
Outcomes primari

Composito:

ESKD, raddoppio della creatinina dal basale, morte per cause renali o cardiache

Composito:

Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali o cardiache

Progressione della malattia renale o morte per cause cardiache
Outcomes secondari

1.     Composito: ospedalizzazione per morte cardiaca o scompenso

2.     Composito: ESKD, raddoppio della creatinina dal basale o morte per cause

3.     Morte per cause cardiache

4.     Morte per tutte le cause

1.     Composito renale: Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali

2.     Composito cardiaco: ospedalizzazione per scompenso o morte cardiaca

3.     Morte per tutte le cause

Composito: ospedalizzazione per scompenso cardiaco, morte per cause cardiache, tutte le cause di ospedalizzazione, morte per tutte le cause
Tabella 1. Studi sugli SGLT2i con outcomes primari renali. ESKD (insufficienza renale terminale)

Un aspetto da considerare nei trial con SGLT2 è che in tutti è stato osservato un calo acuto del GFR (DIP), che successivamente si stabilizza. Un’analisi pre-specificata dello studio DAPA-CKD ha osservato una differenza tra dapaglifozin e placebo nel dip del GFR di 2,61 ml/min nei pazienti diabeti e di 2,01 ml/min per 1,73 m2 nei pazienti non diabetici [35]. Il declino acuto (DIP) del GFR si presenta circa intorno alla seconda settimana di trattamento con una stabilizzazione del GFR fino alla fine del follow up [36]. La riduzione nello slope (la pendenza del calo del filtrato) è maggiore nei pazienti con diabete di tipo 2, emoglobina glicata più elevata e UACR più elevata [36].

Infine, una metanalisi di 13 trial clinici randomizzati (SMART-C), su 90413 pazienti, ha confermato che l’introduzione in terapia degli SGLT2i riduce il rischio di progressione della malattia renale cronica del 37 %, questo effetto può essere osservato sia nei pazienti diabetici che no. Precisamente, l’aggiunta in terapia di un SGLT2i ha dimostrato di ridurre il rischio di progressione di malattia del 40% nei pazienti affetti da nefropatia diabetica, del 30% nei pazienti con malattia renale ischemica/ipertensiva, del 40% nei pazienti con glomerulonefrite e del 26% nei pazienti con CKD ad eziologia sconosciuta. Le analisi di sensitività hanno inoltre suggerito che questo beneficio non dipenda dalla funzionalità renale basale e dall’albuminuria, e che la terapia con SGLT2i protegga anche dal rischio di insufficienza renale acuta ed eventi cardiovascolari [37].

Questi dati sono stati confermati, nella real-life, anche da uno studio di coorte scandinavo, su 29887 pazienti che hanno intrapreso la terapia con SGLT2i, in cui è stato dimostrato che l’uso di questi farmaci, rispetto agli inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP4), è stato associato a un rischio ridotto di eventi renali gravi (2,6 eventi per 1.000 anni-persona vs 6,2 eventi per 1.000 anni-persona; HR 0,42 (IC 95%,  0,34  0,53), una riduzione della necessità di terapia sostitutiva renale [HR 0.32 (IC 95%, 0.22 0.47)],  di ospedalizzazione per cause renali [HR 0,41 (IC 95%, 0,32 0,52)] e di morte per cause renali  [HR 0,77 (IC 95%, 0,26  2,23)] [38].

 

Gli SGLT2i nel trattamento delle glomerulonefriti

I trial condotti con l’utilizzo degli SGLT2i nella CKD includevano anche un gran numero di pazienti con nefropatie glomerulari.

Nello studio DAPA-CKD, 270 pazienti erano affetti da nefropatia da IgA in terapia con inibitori del RAS, di questi solo il 14,1% era anche diabetico e l’eGFR e l’UACR medi erano rispettivamente 43,8 mL/min/1,73 m2 e 900 mg/g. Un’analisi secondaria prespecificata sui pazienti con IgAN confermata alla biopsia renale ha dimostrato che il dapagliflozin riduceva significativamente il rischio di progressione della CKD, insufficienza renale o morte per cause renali (HR [95% IC] 0,23 [0,09–0,63]) [39]. Come nello studio principale, questo effetto non differiva tra i sottogruppi definiti dalle categorie eGFR e UACR al basale. È stata inoltre osservata, nei pazienti randomizzati a dapaglifozin, una riduzione dell’UACR del 26% e un rallentamento della progressione della CKD, con una differenza di eGFR tra i bracci di trattamento di 2,4 ml/min/1,73 m2 per anno [39].

Al contrario, lo studio EMPA-KIDNEY non prevedeva di condurre analisi in sottogruppi con glomerulonefriti, ma nella popolazione di studio erano presenti 817 pazienti con IgAN. La metanalisi SMART-C, condotta successivamente, ha dimostrato, attraverso la combinazione dei risultati di EMPA-KIDNEY e DAPA-CKD, una riduzione del 51% del rischio di progressione della CKD nell’IgAN nei pazienti trattati con empaglifozin o dapaglifozin[37].

Per quanto riguarda l’impatto degli SGLT2i nei pazienti con glomerulosclerosi focale segmentale (FSGS) i risultati sono stati meno soddisfacenti. Nello studio DAPA-CKD sono stati arruolati 115 soggetti affetti da FSGS di cui il 90% con diagnosi istologica [40],  l’endpoint renale primario però non differiva significativamente tra i bracci di trattamento. Questo è probabilmente dovuto al basso numero di eventi, tuttavia, la differenza tra i gruppi nell’UACR è stata del 19,7% a favore di dapagliflozin, e i tassi di declino cronico dell’eGFR erano di -1,9 e -4,0 mL/min/1,73 m2 per anno rispettivamente nel braccio dapagliflozin e placebo [40].

In questo ambito è da sottolineare la post-hoc analisi dei dati dell’EMPA-REG, comprendente 112 pazienti con proteinuria in range nefrosico (definita come UACR ≥2200 mg/g al basale), che ha dimostrato un beneficio nella riduzione della progressione della CKD nei pazienti trattati con empaglifozin.  Infatti, è stata osservata una riduzione dell’UACR ≥ del 50%, rispetto al basale, più frequentemente nei pazienti trattati con empaglifozin rispetto a placebo [58,8% vs 26,2%; HR 2.48; (95% IC 1.27−4.84)]. Inoltre, l’outcome composito renale (raddoppio della creatinina sierica accompagnati da un eGFR di ≤45 mL/min/1.73 m2, inizio della terapia sostitutiva renale o morte per malattia renale) è stato osservato nel 20,6% dei pazienti trattati con empaglifozin rispetto al 33.3% dei pazienti trattati con placebo [28].

 

Gli SGLT2i nel trapianto di rene

Nonostante le numerose prove di efficacia e sicurezza dell’utilizzo degli SGLT2i nella popolazione generale con CKD secondaria a nefropatia diabetica e non, pochi studi sono stati effettuati nei pazienti trapiantati di rene con diabete di tipo II o diabete post-trapianto; infatti, persistono delle riserve relate soprattutto all’aumentato rischio di infezioni micotiche genitali e delle vie urinarie. Uno studio multicentrico osservazionale, su 339 pazienti trapiantati in terapia con SGLT2i, ha dimostrato, tra il basale e 6 mesi, una riduzione significative del peso corporeo [-2,22 kg (IC 95% da -2,79 a -1,65)], della pressione sanguigna, della glicemia a digiuno, dell’emoglobina [-0,36% (IC 95% da -0,51 a -0,21)]. Inoltre, seppur sia stata osservata una riduzione non significativa dell’UACR [da 164 mg/g (IQR 82–430) a 160 (IQR 80–347), p 0.006], quando i pazienti sono stati stratificati in base a un UACR al basale inferiore o superiore a 300 mg/g, è stato osservato un miglioramento significativo nei pazienti che avevano un UACR al basale ≥ 300 mg/g [da 760 mg/g (IQR 454–1594) a 534 (IQR 285–1092); p<0,001]. Il 26% dei pazienti ha avuto un evento avverso di cui il più frequente è stato l’infezione delle vie urinarie (14%); i fattori di rischio erano un precedente episodio di infezione nei 6 mesi precedenti [[OR] 7,90 (IC 3,63–17,2)] e il sesso femminile [OR 2,46 (IC 1,19–5,03)]. Da sottolineare che una post hoc analisi ha osservato che l’incidenza di infezione delle vie urinarie a 12 mesi era simile tra i pazienti trapiantati con SGLT2i e quelli non trattati (17,9% contro 16,7%) [41]. Questi dati sono stati confermati da uno studio randomizzato controllato su 44 pazienti trapiantati trattati con empaglifozin o placebo, in cui è stata osservata, nel gruppo di trattamento, una riduzione significativa dell’emoglobina glicata [-0.2% (-0.6, -0.1) vs 0.1% (-0.1,0.1), ‘p 0.025] e del peso corporeo [-2.5 Kg (-4.0, -0.05) vs +1 Kg (0.0, 2.0), p 0.014] ma non una differenza significativa in termini di eventi avversi, eGFR e livelli dei farmaci immunosoppressori [42].

 

Conclusioni

La terapia con SGLT2i, negli ultimi anni, ha rappresentato una rivoluzione nel trattamento della nefropatia diabetica e nella riduzione della progressione della malattia renale cronica. I profili di efficacia e sicurezza di questi farmaci sono stati testati in numerosi trial e confermati da evidenze di real-life, questi dati incoraggianti li hanno resi un pilastro delle strategie di nefroprotezione applicabili nella CKD.

La nuova sfida sarà quella di agire sulla progressione della CKD e della DKD attraverso un approccio incentrato su un intervento farmacologico mirato ai diversi meccanismi di progressione. L’associazione con nuove molecole come gli antagonisti dei mineralcorticoidi, gli inibitori dell’aldosterone sintetasi, gli antagonisti del recettore dell’endotelina e gli agonisti recettoriali del GLP permetterà di massimizzare ulteriormente l’efficacia nefroprotettiva degli SGLT2i.

 

Bibliografia

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ACEi e ARB, contenimento della proteinuria e nefroprotezione

Abstract

Il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) svolge un ruolo significativo nella fisiopatologia renale e cardiovascolare: una sua aumentata attività è implicata nell’ipertensione arteriosa, nell’insufficienza cardiaca nonché nelle patologie renali. Per questo ACEIs e ARBs sono farmaci essenziali per la nefroprotezione: riducono i valori pressori e l’albuminuria, entrambi fattori legati al danno cardiovascolare e alla progressione della CKD. Gli effetti nefroprotettivi sono evidenti sia nella malattia renale secondaria a diabete mellito che in quella non diabetica, e l’iniziale calo del filtrato va considerato, se non superiore al 30%, come un indice del successo a lungo termine della protezione renale. Per ottimizzare l’inibizione del RAAS è necessario limitare l’introito salino e tener presente che la maggior efficacia antiproteinurica può richiedere una dose maggiore di quella usata come antiipertensiva. In casistiche selezionate e strettamente monitorate è altresì possibile considerare il così detto doppio blocco. Infine, si tenga presente che nei pazienti con CKD avanzata la terapia non va sospesa, sia perché non dà alcun beneficio sul GFR sia perché aumenta il rischio cardiovascolare.

Parole chiave: ACE inibitori, antagonisti recettoriali dell’angiotensina, nefroprotezione, proteinuria

Perché agiamo sul sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone (RAAS)?

Il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) è un sistema ormonale che regola la pressione sanguigna, il volume plasmatico circolante e il tono della muscolatura arteriosa attraverso diversi meccanismi. Esso svolge un ruolo significativo nella fisiopatologia renale e cardiovascolare, dato che un’aumentata attività del RAAS è implicata nell’ipertensione arteriosa, nell’insufficienza cardiaca nonché nelle patologie renali [1].

Le cellule juxtaglomerulari, in risposta ad un calo dei valori pressori, rilasciano l’ormone renina che catalizza il clivaggio dell’angiotensinogeno circolante, di produzione epatica, con la formazione di un decapeptide, l’angiotensina I (AngI). Ang I ha modesti effetti sui valori pressori e viene trasformato nei polmoni in Ang II, un peptide di otto aminoacidi, dall’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE). Ang II agisce sul cuore e sui reni legandosi ad un recettore, una proteina di tipo G, distinta in due sottotipi, AT1 e AT2. I recettori AT1 sono quelli che determinano gli effetti deleteri dell’Ang II, ovvero vasocostrizione, ipertrofia cardiaca e vascolare. Difatti Ang II determina vasocostrizione arteriolare periferica e aumento del riassorbimento tubulare di acqua e sodio con espansione del volume intravascolare. Ang II però ha numerose altre azioni: agisce sulla zona corticale delle ghiandole surrenaliche promuovendo la sintesi di aldosterone, che a sua volta aumenta ancora il riassorbimento di sodio con espansione del volume circolante; stimola il rilascio di vasopressina che determina aumento della sensazione di sete e riassorbimento di sodio nonché aumento del tono simpatico; tutti meccanismi deputati all’aumento dei valori pressori tramite la costrizione arteriolare, l’aumento della gittata cardiaca e la ritenzione di sodio. In condizioni patologiche l’attivazione del RAAS comporta ipertensione arteriosa, rimodellamento cardio-vascolare e danno renale. Ang II ha infatti un ruolo centrale nella progressione della malattia renale cronica (CKD) attraverso i meccanismi citati nonché tramite l’attivazione di diverse cascate biologiche che comportano aumentata espressione genica, infiammazione, stress ossidativo, apoptosi e fibrosi. Ang II ha effetti vasocostrittori preferenziali nelle arteriole efferenti, con conseguente aumento della pressione intraglomerulare e sviluppo di proteinuria,  causa lesioni tubulari tramite  attivazione di  citochine pro-infiammatorie e fibrotiche,  e  disfunzione endoteliale attraverso una  aumentata attività della NADPH ossidasi e produzione di superossido, alterata funzione endoteliale della sintasi dell’ossido nitrico;  induce altresì proliferazione e migrazione delle cellule della muscolatura liscia vascolare [2]. Un differente meccanismo di danno è dato dall’aumentata permeabilità glomerulare alle macromolecole, dall’aumentato passaggio di proteine che causa un aumentato carico sui tubuli prossimali con conseguente infiammazione e trasformazione delle cellulle tubulari in miofibroblasti, con esito in danno tubulointerstiziale [3]. Ang II non è quindi solo un peptide vasoattivo, ma una vera e propria citochina che regola la crescita cellulare, l’infiammazione e la fibrosi; molti dei suoi effetti sono mediati dalla produzione di una serie di fattori di crescita. Essa determina nel rene una aumentata produzione di TNF-alpha e di altre citochine infiammatorie quali IL-6, MCP-1, NF-kb, che si associano alla presenza di infiltrati infiammatori nel parenchima renale. Quindi Ang II contribuisce alla patologia renale progressiva anche con meccanismi infiammatori e immunologici. Nell’insieme, pertanto, si determinano una serie di alterazioni strutturali del parenchima renale che accelerano il danno innescato dai meccanismi emodinamici e proteinurici (Figura 1).

Figura N. 1: ruolo dell’angiotensina nella malattia renale cronica
Figura 1. Ruolo dell’angiotensina nella malattia renale cronica.

Si spiega quindi il perché l’inibizione del RAAS sia diventato l’obiettivo primario della protezione renale nella CKD [1-3].

Gli inibitori dell’ACE (ACEIs) bloccano la sintesi di Ang II, e quindi prevengono la conversione di Ang I a Ang II, limitandone quindi gli effetti e diminuendo la secrezione di aldosterone e vasopressina. L’efficacia degli ACEIs nel prevenire e attenuare la patologia renale si basa su effetti emodinamici, antiproteinurici, antiinfiammatori e pleiotropici. Essi infatti riducono la pressione intraglomerulare dilatando l’arteriola efferente e rallentando la degradazione della bradichinina; migliorano la selettività della membrana basale glomerulare alle macromolecole; riducono la produzione di citochine quali il transforming growth factor-beta (TGF-β), che induce glomerulosclerosi e fibrosi del parenchima renale [2]. Tuttavia, l’aumento dei livelli di renina causati dagli ACEIs stimola la produzione di Ang II tramite vie alternative che sfuggono al blocco dell’ACE e determinano il fenomeno dell’ACE escape.

I farmaci che bloccano il recettore dell’Ang II (ARBs) mostrano un’alta selettività per il recettore AT1 ed hanno effetti similari agli ACEIs, ovvero regolazione dei valori pressori e normalizzazione della funzione endoteliale, ma non hanno alcun effetto sulla bradichinina né mostrano il fenomeno dell’escape.

 

Effetti nefroprotettivi degli ACE inibitori (ACEi) e dei bloccanti dei recettori dell’angiotensina (ARB)

ACEIs e ARBs rappresentano ancor oggi la via maestra della nefroprotezione per la loro dimostrata efficacia non solo nel ridurre i valori pressori, ma anche o soprattutto per la riduzione dell’albuminuria, entrambi fattori legati al danno cardiovascolare ed alla progressione della CKD. L’effetto nefroprotettivo addizionale degli inibitori del RAAS rispetto agli altri agenti ipotensivi nella CKD è ben acclarato sia nella popolazione diabetica che in quella non diabetica [4]. Le linee guida  Kidney Disease: Improving Global Outcomes  del 2021 hanno confermato come, nella gran parte dei pazienti con CKD, ACEIs o ARB siano i farmaci di prima scelta, specialmente in presenza di albuminuria, in quanto l’inibizione del RAAS determina effetti nefroprotettivi antiinfiammatori e antiproliferativi indipendententemente dal controllo dei valori pressori [5]. Una imponente meta-analisi su oltre 60.000 pazienti ha poi confermato che queste classi di farmaci consentono di ottenere una riduzione di ESRD di oltre il 30%, riducendo altresì gli eventi cardiovascolari; gli ACEIs inoltre riducono anche la mortalità per tutte le cause e dovrebbero essere considerati la prima scelta nei pazienti con CKD [6].

Poiché la letteratura sul tema è sconfinata, sottolineeremo in questa sede solo i trial maggiori da cui derivano le indicazioni terapeutiche attuali.

ACEIs nella CKD non diabetica

In questa tipologia di pazienti gli ACEIs hanno dimostrato un chiaro effetto nefroprotettivo rispetto ad altre terapie ipotensive che non agiscono sul RAAS. Il primo grande studio fu il trial AIPRI [7] che dimostrò che l’uso dell’ACEI benazepril consentiva una riduzione globale del rischio di raddoppio della creatinina o ESRD del 50%, in particolare nei soggetti con proteinuria. Successivamente lo studio REIN [8] confermava l’efficacia del ramipril nell’ottenere un minor declino del filtrato glomerulare (GFR) rispetto al placebo, a parità di controllo pressorio. Una successiva analisi in una sottopopolazione dello stesso studio indicava poi che era altresì possibile la stabilizzazione e il miglioramento del GFR a lungo termine [9]; mentre lo studio AASK [10] confermava l’effetto nefroprotettivo degli ACEI anche nella popolazione afroamericana, ritenuta poco sensibile all’inibizione del RAAS.

ACEI nella malattia renale diabetica (DKD)

In questo fenotipo clinico, dopo i promettenti dati di un sottogruppo dello studio Hope [11] che aveva mostrato che il ramipril consentiva una riduzione del 24% del rischio di sviluppare una manifesta nefropatia nei diabetici di tipo 2 con normo-microalbuminuria,   è stato lo studio Benedict [12] a confermare che gli ACEIs, in questo caso trandolapril, dimezzava il rischio di sviluppare albuminuria in soggetti ipertesi diabetici normoalbuminurici; tale effetto si aveva indipendentemente dal controllo pressorio e non era migliorato dalla combinazione con calcio-antagonisti non-diidropiridinici.

ARB nella CKD non diabetica

Ci sono sporadiche evidenze in questo campo. I risultati dello studio giapponese COOPERATE mostrano che ACEIs e ARB hanno efficacia similare nella riduzione della perdita di filtrato e nel ridurre la proteinuria [13].  Anche un più recente studio uruguaiano giunge alle medesime conclusioni [14].

ARB nella DKD

Nel 2001 venivano pubblicati sullo stesso numero del New England Journal of Medicine ben tre studi fondamentali che hanno dimostrato l’efficacia degli ARB nella protezione del danno renale progressivo nella DKD. Lo studio IDNT [15] e il RENAAL [16] dimostravano che gli ARB, rispetto alla terapia tradizionale, ottenevano una riduzione rispettivamente del 20% e del 16% dell’end-point composito primario, ovvero raddoppio della creatinina, ESRD o morte. Inoltre, nell’IDNT si aveva anche una riduzione dell’outcome rispetto al terzo braccio dello studio condotto con l’utilizzo dell’amlodipina. A 12 mesi l’irbesartan diminuiva l’incidenza di proteinuria del 41% (vs 11% e 16% di amlodipina e placebo); e riduceva la progressione a microalbuminuria del 39% con la dose di 150 mg e del 70% con quella di 300 mg rispetto al placebo (studio IRMA-II) [17]. Infine, anche lo studio di Viberti et al. mostrava l’efficacia di valsartan nella nefropatia diabetica incipiente con una netta riduzione della microalbuminuria [18].

Come usare al meglio ACEIs e ARB?

Stabilita definitivamente la validità di queste molecole come agenti nefroprotettori, tenendone presente vantaggi e limiti come esposti nelle Tabelle 1 e 2, esaminiamo alcune condizioni particolari che potrebbero condizionarne sia l’utilizzo che l’efficacia.

VANTAGGI SVANTAGGI
Riduzione delle resistenze vascolari sistemiche con effetti anti-ipertensivi. Aumento compensatorio della renina.
Riduzione della proteinuria. Nessun effetto sulla produzione locale di Angiotensina II
Riduzione del declino del GFR a livelli quasi fisiolocigi. Rischio di danno epatico, renale, e insufficienza renale acuta, specie in presenza di stenosi dell’arteria renale bilaterale.
Riduzione del calo della clearance della creatinina. Possono dare tosse stizzosa quale reazione idiosincrasica.
Reduzione dello stato infiammatorio vascolare.   Scarsa efficacia nella popolazione diabetica con trapianto renale 
 Efficacia maggiore rispetto agli altri anti-ipertensivi nella protezione della funzione renale. Frequente la sospensione per effetti collaterali e/o difficile gestione.
Tabella 1. Vantaggi e svantaggi degli ACE inibitori.
VANTAGGI SVANTAGGI
Riduzione dell pressione arteriosa tramite inibizione della vasocostrizione della muscolatura liscia. Aumento compensatorio della renina, angiotensina I e II
Efficacia anti-ipertensiva pari o maggiore degli ACEIs Possibile ipotensione o insufficienza renale nello scompenso  cardiaco o stenosi dell’arteria renale bilaterale. 
 Migliore effetto sulla riduzione dell’indice di massa ventricolare rispetto agli ACEIs.   
 Meglio tollerati degli ACEIs  
 Ridotto tasso di sospensione.  
Tabella 2. vantaggi e svantaggi degli antagonisti recettoriali dell’angiotensina.

L’iniziale calo del GFR

Come per molti farmaci anti-ipertensivi, anche ACEIs e ARB determinano un calo iniziale del GFR con consensuale aumento della creatinina sierica, effetti della riduzione della pressione intraglomerulare. Nella pratica clinica questo calo, che mostra una notevole variazione inter-individuale, può destare eccessiva apprensione nel clinico, spesso inducendolo a ridurre la dose se non a sospendere la terapia. Una revisione sistematica ha mostrato come un aumento della creatininemia sino al 30% non debba destare apprensione, a patto che la potassiemia rimanga nella norma [19]. Ci sono inoltre evidenze che tale calo iniziale sia di tipo emodinamico più che strutturale, e sia reversibile alla sospensione dell’inibizione del RAAS. Anzi, maggiore il calo iniziale, maggiore la protezione a lungo termine della funzione renale. Tale conclusione è stata confermata da una analisi post-hoc del RENAAL che mostrava come, escludendo dall’analisi i primi tre mesi di terapia, per evitare l’influenza del calo iniziale, la protezione renale risultava maggiore nei soggetti che avevano mostrato il calo iniziale maggiore. Tale correlazione era altresì indipendente da altri fattori di rischio quali valori pressori o proteinuria [20]. In definitiva, l’iniziale calo del GFR dopo l’inizio della terapia con ACEIs e/o ARB potrebbe rappresentare una misura biologica del futuro successo terapeutico. Ciò detto, va sempre ricordato che spetta al clinico l’esatta interpretazione dell’aumento della creatininemia, specie se superiore al 30%, in quanto essa va correlata anche a concomitanti terapie diuretiche o deplezione di volume per altre cause, uso di FANS, disvelamento di una stenosi delle arterie renali non diagnosticata.

Come titolare la terapia?

La protezione renale degli inibitori del RAAS mostra una notevole variabilità da paziente a paziente, legata strettamente alla eterogeneità dei concomitanti fattori di rischio, ad esempio valori pressori o proteinuria tra tutti. Ne consegue, in una percentuale non trascurabile dei pazienti, valori di proteinuria non soddisfacenti nonostante una terapia ottimale. Sappiamo altresì che anche l’entità iniziale del calo dell’albuminuria correla con la protezione renale nel lungo periodo, maggiore la riduzione dell’albuminuria, migliore l’outcome renale [4]. Tra le strategie che possiamo mettere in campo per ridurre ulteriormente l’albuminuria residua ci sono la restrizione dell’introito salino, di cui a seguire, l’aggiunta di un anti-aldosteronico, e la titolazione della dose di ACEIs o ARB oltre la dose usuale quali farmaci anti-ipertensivi.

La dose ottimale per massimizzare la riduzione dell’albuminuria è generalmente superiore a quella utilizzata per la riduzione dei valori pressori. Aumentando quindi la dose di ACEIs o ARB si può ottenere una ulteriore riduzione dell’albuminuria, con o senza ulteriore effetto sui valori pressori [4, 21]. La sicurezza a lungo termine di tale approccio è stata dimostrata dallo studio di Hou et al. che hanno comparato la dose antiproteinurica ottimale di un ACEI (benezepril) e di un ARB (losartan) nei confronti delle dosi standard in una coorte di pazienti con CKD non diabetica [22]. Quasi la metà del campione raggiungeva la dose antiproteinurtica ottimale a 20 mg di benazepril o 100 mg di losartan, mentre gli altri avevano bisogno di 40 mg di benazepril o 200 mg di losartan. La titolazione consentiva una ulteriore riduzione dell’albuminuria e una ulteriore riduzione del rischio di ESRD, sino al 50% con follow-up di 3.7 anni.

D’altro canto va altresì sottolineato che esiste una notevole variabilità individuale. Soggetti non responsivi ad un farmaco anti-RAAS possono essere valutati inizialmente con un aumento della dose, indi con un cambiamento di classe farmacologica. Tuttavia, i soggetti con scarsa risposta spesso non mostrano benefici né dall’aumento della dose né dal cambio della tipologia di inibizione del RAAS [23].

Attenzione al sale!

Una alimentazione ad alto contenuto sodico può neutralizzare gli effetti di ACEIs e ARB, mentre la sua riduzione potenzia l’effetti anti-ipertensivo e anti-albuminurico. Iniziare una terapia diuretica rappresenta una ulteriore possibilità per correggere lo stato del volume circolante e ripristinare o aumentare l’efficacia degli anti-RAAS. Quindi, prima di titolare al massimo la dose di questi ultimi, va valutata l’aggiunta del diuretico insieme a dosi standard di ACEIs/ARB, strategia che consente spesso risultati migliori [24]. La limitazione dell’introito di sale e la terapia diuretica hanno la stessa efficacia nel potenziare la risposta anti-albuminuriuca degli anti-RAAS nella popolazione generale [25]. Ma è interessante notare come, a livello individuale, questo approccio sia poco efficace nei soggetti che hanno avuto una buona risposta alla terapia, ma consente di trasformare un paziente non-responder in un responder agli ACEIs/ARB, un esempio della medicina di precisione che dobbiamo perseguire! In ogni caso, l’alimentazione iposodica amplifica i benefici del blocco del RAAS e va sempre combinata a tale terapia.

 

Come e quando usare il così detto “doppio blocco”

Un blocco in due punti del sistema RAAS può essere effettuato con molte classi di farmaci, in questa sede noi esamineremo solo la letteratura riguardante l’uso combinato di ACEIs e ARB. Risulta evidente come operare tale strategia dovrebbe teoricamente consentire una maggiore inibizione del RAAS e migliori risultati in termini di albuminuria e nefroprotezione. Uno dei migliori studi in tal senso, condotto in soggetti con CKD non diabetica, ha dimostrato che il singolo farmaco, a dosi opportunamente titolate, consentiva la riduzione dell’albuminuria di circa il 45% (ACEI) o 70% (ARB) rispetto al basale, e che la combinazione dei due portava ad una ulteriore riduzione sino al 85% [26]. Anche in questo caso però, selezionando la popolazione in responder e non-responder, si vedeva che il grande vantaggio era appannaggio del primo gruppo, mentre nel secondo non si otteneva alcun beneficio. Quindi il doppio blocco non consente di trasformare un soggetto a bassa risposta in un responder, e il clinico deve valutarne l’opportunità nel singolo paziente. Questa strategia terapeutica ha poi visto un deciso stop dopo la pubblicazione dello studio ONTARGET, nel quale la combinazione delle due classi non ha dimostrato alcun beneficio in termini di protezione cardiovascolare [27]. Poiché lo studio arruolava pazienti con basso rischio renale, due ulteriori studi hanno valutato la combinazione nella CKD, il VA NEPHRON-D [28] e il LIRICO [29]. Il primo non ha documentato un minor rischio renale né di mortalità, segnalando un rilevante aumento di effetti avversi quali iperpotassiemia e insufficienza renale acuta, il secondo mostrava che ACEIs e ARB avevano effetti simili sugli outcome renali e cardiovascolari sulla mortalità, che ARB erano meglio tollerati degli ACEIs, ma che la combinazione non portava alcun vantaggio clinico. Anche l’EMA ne prendeva atto con una sua segnalazione [30]. Tuttavia va segnalato che, alla chiusura precoce dello studio VA NEPHRON-D per gli effetti collaterali, il doppio blocco aveva ridotto l’outcome ESRD del 34% rispetto alla monoterapia con losartan, un’efficacia mai raggiunta prima nel diabete di tipo 2.

Per tali considerazioni, alcuni gruppi hanno più volte segnalato come, in casistiche selezionate e in pazienti strettamente seguiti, l’adozione di questo regime terapeutico consenta decisivi vantaggi in termini di protezione della funzione renale [31]. È il caso della così definita “remission clinic” del gruppo di Bergamo [32], che prevede un approccio intensivo basato sull’utilizzo del doppio blocco del RAAS, e che ha trovato conferma nella meta-analisi di Palmer et al. [33] che indicava questa strategia come la migliore in termini di nefroprotezione: si poteva quindi stimare che trattare in tal modo 1000 soggetti con diabete e CKD per 1 anno avrebbe consentito di evitare 3 ingressi in dialisi e ottenere 90 regressioni dell’albuminuria [34]. Va comunque sottolineato che tale approccio necessita di estrema attenzione, gestendo la terapia concomitante per evitare valori pressori troppo bassi e prevedendo la sospensione dell’inibizione del RAAS durante episodi acuti intermittenti quali disidratazione o iperpiressia.

 

Non sospendere la terapia nelle fasi avanzate della malattia renale cronica

L’uso di ACEIs e ARB assicura certamente una protezione renale efficace, tuttavia nei soggetti anziani, in quelli con CKD stadio IV-V o nei pazienti che hanno avuto un brusco calo del GFR dopo l’inibizione del RAAS il loro utilizzo è stato messo in discussione per il rischio potenziale di compromissione della funzione renale residua. Esso infatti è stato oggetto di una controversia dell’NKF-KDOQI [35]. L’analisi della letteratura però consente oggi di fugare questi dubbi e di poter asserire che questa terapia non solo non va sospesa negli stadi avanzati della CKD in quanto non accelera il declino funzionale, ma soprattutto perché consente un decisivo vantaggio in termini di protezione cardiovascolare. Ad esempio, in un’ampia popolazione di soggetti ipertesi e anemici con CKD stadio V, l’uso di ACEIs/ARB si associava ad un minor rischio di ESRD o decesso del 6% [36]; al contrario, nei pazienti che sospendevano tale terapia si poteva registrare un aumento della mortalità totale e degli eventi cardiovascolari maggiori, senza alcun beneficio sulla funzione renale [37, 38]. Una risposta definitiva veniva infine dallo studio randomizzato e controllato STOP-ACEi che dimostrava ancora una volta che nei pazienti con CKD avanzata la sospensione dell’inibizione del RAAS non si associava ad alcun beneficio a lungo termine sui valori di GFR [39].

In ogni caso, su pazienti particolarmente fragili bisogna cercare sempre di individualizzare la terapia, per cui ove si riscontrino ripetuti episodi ipotensivi o perdita acuta della funzione renale oltre il 20%, la sospensione di ACEIs/ARB può essere presa in esame, considerando sempre che togliamo una protezione cardiovascolare al nostro paziente. Al giorno di oggi l’iperpotassiemia non dovrebbe rappresentare più un problema clinico rilevante, data la disponibilità di nuovi ed efficaci chelanti.

 

Limitata efficacia dei bloccanti del RAAS, necessità di una terapia multifattoriale

Nonostante l’inibizione del RAAS rappresenti la base fondamentale della nefroprotezione, essa risulta chiaramente insufficiente. Se riconsideriamo i dati dei trial IDNT [15] e RENAAL [16], vediamo come il rischio si riduca rispettivamente del 16% e 20%, ma il rischio residuo rimane ancora molto alto. Inoltre, l’uso di questi farmaci non è così estensivo come si potrebbe supporre. Dati statunitensi confermano che nella CKD solo il 34,9% viene trattato con ACEIs/ARB, senza alcun miglioramento di tali percentuali negli ultimi anni [40], per cui in generale il loro utilizzo rappresenta l’eccezione, tranne che nei sottogruppi con diabete mellito o patologia cardiaca. Esiste quindi una vasta area di miglioramento, anche alla luce di quanto esposto nel paragrafo precedente, ma verosimilmente il timore di effetti collaterali frena molto il loro uso estensivo nella medicina generale.

Una nefroprotezione più efficace oggi è però possibile attraverso l’uso ottimale di una terapia multifattoriale volta a prevenire sia gli eventi cardiovascolari che l’ESRD. Gli SGLT2-inibitori sono in grado di ridurre l’iperfiltrazione glomerulare e l’albuminuria con effetti nefroprotettivi in tutto lo spettro della CKD, diabetica e non [41], con elevata protezione cardiovascolare indipendentemente dalla presenza di diabete mellito. Il loro utilizzo dovrà quindi essere esteso ad un’ampia fascia della popolazione con CKD, indipendentemente dal livello di albuminuria, come un nuovo standard di cura nonché quale prevenzione della CKD stessa nel diabete di tipo 2 [42]. In quest’ultima categoria di pazienti, ulteriori classi di farmaci quali gli agonisti recettoriali del GLP-1 e gli antagonisti non steriodei dei mineralcorticoidi possono essere considerati standard di trattamento per migliorare gli outcome renali, cardiovascolari e di sopravvivenza [43]. È necessario oggi un grande sforzo educativo per gli operatori sanitari affinché l’uso di questi presidi venga sufficientemente implementato nella pratica clinica quotidiana. La presa in carico infatti deve essere olistica, con una visione complessiva delle necessità del paziente con un approccio terapeutico multifattoriale per massimizzare i benefici renali e cardiovascolari.

 

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Sindrome nefrosica congenita: ruolo del gene PODXL

Abstract

Negli ultimi decenni la comprensione dei difetti genetici associati alle podocitopatie ereditarie è progredita in modo significativo. Ciò è stato possibile grazie allo sviluppo delle tecnologie di sequenziamento di nuova generazione che permettono di analizzare un ampio pannello di geni a un costo inferiore rispetto al passato. L’identificazione di nuove mutazioni genetiche ha aiutato a riconoscere l’importanza del podocita nel mantenimento della barriera di filtrazione e a comprendere i meccanismi che regolano la biologia e la patologia podocitaria. Di seguito riportiamo un caso di sindrome nefrosica congenita determinata da una mutazione a livello del gene PODXL. Questo gene codifica per la podocalixina, una sialoglicoproteina presente a livello del glicocalice dei podociti, che svolge un ruolo importante nel mantenimento dell’architettura dei processi pedicillari. Una mutazione a livello di questo gene determina una disfunzione a livello della barriera di filtrazione, con conseguente perdita di permeabilità e sviluppo di proteinuria.

Parole chiave: Proteinuria, Sindrome Nefrosica Congenita, Podocita, PODXL, Podocalixina

Introduzione

La barriera di filtrazione glomerulare è un’unità altamente specializzata, costituta da tre strati: l’endotelio fenestrato, la membrana basale glomerulare (MBG) e le cellule epiteliali viscerali, i podociti. I podociti sono cellule altamente differenziate con un’architettura unica, costituita da un corpo principale, dei processi maggiori e dei prolungamenti basali chiamati processi pedicillari [1]. La loro particolare forma è dovuta ad un citoscheletro ricco in microfilamenti, la cui componente fondamentale è l’actina [1]. I processi pedicellari dei podociti si interdigitano con i processi pedicellari dei podociti confinanti attraverso proteine extracellulari organizzate in una giunzione cellulare specializzata detta “slit diaphragm” (SD) [2].

La funzione dello SD è quella di filtro molecolare, permettendo il passaggio di acqua e piccole molecole e trattenendo componenti del plasma e proteine di alto peso molecolare [2]. La MBG e i podociti essendo inoltre carichi negativamente sono in grado di respingere le proteine anioniche del siero, agendo come barriera di carica oltre che di dimensione [3]. Mutazioni nei geni codificanti per le proteine dello SD determinano un’alterazione di questo complesso network, conducendo al fenomeno morfologico della fusione dei pedicelli e allo sviluppo di proteinuria, configurando il quadro di sindrome nefrosica [3].

Per sindrome nefrosica congenita si intende un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzate da proteinuria a intervallo nefrosico, ipoalbuminemia ed edema, che si manifestano in utero o durante i primi tre mesi di vita. La malattia è causata principalmente da difetti genetici nei podociti; circa due terzi dei casi di esordio di sindrome nefrosica congenita nel primo anno di vita sono legati a mutazioni in questi quattro geni: NPHS1, NPHS2, WT1 e LAMB2 [4]. In rari casi, tuttavia, è determinata da infezioni congenite o da malattie autoimmuni materne. La sindrome nefrosica congenita non risponde ad alcuna terapia con immunosoppressori e il trattamento è per lo più sintomatico [5]. La maggior parte dei bambini sviluppa una malattia renale terminale, che richiede una terapia renale sostitutiva entro i primi due-tre anni di vita. La sopravvivenza a cinque anni dei pazienti e dell’organo trapiantato è del 90% circa [6].

 

Caso clinico

Riportiamo il caso clinico di un paziente nato a 37+4 settimane gestazionali da gravidanza normodecorsa con controlli ecografici regolari. APGAR 1′ 9, 5′ 10. L’esame obiettivo e il monitoraggio glicemico alla nascita sono risultati nella norma. In seconda giornata di vita per comparsa di clonie agli arti superiori il paziente è stato trasferito in Terapia Intensiva Neonatale dove è stata eseguita un’ecografia transfontanellare cerebrale, con evidenza di emorragia cerebrale destra. Sono state eseguite una TC encefalo in urgenza e successiva RM encefalo di approfondimento, con riscontro di una vasta lesione ischemica a carico del territorio dell’arteria cerebrale media destra e dei suoi collaterali, focolai emorragici intraparenchimali bilaterali sovratentoriali, emorragia intraventricolare nel terzo ventricolo ed occlusione del seno trasverso di sinistra. È stata eseguita una registrazione EEG risultata compatibile con grave insulto ischemico emisferico destro.

Gli esami di laboratorio hanno mostrato una funzionalità renale nella norma, piastrinopenia, ipocalcemia, ipoalbuminemia refrattaria alle somministrazioni di albumina e alterazione della coagulazione, per cui sono state eseguite due supplementazioni di antitrombina III. Non sono mai stati riscontrati segni laboratoristici di infezione. Il successivo riscontro di proteinuria (0,67 g/24h, rapporto proteinuria/creatininuria 3512 mg/mmol) confermava la causa renale dell’ipoalbuminemia e poneva il sospetto di sindrome nefrosica congenita. Nel sospetto di sindrome nefrosica congenita, a completamento diagnostico, sono stati eseguiti ANA e ENA risultati negativi, C3 e C4 risultati nella norma. L’elettroforesi delle proteine sieriche (albumina 48,6 %, alfa1 10,1 %, alfa2 30,3%, beta 9,3%, gamma 1,7%) è risultata indicativa di perdita proteica e l’ecografia dell’addome mostrava reni aumentati di volume con diffusa accentuazione dell’ecogenicità parenchimale, segni compatibili con nefropatia acuta. Durante il ricovero è stata eseguita una valutazione multidisciplinare con coinvolgimento di neurologo, nefrologo, cardiologo e specialista di malattie trombotiche ed emorragiche al fine di comprendere la causa dell’evento vascolare cerebrale. Dal punto di vista cardiologico, alla revisione dei precedenti esami ecocardiografici, veniva escluso che ci fosse stata una lesione trombotica coinvolgente il forame ovale, che inoltre presentava e aveva sempre presentato shunt sinistro-destro. Dal punto di vista nefrologico il paziente presentava un quadro di proteinuria in range nefrosico ma non tale da determinare una perdita significativa di fattori della coagulazione in grado di spiegare, come unica causa, l’evento cerebrovascolare. Sono stati quindi soppesati rischi/benefici di un’eventuale profilassi eparinica ed il rischio di poter presentare nuovi eventi trombotici cerebrali. È stato eseguito nuovo dosaggio della proteina C e la proteina S risultate nella norma ed è stato collegialmente deciso di non avviare la terapia eparinica. L’anamnesi familiare è risulta silente per patologie nefro-urologiche, la madre e il fratello maggiore sono in buona salute, il padre è affetto da spondilite anchilosante.

Attualmente il paziente ha tre anni ed è in buone condizioni cliniche. Esegue un monitoraggio mensile della funzionalità renale che si mantiene nella norma con buon equilibrio elettrolitico e acido-base. In assenza di sintomi, presenta un quadro di nefrosi bioumorale con ipogammaglobulinemia e ipoalbuminemia che necessitano di frequenti supplementazioni endovenose di albumina e di immunoglobuline. È seguito da un punto di vista neuropsichiatrico ed esegue riabilitazioni fisioterapiche e logopedistiche una volta alla settimana. Il sequenziamento mirato di nuova generazione per l’analisi molecolare di geni associati a glomerulopatia ha portato all’identificazione di una variante troncante nel gene PODXL in eterozigosi: NM_001018111.2: c.480dupG p(Lys161Glufs*14).

 

Discussione

Il gene PODXL codifica per la podocalixina, una scialoglicoproteina transmembrana a singolo passaggio altamente espressa a livello di endotelio vascolare, cellule ematopoietiche e cellule del sistema nervoso [7]. La podocalixina è l’antigene di superficie cellulare più altamente glicosilato e carico negativamente espresso sul glicocalice dei podociti nei roditori e nell’uomo, e svolge un ruolo importante nella morfogenesi e nella differenziazione dei podociti [8]. Grazie alla carica negativa del dominio extracellulare funge da anti-adesina mantenendo separati i pedicelli adiacenti e facendo sì che le fessure di filtrazione rimangano pervie [7]. La porzione intracellulare della podocalixina si lega all’actina tramite due strutture specifiche: Ezrin, un membro della famiglia ERM, e il fattore di regolazione dello scambiatore Na+/H+ 1 e 2 (NHERF1 e NHERF2) [9]. Il complesso trimerico PODXL/NHERF2/Ezrin svolge un ruolo centrale nel mantenimento della struttura dei podociti glomerulari in quanto interagisce direttamente con il citoscheletro di actina [9]. L’interruzione patologica del citoscheletro di actina mediata da PODXL determina una disfunzione a livello della barriera di filtrazione, con conseguente perdita di permeabilità e lo sviluppo di proteinuria [9].

Il gene che codifica per la podocalixina è stato mappato a 7q32-q33 mediante ibridazione in situ fluorescente [10]; contiene 9 esoni e codifica per due isoforme [11]. Il gene PODXL è stato recentemente associato a forme recessive (varianti eterozigoti composte) e dominanti di nefropatie familiari (OMIM#602632).

Analizzando i casi ad oggi presenti in letteratura, nel 2014 Barua et al. attraverso il sequenziamento dell’esoma di due cugini appartamenti a una famiglia affetta da glomerulosclerosi focale-segmentale autosomica dominante hanno identificato una nuova variante in PODXL [12]. Questa variante cosegrega con la malattia, pur con penetranza incompleta [12]. Nel 2017 Kang et al. hanno riportato il caso di un neonato affetto da sindrome nefrosica congenita, onfalocele e microcoria dovuta a due mutazioni autosomiche recessive loss of function in PODXL, in particolare una variante missenso (p.M1I) e una variante nonsenso (p.W341*), ereditate rispettivamente dal padre e dalla madre [13]. In un recente articolo pubblicato nel 2018 Lin et al. hanno identificato delle mutazioni autosomiche dominanti con perdita di funzione nel gene PODXL in grado di determinare glomerulosclerosi focale-segmentale in età adulta in due differenti alberi genealogici: la mutazione in c.C976T (p. Arg326X) nell’albero genealogico cinese era associata a proteinuria e insufficienza renale; la mutazione in c.C1133G (p. Ser378X) nell’albero genealogico indiano era associata a glomerulosclerosi focale-segmentale [14]. Nello stesso lavoro è stato inoltre dimostrato tramite studi in vitro che mutazioni nonsenso in eterozigosi di PODXL possono causare glomerulosclerosi focale-segmentale [14]. Infine, nel 2021 Marx et al. hanno eseguito il sequenziamento dell’esoma in tre generazioni di una famiglia affetta da una nefropatia glomerulare atipica, in cui diversi membri mostravano nefropatia proteinurica e insufficienza renale cronica variabile, con manifestazioni che andavano dall’assenza di insufficienza renale all’insufficienza renale, allo stadio terminale e alla morte durante l’infanzia. Il sequenziamento dell’esoma ha rivelato una nuova variante nonsenso cosegregante con la malattia (c.1453C>T, NM_001018111 ) nel gene PODXL, che porta a un codone di stop prematuro (p.Q485*) e determina la perdita della coda intracitoplasmatica della proteina [15].

Nel tentativo di spiegare l’elevata eterogeneità fenotipica legata alle mutazioni in PODXL, nel 2020 Ido Refaeli et al. hanno ricercato, con studi condotti in vitro, una correlazione tra la tempistica della delezione di PODXL durante lo sviluppo dei podociti e il fenotipo di filtrazione glomerulare osservato [16]. È stato dimostrato che i topi null knockout per PODXL muoiono poco dopo la nascita per anuria e ipertensione. I topi in cui l’espressione di PODXL viene alterata durante le fasi di sviluppo nefrogenico sviluppano sindrome nefrosica congenita acuta caratterizzata da glomerulosclerosi focale segmentale (FSGS) e proteinuria [16]. Infine, i topi con mutazioni in eterozigosi per PODXL, hanno una durata di vita normale e non sviluppano malattie renali in condizioni normali [16]. A seguito di un secondo colpo ambientale, i podociti mutanti sono aploinsufficienti e questo determina lo sviluppo di FSGS e proteinuria [16]. Analizzando i dati presenti in letteratura, Ido Refaeli et al. nel 2019 hanno cercato di spiegare il ruolo delle mutazioni eterozigoti nonsenso del gene PODXL nell’eziopatogenesi della malattia [17]. L’ipotesi che il gene mutato sia causa di malattia è supportata dalla stretta segregazione osservata nelle famiglie affette e dai dati funzionali in vitro, in cui sono stati osservati livelli ridotti di podocalixina nei podociti alterati [14]. È anche possibile, tuttavia, che le mutazioni eterozigoti nonsenso aumentino la suscettibilità di un individuo alla podocitopatia senza causare spontaneamente la malattia. I topi con mutazioni in eterozigosi hanno infatti una durata di vita normale con un’architettura renale funzionale in grado di filtrare normalmente l’urina [16]. Si potrebbe prevedere, tuttavia, che quando sottoposti allo stress ambientale appropriato (dieta, nefrotossine, ecc.) questi topi possano mostrare una maggiore suscettibilità alle malattie renali [17].

L’unico caso clinico descritto in letteratura di sindrome nefrosica congenita associata a mutazione di PODXL è quello riportato da Kang et al. nel 2017 [13]; questo caso tuttavia è dovuto alla presenza di due mutazioni autosomiche recessive loss of function in PODXL che determinano una completa perdita di funziona del gene. Il paziente ha infatti mostrato una clinica molto simile a quella presentata da topi knockout per PODXL ed è deceduto a 130 giorni per sepsi; il giorno 48 il paziente ha mostrato delle convulsioni che sono state in prima ipotesi considerate sequele di sepsi, non si può tuttavia escludere un ruolo funzionale diretto di PODXL nel cervello dato che PODXL è ampiamente espresso nel cervello in via di sviluppo e nella barriera emato-encefalica [13]. In nessuno dei casi presenti in letteratura vengono riportate conseguenze cerebrovascolari.

In conclusione, abbiamo riportato il caso di un paziente affetto da una mutazione in eterozigosi a livello di PODXL, che ha manifestato un insulto cerebrovascolare poco dopo nascita, associato ad un quadro di nefrosi bioumorale.

Tale sintomatologia può essere in parte spiegata con la perdita di fattori della coagulazione relati alla sindrome nefrosica, in parte considerando l’importante ruolo svolto da PODXL nell’equilibrio endoteliale.

Si tratta di una variante non ancora descritta in letteratura come causativa di malattia, il cui significato non è ancora chiaro. Ad ogni modo, data anche l’espressione di tale gene anche a livello endoteliale e l’espressione clinica della patologia, appare verosimile come nel nostro paziente il gene PODXL sia stato sicuramente implicato nello sviluppo della patologia.

 

Conclusioni

I casi ad oggi riportati in letteratura, in particolar modo in ambito pediatrico, sono pochi e presentano una notevole eterogeneità nell’insorgenza della malattia, nell’intensità della proteinuria e nelle conseguenze in termini di insufficienza renale. Il caso descritto e la revisione dei casi presenti in letteratura consentono tuttavia di focalizzare l’attenzione sulla cellula podocitaria e sul gene PODXL che codifica per la podocalixina, la cui funzione è cruciale per la morfologia e la funzione del podocita nella barriera di filtrazione glomerulare. Sono necessari ulteriori studi per comprendere il significato delle mutazioni in eterozigosi nel gene PODXL, in particolare per quelle varianti alleliche per le quali non è confermato il loro contributo nello sviluppo della malattia e che rimangono tutt’oggi a significato sconosciuto.

 

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  15. Marx D, Caillard S, Olagne J, Moulin B, Hannedouche T, Touchard G, Dupuis A, Gachet C, Molitor A, Bahram S, Carapito R. Atypical focal segmental glomerulosclerosis associated with a new PODXL nonsense variant. Mol Genet Genomic Med. 2021 May;9(5):e1658. https://doi.org/10.1002/mgg3.1658.
  16. Refaeli I, Hughes MR, Wong AK, Bissonnette MLZ, Roskelley CD, Wayne Vogl A, Barbour SJ, Freedman BS, McNagny KM. Distinct Functional Requirements for Podocalyxin in Immature and Mature Podocytes Reveal Mechanisms of Human Kidney Disease. Sci Rep. 2020 Jun 10;10(1):9419. https://doi.org/10.1038/s41598-020-64907-3.
  17. Refaeli I, Hughes MR, McNagny KM. The first identified heterozygous nonsense mutations in podocalyxin offer new perspectives on the biology of podocytopathies. Clin Sci (Lond). 2019 Feb 8;133(3):443-447. https://doi.org/10.1042/CS20181067.

Farmaci anti-angiogenici e ipertensione arteriosa: dalla collaborazione multidisciplinare alla maggior cura

Abstract

I farmaci anti-angiogenici sono ampiamente utilizzati in ambito oncologico. Questi hanno come principale bersaglio d’azione il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) e i suoi recettori (VEGF-R). La loro funzione principale è ridurre la crescita del tumore primario e delle sue metastasi agendo in particolare sul fenomeno della neo-angiogenesi tumorale. Tuttavia, non sono esenti da effetti collaterali, quali: ipertensione, danno renale acuto (AKI) e insufficienza cardiaca congestizia.
Metodi: studio retrospettivo condotto su 57 pazienti consecutive affette da carcinoma dell’ovaio. Pazienti trattate con Bevacizumab, come trattamento di prima linea, trattamento della recidiva o di mantenimento (2015-2022).
Risultati: secondo la stadiazione FIGO il 98.2% (56 su 57) delle pazienti in studio presentava grado terzo di malattia (G3). Il 49% delle pazienti hanno sviluppato ipertensione dopo l’inizio della terapia con Bevacizumab (82% grado 2 secondo CTCAE v.5). L’89% delle pazienti ipertese ha iniziato un trattamento e la gestione è stata multidisciplinare con consulenza nefrologica nel 68% dei casi. Solo 3 donne su 57 hanno interrotto il trattamento a causa di ipertensione e in uno solo di questi non è stato possibile riprenderlo.
Conclusioni: la valutazione del paziente da parte di un’equipe multidisciplinare (ginecologo e nefrologo) è fondamentale per ridurre al minimo la morbilità e mortalità delle pazienti ed evitare l’interruzione del trattamento antineoplastico.

Parole chiave: farmaci anti-angiogenici, nefrotossicità, proteinuria, ipertensione, tumore ovarico, equipe multidisciplinare

Introduzione

I farmaci anti-angiogenici hanno lo scopo di prevenire e/o rallentare la crescita tumorale. Questi possono causare diversi effetti collaterali, tra i quali emerge l’ipertensione, definita nella Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) come pressione arteriosa (PA) >140/90 mmHg o un aumento della pressione arteriosa diastolica (PAD) >20 mmHg rispetto al basale.

In questo lavoro, che vuole essere un percorso in questo complesso ambito onconefrologico, presentiamo dapprima il caso di una donna di 74 anni affetta da tumore dell’ovaio trattata con Bevacizumab che, a causa dello sviluppo di ipertensione, ha dovuto interrompere il trattamento, ripreso poi grazie alla valutazione della paziente da parte di un’equipe multidisciplinare (ginecologo e nefrologo). Vengono quindi riportati i risultati di uno studio retrospettivo su 57 pazienti consecutive trattate con Bevacizumab con lo scopo di verificare se e come la collaborazione interdisciplinare tra nefrologo e ginecologo fosse efficacie e funzionale: è stata valutata l’incidenza di ipertensione e proteinuria, se fosse stato richiesto consulto specialistico nefrologico e se fosse stato completato il trattamento. 

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Immunosuppressive therapy reduction and early post-infection graft function in kidney transplant recipients with COVID-19

Abstract

Background: Kidney transplant (KT) recipients with COVID-19 are at high risk of poor outcomes due to the high burden of comorbidities and immunosuppression. The effects of immunosuppressive therapy (IST) reduction are unclear in patients with COVID-19.
Methods: A retrospective study on 45 KT recipients followed at the University Hospital of Modena (Italy) who tested positive for COVID-19 by RT-PCR analysis.
Results: The median age was 56.1 years (interquartile range,[IQR] 47.3-61.1), with a predominance of males (64.4%). Kidney transplantation vintage was 10.1 (2.7-16) years, and 55.6 % of patients were on triple IST before COVID-19. Early immunosuppression minimization occurred in 27 (60%) patients (reduced-dose IST group) and included antimetabolite (88.8%) and calcineurin inhibitor withdrawal (22.2%). After SARS-CoV-2 infection, 88.9% of patients became symptomatic and 42.2% required hospitalization. One patient experienced irreversible graft failure. There were no differences in serum creatinine level and proteinuria in non-hospitalized patients before and post-COVID-19, whereas hospitalized patients experienced better kidney function after hospital discharge (P=0.019). Overall mortality was 17.8%. without differences between full- and reduced-dose IST. Risk factors for death were age (odds ratio [OR]: 1.19; 95%CI: 1.01-1.39), and duration of kidney transplant (OR: 1.17; 95%CI: 1.01-1.35). One KT recipient developed IgA glomerulonephritis and two ones experienced symptomatic COVID-19 after primary infection and SARS-CoV-2 mRNA vaccine, respectively.
Conclusions: Despite the reduction of immunosuppression, COVID-19 affected the survival of KT recipients. Age of patients and time elapsed from kidney transplantation were independent predictors of death . Early kidney function was favorable in most survivors after COVID-19.

Keywords: COVID-19, kidney transplant, immunosuppressive therapy, graft function, proteinuria, mortality, transplant, SARS-COV-2, reinfection

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in inglese.

Introduction

Since SARS CoV-2 infection was first identified in December 2019, the pandemic spread quickly around the world, with a disruptive impact on social and economic life. This virus yielded several new challenges to our healthcare systems that had to cope with an increased rate of morbidity and mortality among the most vulnerable populations [1]. Kidney transplant (KT) recipients are a subset of the population at high risk of severe COVID-19 due to the high burden of comorbidities and the cumulative side effects of immunosuppressive therapy (IST) [2]. Data collected so far show that transplant recipients are extremely susceptible to the SARS-CoV-2 infection, much more than the general population [3, 4]. The causes are multiple, but principally revolve around the use of long-term IST.

Despite the great emphasis on early IST reduction to face the potentially lethal consequences of COVID-19, no confirming data supports its beneficial effect in terms of survival or clinical manifestations. Additional uncertainty arises from the recent literature reporting that a tempered immune response is thought to prevent COVID‐19–induced systemic inflammatory syndrome. To date, data regarding early graft outcomes after COVID-19 are scarce [5]. It is worth noting that graft survival may be threatened by non-reversible episodes of kidney injury [6, 7]. Lastly, a concerning issue may be the hyporesponsiveness to anti-SARS-CoV-2 vaccination [8, 9]. Numerous studies have confirmed that KT recipients have a blunted immune response to mRNA vaccines [10]. Only 48% of patients were able to develop a protective serologic response to SARS-CoV-2 [11]. Caillard et al [12] reported that about one-third of kidney transplant patients had severe manifestations, including a fatal outcome, despite COVID-19 vaccination. This group of patients is therefore expected to remain vulnerable to the severe complications of COVID-19 until new strategies will be implemented to reduce the susceptibility of these subjects.

Considering all the uncertainties in the management of KT recipients and the high risk of severe COVID-19 manifestations within this cohort of patients, we report our experience in managing KT recipients with COVID-19. In particular, we focus on the impact of early IST reduction, and early graft function after the resolution of the infection.

 

Material and methods

Kidney transplant outpatient clinic

This kidney transplant outpatient clinic follows more than 500 KT recipients, including combined liver and pancreas-kidney transplantation. Outpatient service was delivered by a senior nephrologist with experience in kidney transplantation, one fellow and three nurses. A 24-h, 7/7 days per week service was available for KT recipients in case of kidney-related pathologic processes (anuria, fluid overload) or infections. This service was also offered to the subjects transplanted in our Center but living far away from it.

During COVID-19 all the patients were instructed to call the clinic in case of COVID-19 symptoms. Despite the reduction of non-essential healthcare services, our outpatient clinic continued to deliver care to KT recipients, adopting all the containment measures (triage at entry, masking, social distancing and hands hygiene) to prevent COVID-19 diffusion. A telephonic triage was performed for all patients before reaching the hospital to intercept paucisymptomatic patients.

Patients with symptoms were invited to perform nasal swabs using RT-PCR and were visited in a dedicated room to assess vital parameters and clinical conditions. According to the severity of the symptoms, patients were sent home or to the emergency room. To reduce the workload of the emergency room, patients were managed as outpatients unless they developed severe symptoms that required hospital admission. The monitoring of noncritical patients was mostly performed via phone calls and emails.

According to our internal protocol and taking into account the opinions of European experts [13, 14], immunosuppression was modulated as follow:

  • for asymptomatic or mild COVID-19 patients (i.e., mild upper respiratory and/or gastrointestinal symptoms, temperature <38°C without dyspnea) in triple therapy (calcineurin-inhibitors [CNI] + mycophenolate acid [MPA]/azathioprine [AZA] + steroids), MPA or AZA was withdrawn, and a dual therapy (CNI + steroid) was continued. If the patients were on dual therapy (CNI + mammalian target of rapamycin inhibitor [mTOR-i] or CNI + MPA), MPA/mTOR was withdrawn and replaced with a low dose of steroids (i.e., methylprednisolone 4 or 8 mg once-daily).
  • for moderate (signs and symptoms of lower respiratory disease or saturation of oxygen [SpO2] ≥94% on room air at sea level) and severe COVID-19 (SpO2 <94% on room air at sea level, a ratio of arterial partial pressure of oxygen to fraction of inspired oxygen [PaO2/FiO2] <300 mm Hg, respiratory frequency >30 breaths per minute, or lung infiltrates >50%) all immunosuppressors, but steroids, were stopped. The prescription of anti-inflammatory and immunomodulant steroid therapy for symptomatic COVID-19 patients (dexamethasone at a dose of 6 mg once daily for up to 10 days) was not part of the anti-rejection therapy and was administered by COVID-19 experts.

COVID-19 population

The study population was comprised of kidney transplant recipients with COVID-19 with a complete follow-up, including death or discharge from hospital.

We retrospectively reviewed the electronic charts of all KT recipients with COVID-19 from March 7, 2020, to June 25, 2021. During this period we performed 144 nasopharyngeal swabs. The diagnosis of COVID-19 was performed through reverse transcriptase-polymerase chain reaction (RT-PCR) assay on a nasopharyngeal swab. We excluded patients aged <18 years. Kidney function was estimated by glomerular fraction rate (eGFR) using the CKD-EPI equation. Occasionally, some data were missing for patients admitted to a hospital located far from our Center.

This study has been authorized by the local Ethical Committee of Emilia Romagna (n. 839/2020). The study protocol complies with the guidelines for human studies and includes evidence that the research was conducted ethically in accordance with the World Medical Association Declaration of Helsinki.

Statistical analysis

Baseline characteristics were described using median (interquartile range [IQR]) or frequencies, as appropriate. The chi-square or Fisher’s test, and student’s t-test were used to compare categorical and continuous variables between groups, respectively. Univariate and multivariate logistic regressions were performed to test the association between mortality and baseline patient characteristics. Variables that were significant on univariate analysis (P=<0.05) were entered into the multivariate model to identify independent predictors. Results were expressed as odds ratios (OR) and 95% confidence intervals (CI). Univariate and multivariate logistic regression analysis determined risk factors for death. A P value of <0.05 was considered statistically significant. All statistical analyses were performed using SPSS® statistical software.

 

Results

Characteristics of COVID-19 population

From the beginning of the COVID-19 pandemic in Italy, 45 KT recipients followed in our center contracted COVID-19. The demographic and clinical characteristics of these patients are detailed in Table I. This group of patients included two (4.4%) combined liver-kidney and one (2.2%) heart-kidney transplant recipient. Seven (15.5%) patients were hospitalized in another structure because they lived far from our Center.

Variable All patients
(n.=45)
Reduced-dose IST
(n.=27)
Full-dose IST
(n.=18)
p-value
Age, year 56.1 (47.3-61.1) 55.9 (47.6-61.2) 56.1 (44.4-62) 0.85
Range 19.2-83.5 19.2-79.8 28.1-83.5
Males, n. (%) 29 (64.4) 18 (66.7) 110 (61.1) 0.75
Race/ethnicity 0.61
White, n. (%) 41 (91.1) 26 (92.6) 16 (88.9
Black, n. (%) 4 (8.9) 2 (7.4) 2 (11.1)
Transplant vintage, year 10.1 (2.7-16.01) 7.8 (2.4-15.2) 11.1 (4.7-21.1) 0.29
sCr pre-COVID-19, mg/dl 1.45 (1.18-1.84) 1.44 (1.18-1.81) 1.28 (1.14-1.82) 0.68
eGFR pre-COVID-19, ml/min 48.4 (36-64) 47.7 (35-64) 49.5 (38.6-67.9) 0.83
24-h proteinuria, mg/dl 87.4 (0.52-188.5) 72 (0.25-183) 145.5 (6.2-205) 0.69
Immunosuppressive therapy, n. (%)
CNI 39 (86.7) 24 (88.9) 15 (83.3) 0.67
mTOR-i 8 (17.8) 4 (14.8) 4 (22.2) 0.69
MPA 31 (68.9) 24 (88.9) 7 (38.9) 0.01
Steroid 36 (80) 23 (85.2) 13 (72.2) 0.44
IS regimen 0.001
Triple therapy 25 (55.6) 21 (77) 4 (22.2)
Double therapy 19 (42.2) 6 (22.2) 13 (72.2)
Monotherapy 1 (2.2) 0 (0) 1 (5.6)
Reduction IS therapy, n. (%) 27 (60) 27 (100) 0 (0) N/A
MPA withdrawal 24 (53.3) 24 (88.9) 0 (0) N/A
CNI or mTOR-i withdrawal 6 (13.3) 6 (22.2) 0 (0) N/A
Increase steroid 9 (5,4) 8 (29.6) 1 (5.6) 0.064
Comorbidities, n. (%)
HIV, HCV or HBV 6 (13.3) 3 (11.1) 3 (16.7) 0.65
Diabetes 5 (11.1) 4 (14.8) 1 (5.6) 0.63
Neoplasia 10 (22.2) 7 (25.9) 3 (16.7) 0.71
Graft rejection 4 (8.9) 1 (3.7) 3 (16.7) 0.13
CVD 12 (26.7) 7 (25.9) 4 (22.2) 77
Autoimmune disease 4 (8.9) 1 (3.7) 3 (16.7) 0.13
Previous severe infection 13 (28.9) 8 (29.6) 5 (27.7) 1
Symptomatic COVID-19, n. (%) 40 (88.9) 27 (100) 13 (72.2) 0.45
Hospitalization, n. (%) 19 (42.2) 14 (51.9) 5 (27.8) 0.13
Graft failure, n. (%) 1 (2.2) 1 (3.7) 0 (0) 1
ICU admission, n. (%) 9 (20) 4 (14.8) 5 (27.8) 0.28
Mortality, n (%) 8 (17.8) 4 (14.8) 4 (22.2) 0.69
Post-COVID-19 follow-up, day 70.5 (51-109) 76  (50.5-116.5) 69 (66-76) 0.57
Notes: eGFR denotes estimated glomerular filtration rate; CNI, calcineurin inhibitor; CVD, cardiovascular disease; HCV, hepatitis C; HBV, hepatitis B; IST, immunosuppressive therapy; MPA, mycophenolate acid; mTOR-I, mammalian target of rapamycin inhibitor; sCr, serum creatinine.
Table I:Demographics and clinical characteristics of KT recipients

The age of patients ranged from 19.2 to 83.5 years and the median was 56.1 (IQR, 47.3-61.1) years. COVID-19 was more prevalent in males than in females (64.4% vs 35.6%) and occurred after a median of 10.1 (2.7-16.01) years from transplantation.

Before the COVID-19 infection, serum creatine (sCr) was 1.45 (IQR 1.1-1.8) mg/dl corresponding to a median eGFR of 48.4 (IQR 36-64) ml/min. At the time of the COVID-19 diagnosis, more than half of the patients were in triple standard IST. Forty patients (88.9%) developed symptoms of COVID-19 and 19 of them (42.2%) required hospitalization. One patient returned to dialysis following acute kidney injury. Overall, nine patients (20%) were admitted to ICU for severe manifestations of COVID-91 and eight (17.8%) died.

Reduced- vs full-dose IST group

The entire population was subdivided into two groups: reduced-dose (n.=27; 60%) and full-dose IST (n.=18; 40%). There were no significative statistical differences in terms of demographic and clinical characteristics between the two groups. Statistical analysis detected significant differences in the prescription of IST. Patients who underwent reduction of immunosuppression (reduced-dose IST) were treated with a higher dose of IST before COVID-19; indeed, the rate of prescribed triple-drug IST was higher in this group than in full-dose IST patients (77% vs. 22.2%; P=<0.001).

In the reduced-dose IST group, MPA (88.8%) and CNI or mTOR-i (22.2%) were the most frequent discontinued agents. Conversely, the dose of steroids was increased in a third of patients and, in all of them, the administration of steroids changed from alternate days (methylprednisolone 2/0 or 4/0) to a daily regimen.

Hospitalization, ICU admission and death rate in patients who underwent IST reduction were 51.8%, 14.8% and 14.8%, respectively. However, despite IST reduction, hospitalization (P=0.13), ICU admission (P=0.28) and death (P=0.69) rates were not different from those of the full-dose IST group.

Outcomes of KT recipients with COVID-19

Univariate and multivariate logistic regression was performed to detect predictors of mortality (Table II). Multivariate analysis found that age (OR=1.19 [95%CI 1.01-1.39]; P=0.034) and years spent on immunosuppressive therapy (OR=1.17 [95%CI 1.01-1.35]; P=0.040) were associated with mortality in this group of patients.

Univariate Multivariate
Variable OR CI (95%) p-value OR CI (95%) p-value
Sex
Male 4.40 0.78 24.81 0.09  
Age (1-yr increase) 1.11 1.02 1.22 0.016 1.19 1.01 1.39 0.034
KT vintage (1-yr increase) 1.10 1.00 1.21 0.053 1.17 1.01 1.35 0.040
Steroid-based IST 1.93 0.21 18.08 0.56
Reduction IST 1.33 0.26 6.869 0.74
Increase of steroid 0.52 0.06 4.85 0.56
Triple IST 0.51 0.10 2.620 0.42
Double IST 1.96 0.38 10.026 0.42
GFR 0.99 0.95 1.026 0.57
GFR< 45ml/min 1.47 0.32 6.80 0.62
GFR 45-59 ml/min 0.68 0.15 3.16 0.62
sCr 1,33 0,26 6.87 0.73
Graft rejection 1.52 0.14 16.91 0.73
Autoimmune disease 0.00 0.00 0.99
HIV/HCV/HBV 2.58 0.38 17.43 0.33
Previous sever infection 0,73 0.13 4.19 0.72
Diabetes 1.11 0.11 11.49 0.93
Neoplasm 1.12 0.19 6.70 0.89
Cardiovascular disease 1.73 0.34 8.76 0.50
Notes: eGFR denotes estimated glomerular filtration rate; HCV, hepatitis C; HBV, hepatitis B; IST, immunosuppressive therapy; MPA, mycophenolate acid; mTOR-I, mammalian target of rapamycin inhibitor; sCr, serum creatinine.
Table II: Univariate and multivariate predictors of mortality through logistic regression analysis

Among the survivors (82.2%), one patient with a CKD stage 4 (GFR=20 ml/min) before SARS-CoV-2 infection developed irreversible graft failure requiring HD. One patient (2.7%) manifested de-novo proteinuria (4100 mg/die) after the resolution of COVID-19 and graft biopsy revealed IgA glomerulonephritis (the lack of data on the cause of CKD did not allow us to classify these histological findings as either de-novo or recurrent IgA glomerulonephritis). Lastly, one patient experienced symptomatic COVID-19 reinfection after the primary infection and another one following the SARS-CoV-2 mRNA vaccine. Early post-COVID-19 follow-up of 25 out of the 37 survivors showed that pre- and post-COVID variations of sCr, eGFR and 24-hour proteinuria were not statistically significant in outpatients after the resolution of COVID-19. A significantly lower sCr level (P=0.019) and eGFR (P=0.028) were measured after hospital discharge in hospitalized patients. No differences were noted in the level of daily proteinuria (Table III). The early follow-up of KT recipients after COVID-19 resolution did not show any new episodes of graft rejection.

Non-hospitalized patients Hospitalized patients
Pre-COVID-19 Post-COVID-19 p-value Pre-COVID-19 Post-COVID-19 p-value
sCr, mg/dl 1.31 (1.2-1.76) 1.33 (1.08- 1.7) 0.85 1.49 (1.1-1.8) 1.21 (0.9-2.1) 0.019
eGFR, ml/min 48.8 (40.5-62.1) 56.7 (41.5-67) 0.25 46.7 (36-64) 56.7 (41.5-67) 0.028
24-h proteinuria, mg/die 102 (6.2-205) 89.4 (37.2-246.4) 0.08 13(2.5-183) 44.7 (10.8-1141) 0.29
Notes: eGFR, estimated glomerular filtration rate; sCr, serum creatinine.
Table III: Early graft function post-COVID-19 in hospitalized and non-hospitalized KT recipients

 

Discussion

Numerous reports have alerted the scientific community regarding the unfavorable outcome of COVID-19 in patients with a reduced immune response [1, 15]. The results of this study confirmed that COVID-19 poses KT recipients at high risk of severe consequences.

In our cohort of KT recipients, COVID-19 carried with it a higher rate of symptoms, hospitalization and mortality compared to the general population [16, 17]. We found that in this cohort (45 KT recipients with COVID-19, median age 56.1), 40% of patients developed severe symptoms requiring hospitalization. Overall mortality was 17.8%, higher than the mortality reported in the general population, which ranges between 0.1-19.2% around the world and accounts for about 2.02% globally [18].

In an attempt to reconstitute the immune system against SAR-CoV-2 infection, we minimized the burden of IST in these patients. All KT recipients who communicated their COVID-19 positivity to our center, were advised to discontinue the antimetabolite agents (i.e., MFA or AZA) (88.9%) and CNI or m-TOR-i (22.2%). In the hospitalized patients, IST was further reduced or suspended, according to the clinical conditions of the patient. Nevertheless, hospitalization and death rates in the reduced-dose IST group were not dissimilar from the full-dose IST group.

At first glance, these results show that the reduction of immunosuppression did not confer any advantage in terms of patient survival. However, some considerations should be considered before drawing firm conclusions. Most patients who underwent IST reduction carried a significantly higher burden of IST compared to KT recipients whose therapy was left unmodified. The higher prevalence of triple-drug immunosuppressive regimen in patients who underwent IST minimization (77% vs. 22.2%; P=<0.001) has probably increased the vulnerability to COVID-19. Conversely, patients with a full-dose IST spent more time (11.2 vs 7.8 years) on kidney transplantation compared to the reduced-dose IST group. Lastly, we believe that the slight increase of steroid therapy (from alternate days to a daily administration) in the reduced-dose IST group (P=0.064) was too small to mitigate the inflammatory response driven by COVID-19.

Although the reduction of IST did not lead to a favorable outcome, it is worth mentioning that the overall mortality in our cohort was tendentially lower than that reported in other studies, where this approached up to 32.5% [1926]. Our results are in line with the population-based data on 1013 KT recipients affected by COVID-19 collected by the French and Spanish national registries, which reported a 28-day mortality of 20% [27]. In Italy, Bossini et al. [24] reported a higher overall mortality rate (28%) during the first wave of COVID-19 in the city of Brescia. Similarly to our therapeutic strategy, they discontinued immunosuppression in all hospitalized patients and introduced or increased the dose of steroids. The causes underlying these different mortality rates are unknown. The different timing of enrollment made the two cohorts not perfectly comparable. All patients in the Brescia cohort were enrolled during the first wave of COVID-19 in Europe, in an overwhelmed and unprepared hospital setting, within a timespan characterized by a high rate of experimental regimens and relative side effects [28, 29]. Lastly, a lower median age (56.1 vs. 60 years) in our cohort of patients probably contributed to the better prognosis.

Multivariate analysis showed that the predictors of death were age and time elapsed on IST, in line with previous studies. Age is widely associated with COVID-19 severity and death in KT recipients [30, 31] as well as in the general population [32]. The Centers for Disease Control (CDC) claims that 8 out 10 COVID-19 deaths in the U.S. occurred in adults over 65 and that the risk of hospitalization and death increases enormously with age [33].

The effect of immunosuppression is still controversial in KT recipients [34]. Immunosuppression is known to dysregulate innate and adaptive immunity, exposing the patients to severe infections. On the other hand, severe COVID-19 infection has been associated with a dysregulated inflammatory response (IL-6, IL-1, and chemokines) leading to ARDS and sepsis. The new insights support a promising role of immunosuppressants (i.e., tocilizumab, steroid) in tempering the immune response of patients with severe manifestations of COVID-19 [35].

Lastly, we report a short-term good graft function in patients who survived COVID-19. These data indicate a stable early graft function (sCr and 24-hour proteinuria) in outpatients who were not hospitalized. Conversely, hospitalized KT recipients had a statistically significant improvement in renal function. As stated also by Dacina et al. [5], we speculate that lower sCr after SARS-CoV-2 is due to the minimization or withdrawn of CNI, a ‘drug holiday’ apparently without dire consequences in terms of graft rejection.

Finally, the limitations of the study should be enumerated. It is a retrospective study, with a small sample size and a short follow-up after COVID-19. The small number of patients and the short observation period may have reduced the probability to observe an underlying difference between these two groups. Long-term follow-up is required to verify if the early improvement of kidney function after COVID-19 is maintained in the survivors. Furthermore, we cannot exclude that, in some cases, the reduction of IST occurred with a short delay after the diagnosis of COVID-19; however, all patients with symptoms underwent nasopharyngeal swabs as fast as possible in an ambulatory setting.

 

Conclusion

In our cohort of patients, the reduction of immunosuppression did not decrease the risk of severe COVID-19 or death. COVID-19 was associated with hospitalization (42%), graft failure (2.2%), IgA glomerulonephritis (2.2%) and death (17.8%). Age and time elapsed from kidney transplantation were independent predictors of death in our patients. Short-term follow-up after COVID-19 showed an excellent graft function in most survivors. Primary infection or vaccination did not exclude the risk of SARS-CoV-2 infection in KT recipients.

 

Authorship credit

Conception: Gaetano Alfano and Francesca Damiano

Collection of data: Camilla Ferri, Francesco Giaroni, Andrea Melluso, Martina Montani, Niccolò Morisi, Lorenzo Tei, Jessica Plessi

Analysis and interpretation of data: Gaetano Alfano, Francesco Giaroni, Francesca Damiano

Drafting the article: Gaetano Alfano, Francesco Fontana, Silvia Giovanella, Giulia Ligabue, Giacomo Mori

Intellectual Contribution: Francesco Fontana Gianni Cappelli, Giovanni Guaraldi

Revising the article: Gianni Cappelli, Giovanni Guaraldi

Approval of the version to be published: all authors

 

Acknowledgments

Special thanks are due to Marco Ballestri, Elisabetta Ascione, Roberto Pulizzi and Francesca Facchini, skilled and experienced nephrologists involved in the “Kidney Transplant Program”, and to Laura Bonaretti and all nurses of the “Kidney Transplantation Outpatient Clinic” at the University Hospital of Modena for their precious support in managing KT recipients.

 

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La terapia nutrizionale nella nefropatia cronica proteinurica

Abstract

La proteinuria è un noto marker di danno renale e rappresenta nel contempo un fattore importante nella progressione della malattia renale cronica stessa. La comunità scientifica ha sempre cercato di indagare e fornire risposte su come la terapia nutrizionale possa influenzare e modificare la proteinuria e quindi limitarne l’impatto sulla progressione a malattia renale terminale. Tuttavia, nonostante l’importanza dell’argomento, gli studi raramente sono rappresentati da trial randomizzati e controllati e comunque sono spesso limitati al solo apporto proteico e/o condotti su popolazioni molto eterogenee; infine, raramente indicano con precisione i valori di proteinuria. L’obiettivo di questo lavoro è quello di esplorare i differenti approcci nutrizionali e le loro implicazioni in diverse condizioni patologiche associate alla proteinuria.

Parole chiave: proteinuria, malattia renale terminale, terapia nutrizionale, basso apporto proteico, nefropatia cronica

Introduzione

La proteinuria è un noto fattore di rischio indipendente per la progressione ad end-stage renal disease. È un fattore di rischio spesso modificabile e la riduzione della proteinuria è una importante strategia nell’ottica di ritardare e prevenire la perdita della funzione renale stessa [1]. Le cause fisiopatologiche che correlano la proteinuria alla progressione del danno renale sono molteplici e riguardano diversi meccanismi di azione, che spesso rimangono ancora sconosciuti. Tra questi meccanismi, uno dei più importanti è rappresentato dall’alterazione della permeabilità della barriera glomerulare, derivata dall’attività delle proteasi e dalla riduzione della sintesi di proteoglicani, necessarie per il corretto mantenimento e funzionamento della barriera [2]. Nell’ambito del sovvertimento della struttura glomerulare, anche il transforming growth factor-beta (TGF-b) svolge un ruolo fondamentale nel processo di fibrosi e sclerosi glomerulare, incrementando la sintesi di matrice extracellulare [3]. Altri meccanismi che svolgono un ruolo fondamentale nella patogenesi della proteinuria sono rappresentati dai radicali liberi e dalle specie reattive dell’ossigeno [4].

In questo variegato scenario eziopatogenetico, la comunità scientifica ha cercato ormai da molti anni di indagare e fornire risposte su come la terapia nutrizionale possa influenzare, modificare e bloccare questi processi patologici. Questi studi non risultavano esclusivamente orientati alla riduzione del processo patologico che porta alla comparsa ed all’aumento della proteinuria, ma anche alla preservazione della funzione renale, in quanto, nel corso degli anni, l’influenza della proteinuria nella velocità di progressione dell’insufficienza renale appariva sempre più netta. Alla luce di ciò, la terapia nutrizionale, che spesso si limitava alla progressione dell’insufficienza renale, si è ampliata verso approcci riguardanti l’insorgenza e la riduzione della proteinuria.

Nonostante l’importanza dell’argomento, però, gli studi sono stati spesso limitati all’apporto proteico; spesso sono stati valutati su popolazioni troppo eterogenee; raramente indicavano con precisione i valori di proteinuria; avevano spesso follow-up limitati; raramente riguardavano trials randomizzati. L’obiettivo di questo lavoro è quello di esplorare i differenti approcci nutrizionali e la loro influenza sui vari meccanismi eziopatogenetici conosciuti. Si andrà ad esplorare l’efficacia clinica di alcuni approcci dietetici, segnalandone i possibili effetti collaterali.

 

La low protein diet e very low protein diet

La riduzione dell’apporto proteico è l’approccio terapeutico-nutrizionale più utilizzato ed esaminato. Questa strategia è nota sin dagli anni ‘80, da quando i gruppi di Brenner ed El-Nahas mostrarono come la low protein diet (LPD) riducesse l’iperfiltrazione e la sclerosi glomerulare nei ratti [5,6]. Sfortunatamente, da allora, la maggior parte degli studi ha studiato popolazioni che già presentavano una insufficienza renale cronica e raramente pazienti che avevano una funzione renale normale.

 

LPD e VLPD nella patologia renale cronica

Gli studi riguardanti questo argomento sono diminuiti negli ultimi anni e spesso ci dobbiamo riferire ad analisi compiute più di 10 anni fa. Più recentemente, sono state presentate alcune metanalisi che, pur non rappresentando studi originali, hanno comunque cercato di compiere una revisione analitica e fare maggiore chiarezza sui benefici di queste terapie nelle diverse popolazioni studiate (Tabella I).

Chaveau et al. nel 2007 analizzarono le modifiche della proteinuria come risposta ad una “very low protein diet” (VLPD) con supplementazioni amminoacidiche o di ketoanaloghi (sVLPD) in 220 pazienti consecutivi con Chronic Kidney Disease (CKD). Il protocollo dietetico prevedeva una dieta con: 0.3 g/Kg peso ideale/die di proteine di origine vegetale più un 1 g di proteine per ogni grammo di proteinuria eccedente i 3 g/die. La supplementazione era rappresentata da 1 compressa di ketoanaloghi misti ed aminoacidi essenziali ogni 5 Kg di peso corporeo. Il fosforo inorganico era circa 5-7 mg/kg/die. L’energia totale era di 35 Kcal/Kg/die. Per esempio, un paziente di 70 Kg con 6 g/die di proteinuria riceveva 21 +3 g di proteine di origine vegetale e 14 compresse di ketoanaloghi. L’ammontare di fosforo inorganico era di circa 420 mg/die, con un apporto calorico medico di circa 2450 Kcal/die. La popolazione veniva divisa in 2 gruppi, a seconda della proteinuria basale: 1-3 g/die e >3 g/die. Entrambi i gruppi mostrarono una riduzione della proteinuria di circa il 50%, ma in misura maggiore quelli con proteinuria basale maggiore. La massima efficacia fu raggiunta ai 3 mesi di terapia. I pazienti con una maggiore riduzione della proteinuria evidenziavano anche una minore progressione del declino dell’eGFR. Inoltre, la riduzione delle proteine urinarie influenzava positivamente anche i valori di albumina plasmatica e l’assetto lipidico generale. Gli autori supposero che, probabilmente, i pazienti “responder” nel breve periodo erano quelli che avevano migliori outcome, nel lungo periodo, rispetto al declino dell’eGFR. Questa supposizione faceva propendere verso una continuazione, nel lungo periodo, della terapia nutrizionale nei pazienti “responder” [7]. Le limitazioni più importanti di questo studio erano il piccolo sample size e l’arruolamento dei soli pazienti in uno stadio avanzato della patologia renale, ossia con stadio CKD IV e V.

Un recente studio cross-sectional realizzato a Taipei valutava l’associazione tra la dieta vegetariana e la prevalenza di CKD in un sample di 55113 pazienti. La dieta vegetariana era significativamente associata ad una minore prevalenza di CKD. La popolazione analizzata era eterogenea, con una prevalenza di CKD del 16.8% ed un eGFR medio di 84 ml/min per 1.73 m2. Veniva inoltre segnalata una ridotta prevalenza di proteinuria nel gruppo “vegano”. Le limitazioni di questo studio erano riconducibili ad un possibile bias di selezione ed una mancanza delle informazioni riguardanti l’apporto energetico e la composizione nutrizionale delle diete [8].

 

LPD, VLPD e ketoanaloghi

Nel 2013 veniva condotto un interessante e peculiare piccolo trial monocentrico, open-label, randomizzato e controllato, riguardante 17 pazienti con virus da Epatite B e glomerulonefrite cronica. Veniva valutato in questi pazienti l’effetto di una dieta ipoproteica in termini di outcomes e di asset nutrizionale. Tutti i pazienti avevano uno stadio I e II CKD e una proteinuria >1 g/die. Nove pazienti ricevevano una dieta ipoproteica a 0.6-0.8 g/kg/die di peso corporeo ideale, senza supplementazione; 8 pazienti ricevevano la stessa dieta ipoproteica con supplementazione di ketoanaloghi, al dosaggio di 0.1 g/kg/die. Il dato significativo è rappresentato dal fatto che il gruppo con supplementazione aveva una riduzione significativa della proteinuria delle 24 ore, sia a 6 mesi che a 12 mesi. Inoltre, il valore assoluto di proteinuria era significativamente minore nel gruppo con ketoanaloghi rispetto al gruppo in sola LPD (2.0 ± 1.8 vs 4.4 ± 2.7 g/24h). Infine, nel gruppo con supplementazione, l’aspetto nutrizionale rimaneva invariato durante tutta la durata del follow-up [9]. Questo studio dimostra come la dieta a ridotto apporto proteico supplementata con ketoanaloghi possa migliorare la proteinuria ed evitare la malnutrizione, rispetto alla dieta non-supplementata. Supporta inoltre la teoria che i ketoanaloghi possano ridurre i valori dei fattori pro-fibrotici come il TGF-β che, come visto in precedenza, è fortemente implicato nel sovvertimento della struttura glomerulare renale. Ovviamente lo studio, seppur innovative e caratteristico, è limitato dal basso numero di pazienti e dalla specificità della loro patologia di base.

La più recente metanalisi di trial clinici randomizzati controllati veniva pubblicata da Yue et al. nel 2019 e analizzava gli effetti della dieta a basso apporto proteico sulla funzione renale. Questa metanalisi, rispetto a precedenti studi, evidenziava come il principale effetto della dieta ipoproteica non fosse il miglioramento dell’eGFR, ma la riduzione della proteinuria. Nel dettaglio della metanalisi, 19 studi confermavano la non influenza della LPD sull’eGFR. Per quanto riguarda la proteinuria, invece, la riduzione di 0,1 g/Kg/die die proteine era associata ad una riduzione della proteinuria di 0,0031 g/die. Effettivamente questa riduzione non appariva clinicamente significativa, ma quando la terapia era più lunga di 1 anno, la riduzione diventava più evidente, con una riduzione di 0.673 g/die. La riduzione era leggermente inferiore quando l’età dei soggetti era maggiore di 60 anni (-0.526 g/die). Nei pazienti in LPD si segnalava anche la riduzione del peso corporeo, del BMI, dell’urea e del BUN [10].

Oltre a diversi studi che analizzano l’efficacia della restrizione proteica nella riduzione della progressione dell’insufficienza renale e nella riduzione o comparsa della proteinuria, sono presenti anche diversi lavori che analizzano la sicurezza clinica e gli effetti collaterali delle diete ad apporto proteico basso e molto basso. In questo contesto, l’effetto collaterale più pericoloso, e di conseguenza più indagato, è rappresentato dall’insorgenza della malnutrizione proteico-calorica. Una metanalisi condotta nel 2018 evidenziava come la LPD non causasse malnutrizione [11] e permettesse di garantire un bilancio azotato anche nella sindrome nefrosica. Questo bilancio sembrava essere garantito anche dal fatto che, come conseguenza della perdita urinaria di proteine, si instaurava un meccanismo di “salvataggio aminoacidico” [12]. Diversi studi, però, rimarcano l’importanza di un corretto apporto energetico nei pazienti sottoposti a dieta ipocalorica. In particolare, un apporto calorico di 30-35 kcal/kg/die può permettere di prevenire stati di malnutrizione [13]. In molti studi, infatti, la “protein energy wasting” viene rilevata, nelle diete a bassissimo contenuto di proteine, solo se l’apporto calorico risulta insufficiente [14].

Nella metanalisi di studi clinici randomizzati controllati avviata da Yue nel 2019, precedentemente analizzata, veniva eseguita una buona analisi della sicurezza a lungo termine della restrizione proteica, esaminando le implicazioni della LPD quando la durata del trattamento era superiore ai 12 mesi. La restrizione proteica influenzava significativamente il BMI, con una riduzione di 0.907 kg/m2 (CI: -1.491 to -0.322 kg/m2) e dell’albumina (-1.586 g/l; CI: -5.258 to 2.086 g/l), evidenziando come un lungo periodo di restrizione potesse essere un fattore di rischio per la comparsa di malnutrizione. Inoltre, la riduzione dell’apporto proteico ridurrebbe la secrezione dell’ormone della crescita e del glucagone.

Per quanto riguarda la VLPD, nell’analisi post hoc dello studio Modification of Diet in Renal Disease (MDRD) si evidenziava quanto la prescrizione di una VLPD potesse aumentare il rischio di mortalità nei pazienti con insufficienza renale cronica [15]. D’altra parte, ci sono numerosi studi che al contrario non evidenziavano la comparsa di deficit nutrizionali [16] e che non confermavano l’aumento del rischio di malnutrizione in questi contesti [17]. A tal riguardo, l’utilizzo di ketoanaloghi potrebbe avere un impatto nella riduzione del rischio di insorgenza di malnutrizione. Tale supplementazione migliora il bilancio azotato e migliora l’asset proteico [18]. Nell’ambito dello stato nutrizionale complessivo, non è da sottovalutare l’influenza che ha la riduzione della proteinuria nell’aumento dei livelli di albumina sierici. Questo aumento, oltre ad essere associato alla riduzione della perdita urinaria, potrebbe essere associato anche ad ulteriori adattamenti fisiologici del metabolismo proteico, in una condizione di ridotto apporto ed aumentata perdita. In particolare, tra i meccanismi attivati si segnalano: la riduzione dei processi di proteolisi, la riduzione dell’ossidazione amminoacidica e la stimolazione di sintesi proteica post-prandiale [19].

In definitiva, non è possibile fornire una univoca conclusione sulla sicurezza della LPD e VLPD, in quanto gli studi presenti in letteratura forniscono dati discordanti e spesso presentano nelle loro analisi fattori confondenti, bias di selezione e dati non completi sulla quantità di apporto proteico e calorico.

 

Nefropatia diabetica

In letteratura sono presenti numerosi studi riguardanti la nutrizione nella nefropatia diabetica. Nell’ambito di competenza di questo lavoro, uno degli studi più rappresentativi risulta una metanalisi pubblicata nel 2019, dove veniva valutato l’impatto della LPD in questa tipologia di pazienti (Tabella I). I risultati, forse non scontati, evidenziavano una similitudine con quelli riguardanti i soggetti non-diabetici. Infatti, non si riscontravano significative differenze nei valori di creatinina sierica, di filtrato glomerulare ed emoglobina glicosilata, nel gruppo in trattamento. Di contro, i valori di albuminuria e proteinuria risultavano significativamente inferiori nel gruppo in LPD rispetto al gruppo di controllo (standard mean difference: 0.62, 95% CI: 0.06-1.19; 0.69, 95% CI: 0.22-1.16 rispettivamente) [20].

Un’altra review sistematica di Zhu et al. confermava questi risultati, riscontrando una significativa riduzione della proteinuria nel gruppo dei pazienti in LPD, nella sottopopolazione con Diabete Mellito tipo II (1.32, 95% CI: 0.17-2.47, p=0.02) [21]. Gli autori hanno provato a dare delle spiegazioni patogenetiche alla nefroprotezione dalla dieta a ridotto apporto proteico. Per prima cosa questa tipologia di dieta riduce il carico glomerulare proteico e questo determina: una inibizione del sistema renina-angiotensina renale; una riduzione della secrezione di glucagone con una minore dilatazione dell’arteriola afferente; una riduzione dell’insulin-like growth factor-1, con una conseguente potente azione vasodilatatoria [22]. Inoltre, la LPD attivava, nei modelli animali con Diabete di tipo II, i processi autofagici attraverso la soppressione di meccanismi che hanno come target la via del complesso 1 della Rapamicina [23]. In generale però, anche questi due studi riportavano una maggiore efficacia nella riduzione della proteinuria, ma una modesta efficacia a livello di nefroprotezione nei pazienti con nefropatia diabetica in restrizione proteica.

In un innovativo trial controllato crossover, eseguito in 17 pazienti con diabete mellito di tipo II, gli autori analizzavano la differenza di outcomes tra: una dieta libera, una dieta a base di pollo (senza altra tipologia di carne) e una dieta latto-ovo-vegetariana a ridotto contenuto proteico rispettivamente. Il tasso di escrezione urinaria di albumina risultava significativamente ridotto nei gruppi in “chicken-diet” e nei latto-ovo-vegetariani, comparati con quelli in dieta libera (20.6%, 95% CI: 4.8-36.4%; 31.4%, 95% CI: 12.7-50% rispettivamente). La riduzione dell’albuminuria tra la dieta a base di carne di pollo e quella latto-ovo-vegetariana non era statisticamente significativa (p=0.249) [24]. Probabilmente entrambe queste diete garantivano un alto contenuto sierico di acidi grassi polinsaturi (PUFAs), i quali influenzavano la riduzione della proteinuria [25]. Alti livelli di PUFAs potrebbero avere, inoltre, un effetto protettivo sulla funzione endoteliale e potrebbero migliorare l’insulino-resistenza, con un effetto sulla riduzione della proteinuria. Bisogna ovviamente tenere in conto che lo studio aveva un numero esiguo di partecipanti.

 

Nefropatia proteinurica in gravidanza

Un aspetto da non sottovalutare, poiché riguarda una popolazione molto particolare, è quello delle donne in gravidanza. In queste pazienti andrebbe evitata quanto più possibile l’insorgenza di proteinuria oppure la progressione di una proteinuria o una insufficienza renale cronica già esistenti. Questo per evitare l’insorgenza di gravi e note complicanze, che risultano pericolose ed a volte infauste e che riguardano sia la salute della madre, sia quella del nascituro. La terapia nutrizionale nelle donne in gravidanza è quindi un aspetto importante ed al tempo stesso complesso.

Gli studi presenti in letteratura non sono numerosi, ma i gruppi italiani di Torino e Cagliari hanno investigato, da diversi anni, la problematica. Il loro focus si concentrava sulla valutazione della efficacia e della sicurezza della LPD, basata su una dieta vegana-vegetariana, nel ridurre la proteinuria ed evitare la progressione dell’insufficienza renale. Il loro protocollo prevedeva la prescrizione di una dieta con un apporto proteico di 0.6 g/kg/die, supplementato da alfa-ketoanaloghi e amminoacidi (1 compressa ogni 10 kg di peso corporeo ideale) nei primi due trimestri. L’apporto proteico aumentava nel terzo trimestre, con 0.8 g/Kg/die di proteine + 1 compressa di ketoanaloghi ogni 8 Kg di peso corporeo ideale. La dieta era sostanzialmente vegana, con occasionale presenza di latte e yoghurt. Non vi era una restrizione di sale, ma venivano strettamente controllati, ed eventualmente supplementati, la Vitamina B12, il ferro e la 25-OH-Vitamina D. I risultati evidenziavano un incremento della proteinuria sia nel gruppo in LPD, sia nel gruppo di controllo, salvo poi ridursi a 3 e mesi dal parto, in seguito alla scomparsa della “fase iperfiltrativa”. La dieta non risultava efficace neanche sulla progressione dell’insufficienza renale. Nonostante questi dati, è importante sottolineare come l’incidenza di una età gestionale minore del decimo percentile, o la frequenza di neonati marcatamente prematuri, fosse significativamente inferiore nel gruppo vegetariano-vegano, rispetto alla popolazione di controllo. Le madri lamentavano però un significativo impatto della terapia nutrizionale nello stile di vita quotidiano [26] (Tabella I).

In un altro studio sperimentale veniva invece analizzato l’utilizzo di proteine derivate dalla soia durante la gravidanza e l’allattamento in ratti con patologie renali ereditarie. L’utilizzo esclusivo di proteine derivate dalla soia, comparate con una dieta contenente proteine derivate dal latte, determinava una riduzione della proteinuria del 33% (p=0.0013). Inoltre, la dieta a base di proteine della soia durante la gravidanza e l’allattamento riduceva lo stato infiammatorio (-24% di infiltrato macrofagico durante la gravidanza e -32% durante l’allattamento) e lo stress ossidativo (-28% e -56% di LDL-ossidate rispettivamente) [27]. Secondo gli autori, queste riduzioni potevano essere ricondotte ad un minor livello plasmatico di Valina e Lisina, che parrebbero ridurre la frazione di filtrazione glomerulare [28].

Una review di 22 lavori dimostra come la dieta vegana-vegetariana sia sicura in gravidanza. Nessuno degli studi analizzati riportava, infatti, aumento dei rischi correlati alla gravidanza o aumento di eventi legati alla nascita o alla salute del nascituro [29]; questo eccetto per un singolo studio, che riportava un aumento dell’incidenza di ipospadia nei bambini di madri vegetariane [30]. Ovviamente, tutti gli studi rimarcavano l’importanza di poter sviluppare carenze di Vitamina B12, ferro o Zinco, raccomandandone l’eventuale supplementazione [31].

Per concludere, la dieta vegetariana non fornisce significativi vantaggi nel preservare la funzione renale o nel ridurre la proteinuria ma sembrerebbe non avere effetti collaterali severi e potrebbe ridurre alcune complicanze gestazionali. Si potrebbe per esempio prescrivere una dieta vegetariana nelle pazienti che hanno già una sindrome nefrosica in corso, o una storia di proteinuria significativa; nelle pazienti che hanno una progressione della proteinuria durante la gravidanza; in quelle con uno stato di insufficienza renale già avanzato. Queste pazienti potrebbero beneficiare di questo approccio dietetico, soprattutto per ridurre le complicanze gestionali.

Studi Pazienti Funzione Renale Intake Proteico (g/kg/d) Info cliniche Risultati
Chaveau (2007)

[7]
220 CKD IV-V 0.3 (vegetariana) + 1 g per grammo di proteine >3 g/d + supplementazione nd Riduzione della proteinuria del 50%. Max efficacia dopo 3 mesi. Maggiore riduzione proteinuria = minore declino dell’eGFR
Mou (2013)

[9]
17 CKD I-II e proteinuria >1g/d

 

0.6-0.8 g/Kg/d su peso ideale con Ketoanaloghi (0.1 g/Kg/d) o senza HBV+ La proteinuria era significativamente minore nel gruppo con Ketoanaloghi rispetto al gruppo senza supplementazione (2.0 ±1.8 vs 4.4 ±2.7 g/24h)
Yue (2019) (metanalisi)

[10]
3566 nd 0.28-0.8 g/Kg/d nd Quando la dieta >12 mesi, ogni riduzione di 0.1 g/Kg/d di intake proteico era associato ad una riduzione di -0.673 g/24h di proteinuria
Li (2019) (metanalisi)

[20]
690 nd 0.6-1.0 g/Kg/d Diabetici La proteinuria diminuiva nel gruppo in LPD vs gruppo controllo (SMD rispettivamente: 0.62, CI: 0.06-1.19 e 0.69, CI: 0.22-1.16)
Attini (2019)

[26]
36 CKD III-V o proteinuria >1g/d 0.6 g/Kg/d + supplemento (0.8 g/Kg/d + supplemento III trimestre) Gravide La proteinuria aumentava nel gruppo LPD e nel gruppo controllo. L’incidenza di basso peso per età gestionale era significativamente inferiore nel gruppo LPD
Tabella I: Principali studi sull’intake proteico nella proteinuria

 

Altri aspetti nutrizionali e proteinuria

Sebbene la maggior parte degli studi in letteratura riguardanti la riduzione della proteinuria e la preservazione della funzione renale siano riconducibili alla restrizione proteica, e sebbene l’argomento di questa review sia diretto in questo ambito, non possiamo non trattare brevemente alcuni differenti aspetti nutrizionali fortemente implicati in questo ambito patologico/terapeutico e che possono interferire con l’efficacia delle diete a ridotto apporto proteico.

 

Fibre, alcali e Vitamina K

La proteinuria può essere gestita con diversi alimenti, tra cui la curcumina, oltre che con la restrizione proteica (Tabella II). Altri nutrienti che potrebbero essere utilizzati in questo ambito sono le fibre, gli alcali e la Vitamina K. Nella dieta Vegana e nella VLPD le fibre e la Vitamina K1 sono molto più presenti rispetto ad altre diete [32]; inoltre, vi sono alimenti che hanno un alto potere alcalinizzante e potrebbero migliorare l’efficienza delle varie diete e dei benefici derivanti dalla riduzione dell’apporto proteico. In alcuni studi la Vitamina K è stata associata ad una riduzione della mortalità in pazienti con malattia renale cronica [33]. L’intake di fibre diminuisce il pH intestinale e modula favorevolmente il microbiota. Inoltre, anche la riduzione dell’apporto di acidi con la dieta potrebbe ridurre la mortalità nei pazienti con insufficienza renale cronica e sicuramente favorisce l’omeostasi dell’equilibrio acido-base e migliora il controllo dell’iperkaliemia, specialmente quando è in corso un trattamento con ACE-inibitori o Sartanici [34].

 

Fosforo

Un ruolo importante nel management della proteinuria è svolto dal fosforo sierico e dall’intake di fosforo. Lee H et al. hanno dimostrato come un valore elevato di fosforo ematico, anche in range non patologico, era indipendentemente e positivamente correlato con albuminuria, seppur di basso grado, ed era un potente fattore predittore di aumento del rapporto albumina/creatinina (coefficiente di regressione = 0,610, p <0.001). Questo studio non includeva pazienti con eGFR <60 ml/min e con proteinuria e microematuria già presente [35]. L’intake dietetico di fosforo, in particolare derivante da proteine animali, aumentava i livelli di fosforo e diminuiva la dilatazione flusso-mediata, un marker sostitutivo della funzione endoteliale [36]. Un altro studio in pazienti con malattia renale cronica confermava inoltre che il fosforo attenua l’effetto anti-proteinurico della VLPD [37]. Infine, alti livelli di fosforo attenuano anche l’effetto nefroprotettore degli ACE-inibitori in pazienti con proteinuria e malattia renale cronica [38].

 

Intake di sodio

L’intake di sodio è un punto cruciale nell’approccio nutrizionale della proteinuria. Un interessante trial randomizzato evidenziava come l’aggiunta di una restrizione sodiemica in aggiunta alla terapia con ACE-inibitori fosse più effettiva nella riduzione della proteinuria rispetto al “doppio blocco”, consistente nell’aggiunta del Sartanico all’ACE-inibitore. Al basale, i pazienti in terapia con ACE-inibitori in dieta libera avevano una proteinuria di 1.68 g/d (1.31-2.14). Se si aggiungeva in terapia il Sartanico, la proteinuria scendeva a 1.44 g/d (1.07-1.93; p = 0.003). Molto più efficace risultava l’introduzione di una dieta a basso contenuto di sodio, che portava i valori di proteinuria a 0.85 g/d (0.66-1.10; p <0.001). Va segnalato che nessuno dei pazienti nello studio aveva una nefropatia diabetica [39].

Questo effetto cumulativo della restrizione sodiemica è stato riscontrato in altri studi. Diversi lavori riportano inoltre lo stesso effetto cumulativo della restrizione sodiemica in pazienti in terapia con ACE-inibitori e LPD o VLPD. L’effetto cumulativo sembrerebbe riconducibile a due differenti meccanismi: la riduzione del “precarico” e del “postcarico” glomerulare [40]. In generale, la LPD ha un basso apporto di sodio, tuttavia una indicazione di una dieta iposodiemica ed ipoproteica in pazienti in terapia con inibitori del RAS può essere una strategia efficace nella riduzione della proteinuria.

Alimenti Meccanismo di azione Risultati
Curcumina (animali) Nrf2-attivatore; previene apoptosi della β-cell; attenua l’insulino-resistenza; riduce l’infiammazione Attenua l’escrezione urinaria di albumina nei pazienti con diabete mellito di tipo II
Lactobacillus (ratti) Rigenera l’espressione delle proteine della barriera intestinale; riduce l’infiammazione sistemica Diminuisce la proteinuria in ratti con CKD
Fibre, Alkali and Vitamina K Diminuisce il pH intestinale e modula favorevolmente il microbiota Riduce l’apporto dietetico di acidi; riduce la mortalità in persone con CKD; migliora l’equilibrio acido-base; migliora il controllo dell’iperkaliemia
Fosforo Diminuisce la dilatazione endoteliale flusso-mediata; attenua l’effetto antiproteinurico della VLPD e degli ACE-inibitori indipendentemente e positivamente correlata con la presenza di albuminuria; aumenta il rapporto urinario albuminuria/creatininuria
Riduzione intake di Sodio Riduce il precarico glomerulare; inibisce il sistema renina-angiotensina Riduzione della proteinuria; effetto cumulativo quando associato agli ACE-inibitori o ai Sartanici
Tabella II: Meccanismo di azione e risultati di differenti alimenti nel management della proteinuria

 

Conclusioni

La proteinuria ha un ruolo fondamentale nella diagnosi, nella gestione e nel trattamento dell’insufficienza renale cronica ma non esistono numerosi studi focalizzati sugli effetti della dieta sulla proteinuria. La restrizione proteica è l’approccio dietetico più studiato nella gestione della proteinuria e dell’insufficienza renale. Tale dieta non sembra agire direttamente sui valori del GFR, ma è spesso efficace nel ridurre la proteinuria, considerata come il principale fattore di rischio di progressione dell’insufficienza renale. Questo dato rimarca come i benefici della terapia nutrizionale sulle perdite urinarie di proteine possano influenzare la progressione della patologia renale, soprattutto a lungo termine, determinando un forte impatto sui fattori di rischio cardiovascolari e sulla mortalità in generale.

Una sana alimentazione, inoltre, tende al miglioramento del microbiota intestinale, che sembrerebbe uno meccanismo fisiopatologico di rilievo nella riduzione della proteinuria. Nei soggetti con proteinuria è fondamentale un continuo monitoraggio dello status nutrizionale, specialmente nei soggetti in dieta ipoproteica, per evitare l’insorgenza di malnutrizione.

Non esistono protocolli dietetici universali nel management della proteinuria. Ogni paziente dovrebbe avere una terapia nutrizionale personalizzata, basata sulle cause eziopatogenetiche e sui valori della proteinuria, sulle comorbidità esistenti e sulla valutazione nutrizionale di base.

Ulteriori trials clinici randomizzati focalizzati sulla proteinuria, possibilmente divisi per cause eziopatogenetiche e livelli di proteinuria, sono necessari e andrebbero incentivati.

 

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  40. Jafar TH, Stark PC, Schmid CH, et al. Proteinuria as a modifiable risk factor for the progression of non-diabetic renal disease. Kidney Int 2001; 60(3):1131-40.

La definizione di malattia renale cronica: occorre considerare l’età renale nel contesto di una popolazione sempre più longeva

Abstract

La malattia renale cronica (MRC) è una patologia cronica ad andamento progressivo che impatta notevolmente sulla morbilità e mortalità della popolazione generale, nonché sui costi del Sistema Sanitario Nazionale. Secondo le linee guida internazionali, la MRC è definita da due criteri in relazione tra loro: GFR e albuminuria. Il GFR suddivide la malattia renale in cinque stadi progressivi (MRC stage, I-V) mentre l’albuminuria identifica ulteriori tre categorie (A1-3) per ogni livello di funzionalità renale. Il limite principale di questa stadiazione è la valutazione della funzionalità renale nelle fasce d’età più estreme della popolazione. L’uso di un valore soglia fisso (GFR <60 ml/min) per definire l’inizio dell’insufficienza renale cronica appare troppo stringente nelle fasce d’età più estreme della popolazione, cioè giovani e anziani. In questi due gruppi, la variazione del GFR è difficilmente categorizzabili in un sistema “rigido”. Si pongono così le basi per una nuova definizione di MRC non più classificabile con la sola determinazione del GFR, bensì con sistema di refertazione che rapporti il valore di GFR ai valori normali di GFR per fasce d’età. Si ripropone in tal senso, una ridefinizione della diagnosi della MRC adattata all’età del paziente. Parole chiave: malattia renale cronica, MRC, GFR, età renale, proteinuria

Introduzione

Dal 2013 la World Health Organization (WHO) sostiene un progetto denominato “global action plan” che promuovere la salute e il benessere psico-fisico della popolazione mondiale. Il progetto, basato sulla prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili, ha l’obiettivo di ridurre la mortalità dovuta a cancro, malattia cardiovascolare, malattia respiratoria cronica e diabete del 25% nel 2025 [1]. Sebbene la malattia renale cronica (MRC) non sia elencata tra le patologie croniche, è opinione comune che questa impatti profondamente sullo stato di salute dei pazienti affetti. A tal proposito il Ministero della Salute inserisce la MRC nel piano nazionale della cronicità del 2016. 

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Sfide e risultati del progetto PIRP (Prevenzione della Insufficienza Renale Progressiva) della Regione Emilia-Romagna

Abstract

Il progetto PIRP è stato ideato in Regione Emilia-Romagna nel 2004, per far fronte all’aumento di diffusione della malattia renale cronica (MRC) conseguente all’invecchiamento della popolazione generale e all’aumento della aspettativa di vita. La prima fase del progetto è consistita nel formare ed informare i medici di medicina generale (MMG) riguardo all’identificazione delle persone a rischio di MRC e all’implementazione di strategie di intervento efficaci nel prevenire o ritardare la progressione della MRC. Nella seconda fase del progetto sono stati instituiti nelle unità di nefrologia degli ospedali dell’Emilia-Romagna ambulatori dedicati, atti a fornire una valutazione specialistica e un’assistenza personalizzata ai pazienti con MRC inviati dai MMG. Il protocollo del progetto definisce le caratteristiche dei pazienti che, dopo una diagnosi di malattia dal punto di vista eziologico, possono essere reinviati ai MMG, quelli che devono essere seguiti nelle UO nefrologiche ospedaliere oppure quelli che possono essere seguiti in co-gestione. Il registro web, istituito nell’ambito del progetto ed implementato per raccogliere i dati demografici e clinici dei pazienti includeva, al 30 giugno 2018, 26.211 pazienti affetti da MRC, con un follow-up mediano di 24,5 mesi. Nel corso dei 14 anni di del progetto, l’età media dei pazienti alla prima visita è aumentata da 71,0 anni a 74,2 anni e il eGFR medio, alla prima visita, è passato dai 30,56 a 36,52 ml/min/1,73 m2. In pratica sono stati reclutati nel tempo pazienti in media più anziani ma con funzionalità renale maggiormente conservata e quindi con maggiori possibilità di sfruttare interventi terapeutici appropriati. La percentuale di pazienti ancora attivi in registro dopo 5 anni di follow-up è risultata superiore al 45%. Le uscite sono prevalentemente da riferire a decesso o all’inizio del trattamento dialitico. L’implementazione e l’articolazione nel tempo del progetto, ha visto ridursi negli ultimi anni il numero di pazienti che arrivano ogni anno al trattamento dialitico in Emilia Romagna (circa 100 unità in meno di pazienti incidenti dal 2006 al 2016). La coorte PIRP è la più grande in Italia e in Europa, e questo la rende ideale per studi basati su confronti internazionali e come modello per i registri nazionali.

Parole Chiave: Insufficienza renale cronica, Registro, Malattia Renale Cronica, MMG, VFG, Proteinuria, Intervento di salute pubblica

INTRODUZIONE

La Malattia Renale Cronica (MRC) è, nell’ambito delle patologie croniche, una condizione molto diffusa, con una prevalenza crescente nella popolazione generale e con una stima a livello mondiale di circa il 10-15% (1). In Italia la prevalenza della MRC è stimata sull’ordine del 7,5% negli uomini e del 6,5% nelle donne sulla base dello studio CARHES (2). Questi dati di prevalenza italiana, sotto certi aspetti consolanti, sono però destinati ad aumentare per diversi ordini di fattori: i) invecchiamento della popolazione; ii) aumentata prevalenza nella popolazione generale di condizioni cliniche ad elevato rischio di danno renale (diabete mellito, sindrome metabolica, ipertensione arteriosa) (3), iii) aumentata sopravvivenza dei pazienti co-morbidi e complessi.

 

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