Effetti avversi renali delle nuove terapie molecolari oncologiche

Abstract

L’introduzione delle nuove terapie oncologiche ha cambiato lo scenario delle complicanze. Un ritardo nel riconoscimento degli effetti avversi renali si è inizialmente dovuto al timing di comparsa del danno renale, che più frequentemente è successivo al periodo di osservazione previsto dagli studi di registrazione. La malattia renale ha un impatto significativo sulla gestione dei pazienti oncologici. La biopsia renale è fondamentale per la gestione delle tossicità renali e dovrebbe essere fortemente incoraggiata per i pazienti che mostrano effetti renali avversi da nuovi agenti antitumorali.

Recentemente abbiamo esaminato le caratteristiche istologiche di 42 pazienti trattati con nuovi agenti antitumorali (immunoterapia: 54,8%, trattamenti anti-angiogenetici: 45,2%) sottoposti a biopsia renale per insufficienza renale di nuova insorgenza e/o anomalie urinarie. Il quadro istologico più comune è risultata essere la nefrite tubulo-interstiziale nel primo gruppo e la microangiopatia trombotica nel secondo. Sulla base dei risultati istologici, la sospensione definitiva del trattamento si è resa necessaria in un numero molto limitato di pazienti. Tutti avevano una microangiopatia trombotica correlata agli anti-VEGF. In nessun paziente trattato con immunoterapia è stata necessaria la sospensione del farmaco. Nei pazienti trattati con terapia combinata, l’esame istologico ha permesso di identificare il peso della lesione specifica consentendo una modifica mirata del trattamento. Sulla base di questi dati, la biopsia renale dovrebbe essere presa in considerazione in ogni paziente oncologico che sviluppi anomalie urinarie o mostri un peggioramento della funzionalità renale durante il trattamento con immunoterapia o terapia mirata.

Parole chiave: Immunecheckpoint, Targeted Therapies, biopsia renale, microangiopatia trombotica, nefrite tubulo-interstiziale

Negli ultimi anni l’introduzione di terapie innovative, derivante dalla rivisitazione della malattia oncologica come disordine del sistema immunitario, ha cambiato lo scenario delle complicanze [1]. Le cosiddette target therapies in particolare hanno completamente cambiato il concetto di bersaglio terapeutico portando ad un significativo miglioramento della tolleranza, ma hanno anche obbligato i diversi specialisti a fronteggiare nuove complicanze e ad imparare a gestire situazioni differenti da quelle derivanti dall’utilizzo di chemioterapici tradizionali [2, 3]. Da un punto di vista teorico il target ideale dovrebbe essere essenziale per la sopravvivenza delle cellule maligne e non espresso sulle cellule normali. Di conseguenza la sua inibizione dovrebbe consentire la morte delle cellule neoplastiche con un effetto minimo sulle normali funzioni cellulari. Tuttavia, nella real life la selettività di queste molecole è incompleta. Ne derivano effetti collaterali che possono potenzialmente coinvolgere tutti gli organi. A distanza di alcuni anni dall’introduzione di questi nuovi agenti, è diventato chiaro che il rene costituisce uno dei bersagli di possibili tossicità [4]. Il ritardo nel riconoscimento degli effetti avversi sul rene è stato dovuto al timing dell’insorgenza di danno renale, che avviene di solito successivamente al periodo di osservazione previsto dagli studi di registrazione [5], ma anche all’esclusione dei pazienti con compromissione renale dai trial clinici.

La malattia renale ha un impatto significativo sulla gestione dei pazienti oncologici, in quanto può condizionare la sospensione temporanea o definitiva della terapia, la prescrizione di dosi inadeguate e l’uso di farmaci a dosi subottimali. Tutto ciò favorisce la crescita tumorale e lo sviluppo di metastasi.

Gli anti-VEGF ma anche gli anti-BRAF e ovviamente gli immunocheckpoint inibitori (ICI) sono tra le categorie di farmaci più coinvolti nell’insorgenza di eventi avversi renali.

Le complicanze renali delle target therapies dipendono da meccanismi patogenetici complessi che possono interessare varie parti del nefrone.

I farmaci anti-angiogenici possono indurre danni vascolari e/o glomerulari. Lo spettro delle possibili lesioni istologiche è in continua evoluzione e, oltre alla microangiopatia trombotica (TMA) e alla glomerulosclerosi segmentaria focale (GSFS), stanno emergendo molti quadri istologici differenti [6].

Esempi di farmaci anti-angiogenetici sono il bevacizumab e ranibizumab, anticorpi monoclonali (mAbs) diretti contro il VEGFA in grado di inibire l’angiogenesi attraverso l’interazione con tutte le sue isoforme. Aflibercept [7], una proteina di fusione costituita dalla combinazione dei domini di legame per VEGFR1 e VEGFR2 e la porzione Fc dell’IgG1 umana, agisce come recettore-esca solubile. Ramucirumab è un mAb IgG1 completamente umanizzato che inibisce specificamente il VEGFR2 prendendo di mira il suo dominio extracellulare [8].

Tra i farmaci bersaglio, gli inibitori della tirosin-chinasi (TKI) stanno assumendo un ruolo sempre più importante nell’ambito del trattamento di varie tipologie di tumori. I TKI sono proteine coinvolte nelle vie di trasduzione del segnale che regolano la proliferazione, la differenziazione, la migrazione, il metabolismo e i segnali anti-apoptotici delle cellule.

TKI come sunitinib, pazopanib, sorafenib e axitinib hanno come bersaglio il VEGFR2, ma interferiscono con l’attività di recettori aggiuntivi che condividono una struttura simile come il recettore PDGF, il recettore del fattore di crescita dei fibroblasti e il recettore EGF [9]. I meccanismi di danno renale degli anti VEGF sono noti. Sappiamo che il VEGF è secreto dai podociti e, legandosi ad un recettore sull’endotelio, induce la formazione delle fenestrature endoteliali nei capillari glomerulari. La produzione locale di VEGF è quindi indispensabile per mantenere l’integrità della barriera di filtrazione glomerulare. L’inibizione dell’attivazione del VEGF riduce l’espressione di nefrina e conduce al rigonfiamento, al distacco della cellula endoteliale e all’interruzione della barriera di filtrazione.

Durante il trattamento con il ligando anti-VEGF, il VEGFA secreto dai podociti viene sequestrato e non si lega né al VEGFR2 podocitario né a quello endoteliale. Questo può determinare la comparsa di proteinuria in una percentuale di pazienti che varia nei diversi studi dal 20% al 40% se trattati con basse dosi, ma aumenta fino al 64% nei pazienti trattati con alte dosi. Il quadro istologico è quello della microangiopatia trombotica.

Il trattamento con TKI consente bensì al VEGF di legarsi al suo recettore a livello endoteliale e podocitario, ma inibisce le vie di trasduzione a valle. Anche attraverso questa interferenza, l’inibizione si può associare alla comparsa di proteinuria, ma in questo caso i quadri istologici sono per lo più rappresentati da podocitopatie (minimal change disease (MCG) e la glomerulosclerosi focale e segmentaria (GSFS)) [10-12].

Un’altra molecola di trasduzione recentemente identificata come bersaglio è il B-raf la cui inibizione può essere ottenuta con TKI come vemurafenib e dabrafenib. Alcune segnalazioni ne riportano una la possibile associazione con proteinuria. Il B-raf interagisce con la proteina PLC1 dello slit diaphragm la cui espressione si riduce in corso di trattamento con il dabrafenib.  Ciò coincide con una parallela ridotta espressione di nefrina. L’esposizione a dabrafenib comporta un aumento della permeabilità all’albumina attraverso il monostrato di podociti [13, 14].

Gli immunocheckpoint sono regolatori di processi chiave del sistema immunitario. Questi modulatori dei processi di tolleranza immunologica costituiscono attualmente un bersaglio fondamentale dell’immunoterapia. I principali inibitori dei checkpoint immunitari agiscono bloccando le molecole CTLA4, PD-1 e PD-L1 [15].

L’organismo sin dalla nascita è dotato di un insieme di reattività autoimmuni, sia innate che adattative, che costituiscono l’omuncolo autoimmune. L’omuncolo autoimmune presenta, metaforicamente come Janus, due facce funzionali: un volto buono che genera un’infiammazione “terapeutica” e una faccia bellicosa che genera un’infiammazione “effettrice”. Entrambi i tipi di infiammazione sono necessari per mantenere e proteggere l’organismo sano. Le malattie autoimmuni conseguono ad un’illecita reattività contro cellule e tessuti normali. Lo stato tumorale, al contrario, è caratterizzato da una inappropriata soppressione della reattività contro le cellule tumorali [16]. La terapia ideale di una malattia autoimmune dovrebbe comportare il ripristino dell’inattivazione regolata dello “stato di guerra” contro il self e dal riemergere di uno stato di “pace omuncolare”. In questo delicato equilibrio un ruolo fondamentale è svolto dagli immunocheckpoint che sopprimono il sistema immunitario attraverso un’azione mediata da recettori inibitori. Nel contesto del cancro l’incremento di attività degli immunocheckpoint modulata da segnali di origine neoplastica comporta un “silenziamento” della risposta antitumorale da parte delle cellule T citotossiche. Le terapie di blocco del checkpoint contrastano la funzione inibitoria dei recettori promuovendo l’attivazione dei linfociti T citotossici rendendoli di nuovo capaci di uccidere le cellule tumorali. In condizioni di “equilibrio immunitario”, le risposte sono bilanciate: prevengono danni contro l’organismo, ma preservano l’aggressività necessaria ad eliminare gli agenti patogeni e le cellule tumorali. Quando però l’azione di contrasto alla funzione inibitoria supera il punto di equilibrio si scatena una malattia autoimmune [16]. Gli ICI sono anticorpi monoclonali che interagiscono con i ligandi delle cellule tumorali inibendone l’interazione con i linfociti che ricuperano la piena attività anti-tumorale. La loro azione tuttavia, seppur specifica, non è limitata alle cellule tumorali e può quindi determinare la comparsa di eventi avversi immuno-correlati (AEI). Negli ultimi anni, con la diffusione dell’utilizzo di questi farmaci, sono progressivamente aumentate le segnalazioni di danno renale con diverse estrinsecazioni cliniche: AKI [17], anomalie urinarie, alterazioni elettrolitiche. Il quadro più frequentemente descritto è sicuramente quello della nefrite tubulo-interstiziale (NTI) che può presentarsi da sola o in combinazione con altre lesioni renali [18].

Il rene costituisce un possibile target degli eventi avversi in quanto, come gli altri organi bersaglio periferici, esprime la molecola PD-1 in alcuni distretti, soprattutto a livello delle cellule epiteliali tubulari. È stato evidenziato come l’asse PD1-PDL1 a livello renale rivesta un ruolo fondamentale nel mantenere l’omeostasi immunologica. Una disregolazione dell’interazione PD-1/PD-L1 può essere responsabile della comparsa sia di glomerulopatie che di carcinomi renali [19].

Gli studi a disposizione hanno altresì evidenziato che l’uso combinato degli inibitori della via del VEGF e degli ICI consente un potenziamento da parte dei primi dell’attività antitumorale degli ICI bloccando le cellule immuno-soppressive indotte dal tumore e aumentando l’infiltrazione dei linfociti T nei tumori [20-22]. Sulla base di queste evidenze, sia la FDA che l’EMA hanno recentemente approvato l’utilizzo di axitinib in combinazione con avelumab o pembrolizumab per il trattamento di prima linea dei pazienti con carcinoma renale avanzato [23-25]. Tuttavia l’impiego delle terapie combinate complica ulteriormente la gestione delle tossicità, poiché alcuni degli eventi avversi (EA) degli ICI sono simili a quelli dati dalla terapia anti-angiogenica. L’identificazione istologica di ciascun EA, in particolare la caratterizzazione delle lesioni associate all’uno o all’altro farmaco, è fondamentale per ottimizzare non solo la gestione degli effetti collaterali ma anche la prosecuzione del trattamento [26]. Le raccomandazioni per la biopsia renale nei pazienti oncologici sono state recentemente aggiornate [27] ma rimangono limitate. La biopsia renale è stata raccomandata nei pazienti che presentano una proteinuria (≥1 g al giorno) di nuova insorgenza o un peggioramento della funzione renale quando la diagnosi di malattia renale non può essere altrimenti stabilita [28].

Nella nostra esperienza, limitare l’indagine istologica a questi specifici contesti clinici può portare non solo ad una mancata diagnosi ma anche a indicazioni terapeutiche scorrette che possono essere responsabili di ulteriori complicanze cliniche [18].

Recentemente il nostro gruppo ha rivalutato retrospettivamente tutte le diagnosi istologiche dei pazienti trattati con target therapies e/o immunoterapia, sottoposti a biopsia renale per peggioramento della funzione renale e/o comparsa di anomalie urinarie.

Sono stati valutati 23 pazienti trattati con immunoterapia (18 in monoterapia, 5 in terapia combinata con TKI o chemioterapici convenzionali) e 19 pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici (15 in monoterapia, 4 in terapia combinata con ICI o chemioterapici convenzionali).

Nel gruppo trattato con immunoterapia si sono ottenute le seguenti diagnosi istologiche: 8 NTI (34,8%), 4 NTA (17,4%), 3 NTI + NTA (13%), 2 microangiopatie trombtiche (MTA) (8,8%), 2 nefropatie diabetiche (8,8%), 1 GSFS + MTA (4,3%), 1 glomerulopatia membranosa (4,3%), 1 GSFS (4,3%), 1 glomerulonefrite IgA (4,3%) (Figura 1). Il 73,9% di questi pazienti ha proseguito la terapia oncologica in atto. Nel 13% dei casi si è resa necessaria una sospensione temporanea. Nel 8.7% è stato sospeso uno dei farmaci oncologici in corso e il 4.4% ha richiesto la sospensione definitiva del trattamento in corso. Sulla base dei risultati della biopsia nel 43,5% dei casi non sono state poste indicazioni ad interventi terapeutici specifici, nel 52,5% dei pazienti è stato effettuato un ciclo di terapia steroidea e 1 paziente è stato trattato con anticorpo monoclonale anti-CD20.

Figura 1. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con immunocheckopints inhibitor.
Figura 1. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con immunocheckopints inhibitor.

Nel gruppo trattato con anti-angiogenetici le diagnosi istologiche sono state: 7 MTA (36,7%), 2 GSFS + MTA (10,5%), 2 NTA (10,5%), 1 nefropatia diabetica (5,3%), 1 NTI (5,3%), 1 NTI + NTA (5,3%), 1 glomerulopatia membranosa (5,3%), 1 glomerulonefrite membranoproliferativa (5,3%), 1 nefroangiosclerosi (5,3%), 2 altre diagnosi (10.5%) (Figura 2). Il 59% di questi pazienti ha proseguito la terapia oncologica in atto, nel 17,5% è stata necessaria la sospensione di un farmaco e il 23,5% ha richiesto la sospensione definitiva del trattamento in corso (Figura 3a, 3b). Sulla base dei risultati della biopsia, nel 64,7% dei casi non sono state poste indicazioni a interventi terapeutici specifici, il 17,6% dei pazienti è stato trattato con un ciclo di terapia steroidea, l’11,8% è stato trattato con Eculizumab e 1 paziente è stato trattato con anticorpo monoclonale anti-CD20.

Figura 2. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici.
Figura 2. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici.
Figura 3. Distribuzione delle variazioni terapeutiche in base ai risultati istologici nei pazienti in trattamento con immunocheckpoint-inhibitor (a) e con farmaci anti-angiogenetici (b).
Figura 3. Distribuzione delle variazioni terapeutiche in base ai risultati istologici nei pazienti in trattamento con immunocheckpoint-inhibitor (a) e con farmaci anti-angiogenetici (b).

Sulla base dei risultati istologici l’interruzione definitiva del trattamento nella nostra coorte è stata indicata in un numero molto limitato di pazienti. Tutti avevano un quadro di TMA da farmaci anti-VEGF. L’interruzione definitiva del trattamento non è stata necessaria in nessuno dei pazienti trattati con immunoterapia. Nei pazienti trattati con farmaci in combinazione, i risultati istologici hanno permesso una correlazione della lesione specifica con il farmaco corrispondente consentendo modificazioni solo parziali dei protocolli terapeutici in atto.

Il trattamento ottimale per gli eventi avversi nei pazienti sottoposti a nuove terapie antitumorali rimane controverso. I glucocorticoidi rappresentano la principale opzione terapeutica degli EA. Tuttavia, la dose e la durata del trattamento restano da definire. Le linee guida raccomandano occasionalmente l’aggiunta di un secondo immunosoppressore [29-31]. Nella nostra coorte tutti i pazienti sottoposti a trattamento mirato hanno ottenuto una risposta renale e all’ultimo follow-up non si sono manifestate recidive. A questo riguardo è importante sottolineare che i pazienti che non mostrano un recupero funzionale completo presentano una mortalità a distanza più elevata [32]. L’aumento della mortalità associato al mancato recupero dall’AKI può almeno in parte essere spiegato dalla limitazione terapeutica a cui vanno incontro i pazienti con funzionalità renale compromessa e sottolinea l’importanza del timing diagnostico e dell’intervento terapeutico. Una diagnosi precoce consente un l’avvio di un trattamento immediato che può evitare l’instaurarsi di un danno irreversibile [32].

Nella nostra coorte, i risultati istologici hanno escluso un ruolo dell’agente oncologico in una porzione significativa di pazienti. Ciò ha permesso di evitare la prescrizione di glucocorticoidi che secondo le attuali linee guida sarebbe stata indicata ma sarebbe risultata inutile.

In due pazienti infine la biopsia renale ha rivelato rispettivamente una doppia e una tripla nefropatia. In quest’ultimo caso, il paziente ha avuto una diagnosi di malattia di Fabry confermata dai test genetici [33].

In conclusione, la rapida espansione dell’armamentario terapeutico oncologico richiede da parte dei clinici un continuo aggiornamento delle conoscenze che consenta una gestione ottimale della tossicità correlate ai farmaci. La sfida che i team multidisciplinari sono chiamati a vincere è di consentire ai pazienti la prosecuzione dei trattamenti salvavita attraverso una gestione efficace degli effetti avversi. In questo contesto la biopsia renale rappresenta uno strumento diagnostico e prognostico irrinunciabile. I dati della nostra coorte dimostrano che la biopsia renale dovrebbe essere presa in considerazione in ogni paziente oncologico che sviluppi anomalie urinarie o mostri un peggioramento della funzionalità renale durante il trattamento con immunoterapia o terapia mirata. Sulla base delle caratteristiche istologiche la sospensione del trattamento può essere limitata ad un numero ristretto di pazienti consentendo al tempo stesso di ottenere una risposta renale completa nei pazienti che ricevono un trattamento specifico.

La biopsia renale è quindi fondamentale nella gestione delle tossicità renali derivanti da nuovi agenti tumorali e, ad onta delle indicazioni attuali ancora limitate, dovrebbe essere incoraggiata.

 

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