Glifozine, contenimento della proteinuria e nefroprotezione

Abstract

Negli ultimi anni, la prevalenza della malattia renale cronica (CKD) ha subito un incremento significativo, con una stima di circa 843,6 milioni di individui affetti nel 2017 [1]. Questo aumento è strettamente correlato alla crescente incidenza di fattori di rischio quali il diabete mellito e l’obesità. I pazienti con nefropatia diabetica (DKD), una delle complicanze più comuni del diabete, sono caratterizzati da un’alta morbilità e mortalità cardiovascolare. Evidenze recenti indicano che gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) hanno un ruolo determinante nella riduzione della progressione sia della DKD sia della CKD, grazie ai loro effetti nefroprotettivi e cardioprotettivi. Gli SGLT2i agiscono diminuendo l’iperfiltrazione glomerulare, migliorando il feedback tubulo-glomerulare e riducendo la glicemia.

Parole chiave: malattia renale cronica, SGLT2i, nefroprotezione, proteinuria, iperfiltrazione

Introduzione

Attualmente, a livello globale, si stima una prevalenza di 537 milioni pazienti diabetici, numero destinato ad aumentare fino a 643 milioni entro il 2030 e a 783 milioni entro il 2045 [2]. L’obesità e il diabete rappresentano un riconosciuto fattore di rischio per la CKD e il link fisiopatologico che lega tali patologie, spesso coesistenti sul piano clinico, è rappresentato dall’iperfiltrazione [3]. Negli ultimi anni, numerose molecole sono state studiate al fine di rallentare la progressione della CKD, queste, sebbene differenti da un punto di vista biochimico, sono accomunate dall’effetto sull’iperfiltrazione. Tra queste, gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) hanno rappresentato una vera e propria svolta grazie ai loro effetti nefro e cardio protettivi e attualmente sono farmaci di prima linea per il trattamento della DKD e della CKD. . Numerosi studi clinici, tra cui CREDENCE, DAPA-CKD ed EMPA-KIDNEY [4–6], hanno dimostrato l’efficacia degli SGLT2i nel ridurre il rischio di progressione della CKD nei pazienti diabetici e non diabetici. Inoltre, ricerche recenti suggeriscono che gli SGLT2i possano avere effetti benefici anche nei pazienti affetti da glomerulonefriti e nei trapiantati di rene. Questi risultati supportano l’impiego degli SGLT2i come trattamento di prima linea nella gestione della DKD e della CKD.

 

Il ruolo degli SGLT2i nella DKD e nella CKD

La nefropatia diabetica è una patologia multifattoriale che coinvolge diversi processi fisiologici, emodinamici e infiammatori. Tra i fattori che giocano un ruolo predominante nella DKD, vi è sicuramente l’iperglicemia, infatti, è stato dimostrato che i pazienti con emoglobina glicata in range di normalità non sviluppano DKD [7]. L’iperglicemia induce l’aumento dell’attività del cotrasportatore SGLT2, responsabile di circa il 90% del riassorbimento del glucosio e della maggior parte del riassorbimento del sodio nel tubulo prossimale. Questo meccanismo ha un ruolo centrale nello sviluppo della DKD, infatti, a livello renale, l’assorbimento di glucosio non è mediato dallo stimolo insulinico (come per muscoli, adipociti ed epatociti), ma aumenta in proporzione alla concentrazione di glucosio nel plasma. Nel contesto del diabete di tipo II, questo assorbimento non regolato di glucosio induce un aumento di glucosio nelle cellule glomerulari e dei tubuli renali e devia il glucosio verso vie non glicolitiche, con conseguente glicosilazione delle proteine ​​e generazione dei prodotti di glicazione avanzata. I prodotti finali di queste vie promuovono la disfunzione mitocondriale, lo stress ossidativo e l’infiammazione [8].

Nella fisiopatologia della DKD un ruolo fondamentale è rivestito anche dall’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) e attori fondamentali della nefroprotezione sono gli ACE inibitori e gli ARB [9,10]. L’effetto nefroprotettivo dei bloccanti del RAAS si esplica sia nella riduzione dell’ipertensione arteriosa ma, soprattutto, nella riduzione dell’elevata pressione intraglomerulare, e della conseguente iperfiltrazione, caratteristica della DKD [9–12]. Tuttavia, i bloccanti del RAAS non annullano completamente la progressione della DKD, probabilmente a causa del fenomeno dell’aldosterone breakthrough, che porta ad un aumento dell’attività della renina a seguito di una prolungata inibizione del RAAS [13]. Ormai numerose evidenze hanno dimostrato come gli SGLT2i abbiano un effetto additivo a quello dei bloccanti del RAAS nel ridurre la progressione della DKD [14,15].

Gli SGLT2i riducendo i livelli di glucosio plasmatico sia a digiuno che postprandiali [16], riducono il glucosio nelle cellule glomerulari e nei tubuli renali e la conseguente produzione dei prodotti di glicazione avanzata. Gli SGLT2i riducono la soglia renale per l’escrezione del glucosio da ~10 mmol/l (180 mg/dl) a ~2,2 mmol/l (~40 mg/dl) [17] e la glicosuria che ne risulta, oltre a ridurre la concentrazione media di glucosio plasmatico, migliora la glucotossicità, con conseguente miglioramento della funzione delle cellule β pancreatiche che si traduce in una maggiore sensibilità all’insulina [16–18].

L’azione degli SGLT2i si esplica attraverso il ripristino del feedback tubulo-glomerulare, infatti, è ormai noto come il rilascio del cloruro di sodio alle cellule della macula densa dell’apparato iuxtaglomerulare giochi un ruolo centrale nella regolazione della frazione di filtrazione glomerulare (GFR) e della pressione intraglomerulare [19,20]. Nello specifico, una riduzione nel rilascio di cloruro di sodio a livello nella macula densa, attraverso la vasodilatazione della arteriola afferente aumenta e la pressione intraglomerulare. Al contrario, un aumento del rilascio di cloruro di sodio nella macula densa riduce la GFR e la pressione intraglomerulare attraverso la riattivazione del feedback tubulo-glomerulare. Alcuni studi su modelli animali hanno dimostrato come il diabete scarsamente controllato, inducendo un aumento del carico filtrato di glucosio, porti a un aumento del riassorbimento del glucosio accoppiato al sodio da parte del tubulo prossimale e ad una diminuzione del rilascio di sodio alla macula densa [21,22]. Questa diminuzione dell’apporto di sodio alla macula densa determina l’attivazione intrarenale del RAAS, la vasocostrizione dell’arteriola efferente, l’ipertensione glomerulare e l’iperfiltrazione renale [19,21,22]. Inoltre, il ridotto apporto di sodio alla macula densa inibisce la conversione dell’ATP in adenosina che ha a sua volta un effetto vasocostrittore, questo genera la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento del flusso plasmatico renale, con conseguente aumento della pressione intraglomerulare e dell’iperfiltrazione [23].

Anche a questo livello gli SGLT2i giocano un ruolo fondamentale, infatti, aumentando il ​​rilascio di sodio alla macula densa favoriscono la conversione dell’ATP in adenosina con conseguente vasodilatazione dell’arteriola efferente, diminuzione del flusso plasmatico renale, riduzione dell’ipertensione glomerulare e, a lungo termine, attenuano la progressione della DKD anche in pazienti con efficace inibizione del RAS [24]. Gli effetti sul feedback sono alla base del calo iniziale del GFR osservato nei pazienti che iniziano SGLT2i, e che risulta simile a quello osservato dopo l’inizio della terapia con antagonisti del RAS. La riduzione dell’iperfiltrazione si traduce in riduzione della proteinuria con conseguente miglioramento dell’outcome renale e cardiovascolare [25]. (Figura 1)

Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.
Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.

Ulteriori meccanismi sono coinvolti nella progressione della DKD tra cui: l’aumento dello stato infiammatorio, la disfunzione e la perdita sia delle cellule endoteliali che del podocita. In tutti questi meccanismi gli SGLT2i svolgono un ruolo protettivo fondamentale, infatti, alcuni studi hanno dimostrato la loro capacità di ridurre i markers di infiammazione [26,27], la disfunzione endoteliale e la perdita della funzionalità del podocita [9,28].

Negli ultimi anni diversi studi hanno dimostrato che gli effetti nefroprotettvi degli SGLT2i non si esplicano solo nella DKD ma anche nella CKD; infatti, gli effetti sull’emodinamica renale possono offrire una nefroprotezione efficace indipendente dai livelli ematici di glicemia [29]. L’iperfiltrazione secondaria all’alterazione del meccanismo di feedback tubuloglomerulare è infatti un meccanismo comune nella patogenesi sia nella CKD che nella DKD [30]. Nella CKD, l’iperfiltrazione rappresenta un meccanismo inizialmente di tipo adattativo secondario alla riduzione della popolazione dei nefroni funzionanti al fine di compensare le richieste metaboliche ma che diventa successivamente maladattativo favorendo la progressione del danno renale. In entrambe le condizioni patologiche, Il ridotto apporto di sodio alla macula densa induce la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento della pressione intraglomerulare[31–33]. L’inibizione del SGLT2, anche nella CKD, aumenta il rilascio distale di sodio, che a sua volta promuove il feedback tubuloglomerulare portando al ripristino della pressione intraglomerulare.

 

La nefroprotezione mediata dagli SGLT2i nei trial clinici

Nell’ultimo decennio, gli SGLT2i sono stati studiati in numerosi trial clinici randomizzati con outcome primario incentrato sugli eventi cardiovascolari, dimostrando un’efficacia nella riduzione del rischio di eventi cardiovascolari maggiori nei pazienti trattati. Inoltre, le analisi secondarie di questi studi hanno dimostrato un effetto protettivo sulla progressione della DKD e CKD.

Lo studio CREDENCE, pubblicato nel 2019, ha rappresentato una vera svolta nella storia della CKD e degli SGLT2i, infatti, è stato il primo trial creato per valutare l’effetto degli SGLT2i, e precisamente del canaglifozin, sull’outcome renale. In questo studio vennero arruolati 4401 pazienti diabetici di tipo II con malattia renale cronica (eGFR di 30-90 mL/min/1,73 m2) e albuminuria (UACR di 300-5000 mg/g) già in terapia stabile con inibitori del RAS alla massima dose tollerata. La terapia con canaglifozin dimostrò, in un follow up medio di 2,6 anni, di ridurre significativamente il rischio dell’outcome composito (progressione della CKD fino allo stadio terminale, raddoppio della creatinina sierica o morte per cause renali) (HR [IC al 95%] 0,66 [0,53–0,81]) [4]. I risultati furono così incisivi da causare l’interruzione prematura per il raggiungimento dei criteri di efficacia prespecificati, inoltre, dopo la pubblicazione dello stesso, le linee guida KDIGO per la gestione del diabete nella CKD raccomandarono l’uso di SGLT2i come trattamento di prima linea associato alla metformina [34].

Dopo la pubblicazione dello studio CREDENCE, diversi studi hanno valutato l’efficacia degli SGLT2i nella CKD cercando di rispondere alla domanda se questi farmaci potessero avere un ruolo anche nei pazienti affetti da CKD non diabetici.

Nello studio DAPA-CKD, vennero arruolati 4.304 pazienti diabetici e non diabetici con CKD (eGFR di 25–75 mL/min/1,73 m2 e UACR da 200 a 5.000 mg/g) già in trattamento stabile con inibitori del RAS [46]. Lo studio dimostrò la netta superiorità del dapaglifozin, pari al 39%, nel ridurre il rischio dell’endpoint primario combinato (declino del GFR > 50%, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali o cardiovascolari). Inoltre, la superiorità veniva mantenuta anche quando le componenti dell’endpoint primario venivano considerate separatamente (HR [IC al 95%] 0,56 [0,45-0,68]). Lo studio dimostrò, inoltre, che il dapaglifozin era efficace nel ridurre il rischio di endpoint primario (HR [IC al 95%] 0,50 [0,35-0,72]) anche nei pazienti con CKD non diabetici [5]. Anche questo studio venne interrotto precocemente dopo 2,4 anni per dimostrata efficacia.

L’azione nefroprotettiva degli SGLT2i è stata, inoltre, confermata dallo studio EMPA-KIDNEY. Questo trial, su 6609 pazienti con CKD (eGFR tra 20 e 90 ml/min/1,73 m2 e UACR >200 mg/g) diabetici e non con un follow-up medio di 2 anni, dimostrò l’efficacia dell’empaglifozin di ridurre il rischio dell’endpoint primario composito (diminuzione dell’eGFR ≥40% rispetto al basale, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali) e morte cardiovascolare (HR [IC al 95%] 0,72 [0,64–0,82]) [6]. Inoltre, fu osservata una riduzione del rischio di progressione renale del 29% e una riduzione significativa dell’ospedalizzazione per qualsiasi causa (HR [IC 95%] 0,86 [0,78-0,95]). Inoltre, estendendo i criteri di inclusione fino alla CKD IV stadio ha dimostrato come l’effetto protettivo di questi farmaci si mantenga anche nei pazienti con malattia renale cronica avanzata [6].  (Tabella 1)

  CREDENCE DAPA-CKD EMPA-KIDNEY
Intervento Canaglifozin 100mg/die Dapaglifozin 10 mg/die Empaglifozin 10 mg/die
Popolazione 4.401 pazienti diabetici in terapia con RAAS inibitore 4.304 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore 6.609 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore
eGFR (ml/min) da 30 a 90 da 25 a 75

da 20 a 45

da 45 a 90 con albuminuria

Albuminuria (mg/gr) 300-5.000 200-5.000 >200
Outcomes primari

Composito:

ESKD, raddoppio della creatinina dal basale, morte per cause renali o cardiache

Composito:

Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali o cardiache

Progressione della malattia renale o morte per cause cardiache
Outcomes secondari

1.     Composito: ospedalizzazione per morte cardiaca o scompenso

2.     Composito: ESKD, raddoppio della creatinina dal basale o morte per cause

3.     Morte per cause cardiache

4.     Morte per tutte le cause

1.     Composito renale: Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali

2.     Composito cardiaco: ospedalizzazione per scompenso o morte cardiaca

3.     Morte per tutte le cause

Composito: ospedalizzazione per scompenso cardiaco, morte per cause cardiache, tutte le cause di ospedalizzazione, morte per tutte le cause
Tabella 1. Studi sugli SGLT2i con outcomes primari renali. ESKD (insufficienza renale terminale)

Un aspetto da considerare nei trial con SGLT2 è che in tutti è stato osservato un calo acuto del GFR (DIP), che successivamente si stabilizza. Un’analisi pre-specificata dello studio DAPA-CKD ha osservato una differenza tra dapaglifozin e placebo nel dip del GFR di 2,61 ml/min nei pazienti diabeti e di 2,01 ml/min per 1,73 m2 nei pazienti non diabetici [35]. Il declino acuto (DIP) del GFR si presenta circa intorno alla seconda settimana di trattamento con una stabilizzazione del GFR fino alla fine del follow up [36]. La riduzione nello slope (la pendenza del calo del filtrato) è maggiore nei pazienti con diabete di tipo 2, emoglobina glicata più elevata e UACR più elevata [36].

Infine, una metanalisi di 13 trial clinici randomizzati (SMART-C), su 90413 pazienti, ha confermato che l’introduzione in terapia degli SGLT2i riduce il rischio di progressione della malattia renale cronica del 37 %, questo effetto può essere osservato sia nei pazienti diabetici che no. Precisamente, l’aggiunta in terapia di un SGLT2i ha dimostrato di ridurre il rischio di progressione di malattia del 40% nei pazienti affetti da nefropatia diabetica, del 30% nei pazienti con malattia renale ischemica/ipertensiva, del 40% nei pazienti con glomerulonefrite e del 26% nei pazienti con CKD ad eziologia sconosciuta. Le analisi di sensitività hanno inoltre suggerito che questo beneficio non dipenda dalla funzionalità renale basale e dall’albuminuria, e che la terapia con SGLT2i protegga anche dal rischio di insufficienza renale acuta ed eventi cardiovascolari [37].

Questi dati sono stati confermati, nella real-life, anche da uno studio di coorte scandinavo, su 29887 pazienti che hanno intrapreso la terapia con SGLT2i, in cui è stato dimostrato che l’uso di questi farmaci, rispetto agli inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP4), è stato associato a un rischio ridotto di eventi renali gravi (2,6 eventi per 1.000 anni-persona vs 6,2 eventi per 1.000 anni-persona; HR 0,42 (IC 95%,  0,34  0,53), una riduzione della necessità di terapia sostitutiva renale [HR 0.32 (IC 95%, 0.22 0.47)],  di ospedalizzazione per cause renali [HR 0,41 (IC 95%, 0,32 0,52)] e di morte per cause renali  [HR 0,77 (IC 95%, 0,26  2,23)] [38].

 

Gli SGLT2i nel trattamento delle glomerulonefriti

I trial condotti con l’utilizzo degli SGLT2i nella CKD includevano anche un gran numero di pazienti con nefropatie glomerulari.

Nello studio DAPA-CKD, 270 pazienti erano affetti da nefropatia da IgA in terapia con inibitori del RAS, di questi solo il 14,1% era anche diabetico e l’eGFR e l’UACR medi erano rispettivamente 43,8 mL/min/1,73 m2 e 900 mg/g. Un’analisi secondaria prespecificata sui pazienti con IgAN confermata alla biopsia renale ha dimostrato che il dapagliflozin riduceva significativamente il rischio di progressione della CKD, insufficienza renale o morte per cause renali (HR [95% IC] 0,23 [0,09–0,63]) [39]. Come nello studio principale, questo effetto non differiva tra i sottogruppi definiti dalle categorie eGFR e UACR al basale. È stata inoltre osservata, nei pazienti randomizzati a dapaglifozin, una riduzione dell’UACR del 26% e un rallentamento della progressione della CKD, con una differenza di eGFR tra i bracci di trattamento di 2,4 ml/min/1,73 m2 per anno [39].

Al contrario, lo studio EMPA-KIDNEY non prevedeva di condurre analisi in sottogruppi con glomerulonefriti, ma nella popolazione di studio erano presenti 817 pazienti con IgAN. La metanalisi SMART-C, condotta successivamente, ha dimostrato, attraverso la combinazione dei risultati di EMPA-KIDNEY e DAPA-CKD, una riduzione del 51% del rischio di progressione della CKD nell’IgAN nei pazienti trattati con empaglifozin o dapaglifozin[37].

Per quanto riguarda l’impatto degli SGLT2i nei pazienti con glomerulosclerosi focale segmentale (FSGS) i risultati sono stati meno soddisfacenti. Nello studio DAPA-CKD sono stati arruolati 115 soggetti affetti da FSGS di cui il 90% con diagnosi istologica [40],  l’endpoint renale primario però non differiva significativamente tra i bracci di trattamento. Questo è probabilmente dovuto al basso numero di eventi, tuttavia, la differenza tra i gruppi nell’UACR è stata del 19,7% a favore di dapagliflozin, e i tassi di declino cronico dell’eGFR erano di -1,9 e -4,0 mL/min/1,73 m2 per anno rispettivamente nel braccio dapagliflozin e placebo [40].

In questo ambito è da sottolineare la post-hoc analisi dei dati dell’EMPA-REG, comprendente 112 pazienti con proteinuria in range nefrosico (definita come UACR ≥2200 mg/g al basale), che ha dimostrato un beneficio nella riduzione della progressione della CKD nei pazienti trattati con empaglifozin.  Infatti, è stata osservata una riduzione dell’UACR ≥ del 50%, rispetto al basale, più frequentemente nei pazienti trattati con empaglifozin rispetto a placebo [58,8% vs 26,2%; HR 2.48; (95% IC 1.27−4.84)]. Inoltre, l’outcome composito renale (raddoppio della creatinina sierica accompagnati da un eGFR di ≤45 mL/min/1.73 m2, inizio della terapia sostitutiva renale o morte per malattia renale) è stato osservato nel 20,6% dei pazienti trattati con empaglifozin rispetto al 33.3% dei pazienti trattati con placebo [28].

 

Gli SGLT2i nel trapianto di rene

Nonostante le numerose prove di efficacia e sicurezza dell’utilizzo degli SGLT2i nella popolazione generale con CKD secondaria a nefropatia diabetica e non, pochi studi sono stati effettuati nei pazienti trapiantati di rene con diabete di tipo II o diabete post-trapianto; infatti, persistono delle riserve relate soprattutto all’aumentato rischio di infezioni micotiche genitali e delle vie urinarie. Uno studio multicentrico osservazionale, su 339 pazienti trapiantati in terapia con SGLT2i, ha dimostrato, tra il basale e 6 mesi, una riduzione significative del peso corporeo [-2,22 kg (IC 95% da -2,79 a -1,65)], della pressione sanguigna, della glicemia a digiuno, dell’emoglobina [-0,36% (IC 95% da -0,51 a -0,21)]. Inoltre, seppur sia stata osservata una riduzione non significativa dell’UACR [da 164 mg/g (IQR 82–430) a 160 (IQR 80–347), p 0.006], quando i pazienti sono stati stratificati in base a un UACR al basale inferiore o superiore a 300 mg/g, è stato osservato un miglioramento significativo nei pazienti che avevano un UACR al basale ≥ 300 mg/g [da 760 mg/g (IQR 454–1594) a 534 (IQR 285–1092); p<0,001]. Il 26% dei pazienti ha avuto un evento avverso di cui il più frequente è stato l’infezione delle vie urinarie (14%); i fattori di rischio erano un precedente episodio di infezione nei 6 mesi precedenti [[OR] 7,90 (IC 3,63–17,2)] e il sesso femminile [OR 2,46 (IC 1,19–5,03)]. Da sottolineare che una post hoc analisi ha osservato che l’incidenza di infezione delle vie urinarie a 12 mesi era simile tra i pazienti trapiantati con SGLT2i e quelli non trattati (17,9% contro 16,7%) [41]. Questi dati sono stati confermati da uno studio randomizzato controllato su 44 pazienti trapiantati trattati con empaglifozin o placebo, in cui è stata osservata, nel gruppo di trattamento, una riduzione significativa dell’emoglobina glicata [-0.2% (-0.6, -0.1) vs 0.1% (-0.1,0.1), ‘p 0.025] e del peso corporeo [-2.5 Kg (-4.0, -0.05) vs +1 Kg (0.0, 2.0), p 0.014] ma non una differenza significativa in termini di eventi avversi, eGFR e livelli dei farmaci immunosoppressori [42].

 

Conclusioni

La terapia con SGLT2i, negli ultimi anni, ha rappresentato una rivoluzione nel trattamento della nefropatia diabetica e nella riduzione della progressione della malattia renale cronica. I profili di efficacia e sicurezza di questi farmaci sono stati testati in numerosi trial e confermati da evidenze di real-life, questi dati incoraggianti li hanno resi un pilastro delle strategie di nefroprotezione applicabili nella CKD.

La nuova sfida sarà quella di agire sulla progressione della CKD e della DKD attraverso un approccio incentrato su un intervento farmacologico mirato ai diversi meccanismi di progressione. L’associazione con nuove molecole come gli antagonisti dei mineralcorticoidi, gli inibitori dell’aldosterone sintetasi, gli antagonisti del recettore dell’endotelina e gli agonisti recettoriali del GLP permetterà di massimizzare ulteriormente l’efficacia nefroprotettiva degli SGLT2i.

 

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ACEi e ARB, contenimento della proteinuria e nefroprotezione

Abstract

Il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) svolge un ruolo significativo nella fisiopatologia renale e cardiovascolare: una sua aumentata attività è implicata nell’ipertensione arteriosa, nell’insufficienza cardiaca nonché nelle patologie renali. Per questo ACEIs e ARBs sono farmaci essenziali per la nefroprotezione: riducono i valori pressori e l’albuminuria, entrambi fattori legati al danno cardiovascolare e alla progressione della CKD. Gli effetti nefroprotettivi sono evidenti sia nella malattia renale secondaria a diabete mellito che in quella non diabetica, e l’iniziale calo del filtrato va considerato, se non superiore al 30%, come un indice del successo a lungo termine della protezione renale. Per ottimizzare l’inibizione del RAAS è necessario limitare l’introito salino e tener presente che la maggior efficacia antiproteinurica può richiedere una dose maggiore di quella usata come antiipertensiva. In casistiche selezionate e strettamente monitorate è altresì possibile considerare il così detto doppio blocco. Infine, si tenga presente che nei pazienti con CKD avanzata la terapia non va sospesa, sia perché non dà alcun beneficio sul GFR sia perché aumenta il rischio cardiovascolare.

Parole chiave: ACE inibitori, antagonisti recettoriali dell’angiotensina, nefroprotezione, proteinuria

Perché agiamo sul sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone (RAAS)?

Il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) è un sistema ormonale che regola la pressione sanguigna, il volume plasmatico circolante e il tono della muscolatura arteriosa attraverso diversi meccanismi. Esso svolge un ruolo significativo nella fisiopatologia renale e cardiovascolare, dato che un’aumentata attività del RAAS è implicata nell’ipertensione arteriosa, nell’insufficienza cardiaca nonché nelle patologie renali [1].

Le cellule juxtaglomerulari, in risposta ad un calo dei valori pressori, rilasciano l’ormone renina che catalizza il clivaggio dell’angiotensinogeno circolante, di produzione epatica, con la formazione di un decapeptide, l’angiotensina I (AngI). Ang I ha modesti effetti sui valori pressori e viene trasformato nei polmoni in Ang II, un peptide di otto aminoacidi, dall’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE). Ang II agisce sul cuore e sui reni legandosi ad un recettore, una proteina di tipo G, distinta in due sottotipi, AT1 e AT2. I recettori AT1 sono quelli che determinano gli effetti deleteri dell’Ang II, ovvero vasocostrizione, ipertrofia cardiaca e vascolare. Difatti Ang II determina vasocostrizione arteriolare periferica e aumento del riassorbimento tubulare di acqua e sodio con espansione del volume intravascolare. Ang II però ha numerose altre azioni: agisce sulla zona corticale delle ghiandole surrenaliche promuovendo la sintesi di aldosterone, che a sua volta aumenta ancora il riassorbimento di sodio con espansione del volume circolante; stimola il rilascio di vasopressina che determina aumento della sensazione di sete e riassorbimento di sodio nonché aumento del tono simpatico; tutti meccanismi deputati all’aumento dei valori pressori tramite la costrizione arteriolare, l’aumento della gittata cardiaca e la ritenzione di sodio. In condizioni patologiche l’attivazione del RAAS comporta ipertensione arteriosa, rimodellamento cardio-vascolare e danno renale. Ang II ha infatti un ruolo centrale nella progressione della malattia renale cronica (CKD) attraverso i meccanismi citati nonché tramite l’attivazione di diverse cascate biologiche che comportano aumentata espressione genica, infiammazione, stress ossidativo, apoptosi e fibrosi. Ang II ha effetti vasocostrittori preferenziali nelle arteriole efferenti, con conseguente aumento della pressione intraglomerulare e sviluppo di proteinuria,  causa lesioni tubulari tramite  attivazione di  citochine pro-infiammatorie e fibrotiche,  e  disfunzione endoteliale attraverso una  aumentata attività della NADPH ossidasi e produzione di superossido, alterata funzione endoteliale della sintasi dell’ossido nitrico;  induce altresì proliferazione e migrazione delle cellule della muscolatura liscia vascolare [2]. Un differente meccanismo di danno è dato dall’aumentata permeabilità glomerulare alle macromolecole, dall’aumentato passaggio di proteine che causa un aumentato carico sui tubuli prossimali con conseguente infiammazione e trasformazione delle cellulle tubulari in miofibroblasti, con esito in danno tubulointerstiziale [3]. Ang II non è quindi solo un peptide vasoattivo, ma una vera e propria citochina che regola la crescita cellulare, l’infiammazione e la fibrosi; molti dei suoi effetti sono mediati dalla produzione di una serie di fattori di crescita. Essa determina nel rene una aumentata produzione di TNF-alpha e di altre citochine infiammatorie quali IL-6, MCP-1, NF-kb, che si associano alla presenza di infiltrati infiammatori nel parenchima renale. Quindi Ang II contribuisce alla patologia renale progressiva anche con meccanismi infiammatori e immunologici. Nell’insieme, pertanto, si determinano una serie di alterazioni strutturali del parenchima renale che accelerano il danno innescato dai meccanismi emodinamici e proteinurici (Figura 1).

Figura N. 1: ruolo dell’angiotensina nella malattia renale cronica
Figura 1. Ruolo dell’angiotensina nella malattia renale cronica.

Si spiega quindi il perché l’inibizione del RAAS sia diventato l’obiettivo primario della protezione renale nella CKD [1-3].

Gli inibitori dell’ACE (ACEIs) bloccano la sintesi di Ang II, e quindi prevengono la conversione di Ang I a Ang II, limitandone quindi gli effetti e diminuendo la secrezione di aldosterone e vasopressina. L’efficacia degli ACEIs nel prevenire e attenuare la patologia renale si basa su effetti emodinamici, antiproteinurici, antiinfiammatori e pleiotropici. Essi infatti riducono la pressione intraglomerulare dilatando l’arteriola efferente e rallentando la degradazione della bradichinina; migliorano la selettività della membrana basale glomerulare alle macromolecole; riducono la produzione di citochine quali il transforming growth factor-beta (TGF-β), che induce glomerulosclerosi e fibrosi del parenchima renale [2]. Tuttavia, l’aumento dei livelli di renina causati dagli ACEIs stimola la produzione di Ang II tramite vie alternative che sfuggono al blocco dell’ACE e determinano il fenomeno dell’ACE escape.

I farmaci che bloccano il recettore dell’Ang II (ARBs) mostrano un’alta selettività per il recettore AT1 ed hanno effetti similari agli ACEIs, ovvero regolazione dei valori pressori e normalizzazione della funzione endoteliale, ma non hanno alcun effetto sulla bradichinina né mostrano il fenomeno dell’escape.

 

Effetti nefroprotettivi degli ACE inibitori (ACEi) e dei bloccanti dei recettori dell’angiotensina (ARB)

ACEIs e ARBs rappresentano ancor oggi la via maestra della nefroprotezione per la loro dimostrata efficacia non solo nel ridurre i valori pressori, ma anche o soprattutto per la riduzione dell’albuminuria, entrambi fattori legati al danno cardiovascolare ed alla progressione della CKD. L’effetto nefroprotettivo addizionale degli inibitori del RAAS rispetto agli altri agenti ipotensivi nella CKD è ben acclarato sia nella popolazione diabetica che in quella non diabetica [4]. Le linee guida  Kidney Disease: Improving Global Outcomes  del 2021 hanno confermato come, nella gran parte dei pazienti con CKD, ACEIs o ARB siano i farmaci di prima scelta, specialmente in presenza di albuminuria, in quanto l’inibizione del RAAS determina effetti nefroprotettivi antiinfiammatori e antiproliferativi indipendententemente dal controllo dei valori pressori [5]. Una imponente meta-analisi su oltre 60.000 pazienti ha poi confermato che queste classi di farmaci consentono di ottenere una riduzione di ESRD di oltre il 30%, riducendo altresì gli eventi cardiovascolari; gli ACEIs inoltre riducono anche la mortalità per tutte le cause e dovrebbero essere considerati la prima scelta nei pazienti con CKD [6].

Poiché la letteratura sul tema è sconfinata, sottolineeremo in questa sede solo i trial maggiori da cui derivano le indicazioni terapeutiche attuali.

ACEIs nella CKD non diabetica

In questa tipologia di pazienti gli ACEIs hanno dimostrato un chiaro effetto nefroprotettivo rispetto ad altre terapie ipotensive che non agiscono sul RAAS. Il primo grande studio fu il trial AIPRI [7] che dimostrò che l’uso dell’ACEI benazepril consentiva una riduzione globale del rischio di raddoppio della creatinina o ESRD del 50%, in particolare nei soggetti con proteinuria. Successivamente lo studio REIN [8] confermava l’efficacia del ramipril nell’ottenere un minor declino del filtrato glomerulare (GFR) rispetto al placebo, a parità di controllo pressorio. Una successiva analisi in una sottopopolazione dello stesso studio indicava poi che era altresì possibile la stabilizzazione e il miglioramento del GFR a lungo termine [9]; mentre lo studio AASK [10] confermava l’effetto nefroprotettivo degli ACEI anche nella popolazione afroamericana, ritenuta poco sensibile all’inibizione del RAAS.

ACEI nella malattia renale diabetica (DKD)

In questo fenotipo clinico, dopo i promettenti dati di un sottogruppo dello studio Hope [11] che aveva mostrato che il ramipril consentiva una riduzione del 24% del rischio di sviluppare una manifesta nefropatia nei diabetici di tipo 2 con normo-microalbuminuria,   è stato lo studio Benedict [12] a confermare che gli ACEIs, in questo caso trandolapril, dimezzava il rischio di sviluppare albuminuria in soggetti ipertesi diabetici normoalbuminurici; tale effetto si aveva indipendentemente dal controllo pressorio e non era migliorato dalla combinazione con calcio-antagonisti non-diidropiridinici.

ARB nella CKD non diabetica

Ci sono sporadiche evidenze in questo campo. I risultati dello studio giapponese COOPERATE mostrano che ACEIs e ARB hanno efficacia similare nella riduzione della perdita di filtrato e nel ridurre la proteinuria [13].  Anche un più recente studio uruguaiano giunge alle medesime conclusioni [14].

ARB nella DKD

Nel 2001 venivano pubblicati sullo stesso numero del New England Journal of Medicine ben tre studi fondamentali che hanno dimostrato l’efficacia degli ARB nella protezione del danno renale progressivo nella DKD. Lo studio IDNT [15] e il RENAAL [16] dimostravano che gli ARB, rispetto alla terapia tradizionale, ottenevano una riduzione rispettivamente del 20% e del 16% dell’end-point composito primario, ovvero raddoppio della creatinina, ESRD o morte. Inoltre, nell’IDNT si aveva anche una riduzione dell’outcome rispetto al terzo braccio dello studio condotto con l’utilizzo dell’amlodipina. A 12 mesi l’irbesartan diminuiva l’incidenza di proteinuria del 41% (vs 11% e 16% di amlodipina e placebo); e riduceva la progressione a microalbuminuria del 39% con la dose di 150 mg e del 70% con quella di 300 mg rispetto al placebo (studio IRMA-II) [17]. Infine, anche lo studio di Viberti et al. mostrava l’efficacia di valsartan nella nefropatia diabetica incipiente con una netta riduzione della microalbuminuria [18].

Come usare al meglio ACEIs e ARB?

Stabilita definitivamente la validità di queste molecole come agenti nefroprotettori, tenendone presente vantaggi e limiti come esposti nelle Tabelle 1 e 2, esaminiamo alcune condizioni particolari che potrebbero condizionarne sia l’utilizzo che l’efficacia.

VANTAGGI SVANTAGGI
Riduzione delle resistenze vascolari sistemiche con effetti anti-ipertensivi. Aumento compensatorio della renina.
Riduzione della proteinuria. Nessun effetto sulla produzione locale di Angiotensina II
Riduzione del declino del GFR a livelli quasi fisiolocigi. Rischio di danno epatico, renale, e insufficienza renale acuta, specie in presenza di stenosi dell’arteria renale bilaterale.
Riduzione del calo della clearance della creatinina. Possono dare tosse stizzosa quale reazione idiosincrasica.
Reduzione dello stato infiammatorio vascolare.   Scarsa efficacia nella popolazione diabetica con trapianto renale 
 Efficacia maggiore rispetto agli altri anti-ipertensivi nella protezione della funzione renale. Frequente la sospensione per effetti collaterali e/o difficile gestione.
Tabella 1. Vantaggi e svantaggi degli ACE inibitori.
VANTAGGI SVANTAGGI
Riduzione dell pressione arteriosa tramite inibizione della vasocostrizione della muscolatura liscia. Aumento compensatorio della renina, angiotensina I e II
Efficacia anti-ipertensiva pari o maggiore degli ACEIs Possibile ipotensione o insufficienza renale nello scompenso  cardiaco o stenosi dell’arteria renale bilaterale. 
 Migliore effetto sulla riduzione dell’indice di massa ventricolare rispetto agli ACEIs.   
 Meglio tollerati degli ACEIs  
 Ridotto tasso di sospensione.  
Tabella 2. vantaggi e svantaggi degli antagonisti recettoriali dell’angiotensina.

L’iniziale calo del GFR

Come per molti farmaci anti-ipertensivi, anche ACEIs e ARB determinano un calo iniziale del GFR con consensuale aumento della creatinina sierica, effetti della riduzione della pressione intraglomerulare. Nella pratica clinica questo calo, che mostra una notevole variazione inter-individuale, può destare eccessiva apprensione nel clinico, spesso inducendolo a ridurre la dose se non a sospendere la terapia. Una revisione sistematica ha mostrato come un aumento della creatininemia sino al 30% non debba destare apprensione, a patto che la potassiemia rimanga nella norma [19]. Ci sono inoltre evidenze che tale calo iniziale sia di tipo emodinamico più che strutturale, e sia reversibile alla sospensione dell’inibizione del RAAS. Anzi, maggiore il calo iniziale, maggiore la protezione a lungo termine della funzione renale. Tale conclusione è stata confermata da una analisi post-hoc del RENAAL che mostrava come, escludendo dall’analisi i primi tre mesi di terapia, per evitare l’influenza del calo iniziale, la protezione renale risultava maggiore nei soggetti che avevano mostrato il calo iniziale maggiore. Tale correlazione era altresì indipendente da altri fattori di rischio quali valori pressori o proteinuria [20]. In definitiva, l’iniziale calo del GFR dopo l’inizio della terapia con ACEIs e/o ARB potrebbe rappresentare una misura biologica del futuro successo terapeutico. Ciò detto, va sempre ricordato che spetta al clinico l’esatta interpretazione dell’aumento della creatininemia, specie se superiore al 30%, in quanto essa va correlata anche a concomitanti terapie diuretiche o deplezione di volume per altre cause, uso di FANS, disvelamento di una stenosi delle arterie renali non diagnosticata.

Come titolare la terapia?

La protezione renale degli inibitori del RAAS mostra una notevole variabilità da paziente a paziente, legata strettamente alla eterogeneità dei concomitanti fattori di rischio, ad esempio valori pressori o proteinuria tra tutti. Ne consegue, in una percentuale non trascurabile dei pazienti, valori di proteinuria non soddisfacenti nonostante una terapia ottimale. Sappiamo altresì che anche l’entità iniziale del calo dell’albuminuria correla con la protezione renale nel lungo periodo, maggiore la riduzione dell’albuminuria, migliore l’outcome renale [4]. Tra le strategie che possiamo mettere in campo per ridurre ulteriormente l’albuminuria residua ci sono la restrizione dell’introito salino, di cui a seguire, l’aggiunta di un anti-aldosteronico, e la titolazione della dose di ACEIs o ARB oltre la dose usuale quali farmaci anti-ipertensivi.

La dose ottimale per massimizzare la riduzione dell’albuminuria è generalmente superiore a quella utilizzata per la riduzione dei valori pressori. Aumentando quindi la dose di ACEIs o ARB si può ottenere una ulteriore riduzione dell’albuminuria, con o senza ulteriore effetto sui valori pressori [4, 21]. La sicurezza a lungo termine di tale approccio è stata dimostrata dallo studio di Hou et al. che hanno comparato la dose antiproteinurica ottimale di un ACEI (benezepril) e di un ARB (losartan) nei confronti delle dosi standard in una coorte di pazienti con CKD non diabetica [22]. Quasi la metà del campione raggiungeva la dose antiproteinurtica ottimale a 20 mg di benazepril o 100 mg di losartan, mentre gli altri avevano bisogno di 40 mg di benazepril o 200 mg di losartan. La titolazione consentiva una ulteriore riduzione dell’albuminuria e una ulteriore riduzione del rischio di ESRD, sino al 50% con follow-up di 3.7 anni.

D’altro canto va altresì sottolineato che esiste una notevole variabilità individuale. Soggetti non responsivi ad un farmaco anti-RAAS possono essere valutati inizialmente con un aumento della dose, indi con un cambiamento di classe farmacologica. Tuttavia, i soggetti con scarsa risposta spesso non mostrano benefici né dall’aumento della dose né dal cambio della tipologia di inibizione del RAAS [23].

Attenzione al sale!

Una alimentazione ad alto contenuto sodico può neutralizzare gli effetti di ACEIs e ARB, mentre la sua riduzione potenzia l’effetti anti-ipertensivo e anti-albuminurico. Iniziare una terapia diuretica rappresenta una ulteriore possibilità per correggere lo stato del volume circolante e ripristinare o aumentare l’efficacia degli anti-RAAS. Quindi, prima di titolare al massimo la dose di questi ultimi, va valutata l’aggiunta del diuretico insieme a dosi standard di ACEIs/ARB, strategia che consente spesso risultati migliori [24]. La limitazione dell’introito di sale e la terapia diuretica hanno la stessa efficacia nel potenziare la risposta anti-albuminuriuca degli anti-RAAS nella popolazione generale [25]. Ma è interessante notare come, a livello individuale, questo approccio sia poco efficace nei soggetti che hanno avuto una buona risposta alla terapia, ma consente di trasformare un paziente non-responder in un responder agli ACEIs/ARB, un esempio della medicina di precisione che dobbiamo perseguire! In ogni caso, l’alimentazione iposodica amplifica i benefici del blocco del RAAS e va sempre combinata a tale terapia.

 

Come e quando usare il così detto “doppio blocco”

Un blocco in due punti del sistema RAAS può essere effettuato con molte classi di farmaci, in questa sede noi esamineremo solo la letteratura riguardante l’uso combinato di ACEIs e ARB. Risulta evidente come operare tale strategia dovrebbe teoricamente consentire una maggiore inibizione del RAAS e migliori risultati in termini di albuminuria e nefroprotezione. Uno dei migliori studi in tal senso, condotto in soggetti con CKD non diabetica, ha dimostrato che il singolo farmaco, a dosi opportunamente titolate, consentiva la riduzione dell’albuminuria di circa il 45% (ACEI) o 70% (ARB) rispetto al basale, e che la combinazione dei due portava ad una ulteriore riduzione sino al 85% [26]. Anche in questo caso però, selezionando la popolazione in responder e non-responder, si vedeva che il grande vantaggio era appannaggio del primo gruppo, mentre nel secondo non si otteneva alcun beneficio. Quindi il doppio blocco non consente di trasformare un soggetto a bassa risposta in un responder, e il clinico deve valutarne l’opportunità nel singolo paziente. Questa strategia terapeutica ha poi visto un deciso stop dopo la pubblicazione dello studio ONTARGET, nel quale la combinazione delle due classi non ha dimostrato alcun beneficio in termini di protezione cardiovascolare [27]. Poiché lo studio arruolava pazienti con basso rischio renale, due ulteriori studi hanno valutato la combinazione nella CKD, il VA NEPHRON-D [28] e il LIRICO [29]. Il primo non ha documentato un minor rischio renale né di mortalità, segnalando un rilevante aumento di effetti avversi quali iperpotassiemia e insufficienza renale acuta, il secondo mostrava che ACEIs e ARB avevano effetti simili sugli outcome renali e cardiovascolari sulla mortalità, che ARB erano meglio tollerati degli ACEIs, ma che la combinazione non portava alcun vantaggio clinico. Anche l’EMA ne prendeva atto con una sua segnalazione [30]. Tuttavia va segnalato che, alla chiusura precoce dello studio VA NEPHRON-D per gli effetti collaterali, il doppio blocco aveva ridotto l’outcome ESRD del 34% rispetto alla monoterapia con losartan, un’efficacia mai raggiunta prima nel diabete di tipo 2.

Per tali considerazioni, alcuni gruppi hanno più volte segnalato come, in casistiche selezionate e in pazienti strettamente seguiti, l’adozione di questo regime terapeutico consenta decisivi vantaggi in termini di protezione della funzione renale [31]. È il caso della così definita “remission clinic” del gruppo di Bergamo [32], che prevede un approccio intensivo basato sull’utilizzo del doppio blocco del RAAS, e che ha trovato conferma nella meta-analisi di Palmer et al. [33] che indicava questa strategia come la migliore in termini di nefroprotezione: si poteva quindi stimare che trattare in tal modo 1000 soggetti con diabete e CKD per 1 anno avrebbe consentito di evitare 3 ingressi in dialisi e ottenere 90 regressioni dell’albuminuria [34]. Va comunque sottolineato che tale approccio necessita di estrema attenzione, gestendo la terapia concomitante per evitare valori pressori troppo bassi e prevedendo la sospensione dell’inibizione del RAAS durante episodi acuti intermittenti quali disidratazione o iperpiressia.

 

Non sospendere la terapia nelle fasi avanzate della malattia renale cronica

L’uso di ACEIs e ARB assicura certamente una protezione renale efficace, tuttavia nei soggetti anziani, in quelli con CKD stadio IV-V o nei pazienti che hanno avuto un brusco calo del GFR dopo l’inibizione del RAAS il loro utilizzo è stato messo in discussione per il rischio potenziale di compromissione della funzione renale residua. Esso infatti è stato oggetto di una controversia dell’NKF-KDOQI [35]. L’analisi della letteratura però consente oggi di fugare questi dubbi e di poter asserire che questa terapia non solo non va sospesa negli stadi avanzati della CKD in quanto non accelera il declino funzionale, ma soprattutto perché consente un decisivo vantaggio in termini di protezione cardiovascolare. Ad esempio, in un’ampia popolazione di soggetti ipertesi e anemici con CKD stadio V, l’uso di ACEIs/ARB si associava ad un minor rischio di ESRD o decesso del 6% [36]; al contrario, nei pazienti che sospendevano tale terapia si poteva registrare un aumento della mortalità totale e degli eventi cardiovascolari maggiori, senza alcun beneficio sulla funzione renale [37, 38]. Una risposta definitiva veniva infine dallo studio randomizzato e controllato STOP-ACEi che dimostrava ancora una volta che nei pazienti con CKD avanzata la sospensione dell’inibizione del RAAS non si associava ad alcun beneficio a lungo termine sui valori di GFR [39].

In ogni caso, su pazienti particolarmente fragili bisogna cercare sempre di individualizzare la terapia, per cui ove si riscontrino ripetuti episodi ipotensivi o perdita acuta della funzione renale oltre il 20%, la sospensione di ACEIs/ARB può essere presa in esame, considerando sempre che togliamo una protezione cardiovascolare al nostro paziente. Al giorno di oggi l’iperpotassiemia non dovrebbe rappresentare più un problema clinico rilevante, data la disponibilità di nuovi ed efficaci chelanti.

 

Limitata efficacia dei bloccanti del RAAS, necessità di una terapia multifattoriale

Nonostante l’inibizione del RAAS rappresenti la base fondamentale della nefroprotezione, essa risulta chiaramente insufficiente. Se riconsideriamo i dati dei trial IDNT [15] e RENAAL [16], vediamo come il rischio si riduca rispettivamente del 16% e 20%, ma il rischio residuo rimane ancora molto alto. Inoltre, l’uso di questi farmaci non è così estensivo come si potrebbe supporre. Dati statunitensi confermano che nella CKD solo il 34,9% viene trattato con ACEIs/ARB, senza alcun miglioramento di tali percentuali negli ultimi anni [40], per cui in generale il loro utilizzo rappresenta l’eccezione, tranne che nei sottogruppi con diabete mellito o patologia cardiaca. Esiste quindi una vasta area di miglioramento, anche alla luce di quanto esposto nel paragrafo precedente, ma verosimilmente il timore di effetti collaterali frena molto il loro uso estensivo nella medicina generale.

Una nefroprotezione più efficace oggi è però possibile attraverso l’uso ottimale di una terapia multifattoriale volta a prevenire sia gli eventi cardiovascolari che l’ESRD. Gli SGLT2-inibitori sono in grado di ridurre l’iperfiltrazione glomerulare e l’albuminuria con effetti nefroprotettivi in tutto lo spettro della CKD, diabetica e non [41], con elevata protezione cardiovascolare indipendentemente dalla presenza di diabete mellito. Il loro utilizzo dovrà quindi essere esteso ad un’ampia fascia della popolazione con CKD, indipendentemente dal livello di albuminuria, come un nuovo standard di cura nonché quale prevenzione della CKD stessa nel diabete di tipo 2 [42]. In quest’ultima categoria di pazienti, ulteriori classi di farmaci quali gli agonisti recettoriali del GLP-1 e gli antagonisti non steriodei dei mineralcorticoidi possono essere considerati standard di trattamento per migliorare gli outcome renali, cardiovascolari e di sopravvivenza [43]. È necessario oggi un grande sforzo educativo per gli operatori sanitari affinché l’uso di questi presidi venga sufficientemente implementato nella pratica clinica quotidiana. La presa in carico infatti deve essere olistica, con una visione complessiva delle necessità del paziente con un approccio terapeutico multifattoriale per massimizzare i benefici renali e cardiovascolari.

 

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Agonisti recettoriali del GLP-1 nel trattamento del diabete mellito tipo 2: cardioprotezione, ma non solo!

Abstract

Il raggiungimento di un ottimale controllo glicemico nei pazienti diabetici rimane ancora un obiettivo difficile da conseguire. Eventi avversi quali l’ipoglicemia, la nausea e l’aumento di peso possono compromettere a lungo termine l’aderenza dei pazienti alla terapia antidiabetica. Gli agonisti recettoriali del GLP-1 si sono dimostrati capaci di migliorare il controllo glicemico e di ridurre l’incidenza di effetti collaterali sia quando utilizzati in mono terapia che in associazione con altri farmaci ipoglicemizzanti. Il crescente interesse dei Nefrologi verso gli agonisti recettoriali del GLP-1 deriva da numerosi studi pubblicati in letteratura, in cui si dimostra che tali farmaci non solo incidono positivamente sui tradizionali fattori di rischio cardiovascolare, ma esercitano anche una funzione protettiva sulla funzionalità renale indipendentemente dai loro effetti ipoglicemizzanti, ritardando lo sviluppo e la progressione della nefropatia diabetica. Obiettivo di questa review è quello di passare in rassegna le ultime evidenze sulla farmacocinetica, la farmacodinamica e sui meccanismi diretti e indiretti attraverso i quali gli agonisti recettoriali del GLP-1 conferiscono nefroprotezione, migliorando gli outcomes renali dei pazienti diabetici.

Parole chiave: diabete mellito tipo 2, incretine, GLP-1, nefroprotezione

Introduzione

Il diabete mellito di tipo 2 (DM2) si associa a complicanze micro- e macro-vascolari che, oltre a provocare gravi disabilità nei pazienti che ne sono affetti, richiedono elevati costi di gestione per il Sistema Sanitario. Il DM2 rappresenta una delle principali cause nel mondo di malattia renale cronica (chronic kidney disease, CKD), con un’incidenza di uremia terminale (end stage renal disease, ESRD) ed inizio di trattamento renale sostitutivo che varia dallo 0,04% all’ 1,8% per anno [1]. Il danno renale correlato al DM2 include alterazioni sia di carattere strutturale (ispessimento della membrana basale glomerulare, espansione mesangiale, fibrosi interstiziale, perdita dell’architettura capillare, ialinosi delle arterie di piccolo e medio calibro) che funzionale (disfunzione della catena respiratoria mitocondriale, over espressione di citochine pro-infiammatorie quali IL-6, IL-8, IL-18, TNF-α, INF-γ) indotte dall’iperglicemia [24]. Le manifestazioni cliniche che ne conseguono configurano la cosiddetta “malattia renale in corso di diabete” (diabetic kidney disease, DKD), caratterizzata da proteinuria selettiva e non selettiva, ipertensione arteriosa e declino progressivo della funzionalità renale.

Ad eccezione degli ACE-inibitori e dei sartani, per tanti anni non sono stati disponibili farmaci con una comprovata efficacia sugli outcomes renali nei pazienti affetti da DKD. Per tale motivo, l’individuazione di nuove molecole capaci di prevenire l’insorgenza e la progressione del danno renale è diventato nel tempo un obiettivo prioritario nell’ambito della ricerca scientifica. Le strategie terapeutiche attuali mirano ad ottimizzare il controllo glicemico attraverso varie modalità: a) incrementando la disponibilità di insulina circolante, mediante la somministrazione di insulina esogena oppure mediante farmaci che promuovono la secrezione di insulina endogena; b) migliorando la sensibilità insulinica dei tessuti; c) ritardando l’assorbimento dei carboidrati a livello intestinale; d) promuovendo l’escrezione urinaria di glucosio. Negli ultimi 10 anni, l’avvento di farmaci quali gli agonisti recettoriali del GLP-1 (GLP-1RA), gli inibitori della dipeptidil-peptidasi 4 (DPP-4) e gli inibitori del co-trasporto sodio-glucosio 2 (SGLT-2) ha dato nuovo slancio all’implementazione della terapia antidiabetica, che oggi va considerata a tutti gli effetti un argomento di interesse multidisciplinare.

Sono ormai numerosi gli studi pubblicati in letteratura che dimostrano l’efficacia dei GLP-1RA nel ridurre l’incidenza degli eventi cardiovascolari maggiori (MACE), nel prevenire l’insorgenza della macroalbuminuria e nel rallentare la progressione del danno renale verso l’ESRD [5,6], stimolando pertanto l’interesse di Endocrinologi, Cardiologi e Nefrologi. Nonostante tali evidenze, i meccanismi attraverso cui i GLP-1RA conferiscono nefroprotezione non sono stati del tutto compresi e il loro utilizzo nella pratica clinica è ancora limitato. Obiettivo di questa review è quello di passare in rassegna le ultime evidenze sulla farmacocinetica, la farmacodinamica e sui meccanismi diretti e indiretti attraverso i quali gli agonisti recettoriali del GLP-1 conferiscono nefroprotezione, migliorando gli outcomes renali dei pazienti diabetici.

 

Ruolo fisiologico delle incretine

A parità di dose, il glucosio assunto per via orale provoca una risposta insulinemica maggiore rispetto alla somministrazione per via endovenosa. Ciò è dovuto al cosiddetto “effetto incretinico” di cui sono responsabili due ormoni peptidici prodotti a livello del tratto gastrointestinale: il GIP (glucose-dependent insulinotropic polypeptide) e soprattutto il GLP-1 (glucagon-like peptide-1). Dopo l’ingestione di un pasto, il glucosio presente all’interno del lume intestinale incrementa la sintesi e il rilascio in circolo di GLP-1 stimolando l’attività del sodium-glucose co-transporter 1 (SGLT-1) espresso sulla membrana delle cellule L del sistema entero-endocrino. Il GLP-1 interagisce con il suo recettore (GLP-1R) espresso sulle cellule β e δ pancreatiche, dove promuove la biosintesi e il rilascio di insulina e di somatostatina, rispettivamente. La somatostatina, a sua volta, è in grado di inibire la secrezione di glucagone da parte delle cellule α pancreatiche per mezzo del recettore della somatostatina 2 (SSTR2). In modelli sperimentali di diabete, GLP-1 si è dimostrato capace di inibire l’apoptosi delle cellule β e promuoverne la proliferazione attraverso il reclutamento di precursori cellulari, contribuendo così ad implementare la disponibilità di cellule β attive dal punto di vista funzionale [7,8]. Oltre ad agire sulle cellule pancreatiche, il GLP-1 contribuisce a regolare il controllo glicemico e a migliorare la sensibilità dei tessuti all’insulina anche attraverso numerosi effetti sistemici indiretti. L’attivazione del GLP-1R nei centri regolatori della fame a livello ipotalamico favorisce la perdita di peso e riduce l’intake di cibo. L’attività coordinata di encefalo, sistema nervoso autonomo e sistema nervoso enterico è riconosciuta come “asse intestino-cervello” (gut-brain axis). Durante il pasto, il GLP-1 stimola le fibre sensitive del nervo vago mediante l’interazione con GLP-1R a livello del tratto intraepatico della vena porta. Il segnale giunge al nucleo del tratto solitario (NTS), situato nel rombencefalo, da cui partono fibre efferenti che agiscono a livello epatico inibendo la gluconeogenesi e riducendo la steatosi e la fibrosi, e a livello del tubo digerente rallentando la velocità di svuotamento gastrico e la peristalsi del piccolo intestino. Il risultato finale sarà un aumentato senso di sazietà e la riduzione dell’appetito [9]. È stato inoltre dimostrato che il legame tra GLP-1 e GLP-1R incrementa il metabolismo e il consumo energetico a livello delle cellule del tessuto adiposo bruno indipendentemente dall’attività motoria e, contestualmente, riduce i depositi lipidici nel tessuto adiposo bianco mediante pathways di trasduzione del segnale che coinvolgono fibre del sistema nervoso simpatico [10]. Dopo circa 1-2 minuti dalla sua immissione in circolo, il GLP-1 viene rapidamente degradato a peptide inattivo dall’enzima dipeptidil-peptidasi 4 (DPP-4). Grazie alla sua breve emivita, l’azione modulatrice del GLP-1 sul controllo glicemico è calibrata e proporzionale al carico di glucosio introdotto con la dieta, pertanto previene situazioni di ipersecrezione di insulina e conseguenti pericolose ipoglicemie. Le azioni fisiologiche del GLP-1 sono riassunte nella Tabella I.

Tabella I: Azioni fisiologiche del GLP-1
Tabella I: Azioni fisiologiche del GLP-1

 

Proprietà farmacologiche e profilo di sicurezza dei GLP-1RA

I GLP-1RA inducono la stimolazione sovra-fisiologica del GLP-1R, mimando il meccanismo d’azione del GLP-1 endogeno e amplificandone gli effetti sia locali che sistemici senza interferire in alcun modo con il GIP. Una caratteristica peculiare riguarda la capacità di aumentare la secrezione insulinica in modalità proporzionale ai valori glicemici: man mano che la glicemia diminuisce, infatti, la secrezione di insulina si riduce. Questo meccanismo insulinotropico glucosio-dipendente spiega la bassa incidenza di eventi ipoglicemici associati alla terapia con GLP-1RA, sia quando sono utilizzati da soli che in duplice o triplice terapia con metformina, sulfoniluree, pioglitazone o insulina. I GLP-1RA possono essere classificati in due gruppi (Fig. 1):

Fig 1. GLP 1RA in base a caratteristiche farmacocinetiche(1)
Figura 1: Classificazione dei GLP-1RA sulla base delle caratteristiche farmacologiche (SC: sottocute; OS: orale)
  1. Incretino-mimetici: Exenatide (Byetta®), Exenatide LAR (long-acting release) (Bydureon®), Lixisenatide (Lyxumia®). Derivano da exendin-4, un peptide isolato dalla saliva del Gila Monster (heloderma suspectum), una lucertola velenosa del sud dell’Arizona. Questi farmaci sono resistenti alla rapida degradazione da parte della DPP-4, ma poiché presentano un’analogia di struttura solamente del 52% rispetto al GLP-1 endogeno, possiedono un maggior potere immunogeno con possibile sviluppo di anticorpi inattivanti. Ad eccezione dell’exenatide in formulazione LAR, da un punto di vista farmacocinetico vengono definiti farmaci a breve durata d’azione (short-acting) in quanto sono caratterizzati da picchi di concentrazione plasmatica di breve durata con periodi intermittenti di concentrazioni molto basse e quasi vicino allo zero, durante le quali i GLP-1R non sono minimamente attivati [11]. In virtù di tali caratteristiche, essi mostrano un effetto più marcato sul rallentamento dello svuotamento gastrico, che si traduce in una maggiore riduzione dell’incremento glicemico post-prandiale, mentre sono meno efficaci sul controllo della glicemia a digiuno, della secrezione basale di insulina e sul mantenimento di valori stabili di emoglobina glicata (HbA1c) [1214]. L’eliminazione di questi farmaci avviene principalmente mediante filtrazione glomerulare, riassorbimento tubulare e conseguente degradazione proteolitica, pertanto il loro utilizzo è controindicato in presenza di eGFR <30 ml/min/1,73m2 (Fig. 2).
  2. Analoghi del GLP-1 umano: Liraglutide (Victoza®, Saxenda®), Dulaglutide (Trulicity®), Semaglutide iniettabile (Ozempic®), Semaglutide orale (Rybelsus®), Albiglutide (Eperzan®, non più in commercio). Sono anche detti a lunga durata d’azione (long-acting) in quanto, una volta raggiunto lo stato stazionario, mantengono concentrazioni ematiche costantemente elevate che determinano una continua stimolazione di GLP-1R e solo fluttuazioni minori tra una somministrazione e l’altra. Questi farmaci presentano un basso potere immunogeno in virtù di un’elevata analogia strutturale con il GLP-1 endogeno. La loro lunga emivita è indotta da specifiche caratteristiche molecolari, quali il legame covalente con l’albumina (albiglutide), con la porzione Fc dell’immunoglobulina (Ig) umana G4 (dulaglutide) o con specifici acidi grassi (liraglutide) [1517], che ne impediscono l’eliminazione per via renale. A seguito di ciò, gli analoghi del GLP-1 umano possono essere utilizzati con sicurezza anche a fronte di valori di eGFR fino a 15 ml/min/1,73m2 (Fig. 2). Il catabolismo di questi farmaci avviene nei tessuti target in modo simile alle proteine di grandi dimensioni, senza che sia stato individuato un organo specifico come principale via di eliminazione. Contrariamente ai GLP-1RA a breve durata d’azione, essi inducono una riduzione più marcata della HbA1c e della glicemia a digiuno e diminuiscono l’incidenza di effetti collaterali quali nausea e vomito; inoltre, hanno dimostrato una maggiore efficacia sulla mortalità e la morbidità cardiovascolare [18,19].
Figura 2: Adeguamento posologico dei GLP-1RA in base al eGFR (espresso in ml/min/1,73 m2)
Figura 2: Adeguamento posologico dei GLP-1RA in base al eGFR (espresso in ml/min/1,73 m2)

I GLP-1RA richiedono generalmente la somministrazione sottocutanea. Al giorno d’oggi, i dispositivi per l’iniezione sottocutanea dei GLP-1RA hanno raggiunto un’evoluzione tecnologica notevole per quel che riguarda frequenza di somministrazione, dimensione degli aghi e facilità di auto-inoculazione del farmaco mediante penne pre-riempite. L’insieme di questi aspetti ha avuto un impatto significativo sulla qualità di vita dei pazienti diabetici ed ha migliorato notevolmente la loro aderenza terapeutica. A partire dal 2020 è disponibile il primo GLP-1RA (semaglutide – Rybelsus®) in formulazione orale, per la quale è prevista la mono somministrazione giornaliera. La serie di trials PIONEER [2029] ha dimostrato che semaglutide orale, messa a confronto con diverse altre classi di farmaci (SGLT-2 inibitore, inibitore di DPP-4, un altro GLP-1RA, insulina, placebo), ha un impatto positivo sui livelli medi di HbA1c, sulla riduzione ponderale e sul profilo di rischio cardiovascolare sia quando usata in mono terapia che in combinazione con metformina ± sulfonilurea. Sulla base dei dati finora raccolti, la compromissione della funzionalità renale, anche di grado severo, non influisce in modo significativo sulla farmacocinetica di semaglutide; il farmaco non è tuttavia raccomandato nei pazienti con nefropatia terminale.

 

La “nefroprotezione” dei GLP-1RA

Una letteratura sempre più ampia [30,31] supporta l’ipotesi che i GLP-1RA siano in grado di conferire nefroprotezione non solamente perché favoriscono la perdita di peso e migliorano il controllo glicemico, ma anche attraverso l’interazione diretta con le cellule renali (Tabella II).

EFFETTI DIRETTI EFFETTI INDIRETTI
Aumentano la diuresi e la natriuresi

▪ Migliorano il controllo glicemico

Ripristinano il normale funzionamento del feedback tubulo-glomerulare

▪ Migliorano il controllo pressorio

Sopprimono l’iperattivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone

▪ Favoriscono la perdita di peso

Abbassano la concentrazione sierica di angiotensina II

▪ Aumentano la sensibilità tissutale all’insulina

Inibiscono l’espansione mesangiale e la fibrosi renale

▪ Riducono la produzione post-prandiale di glucagone

Minimizzano il danno ipossico-ischemico renale

▪ Riducono l’uptake intestinale dei lipidi

Prevengono il danno ossidativo e la formazione di radicali liberi dell’ossigeno

▪ Modificano il microbiota intestinale (?)

Tabella II: Azione nefroprotettiva dei GLP-1RA

Numerosi studi sull’uomo hanno dimostrato la presenza di GLP-1R sia nel glomerulo che nel tubulo renale. I GLP-1RA sembrerebbero in grado di contrastare l’iperfiltrazione glomerulare in quanto inducono un aumento della diuresi e della natriuresi mediante fosforilazione e conseguente inibizione diretta dello scambiatore sodio-idrogeno 3 (NHE3), localizzato sull’orletto a spazzola delle cellule tubulari prossimali [30,31]. Kim et al. [32] hanno inoltre dimostrato che liraglutide promuove la natriuresi anche attraverso un’aumentata secrezione di atrial natriuretic peptide (ANP) da parte dei cardiomiociti. Tali meccanismi spiegano almeno in parte la correlazione tra assunzione cronica dei GLP-1RA e abbassamento dei valori di pressione arteriosa. L’aumentato carico filtrato di sodio che giunge alla macula densa ripristina il normale funzionamento del feedback tubulo-glomerulare, sopprime l’iperattivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e abbassa la concentrazione sierica di angiotensina II. Inoltre, i GLP-1RA inibiscono l’espansione mesangiale, riducono l’espressione a livello endoteliale di molecole pro-fibrotiche e aumentano la disponibilità di ossido nitrico intraglomerulare, rallentando quindi la progressione della DKD [3334]. Il declino del filtrato glomerulare e la microalbuminuria nei pazienti diabetici fanno parte di un corollario di segni e sintomi sistemici accomunati dalla dislipidemia e dall’aterosclerosi. Secondo alcuni autori [3537], i GLP-1RA conferiscono nefroprotezione attraverso varie proprietà anti-aterogeniche:

  • Riducono la produzione e la secrezione dei chilomicroni intestinali con effetti benefici sui livelli plasmatici di colesterolo totale, LDL e trigliceridi [35];
  • Minimizzano il danno ipossico-ischemico renale in quanto regolarizzano l’attività mitocondriale delle cellule renali [36];
  • Prevengono il danno ossidativo e la formazione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS) in quanto aumentano i livelli di cAMP e l’attività della protein-chinasi A, mentre riducono l’attività della NAD(P)H ossidasi, interferiscono con l’espressione dei recettori per i prodotti di glicazione avanzata (AGEs) e sopprimono la via di trasduzione del segnale mediata da F-kB [37].

Infine, un’ipotesi affascinante riguarda il possibile ruolo dei GLP-1RA nel modificare la composizione del microbiota intestinale, la cui disregolazione è oggi correlata all’insorgenza di numerose condizioni patologiche, compresa la CKD. Uno studio condotto su modello animale ha comparato gli effetti di liraglutide e di saxagliptin sulla composizione del microbiota intestinale. Gli autori [38] hanno osservato che liraglutide (ma non saxagliptin) determina una minore espressione dei filotipi correlati all’obesità (tra cui roseburia, erysipelotrichaceae incertae sedis, marvinbryantia, and parabacteroides), mentre al contrario promuove la crescita dei filotipi blautia e coprococcus che sono correlati a un BMI più basso. Una possibile spiegazione deriva dal fatto che liraglutide induce un aumento dei livelli di GLP-1 da 4 a 6 volte superiore rispetto all’inibitore di DPP-4, con significative ripercussioni sul rallentamento dello svuotamento gastrico e del transito intestinale. Tutto ciò contribuisce a modificare il pH e la concentrazione dei diversi nutrienti all’interno del lume intestinale, entrambi fattori determinanti la composizione finale del microbiota. In atto, il meccanismo attraverso cui l’influenza dei GLP-1RA sul microbiota intestinale possa migliorare gli outcomes clinici dei pazienti diabetici è ancora tutto da dimostrare.

 

Outcomes renali nei pazienti diabetici trattati con GLP-1RA: revisione della letteratura

Numerosi studi pubblicati in letteratura hanno indagato gli effetti nefroprotettivi dei GLP-1RA nei pazienti diabetici (Tabella III).

Nome dello studio Farmaco Endpoint renale Risultati
LEADER Liraglutide

vs

placebo

– Macroalbuminuria

– Raddoppio della sCreat

– eGFR <45 ml/min/1,73 m2

– Necessità di dialisi

– Morte per cause renali

– Minore incidenza di nefropatia

– Impatto favorevole sulla macroalbuminuria

– Declino del eGFR più lento nei pazienti con IRC moderata/severa

SCALE Liraglutide

vs

placebo

– Variazioni di UACR

– Maggiore effetto sulla riduzione della UACR

LIRA-RENAL Liraglutide

vs

placebo

– Variazioni di eGFR

– Variazioni di UACR

– Nessuna differenza su eGFR e UACR

SUSTAIN – 6 Semaglutide

vs

placebo

– Macroalbuminuria persistente

– Raddoppio della sCreat

– eGFR <45 ml/min/1,73 m2

– Necessità di dialisi

– Minor incidenza di macroalbuminuria de novo

– Nessuna differenza su incidenza di ESRD e morte per cause renali

ELIXA Lixisenatide

vs

placebo

– Variazioni di UACR

– Rallentata progressione della UACR indipendentemente dall’albuminuria basale

– Nessuna differenza sul declino del eGFR

EXCEL Exenatide LAR

vs

placebo

– Declino del eGFR del 40%

– Necessità di dialisi

– Morte per causa renale

– Macroalbuminuria de novo

– Miglioramento dell’outcome composito renale

– Minor incidenza di macroalbuminuria

AWARD-7 Dulaglutide

vs

glargine

– Variazioni di eGFR e UACR rispetto al baseline

– Rallentamento del declino del eGFR

– Nessuna differenza sulle variazioni di UACR

REWIND Dulaglutide

Vs

Placebo

– Macroalbuminuria de novo

– Declino del ≥30% rispetto al basale

– Necessità di dialisi

– Minore incidenza di macroalbuminuria

– Nessuna differenza su declino del eGFR e sulla necessità di dialisi

sCreat: creatinina sierica

eGFR: velocità di filtrazione glomerulare

UACR: rapporto albumina/creatinina urinarie

Tabella III: Rassegna dei principali trials clinici che hanno analizzato l’impatto dei GLP-1RA sugli outcomes renali

Nel trial LEADER [6], 9340 pazienti diabetici ad alto rischio o con nota malattia cardiovascolare sono stati assegnati in modo randomizzato al gruppo liraglutide vs placebo. Lo studio ha incluso sia pazienti già in terapia con ipoglicemizzanti orali e/o insulina che soggetti naïve. L’endpoint primario è stato il tempo intercorso tra il momento della randomizzazione e l’insorgenza di MACE (morte cardiovascolare, infarto non fatale del miocardio e/o stroke non fatale). Altri endpoints analizzati nello studio includevano: rivascolarizzazione percutanea, ricovero per angina instabile o scompenso cardiaco, morte per tutte le cause, nefropatia (intesa come comparsa di macroalbuminuria, raddoppio della creatininemia, eGFR <45 ml/min/1,73m2, necessità di dialisi o morte per cause renali) e retinopatia. Dopo un periodo medio di follow-up pari a 3,8 anni, nel gruppo liraglutide si è ottenuto una riduzione media dello 0,4% per HbA1c e di 2,3 kg per il peso corporeo. L’endpoint primario ha mostrato un’incidenza più bassa nel gruppo liraglutide (13%) rispetto al placebo (14,9%). Riguardo l’outcome composito renale, nel gruppo liraglutide l’incidenza di nefropatia è stata inferiore del 22% rispetto al placebo con un impatto favorevole soprattutto sulla macroalbuminuria, mentre non sono state registrate differenze significative riguardo gli hard endpoints renali. Il declino del eGFR è risultato più lento nel gruppo liraglutide; tale effetto è stato più evidente nelle sottocategorie di pazienti con CKD moderata (eGFR 30-59 ml/min/1,73m2) o severa (eGFR <30 ml/min/1,73m2).

Il trial SCALE [39] ha reclutato 846 pazienti al fine di valutare l’utilità di liraglutide nel management del peso corporeo nei pazienti diabetici in sovrappeso o obesi. I pazienti sono stati assegnati in modo randomizzato a ricevere liraglutide 3 mg, 1,8 mg o placebo. Alla fine del periodo di studio di 56 settimane, nei bracci dei pazienti trattati con liraglutide si è registrato non solo un calo ponderale significativo, ma anche la riduzione del rapporto albumina/creatinina urinarie (UACR) nella misura del 18,36, 10,79 e del 2,34%, rispettivamente.

Contrariamente ai trials LEADER e SCALE, nel trial LIRA-RENAL liraglutide si è dimostrata inefficace nel migliorare gli outcomes renali su un campione di 279 pazienti diabetici con IRC moderata (eGFR 30-59 ml/min/1,73m2): gli autori non hanno infatti riscontrato alcuna differenza in termini di eGFR e di UACR rispetto al placebo dopo 26 settimane di trattamento [40]. Tale risultato potrebbe essere in parte dovuto all’esiguità del campione e al breve periodo di osservazione.

La serie di trials SUSTAIN [5, 4149] include 10 studi randomizzati controllati finalizzati a valutare l’efficacia di semaglutide sottocutanea settimanale sul controllo glicemico nei pazienti affetti da DM2. Il farmaco è stato somministrato in mono terapia o in combinazione con metformina, sulfonilurea e/o insulina e comparato con i farmaci più comunemente usati per il DM2 (sitagliptin, exenatide, insulina glargine, dulaglutide, canaglifozin e liraglutide). Recentemente, Mann et al. [50] hanno condotto un’analisi post-hoc dei dati relativi agli 8416 pazienti arruolati nei trials SUSTAIN 1-7, al fine di esaminare gli effetti di semaglutide sottocutanea sul eGFR, sulla UACR e sugli eventi avversi renali. Sebbene semaglutide si associ ad un declino del eGFR nelle prime 12-16 settimane di trattamento per poi stabilizzarsi, la differenza globale rispetto agli altri farmaci antidiabetici e al placebo nell’intero periodo di osservazione è risultata statisticamente non significativa; inoltre, i valori di UACR hanno registrato un trend in calo nel gruppo di pazienti trattati con semaglutide. Gli Autori hanno quindi concluso che il trattamento con semaglutide non aumenta l’incidenza di eventi avversi renali rispetto agli altri trattamenti antidiabetici studiati. In particolare, il trial SUSTAIN-6 [5] è stato disegnato allo scopo di dimostrare la non inferiorità di semaglutide rispetto al placebo in termini di sicurezza cardiovascolare su un campione di 3297 pazienti. Anche in questo caso l’endpoint primario è stato l’incidenza dei MACE. Dopo 2,1 anni di follow-up, il braccio dei pazienti trattati con semaglutide ha registrato risultati migliori rispetto al placebo in riferimento ai MACE (6,6% vs 8,9%), al controllo glicemico (valori medi di HbA1c -1,1% vs -1,4%), al calo ponderale (-3,6 vs -4,9 kg) e all’insorgenza o peggioramento della nefropatia (3,8% vs 6,1%). Analogamente a quanto emerso dal trial LEADER, la riduzione della macroalbuminuria (fino al 46%) sembra essere il meccanismo principale attraverso cui semaglutide incide positivamente sugli outcomes renali.

ELIXA [51] è stato uno studio randomizzato, in doppio cieco, a gruppi paralleli disegnato per valutare l’impatto di lixisenatide sul rischio cardiovascolare rispetto a placebo su una popolazione di 6068 soggetti adulti diabetici con recente episodio di sindrome coronarica acuta. L’endpoint primario composito, valutato per la non inferiorità e la superiorità, comprendeva l’incidenza dei MACE. Il periodo medio di osservazione è stato di 108 settimane. Lo studio ha dimostrato che lixisenatide non è inferiore, sebbene non superiore, al placebo riguardo la sicurezza cardiovascolare. In una recente sotto analisi dei risultati del trial ELIXA, Muskiet et al. [52] hanno analizzato gli effetti di lixisenatide sugli outcomes renali. Gli autori hanno dimostrato che lixisenatide riduce la variazione della UACR sia nei pazienti microalbuminurici (-21%) che macroalbuminurici (-39%) al baseline e previene la comparsa di macroalbuminuria nei soggetti inizialmente normoalbuminurici (-1,69%); per contro, il declino del eGFR nei due gruppi è risultato statisticamente non significativo indipendentemente dai valori di albuminuria al baseline.

Nel trial EXSCEL [53], 14752 soggetti diabetici sono stati assegnati in modo randomizzato a ricevere exenatide LAR alla dose di 2 mg settimanali vs placebo per un periodo di osservazione di 3,2 anni. I risultati hanno dimostrato che exenatide è non inferiore rispetto al placebo in termini di sicurezza, ma non è superiore in termini di efficacia sulla prevenzione dei MACE. Tali evidenze sono state confermate in tutte le categorie di pazienti con CKD di diversa gravità (eGFR basale maggiore o minore di 60 ml/min/1,73m2). Sebbene nel trial EXSCEL exenatide non avesse prodotto alcun miglioramento significativo sul declino del eGFR e sull’incidenza di ESRD e di morte per cause renali, un’analisi successiva dei dati aggiustati in base alle caratteristiche demografiche e alle comorbidità presenti al baseline ha invece rivelato un significativo miglioramento dell’outcome composito renale, mediato principalmente da una più bassa incidenza di macroalbuminuria [54].

Lo studio AWARD-7 [55] ha reclutato e randomizzato 577 pazienti diabetici con CKD stadi G3 e G4 in 3 bracci: 1) dulaglutide 1,5 mg settimanali, 2) dulaglutide 0,75 mg settimanali e 3) insulina glargine, tutti in associazione con insulina lispro. L’endpoint primario era il valori di HbA1c a 26 settimane; gli endpoints secondari includevano le variazioni di UACR e di eGFR, quest’ultimo stimato utilizzando sia la creatinina che la cistatina C. Dopo 52 settimane di osservazione, i risultati hanno dimostrato che dulaglutide migliora in modo efficace e sicuro il controllo glicemico nei pazienti diabetici con malattia renale avanzata, con impatto sulle oscillazioni di HbA1c sovrapponibili alla terapia con insulina glargine basale. In merito agli endpoints secondari, dulaglutide si è dimostrata più efficace dell’insulina glargine nell’attenuare il declino della funzionalità renale (riduzione del eGFR pari a -1,1, -1,5 e -2,9 ml/min/1,73m2 nei tre gruppi, rispettivamente), mentre non si sono registrate differenze statisticamente significative sulla riduzione della UACR. È interessante notare come in questo studio le variazioni dell’eGFR siano risultate indipendenti da quelle del peso. In altre parole, gli autori non hanno osservato alcuna correlazione significativa tra la variazione della creatinina (le cui concentrazione sieriche dipendono notoriamente dalla massa muscolare del paziente), della cistatina C (che invece non è influenzata dalla massa muscolare) e quella del peso corporeo. Questo dato conferma indirettamente che il calo ponderale che si registra nei pazienti in trattamento con GLP-1RA è frutto di una perdita di massa grassa e non di massa muscolare.

Il trial REWIND [56] è stato uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, in cui 9901 pazienti diabetici con precedente evento cardiovascolare o con fattori di rischio cardiovascolare sono stati assegnati casualmente (1:1) a una iniezione sottocutanea settimanale di dulaglutide (1,5 mg) o placebo. L’outcome primario è stato l’incidenza dei MACE con un approccio intention-to-treat. Tra gli outcomes secondari sono stati presi in considerazione un composito di retinopatia, nefropatia (macroalbuminuria de novo, declino del eGFR ≥30% rispetto al basale, necessità di dialisi), i singoli eventi dell’outcome primario, ospedalizzazione per angina instabile o scompenso cardiaco e morte. Durante un periodo mediano di osservazione di 5,4 anni, l’outcome primario composito si è verificato nel 12% nel gruppo dulaglutide vs il 13,4% nel gruppo placebo. La mortalità per tutte le cause non differiva tra i gruppi. Se da un lato l’incidenza di macroalbuminuria è stata del 8,9% vs 11,3% nel gruppo placebo, le percentuali di declino del eGFR ≥30% e di necessità di dialisi hanno invece mostrato un andamento pressoché sovrapponibile nei due gruppi.  

La metanalisi di Palmer et al. [57] ha raggruppato 764 trials randomizzati controllati che hanno comparato gli SGLT-2 inibitori e i GLP-1RA al fine di valutarne l’efficacia nei pazienti diabetici. Gli autori concludono che entrambi i farmaci, quando associati ad altri trattamenti antidiabetici, riducono l’incidenza di infarto miocardico non fatale e di ipoglicemie severe, prevengono lo sviluppo di CKD e abbassano la mortalità in misura proporzionale al profilo di rischio cardiovascolare e renale del paziente al basale (very low, low, moderate, high, e very high). Un’attenta stratificazione del rischio cardiovascolare nei pazienti diabetici è pertanto condizione necessaria al fine di stabilire la strategia terapeutica più adatta. In sintonia con questa visione, le recentissime linee guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), pubblicate nel Sistema Nazionale Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità, indicano i GLP-1RA come farmaci di prima scelta (insieme a metformina e SGLT-2 inibitori) per il trattamento a lungo termine in pazienti con DM2 con pregressi eventi cardiovascolari e senza scompenso cardiaco, mentre nei soggetti senza precedenti cardio-vascolari e in quelli con scompenso cardiaco sono da considerarsi di seconda linea.

Sebbene tutti gli studi finora citati concludano che l’azione nefroprotettiva dei GLP-1RA è legata esclusivamente al loro impatto sulla macroalbuminuria, la rivalutazione dei dati del trial REWIND condotta con il metodo della sensitivity analysis ha invece dimostrato che dulaglutide riduce in maniera significativa anche il peggiorare dell’eGFR quando questo è definito come riduzione ≥40% o ≥50%, anziché ≥30% come nel disegno originale dello studio. Analogamente, la revisione dei dati di una recentissima metanalisi [58], in cui la sensitivity analysis ha escluso l’unico trial che ha reclutato pazienti con recente episodio di sindrome coronarica acuta (ELIXA), ha dimostrato che i GLP-1RA non solo riducono l’incidenza dei MACE, dei ricoveri per scompenso cardiaco e della mortalità per tutte le cause, ma migliorano l’outcome renale composito anche in termini di declino del eGFR nel tempo. Nel 2019 è stato avviato il trial FLOW (Effect of Semaglutide Versus Placebo on the Progression of Renal Impairment in Subjects With Type 2 Diabetes and Chronic Kidney Disease) [59], che ha reclutato 3508 pazienti al fine di valutare la capacità di semaglutide di ridurre l’incidenza dell’endpoint primario composito (declino del eGFR ≥50% rispetto al basale, necessità di dialisi, morte per cause renali, morte per malattia cardiovascolare) rispetto al placebo. I risultati dello studio, attesi per il 2024, contribuiranno a definire il ruolo reale dei GLP-1RA come farmaci in grado di rallentare il peggioramento della CKD nei pazienti con DM2.

 

Conclusioni

I GLP-1RA possiedono un ottimo profilo di sicurezza e hanno dimostrato un impatto positivo sulla riduzione del rischio cardiovascolare. I risultati dei trials clinici finora pubblicati concordano nell’attribuire ai GLP-1RA un’azione nefroprotettiva, che si estrinseca attraverso effetti sia indiretti (miglioramento del controllo pressorio e glicemico, perdita di peso) che diretti (ripristino di una normale emodinamica intrarenale, prevenzione del danno ischemico e ossidativo). Ciò si traduce nella riduzione dell’incidenza di albuminuria e nel rallentamento del declino della funzionalità renale. Sebbene l’alto costo rappresenti ad oggi un limite importante per il loro utilizzo come prima scelta terapeutica, questi farmaci potrebbero risultare vantaggiosi rispetto al trattamento insulinico grazie a un minor tasso di effetti collaterali avversi, una migliore aderenza terapeutica da parte dei pazienti e agli effetti benefici sul peso corporeo. Ulteriori studi sono necessari al fine di ampliare le conoscenze sugli effetti nefroprotettivi dei GLP-1RA e sulla loro capacità di implementare a lungo termine gli outcomes cardiovascolari e renali dei pazienti diabetici e, più in generale, dei pazienti con CKD.

 

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