Danno renale e obesità: un binomio silenzioso

Abstract

L’obesità è ormai riconosciuta come una vera malattia cronica e un fattore di rischio indipendente di malattia renale. In particolare, è stata osservata una correlazione tra obesità e sviluppo di glomerulosclerosi focale segmentale. Le conseguenze cliniche dell’obesità sul rene possono includere albuminuria, sindrome nefrosica, nefrolitiasi, aumentato rischio di sviluppo e di progressione dell’insufficienza renale. La terapia convenzionale dell’obesità, che include dieta ipocalorica, esercizio fisico, modifiche dello stile di vita e terapia farmacologica, tra cui GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat, non è sempre in grado di ottenere i risultati sperati e soprattutto non garantisce una stabilizzazione del peso corporeo a distanza di tempo. La chirurgia bariatrica sta dando, invece, risultati ottimi in termini di efficacia e durata. Le tecniche di chirurgia bariatrica che vengono generalmente distinte in restrittive, malassorbitive e miste non sono però scevre da possibili complicanze metaboliche come anemia, deficit vitaminici e calcolosi. Tuttavia, sono in grado di garantire un buon mantenimento del calo ponderale ottenuto con scomparsa o riduzione dell’incidenza e della gravità delle comorbilità legate all’obesità.

Parole chiave: obesità, insufficienza renale, chirurgia bariatrica, sleeve gastrectomy

Introduzione

L’obesità è ormai riconosciuta una vera malattia e un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di malattia renale cronica [1]. Si stima che al mondo ci siano circa 600 milioni di persone affette da obesità [2]. Secondo il Rapporto Osservasalute del 2016 che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana” emerge che nel 2015, in Italia, più di un terzo della popolazione era in sovrappeso (35,3%) e una persona su dieci era obesa (9,8%). Complessivamente il 45,1% dei soggetti di età superiore ai 18 anni era in eccesso ponderale [3].

In epoca più recente, il 9° Rapporto sull’obesità in Italia [4], curato dall’Istituto Auxologico Italiano, ha evidenziato come, secondo una stima provvisoria per il 2020, su 10 uomini adulti 6 sono in sovrappeso, su 10 donne invece 4 sono in sovrappeso. In entrambi i sessi la prevalenza è maggiore nella fascia d’età compresa tra i 65 e i 74 anni. Anche per quanto riguarda l’obesità, come per il sovrappeso, la popolazione maggiormente colpita è quella maschile: l’11,7% tra gli uomini e il 10,3% tra le donne. Se invece si considera la grave obesità (caratterizzata da un BMI superiore a 35) dal rapporto si evince che ne risultano colpite in Italia oltre un milione di persone, pari al 2,3% degli adulti e in questi casi le donne sono maggiormente interessate [4].

Il gradiente geografico è chiaramente a sfavore delle regioni meridionali. Complessivamente, nel Nord-ovest e nel Centro Italia la prevalenza dell’obesità si attesta al 10% mentre nel Nord-est e nelle isole il valore raggiunge l’11,4%; al Sud sale al 12,4%. Le percentuali non sono migliori quando spostiamo l’attenzione dagli adulti ai bambini e agli adolescenti. In Italia tra i giovani la prevalenza di obesità è del 18% nei bambini e del 19% negli adolescenti. Anche in questo caso c’è una grossa differenza tra nord e sud. Al Sud il 34,1% della popolazione 3-17 anni è obesa, al Nord-ovest il 20,0%; il 22,4% al Nord-est, il 23,9% al Centro e il 28,4% nelle isole. Le percentuali maggiori riguardano la Campania (37,8%), il Molise (33,5%), la Basilicata (32,4%), Abruzzo e Puglia (31,2%) [4].

L’obesità è ormai riconosciuta come un fattore di rischio indipendente di malattia renale cronica e di progressione verso l’End-Stage Renal Disease (ESRD). In particolare, è stata osservata una correlazione tra obesità e sviluppo di glomerulosclerosi focale segmentale (GSFS). Le conseguenze cliniche dell’obesità sul rene possono includere albuminuria, sindrome nefrosica, nefrolitiasi, aumentato rischio di sviluppo e di progressione dell’insufficienza renale.

La terapia convenzionale dell’obesità, che include dieta ipocalorica, esercizio fisico, modifiche dello stile di vita e terapia farmacologica, non è sempre in grado di ottenere i risultati sperati e soprattutto non garantisce una stabilizzazione del peso corporeo a distanza di tempo. La chirurgia bariatrica sta dando, invece, risultati ottimi in termini di efficacia e durata.

 

Misurazione dell’obesità: il concetto di “obesity paradox”

In medicina la definizione di obesità è sempre stata in evoluzione: molto spesso è stato necessario ricorrere a strumenti di misurazione indiretta per definire un paziente obeso o misurare il suo grado di obesità.

Dal punto di vista metabolico e soprattutto in correlazione con il rischio cardiovascolare, è molto importante classificare l’obesità in funzione della distribuzione del grasso (Tabella 1).

Tipo Obesità Localizzazione
Obesità viscerale Omento – Mesenteri -Retroperitoneo
Obesità centrale – addominale (androide) Omento – Mesenteri – Retroperitoneo e sottocutaneo addominale
Obesità periferica sottocutanea (ginoide) Fianchi – Cosce
Obesità generalizzata
Tabella 1: Classificazione dell’obesità in funzione della distribuzione del grasso.

Esistono diversi strumenti che possono essere impiegati per la misurazione indiretta dell’obesità o meglio della massa grassa di un soggetto:

  • il Body Mass Index (o BMI)
  • la plicometria
  • la bio-impedenziometria (o BIA)
  • la circonferenza addominale
  • il rapporto vita-fianchi

Body Mass Index

In base al Body Mass Index (BMI), indice rappresentato dal rapporto tra il peso del soggetto (kg) e il quadrato dell’altezza (m), l’OMS classifica l’obesità in tre gradi: obesità di I° grado (BMI tra 30 e 34,9 kg/m2), obesità di II° grado (BMI tra 35 e 39,9 kg/m2) e obesità di III° grado (BMI maggiore di 40 kg/m2). Il BMI è un dato biometrico ottenuto dalla deduzione del matematico e statistico belga Adolphe Quetelet. Egli condusse studi antropometrici sulla crescita umana ottenendo come conclusione dei suoi dati che il peso cresce con il quadrato dell’altezza, denominando il rapporto tra questi come indice di Quetelet [5], sostituito poi nel 1972 dal Body Mass Index introdotto dal fisiologo Ancel Keys.

Plicometria

La plicometria permette di stimare attraverso validate equazioni la densità corporea, la massa grassa e la massa magra grazie all’uso di un plicometro che consente di rilevare lo spessore delle pliche sottocutanee: le pliche interessate nella metodica sono quella tricipitale, sottoscapolare, sovrailiaca, pettorale, ascellare, addominale, quadricipitale [6].

Bioimpedenziometria

La bioimpedenziometria è una metodica utilizzata per studiare la composizione corporea, misurando l’impedenza del corpo al passaggio della corrente elettrica a bassa potenza e ad alta frequenza: essa viene impiegata anche per lo studio del paziente in emodialisi per valutare la TBW (Total body water) e la quota di ECW (extracellular-water) in eccesso.

Circonferenza addominale

La circonferenza della vita o circonferenza addominale invece è un parametro che correla indirettamente con l’obesità: i valori normali devono essere inferiori a 94 cm negli uomini e 80 cm nelle donne e viene misurata appena sopra l’ombelico (precisamente appena al di sopra della porzione superiore del bordo laterale della cresta iliaca). Una circonferenza superiore ad 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini viene definita obesità viscerale.  La circonferenza addominale riflette l’accumulo del grasso totale e addominale e rispecchia prevalentemente la presenza del grasso sottocutaneo addominale e non proprio il grasso viscerale.

Rapporto vita-fianchi

Il rapporto tra la circonferenza della vita e la circonferenza dei fianchi (o delle anche) definito anche WHR (waist/hip ratio) è il metodo maggiormente utilizzato per la valutazione della distribuzione del grasso corporeo negli studi epidemiologici. Quando il rapporto è maggiore di 0,92 nell’uomo e 0,82 nella donna si parla di obesità centrale: tali valori corrispondono all’85° percentile della distribuzione di tale indice nella popolazione generale.

Negli studi sull’obesità il parametro più impiegato è quello del BMI. Tuttavia, in alcuni trial sull’obesità i risultati talvolta possono essere inattesi o addirittura non previsti: in tali casi si parla di “paradigma del paradosso dell’obesità (Obesity Paradox)”, un fenomeno del tutto inaspettato osservato in alcune patologie. L’obesity paradox si osserva in tutti quei trial che si sono conclusi indentificando il BMI o l’obesità come fattori protettivi per la popolazione. È ovvio che tali risultati contrastino parecchio con i dati oggettivi e con i dati di rischio di mortalità dell’obesità nella popolazione generale in tutta la letteratura scientifica (concetto di “reverse epidemiology”): tale fenomeno tuttora non ha trovato una valutazione conclusiva che ne possa spiegare l’insorgenza.  Questo paradosso, secondo il quale sovrappeso e obesità migliorano la prognosi di alcune patologie di cui favoriscono l’insorgenza, è stato ampiamente documentato in corso di malattie cardiovascolari, insufficienza renale cronica, neoplasie, diabete e in altre patologie. Mentre secondo alcuni il fenomeno, sebbene non ancora chiaramente spiegato, esprime una realtà biologica, secondo altri esso è il risultato statistico di bias di selezione, di diversi fattori interferenti e principalmente dell’impiego del BMI come misura del grado di adiposità (BMI paradox).

Le ipotesi biologiche in merito al fenomeno dell’Obesity Paradox, vengono delineate in questa Review di Donini et al. [7] e sono influenzate da:

  • Struttura corporea e composizione corporea: l’aumento del peso corporeo e della massa grassa può alterare le conseguenze metaboliche delle malattie nei pazienti obesi e delle cure, a causa dell’aumento della massa muscolare e adiposa;
  • Metabolismo lipidico: alti livelli di colesterolo e lipoproteine possono migliorare l’effetto scavenging delle endotossine a differenza di quelli con livelli molto più bassi di colesterolo (più inclini all’endotossinemia) e alle sue conseguenze infiammatorie;
  • Rilascio di NT-proBNP dai cardiomiociti (per aumentata tensione di parete) dopo infarto del miocardio, è significativamente più basso nei pazienti obesi rispetto alla popolazione generale.
  • Produzione di fattori protrombotici (Trombossano B. et al.) che sono correlati negativamente con BMI e leptina: il rilascio di questi mediatori è mediato dall’endotelio e paradossalmente questi valori risultano nella norma nei soggetti con obesità rispetto ai non obesi proprio per un miglioramento paradossale della funzione endoteliale;
  • Aumentata sintesi di ghrelina (o grelina): ha un meccanismo compensatorio nell’ostacolare l’evoluzione dello scompenso cardiaco. La sintesi di ghrelina è aumentata nei pazienti obesi in quanto riduce il senso di sazietà e aumenta la fame e l’assunzione di cibo, favorendo l’insorgenza di obesità.
  • Produzione di citochine: il rischio cardiovascolare è incrementato dall’aumentata produzione di citochine infiammatorie come il TNF-alfa che si lega a recettori solubili del TNF-alfa tipo I e II che sono prodotti proprio dal grasso corporeo. Nei pazienti con scompenso cardiaco si osserva un’abnorme produzione di queste molecole infiammatorie che risulta altresì inferiore ai pazienti con obesità: l’elevata concentrazione di queste citochine dovrebbe determinare effetti negativi sul miocardio, che non si hanno nei pazienti con obesità [8]. Inoltre diverse adipochine (es: adiponectina, leptina, omentina, etc.) prodotte dal tessuto adiposo hanno dimostrato effetti protettivi sul rischio cardiovascolare, nonostante questo sia un paradosso [9].
  • Aspetti endoteliali e vascolari: una maggiore mobilizzazione delle cellule progenitrici endoteliali può proteggere i pazienti con obesità dall’aterogenesi attraverso la promozione di processi di rigenerazione del miocardio danneggiato e la neoangiogenesi. Questi processi favoriscono la riduzione delle resistenze del post-carico (dilatazione flusso-mediata e riduzione spessore medio-intima dei vasi) e al potenziamento della funzione contrattile del miocardio e dei processi metabolici dei cardiomiociti, alla riduzione dell’apoptosi e della fibrosi del miocardio. Pertanto si assiste ad un paradossale mantenimento della fisiologica struttura vascolare, cosa che in realtà non avviene [10].

Ad esempio, mentre nello studio di Clark et al. [11] l’elevato BMI sia un fattore riconosciuto per HF (Heart Failure), in parecchi altri trial l’analisi di coorte ha evidenziato come il BMI elevato risulterebbe un fattore protettivo contro lo scompenso cardiaco. Anche per ciò che concerne la coorte di pazienti con malattia renale o in emodialisi nello studio di Johansen et al. si è osservato come sia un effetto protettivo l’eccesso ponderale sulla sopravvivenza [12] mentre nello studio di Postorino et al. condotto su 537 pazienti in cui è stata utilizzata la misura della circonferenza della vita invece del BMI si è osservato che l’obesità rappresenta un fattore di rischio importante [13]. Il fenomeno dell’obesity paradox nei pazienti in emodialisi può essere spiegato sia per il fatto che l’obesità riduce in questi l’incidenza dello stato catabolico sia sulla maggiore incidenza di ipotensioni intradialitiche.

 

Meccanismi fisiopatologici di danno renale correlati all’obesità

Nel 1974 Weisinger descrisse per la prima volta l’associazione tra obesità e sindrome nefrosica, con remissione di quest’ultima in seguito a perdita di peso e recidiva dopo nuovo incremento ponderale [14]. Istologicamente si trattava di una glomerulosclerosi focale segmentale, dando origine al termine glomerulonefrite obesità-relata per indicare le forme di GSFS secondarie ad obesità. Oltre alla GSFS, istologicamente possono riscontrarsi ingrandimento glomerulare dovuto alla ialinosi e alla fibrosi, depositi di lipidi nelle cellule tubulari e mesangiali e adesione alla capsula di Bowman [15, 16]. L’accumulo di lipidi nel rene induce alterazioni strutturali e funzionali delle cellule mesangiali, dei podociti e delle cellule tubulari prossimali [17]. L’obesità aumenta, inoltre, la massa renale e il diametro glomerulare.

I meccanismi fisiopatologici alla base del danno renale secondario ad obesità sono diversi e complessi. Schematicamente distinguiamo alterazioni emodinamiche, attivazione del sistema renina-angiotensina, iperinsulinemia e resistenza all’insulina, infiammazione (effetti di adipochine).

Alterazioni emodinamiche

In caso di obesità aumentano il filtrato glomerulare, il flusso plasmatico renale, la frazione di filtrazione e il riassorbimento tubulare del sodio [18]. Diversi studi hanno evidenziato una chiara correlazione tra i diversi marker di obesità (BMI, circonferenza addominale e rapporto vita-fianchi) e il filtrato glomerulare [19, 20]. La vasodilatazione dell’arteriola afferente è la principale causa di aumentato flusso plasmatico renale.

L’iperfiltrazione glomerulare probabilmente provoca un danno podocitario con conseguente sviluppo della glomerulosclerosi spesso osservata in questi pazienti [21, 22]; inoltre, aumenta il riassorbimento tubulare del sodio come effetto dell’attivazione di trasportatori del sodio. La conseguente ridotta concentrazione di sodio nel tubulo distale attiva il feedback tubulo glomerulare e stimola la secrezione di renina da parte dell’apparato iuxtaglomerulare, con un meccanismo simile a quello dell’iperfiltrazione presente nella nefropatia diabetica [23, 24]. In seguito all’ipertensione intraglomerulare si verifica un aumentato stress meccanico sulla parete capillare sia circonferenziale che assiale che si trasmette ai podociti danneggiandoli [25]. Sono stati ritrovati nelle urine di adulti obesi con normoalbuminuria elevati livelli di mRNA associato ai podociti, tra cui nefrina, alfa-actina-4, alfa3beta1 integrina, TGF-beta suggerendo in questi soggetti un precoce danno podocitario [26].

Attivazione del sistema Renina-Angiotensina (RAA)

L’angiotensinogeno, normalmente prodotto dal fegato ma anche da altri tessuti tra cui il grasso viscerale, è aumentato nei soggetti obesi [27]. Il tessuto adiposo è anche in grado di convertire l’angiotensinogeno in angiotensina II (ATII) potenziando l’attivazione del sistema RAA [28]. Gli elevati livelli di ATII e l’aumentata espressione del suo recettore AT1 causano vasocostrizione arteriolare e aumento della filtrazione glomerulare contribuendo alla ritenzione di sodio e allo sviluppo di ipertensione [29].

Iperinsulinemia ed insulino-resistenza

Diverse evidenze suggeriscono che la resistenza insulinica, caratteristica dell’obesità, contribuisce al danno renale in quanto induce iperfiltrazione glomerulare, disfunzione endoteliale, aumentata permeabilità vascolare, angiogenesi [30]. L’insulina agisce direttamente sui podociti: studi in vitro hanno dimostrato che in seguito allo stimolo insulinico i podociti raddoppiano il trasporto di glucosio attraverso la trasposizione dei trasportatori GLUT1 e GLUT2 dai vacuoli intracellulari alla superficie di membrana podocitaria. I substrati 1 e 2 del recettore dell’insulina (IRS1/2) sono espressi sulle cellule epiteliali renali [31, 32]. Il legame a IRS 1/2 stimola la produzione di ossido nitrico [33]. Inoltre, l’insulina agisce sulle cellule tubulari prossimali promuovendo la formazione di TGF-b e collagene di tipo IV che contribuiscono alla fibrosi tubulointerstiziale.

Infiammazione

Alterati livelli di adipochine, citochine prodotte e rilasciate dal tessuto adiposo tra cui si annoverano leptina, adiponectina, resistina, visfatin, sono associati con lo sviluppo di GN correlate all’obesità. In particolare, la leptina aumenta l’espressione della metalloproteinasi-2 (MMP-2) nelle cellule renali mesangiali [34], stimola la produzione di TGF-b1 da parte dell’endotelio e causa ipertrofia mesangiale. A livello mesangiale agirebbe anche per via paracrina stimolando la produzione di collagene di tipo IV e la proliferazione delle cellule endoteliali glomerulari innescando la glomerulosclerosi [35, 36]. In aggiunta, la leptina aumenta lo stress ossidativo e la secrezione di citochine pro-infiammatorie come l’MPC-1 [37].

L’adiponectina, invece, è presente a livelli ridotti nei soggetti obesi. Bassi livelli di adiponectina sono correlati ad insulino-resistenza e allo sviluppo di malattia renale [38]. Nei ratti adiponectina-knockout è stata riscontrata albuminuria che regredisce con la somministrazione di adiponectina esogena [39].

Aumentati livelli di leptina e bassi livelli di adiponectina sono responsabili, nei soggetti obesi, anche dell’attivazione del sistema nervoso simpatico [40], contribuendo ulteriormente alla ritenzione di sodio [41].

 

Obesità e calcolosi

Nel 2005 Taylor et al. [42] hanno studiato l’associazione tra obesità e aumento di peso con il rischio di nefrolitiasi e la formazione di calcoli renali e del tratto urinario, osservando tre grandi coorti per un tempo di quarantasei anni e dimostrando che è la stessa condizione di obesità e di aumento del peso a predisporre a un aumentato rischio di nefrolitiasi. Il rischio risulta più alto nelle donne rispetto agli uomini. Un altro importante studio condotto da Powell et al. [43] ha usato dati di 5942 pazienti da un laboratorio di calcolosi renale valutando le differenze nell’escrezione urinaria delle 24 ore di metaboliti nei soggetti obesi. Hanno osservato che l’escrezione di calcio, ossalato e acido urico era essenzialmente aumentata nelle 24 ore. Inoltre, all’esame chimico fisico delle urine il pH era sempre su valori acidi, favorendo la precipitazione urinaria dei metaboliti urinari. Questa condizione ovviamente era più frequente nei soggetti obesi in cui non si osservavano elevati livelli di citrato urinario e alto flusso urinario, che contrastano la precipitazione urinaria. Inoltre si osservavano nei pazienti obesi elevati valori di solfato e sodio urinario, direttamente correlati all’elevato intake di sodio alimentare ma soprattutto di proteine di origine animale. Un ruolo significativo nei soggetti obesi è inoltre determinato dall’assunzione di cibi e bibite ricche di fruttosio: il fruttosio oltre a favorire l’aumento del peso corporeo, determina resistenza alla leptina, un ormone che da sempre influenza in maniera preponderante il rischio di obesità. Lo stesso fruttosio ad elevate concentrazioni nei pazienti obesi favorisce non solo l’aumentata escrezione urinaria di calcio, ma anche l’aumentata produzione di acido urico sierico favorendo quindi la cristallizzazione urinaria con calcolosi uratica e calcolosi ossalatica [44]. L’aumentato rischio di nefrolitiasi, associato all’ormai già noto rischio cardiovascolare, può accelerare o peggiorare il rischio di peggioramento della funzionalità renale.

 

Obesità e albuminuria

L’obesità quindi è un fattore riconosciuto che determina un danno renale: l’aumento della massa corporea induce iperfiltrazione glomerulare con modifiche della struttura glomerulare e tubulare, a causa dell’alterato riassorbimento di sodio; inoltre il rimodellamento del nefrone a causa del rilascio di citochine e adiponectine con rilascio di TGF beta ed attivazione di MMP con formazione di collageno, può sensibilmente peggiorare la prognosi dei pazienti obesi [45]. La concomitante diagnosi di diabete e ipertensione nei pazienti obesi aumenta largamente il rischio di albuminuria e proteinuria, ma i pazienti obesi presentano una prevalenza maggiore di proteinuria/albuminuria rispetto alla popolazione generale, anche in assenza di diabete mellito ed ipertensione, come valutato dal report di Chang [46]. In questo trial di reclutamento di pazienti obesi (n=218) da sottoporre a chirurgia bariatrica è stato osservato come la prevalenza dell’albuminuria e della proteinuria fosse sensibilmente maggiore rispetto alla popolazione generale nei pazienti con diabete mellito ed ipertensione (proteinuria 33,3% negli obesi e 22,6% negli ipertesi; albuminuria 41,5% nei diabetici, 17,7% negli ipertesi) mentre nei pazienti obesi in assenza di ipertensione e diabete mellito, sussisteva una prevalenza di proteinuria del 13,3% e di albuminuria dell’11% [47]. Nei pazienti obesi si è osservato che oltre alla perdita di peso e alla restrizione dell’introito di sale, la terapia anti-proteinurica con ACE-i /ARBs, riduce la pressione intraglomerulare, rallentando la progressione del danno renale [48]. La proteinuria nei pazienti obesi tendenzialmente si presenta in assenza di anomalie del sedimento urinario e soprattutto quasi sempre inferiore a 300 mg/die: in alcune eccezioni è possibile un riscontro di proteinuria in range nefrosico (talvolta associato anche a cilindri ialini-granulosi e lipidici) [19]. Nei soggetti obesi con sindrome nefrosica, talvolta potrebbe non presentarsi una condizione di ipoalbuminemia con edema tale da far pensare ad una sindrome nefrosica, pertanto l’esame delle urine risulta dirimente: una proteinuria in range nefrosico deve sempre far sospettare una sottostante nefropatia glomerulare [49].

 

Terapia non chirurgica dell’obesità

Nel 2013 una revisione sistematica di letteratura ad opera di Bolignano e Zoccali [50] ha incluso sei RCT che prevedevano modifiche dello stile di vita, un RCT sull’impiego di strategie farmacologiche e 24 studi osservazionali per esaminare gli effetti di queste strategie terapeutiche sui parametri renali nei pazienti obesi con alterata funzione renale. Negli RCT selezionati, le modifiche dello stile di vita prevedevano almeno una delle seguenti modifiche dietetiche combinate con l’esercizio fisico: dieta vegana ipocalorica, dieta ipocalorica (1000-1400 Kcal/die), dieta a basso contenuto di carne, dieta a restrizione di carboidrati; in questi gruppi si è dimostrato rispetto al gruppo controllo una riduzione del 31% della proteinuria ed un declino del filtrato glomerulare nel follow-up più lento. Nel Trial Look ARG [51] che è stato condotto successivamente al Trial Look AHEAD per valutare l’effetto delle modifiche dello stile di vita nella popolazione con obesità e diabete, si osservava come nel braccio dello studio comprendente le modifiche intensive dello stile di vita (i cui obiettivi erano: perdita di peso maggiore del 7%, dieta di 1200-1800 Kcal/die; riduzione della quota di grassi del 30%/die e aumento del 15%/die di proteine; oltre 175 minuti a settimana di esercizio fisico moderato) l’incidenza cumulativa a dieci anni per il rischio di peggioramento della funzionalità renale risultava sensibilmente minore del 31%. A sostegno di questo studio, l’analisi di Ibrahim e Weber [52] approfondiva proprio come nei pazienti obesi, la perdita di peso associata a strategie farmacologiche (tra cui ARBs e ACEi) favoriva non solo la stabilizzazione della perdita del filtrato glomerulare ma riduceva l’albuminuria (intesa come parametro ACR<300 mg/g/die).

Per quanto concerne la prima strategia farmacologica, ossia l’approccio dietetico, l’analisi di Tirosh et al. [53] ci è sembrata suggestiva: un RCT randomizzato di 322 pazienti obesi (99 con CKD stadio III, 23 con ACR > 30 mg/g) seguiti per un periodo di due anni inclusi in uno dei tre regimi dietetici associati (dieta low-fat, dieta mediterranea, dieta low-carb) in cui si è osservato che la dieta mediterranea e quella low-carb favorivano una perdita di peso maggiore (oltre i 4 kg in media) rispetto a quella low-fat (<3 kg in media). In un’analisi post hoc è stato appunto osservato che in tutti e tre i regimi dietetici associati si osservava un’incremento dell’eGFR rispetto al basale del 7,1% e una riduzione dell’ACR di circa 25 mg/g rispetto al basale. Ovviamente nell’analisi post-hoc non sono stati inclusi i pazienti in trattamento emodialitico cronico [54].

In aggiunta al cambiamento dello stile di vita alimentare e all’aumento dell’esercizio fisico settimanale, l’impiego di alcuni farmaci potrebbe sensibilmente favorire la perdita di peso: tra questi ricordiamo i GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Nella Tabella 2 è possibile osservarne le caratteristiche e la prescrivibilità in base al filtrato glomerulare.

Farmaco Meccanismo di azione Effetti collaterali Effetti Renali Dosaggio
LIRAGLUTIDE

 

0,6 mg; 1,2 mg; 1,8 mg; 2,4mg; 3 mg.

Agonista recettoriale GLP-1: stimola secrezione insulina e inibisce glucagone. Regola appetito ed intake calorico. Ipoglicemia, aumento lipasi, nausea, vomito, diarrea. Escrezione 60% renale (metaboliti). Nessun aggiustamento di dosaggio. Dati limitati per l’uso in dialisi.
NALTREXONE/

BUPROPRIONE

 

8mg/90mg fino a 32mg/360mg die

Anoressizzante (esatto meccanismo non conosciuto).

Bupropione: inbitore reuptake dopamina e norepinefrina;

Naltrexone: antagonista oppioide.

Vertigini, nausea, mal di testa, secchezza delle fauci. Ipertensione e palpitazione. Incremento creatinina (inibizione OCT2). Escrezione urinaria: 87% buproprione, 79% naltrexone.

8mg/90mg fino a 32mg/360mg.

In caso di peggioramento della funzione ridurre dosaggio.

ORLISTAT

 

60 mg; 120 mg

Inibitore delle lipasi pancreatiche (azione nello stomaco e nel tenue). Perdita di feci dal retto, incontinenza fecale, flatulenza. Ridotto assorbimento delle vitamine liposolubili. Calcolosi ossalatica. Escrezione fecale (<2% nelle urine).

Somministrare Ciclosporina 3 ore dopo Orlistat.

Nessun aggiustamento di dose.

60 mg/die dose iniziale, fino a 120 mg/die

FENTERMINA

 

15 mg; 30 mg; 37,5 mg

Anoressizzante simpaticomimentico (esatto meccanismo non conosciuto). Palpitazioni, vertigini, turbe della libido, insonnia, secchezza delle fauci, nausea, vomito. Ipertensione, aumenta la pressione glomerulare.

 

Escrezione urinaria: controllare pH urinario.

Nessun aggiustamento di dose con eGFR > 30 ml/min (15-30 mg/die);

eGFR 15-29 ml/min: 15 mg/die.

Non consentito in dialisi.

FENTERMINA/

TOPIRAMATO

 

3,75/23 mg

7,5/46 mg

11,25/69 mg

15/92 mg

Anoressizzante,

modulatore GABA-r con effetto sipaticomimetico.

Parestesie, disgeusia, secchezza delle fauci, insonnia, costipazione. Tachicardia e palpitazioni. Acidosi metabolica. Nefrolitiasi. Incremento creatininemia, ipokalemia. Teratogenicità.

Nessun aggiustamento di dose fino ad

eGFR < 50 ml/min: dosaggio max 7,5/46mg/die.

Non raccomandato in dialisi.

Tabella 2: Farmaci prescrivibili per il trattamento dell’obesità ed effetti renali correlati [55].

Tra questi l’impiego del GLP-1 RA ha dimostrato effetti cardioprotettivi e nefroprotettivi come descritto in parecchi trial: nel RCT LEADER del 2018 l’impiego della liraglutide nei pazienti con DM II ha dimostrato una riduzione del rischio per eventi compositi renali e cardiovascolari (riduzione albuminuria e raddoppiamento della creatinemia) rispetto al placebo [56]. Anche il trial di Le Roux pubblicato nel 2017 su Lancet [57] ha preso in considerazione l’impiego del liraglutide per favorire la riduzione del peso corporeo nei pazienti in pre-diabete con BMI > 30 kg/m2 oppure < 27 kg/m2 ma con comorbidità: il trial ha avuto una durata di 3 anni (160 settimane) con un numero di 2254 partecipanti, ma solo 1128 hanno terminato lo studio e hanno preso in considerazione la somministrazione giornaliera di 3 mg rispetto al placebo dimostrando che si otteneva una perdita di peso di circa il 6% rispetto al placebo (1,9%), riducendo sensibilmente il rischio cardiovascolare e migliorando la tolleranza glucidica periferica, rallentando l’incidenza di diabete e in maniera correlata il rischio di obesità.

Per quanto concerne l’impiego del bupropione-naltrexone, un trial che indagava sugli effetti cardio-vascolari a lungo termine nei pazienti obesi che assumevano quest’associazione di farmaci e che ha selezionato in maniera randomizzata una coorte di pazienti in sovrappeso o obesi per valutare la probabilità di comparsa di MACE (Major Adverse Cardiovascular Events) a lungo termine, è stato interrotto prima del termine e prima di ottenere dati significativi [58]. Viene riportato sui dati forniti dalla FDA che la terapia a base di bupropione-naltrexone in un RCT non citato, riportava un incremento della creatinina sierica rispetto al follow-up e un rischio dello 0,6% di raddoppiamento della creatinina rispetto al gruppo placebo (0,1%) dopo un anno. L’incremento della creatinina sierica sembrerebbe dovuto al rilascio di metaboliti che interferiscono con la proteina OCT 2 (organic cationic transporter type 2): pertanto nessuno studio ne supporta l’impiego in CKD [59].

L’impiego dell’orlistat come farmaco anti-obesità è inusuale: inibitore delle lipasi gastriche e pancreatiche, che determina un malassorbimento nel tratto intestinale, causando una perdita di peso e riducendo il senso della fame. Non richiede aggiustamento di dose per malattia renale cronica, ma sono stati riportati alcuni casi di calcolosi ossalatica secondaria [60]. Altri dettagli in Tabella 2.

 

Tecniche di chirurgia bariatrica

Nel 2004 Christou [61] ha pubblicato i risultati al lungo termine della chirurgia bariatrica, mettendo a confronto pazienti operati e non. I pazienti operati presentavano una minore incidenza di cancro (2,0 vs 8,49%), una minore incidenza di accidenti cardiovascolari (4,73 vs 26,69%) ed una minore incidenza di disturbi endocrinologici (9.47 vs 27.25%), muscoloscheletrici (4,83 vs 11,90%), psichiatrici (4,35 vs 8,20%) e respiratori (2,71 vs 11,36%). La mortalità registrata nel corso dell’osservazione è stata dello 0,68% nel gruppo dei pazienti operati e del 6,17% nel gruppo dei pazienti non operati.

Numerosi altri lavori successivi [62, 63] hanno riportato analoghi risultati.

Le tecniche di chirurgia bariatrica vengono generalmente distinte in: restrittive, malassorbitive e miste.

Le procedure restrittive, che si basano sulla riduzione del volume gastrico, sono il bendaggio gastrico (o pallone gastrico), la gastroplastica verticale, la sleeve gastrectomy e la Bariclip.

L’idea di usare un pallone endogastrico (BIB: Bioenterics Intragastric Ballon) per il trattamento dell’obesità nacque dall’osservazione dei pazienti psichiatrici portatori di bezoari gastrici [64]. Si tratta di un dispositivo espansibile in silicone di forma sferica posizionato per via endoscopica. Una volta introdotto nel lume gastrico, il BIB viene riempito con soluzione fisiologica sterile (circa 500-600 ml) oppure con aria; in tal modo si riempie parzialmente lo stomaco inducendo un prematuro senso di sazietà. Il meccanismo d’azione è multifattoriale, includendo sia fattori fisiologici che neurormonali. Si tratta di un dispositivo temporaneo che può essere tenuto per sei mesi e che preserva l’anatomia dello stomaco. È indicato nei pazienti che presentano controindicazioni all’intervento o che rifiutano la chirurgia [65].

La sleeve gastrectomy è l’intervento maggiormente eseguito in Italia. Consiste in una gastrectomia verticale subtotale con conservazione del piloro e tubulizzazione dello stomaco residuo [66]. Quindi, a differenza della tecnica precedente, questo è un intervento irreverisibile che altera la normale anatomia dello stomaco. Si ottiene generalmente una perdita di circa il 60% del peso corporeo [67]. Presenta un minore tasso di mortalità rispetto al bypass gastrico e in generale un minor numero di complicanze post-operatorie [68]. La plicatura gastrica è un’evoluzione meno invasiva della sleeve gastrectomy in cui la riduzione di volume dello stomaco si ottiene ripiegandolo su se stesso e suturandone una parte.

La Bariclip, o gastroplastica con clip, consiste in una gastroplastica verticale ottenuta mediante una clip realizzata in titanio e rivestita in silicone che viene posizionata parallelamente alla piccola curvatura dello stomaco in modo da dividerlo in due parti: la parte più grande è esclusa [69].

Le procedure malassorbitive sono più invasive di quelle restrittive ma presentano maggiori probabilità di calo ponderale. Appartengono a questa categoria la diversione biliopancreatica secondo Scopinaro e Duodenal Switch, la diversione biliopancreatica con conservazione dello stomaco e il mini bypass gastrico.

La diversione biliopancreatica si ottiene eseguendo prima una gastrectomia subtotale e una resezione dell’ileo a 250 cm dalla valvola ileo-cecale; successivamente si connette il tratto distale al moncone gastrico mentre il tratto prossimale viene riconnesso a 50 cm dalla valvola ileocecale [70].

Il mini bypass gastrico consiste, invece, nella creazione di una tasca gastrica verticale di circa 60 ml che viene poi anastomizzata con un’ansa digiunale, bypassando in tal modo circa 180-250 cm di duodeno. In confronto al bypass gastrico Roux-en-Y, il mini bypass è una procedura tecnicamente più semplice e reversibile [71].

Tecnica mista è appunto il bypass gastrico, in cui si crea una piccola tasca nella parte superiore dello stomaco che viene collegata direttamente all’intestino tenue mediante un’ansa digiunale a forma di Y.

Nella Tabella 3 sono riassunte le caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche.

Nel 2017 un trial pubblicato sul New England Journal of Medicine ha confrontato pazienti diabetici con BMI compreso tra 27 e 43 kg/m2 randomizzati a ricevere per il trattamento dell’obesità terapia medica intensiva, terapia medica intensiva combinata a bypass gastrico Roux-en-Y o sleeve gastrectomy: sono stati arruolati 150 pazienti per un follow-up di 5 anni in cui si è osservato che i pazienti arruolati nel braccio che comprendeva l’approccio terapeutico con terapia medica e chirurgia bariatrica presentavano un cambiamento nella percentuale di riduzione del BMI e un miglioramento dell’emoglobina glicata maggiore rispetto al braccio con solo terapia medica; inoltre i dati inerenti l’impiego della Roux-en-Y o della sleeve gastrectomy sul BMI erano sovrapponibili [72].

BENDAGGIO GASTRICO REGOLABILE SLEEVE    GASTRECTOMY BYPASS GASTRICO DIVERSIONE BILIOPANCREATICA
Calo ponderale 45% 55% 60% 65%
Rischio di recupero peso +++ ++ ++ +
Mortalità operatoria 0,1% 0,15% 0,54% 0,8%
Complicanze perioperatorie 1,9% 8,3% 14,2% 12,4%
Complicanze tardive 10,3% 3,7% 2,9% 6%
Complicanza metabolico-nutritive + ++ +++
% di reinterventi 7,6% 5,3% 3,3% 5,8%
% di miglioramento DM 50% 70% 84% 99%
Tabella 3: Caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche (tratta da LG di Chirurgia Bariatrica della SICOB).

 

Effetti benefici della chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sulla proteinuria

Diversi autori hanno riferito di effetti benefici della riduzione di peso ottenuta con la chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sull’albuminuria.

Nel 2014 Chang et al. hanno riportato i risultati di uno studio condotto su 3134 soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e seguiti per una media di 2,4 anni. Ad un anno dall’intervento si osservava un aumento del GFR; in media ogni perdita di 5 kg era associata ad un aumento di 0,5 ml/min/1,73 m2 di filtrato glomerulare. In un sottogruppo di 108 pazienti si otteneva anche una significativa riduzione della proteinuria [73].

Buoni risultati sono stati riportati anche dal S.O.S. Study (Swedish Obesity Subject Study), uno studio svedese condotto da Carlsson per valutare gli effetti a lungo tempo della chirurgia bariatrica rispetto alla terapia non chirurgica sull’incidenza dell’albuminuria e che ha evidenziato una effettiva riduzione nel gruppo operato del 50% rispetto al gruppo controllo (non operato) [74].

Nel 2017 Neff et al hanno condotto uno studio prospettico su 190 pazienti sottoposti a bypass gastrico e 271 pazienti sottoposti a bendaggio gastrico regolabile laparoscopico, valutando la funzione renale, la pressione arteriosa e la glicemia in condizioni basali, a 1 anno e a 5 anni dall’intervento. Il GFR risultava aumentato a 5 anni dall’intervento sia nei pazienti sottoposti a bypass gastrico (GFR da 94 ± 2 a 102 ± 22 ml/min/1,73 m2) sia in quelli sottoposti a bendaggio (GFR da 88 ± 1 a 93 ± 22 ml/min/1,73 m2). Nei pazienti già affetti da insufficienza renale si riscontrava comunque un miglioramento del filtrato glomerulare a 5 anni (da 52 ± 2 a 68 ± 7 ml/min/1,73 m2). Migliori livelli pressori venivano raggiunti con il bypass (23 vs 11 % a 5 anni) [75].

Sheetz et al. nel 2020 hanno pubblicato i risultati di uno studio retrospettico condotto su 1597 pazienti sottoposti tra il 2006 e il 2015 a chirurgia bariatrica e confrontati con 4750 pazienti obesi trattati con terapia medica e non chirurgica. Nei soggetti operati si osservava una riduzione dei tassi di mortalità complessiva rispetto alle controparti non operate. Il follow-up dei pazienti è stato seguito per oltre sette anni dove è stato posto come outcome primario la mortalità per qualsiasi causa a cinque anni dall’intervento chirurgico, mentre come outcome secondario la mortalità per cause specifiche stratificate per: cardiovascolari, infezioni, sopravvivenza lontano dalla dialisi, altre cause. La curva di Kaplan-Meyer, per la stima dell’incidenza cumulativa degli outcome primario e secondario, ha dimostrato che durante il follow-up il rischio di morte per tutte le cause e per cause cardiovascolari risultava sensibilmente maggiore rispetto ai pazienti non trattati con chirurgia bariatrica. Nei pazienti portatori di trapianto renale, l’impiego della chirurgia bariatrica si associa a una maggiore sopravvivenza del graft a 5 anni [76].

Anche Canney ha dimostrato su 105 pazienti diabetici sottoposti a bypass gastrico una significativa riduzione della proteinuria, con completa remissione (ACR < 30 mg/g) in ben 82 pazienti [77].

Tutti questi studi sono dunque concordi, insieme a molti altri, nel riconoscere gli effetti benefici della chirurgia bariatrica sia sulla funzionalità renale che sulla proteinuria, indipendentemente dalla possibile lesione istologica sottesa. L’effetto sulla proteinuria potrebbe essere dovuto al miglioramento di vari fattori di rischio (tra cui diabete, ipertensione, sindrome metabolica), alla diversa alimentazione (drastica riduzione dell’assunzione di cibo dopo la chirurgia bariatrica), ad effetti diretti sui podociti. Futuri studi potranno sicuramente approfondire gli effetti renoprotettivi della chirurgia bariatrica in pazienti con insufficienza renale e proteinuria per meglio definire il rapporto rischi/benefici per ogni paziente.

 

Complicanze metaboliche e renali della chirurgia bariatrica

I benefici che si ottengono dalla chirurgia bariatrica sono notevoli, ma ovviamente essa non esclude alcune possibili complicanze metaboliche. In un RCT di Cohen [78] et al. si è indagato sugli effetti della chirurgia bariatrica e delle complicanze post-operatorie a trenta giorni, selezionando una coorte affetta da CKD e ESRD e si è evidenziato che i pazienti in ESRD hanno un alto rischio post-operatorio (sia di re-operazione che di ri-ospedalizzazione) a trenta giorni rispetto alla popolazione in CKD. Non è da trascurare i deficit nutrizionali determinati dalla sindrome da malassorbimento secondaria alla chirurgia: deficit di vitamine del gruppo B (tiamina, acido folico, cobalamina), vitamina D, vitamina A, calcio, rame, zinco e ferro favorendo soprattutto l’insorgenza di anemia sia ipo- che ipercromica, fratture ossee, ipoprotidemia. La nefrolitiasi associata a chirurgia bariatrica è stata approfondita nel trial di Lieske [79] et al. dove sono stati selezionati 759 pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica (RYGB, very-very long RYGB, altre procedure chirurgiche restrittive come bendaggio gastrico o sleeve gastrectomy) confrontati con gruppo controllo di 759 pazienti con caratteristiche di base similari (ipertensione, obesità, diabete, osteoartrite, apnea del sonno) e con incindenza di CKD e di nefrolitiasi similare nei due gruppi, all’inizio dello studio (10,4 % vs 8,7%). Al follow-up (in media a sei anni) si è osservato un’incidenza di nuovi casi di nefrolitiasi nei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica rispetto al controllo (11,1% rispetto al 4,3%): precisamente l’incidenza risulta significativa nei primi due anni dopo l’intervento chirurgico. L’analisi dei calcoli espulsi ha dimostrato che erano prevalenti i calcoli di ossalato di calcio, in minima parte quelli di idrossiapatite, rari quelli di struvite e acido urico. Inoltre il rischio di nefrolitiasi era correlato anche alla tipologia di chirurgia bariatrica a cui i pazienti si erano sottoposti: il rischio risultava più alto nelle procedure malassorbitive e RYGB rispetto alle procedure restrittive (sleeve gastrectomy).

L’iperossaluria enterica associata a procedure chirurgiche malassorbitive si presenta a causa del malassorbimento degli acidi grassi. Questa condizione è frequente nei disordini gastrointestinali che colpiscono la mucosa del tratto ileale (resezione o bypass o sindrome dell’intestino corto) oppure in associazione ad insufficienza pancreatica. Il meccanismo con cui la RYGB e VLLRYGB (very-long-limb RYGB) lo scatenano non è ancora ben chiarito ma il malassorbimento degli acidi grassi e la steatorrea, conseguente alle suddette procedure di chirurgia bariatrica possono determinare la comparsa di calcoli renali da ossalato di calcio, causando o peggiorando una condizione di malattia renale cronica [80]. Non tutti i pazienti con malassorbimento degli acidi grassi, come osservato nei precedenti trial, sviluppano calcolosi renale. Uno studio osservazionale retrospettivo [81] su 51 pazienti ha osservato come la formazione di calcoli di ossalato di calcio risulta significativamente maggiore quando sussistono le seguenti condizioni rispetto al gruppo controllo: aumentata escrezione urinaria di ossalato (0,66 vs 0,38 mmol/die) con riduzione delle concentrazioni di citrato urinario (309 vs 607 mg/die) e sovrasaturazione dell’ossalato di calcio urinario per ridotto volume urinario. La meta-analisi condotta da Thongprayoon C. ha preso in considerazione quattro studi (un RCT, tre studi di coorte) [82] per un totale di 11 348 pazienti, incentrandosi sul rischio di calcolosi renale dopo RYGB, dopo procedure restrittive (bendaggio gastrico e sleeve gastrectomy) e dopo procedure malassorbitive includendo VLLRYGB e diversione bilio-pancreatica con switch duodenale. I risultati hanno dimostrato che le procedure malassorbitive favoriscono più facilmente l’incidenza di calcolosi per l’iperossaluria determinata (soprattutto con VLLRYGB e meno frequente con RYGB); mentre le procedure restrittive, che favoriscono comunque una significativa perdita di peso, spesso non si associano a comparsa di iperossalaturia (ma talvolta il ridotto introito idrico può favorire una ridotta diuresi, favorendo la cristalizzazione elettrolitica).

 

Conclusioni

La principale manifestazione clinica del danno renale nei pazienti obesi è rappresentata dalla proteinuria, nel 30% dei casi in range nefrosico [83].

La terapia dell’ORG si basa fondamentalmente sulla perdita di peso e sull’utilizzo di farmaci come GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Quando però non si ottengono risultati con la terapia medica, ci si può avvalere della chirurgia bariatrica. Questa, senza dubbi non è priva di complicanze anche a lungo termine come l’anemia, i deficit vitaminici, la calcolosi. È però in grado di garantire un buon mantenimento del calo ponderale ottenuto con scomparsa o riduzione dell’incidenza e della gravità delle comorbilità legate all’obesità. La prevenzione del danno renale nel paziente obeso risulta importante ai fini della sua sopravvivenza: l’aumento del BMI si associa oltre al peggioramento della funzione renale e alla comparsa di nefropatie secondarie, ad un aumentato rischio cardiovascolare con aumento del tasso di mortalità rispetto alla popolazione generale.

 

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The renal lesions in Bardet-Biedl Syndrome: history before and after the discovery of BBS genes

Abstract

Various renal lesions of the Bardet-Biedl syndrome (BBS) have been described, including macroscopic and microscopic kidney abnormalities, polyuria, polydipsia and chronic renal failure. However, these renal symptoms were completely overlooked for about fifty years after the first description of the syndrome. The observation of a familial origin of the syndrome began in 1753, with Maupertuis and Réaumur describing hereditary forms of polydactyly. In the early 19th century, Martin mentioned an inherited case of blindness. Subsequently, von Graefe (1858) reported on a familial occurrence of both of blindness and deafness. The introduction of the ophthalmoscope by von Helmholtz (1851) allowed for the identification of patients with retinal degeneration. Systematically using this instrument, Laurence and Moon (1866) were the first to describe a familial case of retinal degeneration combined with obesity and cognitive impairment. Due to the influential work of Froehlich, Cushing, and Babinski, attention then shifted to obesity. The syndrome was definitively identified by 1920 through Bardet’s observations familial cases of obesity, blindness, polydactyly, and hypogonadism. Biedl in 1922 observed further cases of the syndrome. In recognition of this history, the disease was named Laurence-Moon-Bardet-Biedl Syndrome. The renal anomalies were not described until fifty years later, in 1977. In 1993, the quest for the genes involved in BBS began with the isolation of 21 different genes. In 2003 two concepts emerged: the existence of a spectrum of ‘ciliopathies’ and the concept of the BBSome. Afterwards, the gene-phenotype relationship was researched using transgenic mice.

Keywords: ciliopathies, hereditary, obesity, retinitis, chronic kidney disease

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INTRODUCTION

According to the influential theory of Thomas Kuhn (1922-1996) (1), most scientists work constrained by current influential paradigm and are devoted to solving small problems (‘puzzle-solving’). The dominant paradigm is important for the interpretation of the data, but it may blind scientists to new phenomena not considered part of the paradigm. One example of this theory comes from the field of nephrology, where the pivotal renal anomalies in Bardet-Biedl Syndrome went completely unnoticed for more than 50 years after the discovery of the syndrome. Tus, the BBS syndrome is an example of how an essential clinical element may go unnoticed for a long time and is evaluated only after a shift in the attention of the scientific community (specifically, the introduction of renal biopsy and immunofluorescence).

The Bardet-Biedl Syndrome (BBS) is a rare genetic disorder characterized by retinal degeneration, polydactyly, obesity, learning disabilities, hypogonadism and renal anomalies. Various renal lesions of BBS have been described including (i) fetal lobulation (ii) calyceal clubbing, (iii) focal sclerosing glomerulonephritis, (iv) interstitial nephritis, and (v) changes in the glomerular basement membrane. Polyuria, polydipsia and chronic renal failure have been also reported in many case reports (2). Although the renal anomalies are today one of the primary features of the disease, it took almost 50 years after the description of the syndrome for renal symptomatology to be included.

Here we will review the observations that drew the attention of Bardet and Biedl to the disease and why the renal features were not observed. Afterwards, we will focus on the role that the identification of BBS genes played in changing our perception of the disease and its renal lesions. A timetable of the discoveries is summarized in Table 1.

 

HOW THE SYNDROME WAS DISCOVERED

The identification of BBS required the evolution of the following concepts: 1) the existence of hereditary forms of blindness and polydactyly, which fostered the search for combined hereditary forms of more complex diseases 2) the invention of the ophthalmoscope, which allowed scientists to identify and classify retinal degeneration and 3) a paradigm-shift concerning the nature of obesity, which focused attention on hereditary forms of obesity (such as BBS), but also served as a blinder impeding the identification of other features such as kidney failure.

The observation of a familial origin of the syndrome began in 1753, with Maupertuis and Réaumur (Figure 1, Figure 2) describing hereditary polydactyly. While polydactyly was widely known since ancient times, the hereditary aspect of the malformation gained notice in the late 1700s. Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, (born Sept. 28, 1698, Saint-Malo, France—died July 27, 1759, Basel, Switz.), was a mathematician and astronomer who popularized Newton’s theories (3). In Système de la nature ou Essai sur les corps organisés (1751) he studied the transmission of polydactyly in four generations of a Berlin family, providing the first report of the trait as hereditary (4). Renè-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), the famous French scientist who gave his name to the temperature scale, is reported by Huxley (1894-1963) (5) to have analyzed data from three families (named Kelleia) from Malta with hereditary polydactyly. Similar to polydactyly, progressive blindness was also known since ancient times; however, the possibility of a hereditary form of blindness was first noted in the early 19th century by Martin. He reported, in the Baltimore Medical and Physical Recorder (1809), on the Lecomptes, a Maryland family of French origin whose members suffered progressive blindness (5). While none of these authors were describing actual cases of BBS, their work did refocus subsequent researchers on hereditary forms of polydactyly and blindness.

Indeed, soon after, Albrecht von Graefe (1828-1870) (6) and thereafter Liebreich first reported a hereditary combination of blindness and deafness in cases of what would be called retinitis pigmentosa, furthering the concept of combined forms of hereditary traits, and these observations are, in fact, cited by Laurence and Moon in their work (see below). Another essential discovery that must be acknowledged for the history of BBS was the invention of the ophthalmoscope in 1851 by Hermann von Helmholtz (1821-1894), which allowed the observation of the retina and hence the definition of retinitis pigmentosa (Figure 3). The use of the new device, the ophthalmoscope, was hence promoted in England by John Zachariah Laurence (1829-1870), a surgeon and ophthalmologist at the ophthalmologic hospital in Southwark (Figure 4). In 1866, together with his colleague Robert Charles Moon (1844-1914) (Figure 5), a house surgeon at the same hospital (who then moved in Philadelphia), they were the first to describe, using the ophthalmoscope, a familial case of combined retinal degeneration, obesity, and cognitive impairment (7).

In the first years of the 20th century, medical attention shifted to hypothalamic forms of obesity-hypogonadism thanks to the work of a neurologist, Joseph Babinski (1857-1932), a pharmacologist, Alfred Fröhlich (1871-1953) (8) and a neurosurgeon, Harvey Cushing (1869-1939) (9). Again, in the history of science, we see how important advances in one field may come through collaborations with other fields, and how this chance partnership was a necessary step in fully defining BBS. Fröhlich’s strong influence is visible when the first report of a BBS case was attributed to a pituitary malfunction.

Around this period a certain number of observations of obesity, polydactyly and retinitis pigmentosa are reported by several authors: in 1887 Ferdinand-Jean Darier (1856-1938) reports the association of retinitis pigmentosa and polydactyly (10). In 1989 Elie von Cyon (also known as de Cyon, 1843-1912) presents the case of a 12-year old boy with obesity, growth and mental retardation, and hereditary polydactyly (11). In 1898 Ed Fournier reports retinitis pigmentosa and syndactyly (12). In 1913 Rozabel Farnes reports adipose-genital syndrome with polydactyly (13). In 1914 an Italian radiologist working in Naples, Mario Bertolotti (1876-1957) presented the case of Marguerite Catt, 39 years old, with polydactyly, mental retardation, obesity, retinitis pigmentosa, and hypogonadism (14). In 1918 J Madigan and Thomas Verner Moore (1877-1969) described a case of mental retardation, obesity, hypogonadism, retinitis pigmentosa, and tapering toes (15).
Finally, in 1920 a French medical student, George Louise Bardet (1885-1966), in his medical degree thesis, collected all these cases and his own observation of a familial case of obesity, hexadactyly, retinitis pigmentosa and hypogonadism and proposed the existence of a triad (13). He discussed this finding using the current paradigm of hypophyseal/hypothalamic obesity: “Two congenital malformations (hexadactyly and retinitis pigmentosa) in a child who became obese from birth. What is the gland which can be incriminated? (…) We believe this case must be attached to a very special clinical variety of hypophysis obesity”. Bardet’s triad (obesity, polydactyly, retinitis pigmentosa) gained success after the father of modern endocrinology, Arthur Biedl (1869-1933), in 1922 observed further cases of the syndrome. Biedl named the syndrome adipose-genital dystrophy and thought it was of cerebral origin, in line with the paradigms of that period (Figure 6). In recognition of this history, the disease was named Laurence-Moon-Bardet-Biedl Syndrome. Later, thanks to the work of Ammann in 1970 and Schachat and Maumenee in 1982, Laurence-Moon and Bardet-Biedl Syndromes came to be considered two different entities and possibly part of the same disease spectrum. In the first half of 1900, BBS was officially defined, but none of these authors noticed abnormalities in kidney function, which is today acknowledged as an important signature of the syndrome.
Why then were the renal features of the syndrome missed for almost 50 years? It is tempting to see this as an example of Kuhn’s hypothesis that scientists work on ‘puzzle-solving’ within an influential paradigm. The paradigm of that period was hypothalamic obesity, whereas kidney failure was not considered. Scientists observing new cases of BBS focused on obesity and dismissed other possible features of the disease.
It is intriguing that, even in 1995, in the excellent editorial by George Bray (born 1931) on the syndrome in Obesity Research, kidney dysfunction is completely ignored by the author (16).

 

THE RENAL LESIONS BEFORE BBS GENES

Awareness of the renal involvement in BBS starts in the late 1960s with the work of McLoughlin and Shanklin (17), Nadjmi (18), Hurley (19) and Falkner (20). McLoughlin and Shanklin (17), Nadjmi et al. (18) first reviewed necropsies of BBS from the literature and found a high incidence of renal/genitourinary malformations; Nadjmi further observed that most of cases reported in the literature since 1940 died for uremia and therefore renal failure was a major cause of early death in BBS patients. According to Nadjmi, the first autopsy reporting a BBS subject passed due to uremia was by Radner in 1940 (Acta Med Scand 105:141); however, genitourinary tract malformations were already observed since 1938 by Griffiths (J Neurol Psychiat 1:1-6), and Riggs (Arch Neurol Psychiat 39:1041). It is possible that the systematic renal involvement in BBS was missed before because the histologic classification of kidney diseases reached its maturity only when kidney biopsy and the kidney immunofluorescence have been available around 1950, thus driving attention to this organ.

The diffusion of the technique of percutaneous kidney biopsy by Nils Alwall (1904-1986) allowed Hurley et al (19) to first report histological data from a series of nine BBS children (Figure 7 A-B). The results were quite variable, from mesangial proliferation to sclerosis, cystic dilatation of the tubules, cortical and medullary cysts, periglomerular and interstitial fibrosis, chronic inflammation.

Falkner et al. (20) found in a 24-month old child with BBS right sided vesical-ureteral reflux, cystocele, urinary tract infections, growth arrest of the right kidney. They also confirm the mesangial hypercellularity by percutaneous biopsy (Figure 7 C).

In 1990 the incidence of renal abnormalities in BBS was finally determined to be very high: up to 90% of the patients, and therefore become a new signature of the syndrome, more than 50 years from its initial definition (2). In the meanwhile, the spectrum of renal abnormalities was stably defined as:

Functional: polyuria, polydipsia, aminoaciduria, reduction of maximum concentrating capacity, chronic renal failure, hypertension

Macroscopic: fetal lobulation, cystic dysplasia and calyceal cysts, small kidneys, calyceal clubbing or blunting

Microscopic: swelling of endothelial cells, tubular and interstitial nephritis with glomerulosclerosis.

In conclusion, we believe that the attention to the nephrological character of the BBS was finally reached only when (i) technical advancements were available (that is the invention of the percutaneous biopsy) and (ii) when a general attention of the medical entourage was driven towards the kidney function: we should remind that in 1943 Willem Johan Kolff (1911 – 2009) first built a dialyzer machine, further developed by Nils Alwall. At the end of 60’ nephrology was a mature science and the greater awareness towards uremia led to a revision of syndromic diseases.

However, the condition remained largely unclear even after the discovery of the renal abnormalities: major advances in a new behind the complex trait was the discovery of the gene defects causing BBS.

 

THE RENAL LESIONS AFTER BBS GENES

The quest for the genes occurred in two phases: from 1993 to 2000 a genetic mapping was pursued, with the identification of several DNA loci involved in the disease. In 2000 the identification of the first BBS gene (now they number 21), MKKS, based on the similarity between the BBS and the McKusick-Kaufman syndrome (MKS), occurred (21). In 2003 Ansley et al demonstrated that mammalian BBS8 gene was restricted to ciliated cells (21). This finding raised the hypothesis that BBS proteins play a role in cilia function. Meanwhile, other genes of the same family were found to cause BBS, with at least 17 different genes implicated up to now.

The field was quite mature at the time because a second, more common condition, was already found to involve cilia: the polycystic kidney disease (PKD). This is also a hereditary condition and followed almost the same path of BBS (anatomical period-genetic period-functional period), which ultimately led to the paradigm of the involvement of cilia dysfunction in the genesis of the disease.

It should be stressed that, again, the major advancement in the paradigm did not come directly from the studies on the disease, but from studies on flagellated protozoa: it was a genetic study on immobile forms of these protozoa which led to the identification of this gene. When the same was found to be involved in PKD and then in other diseases such as BBS, it was almost immediate the formation of a new paradigm of ‘ciliopathies’. All genes involved in these genetic diseases and in the cilium were then functionally grouped in a multiprotein complex called BBSome.

After the period of discovery of BBS genes and the construction of the concept of the BBSome, some new insights in the renal pathology of BBS have been addressed. First, the gene-phenotype relationship has been studied in much detail, with a categorization of mutations leading to various associations of the visual, metabolic and kidney phenotypes (23, 24). Second, a number of transgenic mice are now available for testing of pathogenic hypotheses and new pharmacological approaches. Risk factors for the development of the renal disease have been studied in large cohorts (22 – 24), and the usefulness of renal transplantation has been demonstrated in a separate study (25, 26). A contribution for low protein diet in the preservation of renal function in BBS has also been reported (27). Finally, a study from one of us (28, 29) showed combined impaired water handling in BBS.

These functional changes in BBS kidney might be mediated, at least in part, by mistrafficking of apical membrane proteins, leading to tubular dysfunction (41). In turn, this might be related to the renal hyposthenuria in BBS, that has been recognized as the most common renal dysfunction in the absence of renal insufficiency (42, 43).

 

Acknowledgments

I am indebted with dr. David Widmer, who critically reviewed the manuscript, with useful suggestions and critiques.

 

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