Malattia renale cronica e neoplasia: scelte etiche

Abstract

La prevalenza delle neoplasie e della malattia renale cronica aumentano entrambe con l’età. Di conseguenza i clinici si interfacciano sempre più di frequente con persone anziane con neoplasia che necessitano di dialisi, o con pazienti in terapia sostitutiva a cui viene diagnosticata una neoplasia. Di conseguenza il processo decisionale in questo contesto risulta particolarmente complesso ed articolato. Una scelta informata riguardo alla dialisi richiede un piano di cura personalizzato che consideri la prognosi e le opzioni terapeutiche per ogni condizione rispettando al contempo le preferenze dei pazienti. Il concetto di prognosi dovrebbe includere delle considerazioni sulla qualità di vita, sul functional status e sull’impatto delle cure. Una stretta collaborazione fra oncologi, nefrologi, geriatri e palliativisti è cruciale per le scelte ottimali di trattamento, e vi sono diversi strumenti disponibili per stimare la prognosi della neoplasia, la prognosi della Malattia renale e la prognosi età-correlata generale. La decisione riguardo all’avvio o all’interruzione del trattamento dialitico nei pazienti con neoplasia avanzata ha anche delle implicazioni etiche. Questo ultimo punto in particolare viene approfondito in questo articolo, abbiamo studiato le problematiche etiche con l’intento di fornire una guida per i nefrologi per gestire i pazienti con ESRD con neoplasia.

Parole chiave: Malattia renale cronica, neoplasia, dialisi, etica, onconefrologia

Neoplasia e malattia renale

Al giorno d’oggi, a livello mondiale, le neoplasie rappresentano una delle principali cause di morte, così come la malattia renale cronica in stadio terminale (ESRD) interessa percentuali sempre più ampie di popolazione [1, 2].

A partire dagli anni ’70 la dialisi è diventata il trattamento salvavita per pazienti con insufficienza renale acuta o cronica in stadio terminale e negli ultimi decenni nei Paesi occidentali il numero di dializzati cresce del 5% annuo. Fra le principali cause vanno ricordate l’invecchiamento della popolazione generale e l’incidenza sempre più crescente di diabete mellito di tipo II, condizione frequentemente associata a deterioramento della funzione renale [2]. La terapia sostitutiva della malattia renale cronica permette una maggior sopravvivenza rispetto al paziente con malattia renale cronica terminale ma non dializzato, maggior sopravvivenza che può favorire la comparsa di neoplasie [3]. Nonostante siano stati riportati in letteratura risultati contrastanti tra i vari studi negli anni ’90 del secolo scorso, più recentemente sono stati pubblicati studi che hanno dimostrato una maggiore incidenza per alcuni tipi di tumore nei pazienti in dialisi [4, 5].

In uno studio di coorte retrospettivo del 2018, che ha utilizzato i dati del Taiwan National Health Insurance che copre circa il 99% della popolazione della nazione, è stato dimostrato come nei pazienti in dialisi si osserva un aumentato rischio di comparsa per alcuni tipi di neoplasia. Il rischio risulta aumentato indistintamente nei pazienti in dialisi peritoneale o in dialisi extracorporea versus l’incidenza nella popolazione generale che non presenta malattia renale. Tra le neoplasie riscontrate le più frequenti erano quelle a carico delle vie urinarie extrarenali, vescicali e renali, del fegato e della tiroide [6].

Uchida e collaboratori hanno valutato la sopravvivenza media a 3 anni dall’inizio del trattamento sostitutivo in 454 pazienti in emodialisi e in 120 pazienti in trattamento con dialisi peritoneale. Nella popolazione in dialisi extracorporea è stato riportato un tasso di sopravvivenza del 65% al termine dei 3 anni di follow-up. Le cause di morte erano le malattie cardiovascolari nel 52% dei decessi, infettive nel 25% dei decessi e per neoplasia nel 12% dei decessi [6]. Nei pazienti in dialisi peritoneale si è osservata una sopravvivenza a 3 anni dell’81%, mentre le cause di morte erano infettive nel 36% dei casi, cardiovascolari nel 24% e oncologiche nel 6% dei casi (p = NS per morte da neoplasie fra emodialisi e dialisi peritoneale). Va infine sottolineato come in letteratura sia riportato un tasso di sopravvivenza nei pazienti con ESRD e neoplasia inferiore a quello dei pazienti con malattia renale cronica terminale senza neoplasia [6] e un tasso di mortalità elevato anche nei pazienti oncologici con danno renale acuto [7, 8]. 

Il meccanismo attraverso cui la malattia cronica renale end-stage possa influenzare lo sviluppo del cancro non è ancora ben compreso e si ipotizza una eziologia multifattoriale: il danno ossidativo aumentato nei pazienti uremici che danneggia il DNA predispone a mutazioni genetiche [8] e altera la riparazione del DNA [9, 10], l’accumulo di agenti cancerogeni dovuto a ridotta escrezione renale quali ad esempio i prodotti finali della glicosilazione o l’omocisteina. Oltre a questi sono riportati fra i fattori favorenti la comparsa di neoplasia lo stato infiammatorio cronico determinato dall’utilizzo di sostanze bioincompatibili e gli stress meccanici [11], lo stato immunitario maggiormente compromesso nei pazienti con CKD e ancor più nei pazienti in dialisi che espone i pazienti a maggiore probabilità di infezioni croniche come HBV, HCV, EBV [12]. Non bisogna infine dimenticare che alcuni farmaci utilizzati per il trattamento delle glomerulonefriti o delle vasculiti, quali l’azatioprina o la ciclofosfamide, sono riconosciuti come sostanze potenzialmente cancerogene e associate a maggior rischio di sviluppo rispettivamente del cancro della cute, di linfomi e del cancro della vescica [13, 14].

 

ESRD e trattamenti antineoplastici

Come nefrologi ci troveremo sempre più spesso a trattare pazienti con ESRD o già in dialisi che sviluppano un tumore (degno di nota è che spesso la diagnosi di cancro viene fatta grazie ai programmi di screening per inserimento in lista trapianto) così come gli oncologi dovranno gestire pazienti oncologici con ESRD o in dialisi. Le prescrizioni dovranno essere adattate in termini di adeguamento del dosaggio e del tempo di somministrazione al fine di prevenire effetti collaterali renali e non, dovuti alla modifica della farmacocinetica dei farmaci antitumorali in pazienti con alterata funzione renale. La corretta conoscenza della farmacocinetica dei farmaci antineoplastici permetterà così di evitare gli effetti tossici dovuti ad accumulo del farmaco per la minore escrezione renale, così come l’inefficacia terapeutica dovuta alla somministrazione di una dose non adeguata e ridotta arbitrariamente a scopo precauzionale.

Si sa ancora poco sulla gestione dei farmaci citotossici in pazienti con ESRD e ancor meno sulla tempistica ottimale e sugli aggiustamenti di dosaggio necessari a seconda delle sessioni di dialisi.  La mancanza di conoscenza e dati riguardanti l’uso sistemico di questi farmaci può portare ad un uso improprio dei chemioterapici e ad effetti tossici fatali in questi pazienti. Pertanto, è importante monitorare attentamente anche tutti gli effetti extra-renali correlati alla dose durante l’uso di tali farmaci. In questi anni si è avuto un significativo progresso nella gestione delle patologie oncologiche nei pazienti con malattia renale; quindi, i pazienti con ESRD devono avere le stesse probabilità di trattamento che hanno i soggetti senza malattia renale cronica. Infatti, alcuni studi hanno riportato che la sopravvivenza mediana dei pazienti con insufficienza renale con mieloma multiplo era inferiore nei pazienti non trattati con chemioterapia rispetto ai pazienti trattati con vincristina, adriamicina e desametasone (2 mesi vs 10 mesi) e melfalan (2 mesi vs 12 mesi) [15, 16].

Sembra tuttavia che i medici siano riluttanti ad utilizzare farmaci antitumorali nei pazienti in trattamento dialitico cronico con diagnosi di neoplasia. I pazienti in dialisi richiedono un’attenzione specifica soprattutto per la gestione dei farmaci antineoplastici poiché, nonostante gli effetti renali non siano più un problema nel paziente dializzato, è altrettanto vero che sono più esposti agli altri effetti collaterali extrarenali correlati alla dose. Questo dipende dal fatto che la maggior parte dei farmaci citotossici sono escreti prevalentemente a livello renale in forma immodificata o come metabolita attivo e dunque tossici. Nello studio multicentrico CANDY (CANcer and DialYsis, 2012), i ricercatori francesi hanno analizzato le dosi/intervalli di farmaci antitumorali somministrati in 178 pazienti in dialisi cronica che avevano sviluppato un tumore, aggiustandone il dosaggio per la funzione renale/sessione di dialisi al fine di evitare l’eliminazione prematura del farmaco durante le sessioni di dialisi [17], dimostrando che con il dosaggio appropriato del farmaco antineoplastico i pazienti oncologici con malattia renale in trattamento sostitutivo possono essere trattati come i pazienti non dializzati. Pertanto, è fondamentale utilizzare i dati disponibili per regolare la dose di farmaci antitumorali per questi pazienti e programmarne la somministrazione in base alle sessioni di dialisi. Ad esempio, nei pazienti in emodialisi che ricevono i sali di cisplatino, le dosi iniziali di cisplatino devono essere ridotte del 50% per evitare sovradosaggio e problemi di tolleranza, che possono mettere a rischio la possibilità di proseguire il trattamento chemioterapico. Questo perché il cisplatino è irreversibilmente legato alle proteine plasmatiche mentre la dose di farmaco libera è dializzabile e per questo deve essere somministrato dopo le sessioni di dialisi o nei giorni di non dialisi. Per altri farmaci non rimossi dal trattamento dialitico, come la doxorubicina, il rituximab, la vinblastina o la vincristina, la somministrazione può essere effettuata in qualsiasi momento e non necessita di aggiustamenti di dose [17]. Dunque, l’ESRD non è da considerare una controindicazione assoluta alla somministrazione di farmaci antitumorali, ma questi richiedono una gestione specifica in termini di dosaggio e tempo di somministrazione rispetto alla seduta di dialisi.

 

Approccio multidisciplinare alle cure

È dunque necessario un approccio multidisciplinare che includa oncologi, nefrologi e farmacologi per gestire correttamente i pazienti oncologici che presentano ESRD e proporre quindi una strategia farmacologica antitumorale adattata a questi pazienti che sviluppano tumori piuttosto che controindicarla sistematicamente, utilizzando le scarse raccomandazioni che derivano prevalentemente da report basati su singoli casi clinici e non da studi con una significativa numerosità di pazienti dializzati (che pur essendo scarse sono le uniche disponibili) e raccogliere correttamente i dati osservati nei pazienti trattati per avere ulteriori strumenti a disposizione per il trattamento delle neoplasie nei pazienti con ESRD o in dialisi [18, 19].

Pertanto si rende sempre più necessario, alla luce anche della continua introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci antitumorali, poter disporre di algoritmi terapeutici basati sullo stato fisico del soggetto, sulla mortalità prevista per malattia renale, sul tempo di dialisi, sul tipo e stadio della neoplasia, sull’impatto che il trattamento potrà avere sul grado di autonomia del paziente e il risultato ottenuto dall’algoritmo potrà quindi essere di supporto al clinico nella scelta terapeutica  (sì terapia vs no terapia).

 

Scelte etiche

Alla luce dell’età media di inizio trattamento dialitico sempre più avanzata (nel mondo occidentale è attorno ai 69 anni), della possibile comparsa di neoplasia nel corso del trattamento  dialitico, delle attese dei pazienti e familiari in un epoca sempre più connessa e con informazioni non sempre attendibili,  è lecito che la comunità dei professionisti si chieda: “è giusto trattare i pazienti dializzati con riscontro di neoplasia quando anche in condizioni di “no neoplasia” hanno una minor sopravvivenza rispetto alla popolazione generale? Tratto tutti indistintamente, non tratto nessuno, quali strumenti posso utilizzare per supportarmi nella decisione?”.

La scelta decisionale in questo caso richiede, a nostro giudizio, il supporto della bioetica, branca della filosofia che nasce con lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie biomediche (la scoperta della struttura a doppia elica del DNA e la conseguente ingegneria genetica, la preparazione della pillola per la contraccezione ormonale, lo sviluppo del trapianto d’organo, il sostegno artificiale delle funzioni vitali, il concepimento in vitro, la clonazione come esempi di innovazioni che hanno generato grandi discussioni fra i clinici) e che si occupa dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nel campo delle scienze biomediche, proponendosi di definire criteri e limiti di liceità alla pratica medica e alla ricerca scientifica, affinché il progresso avvenga nel rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.

Il termine bioetica, coniato agli inizi del ’900, fu utilizzato nella sua accezione comune dall’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter che, nel 1970, lo inserì nel titolo del suo testo “Bioetica: la scienza della sopravvivenza” spiegando il termine bioetica come “la scienza che consente all’uomo di sopravvivere utilizzando i suoi valori morali di fronte all’evolversi dell’ecosistema” [19].

La bioetica nasce quindi dall’esigenza di integrare tra loro nuove conoscenze e nuovi saperi con l’obiettivo di definire in maniera forte e razionale i criteri di regolamentazione della prassi biomedica e garantire la libertà di ricerca scientifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Si può quindi dire che questo nuovo approccio alle grandi questioni mediche nasce dal dialogo e dal confronto tra biologia, medicina, filosofia, teologia, sociologia, antropologia, economia, diritto, politica, bioingegneria e, in questi tempi anche dalla discussione sull’information technology. Partendo dalla descrizione del dato scientifico, biologico o medico, la bioetica esamina la legittimità dell’intervento dell’uomo sull’uomo, avendo come orizzonte di riferimento la persona in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali.

Il fine del giudizio bioetico non è solo quello di dire ‘come’ si deve agire, ma ‘perché’ si deve agire in quel modo.

Da notare che la bioetica è cosa ben diversa dall’etica poiché quest’ultima è una branca della filosofia che si occupa del comportamento umano, studia i fondamenti che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status normativo, ovvero distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti, sconvenienti o cattivi secondo un ideale modello comportamentale. Come disciplina affronta questioni inerenti alla moralità umana definendo concetti come il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, la virtù e il vizio, la giustizia e il crimine.

Mentre per Deontologia Professionale intendiamo l’insieme delle regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata Professione (regole che la stessa professione, attraverso un proprio codice, si è data).

Da qui l’importanza di comprendere che la Deontologia Professionale (concetto che nella medicina trova forma scritta nella sua carta fondamentale – il Codice Deontologico) risulta essere l’insieme di quelle connotazioni prescrittive vincolanti per ciascun medico, pena la censura o radiazione, che la categoria professionale si è data per meglio esercitare la professione (contro morale = immorali).  Va pertanto ribadito che il “Codice Deontologico” non è stato elaborato partendo da precetti etici, e infatti nel codice sono contenute alcune regole che possono contrastare con il giudizio etico di alcuni suoi membri (ad esempio le norme che disciplinano l’interruzione della gravidanza).

Queste regole hanno la finalità di rappresentare i binari entro i quali la Professione debba essere esercitata, ed allo stesso tempo cosa il cittadino può “aspettarsi” dal professionista. Ecco perché il Codice è soggetto a revisione periodica, essendo considerato un “patto” è come tale soggetto a revisione tra le parti.

Tornando ai concetti di bioetica, per quanto riguarda la sua applicazione in ambito medico, si sono individuati 4 principi, riconosciuti come finalità implicite di questa pratica, cui fare riferimento in senso regolativo. Essi sono:

  • Il principio di autonomia, con il quale si riconosce e si afferma il dovere di rispettare l’individuo nella sua autodeterminazione, il suo diritto ad avere opinioni, a compiere delle scelte e ad agire in base a valori e convinzioni personali, nonché il dovere di promuovere l’autonomia dei diversi soggetti coinvolti nel processo di cura;
  • Il principio di non maleficenza, con il quale si riprende il tradizionale principio ippocratico del primum non nocere e si afferma il dovere di non provocare intenzionalmente un danno;
  • Il principio di beneficienza, che possiamo vedere come versione positiva del principio di non-maleficenza, inteso alla prevenzione o rimozione di un danno e alla promozione del bene del paziente;
  • Il principio di giustizia, che sottolinea l’esigenza di equità e giustizia della pratica medica e sanitaria e introduce la dimensione socioeconomica e politica tra i fattori determinanti questo settore [20].

 

Percorso decisionale nei pazienti con ESRD e neoplasia

Ed ecco che alla luce di tali premesse, dinanzi ad un paziente oncologico con ESRD o in dialisi il medico dovrebbe proporre un piano di assistenza personalizzato che consideri la prognosi e le opzioni terapeutiche per ogni condizione, rispettando anche le preferenze del paziente. Il concetto di prognosi dovrebbe includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale e l’onere dell’assistenza.

La stretta collaborazione tra oncologi, nefrologi, palliativisti e geriatri è fondamentale per prendere decisioni terapeutiche ottimali e sono disponibili diversi strumenti per definire la prognosi della neoplasia, la prognosi della malattia renale e la prognosi generale correlata all’età. Prove emergenti mostrano che questi strumenti di valutazione geriatrica, che misurano i gradi di fragilità, sono utili nei pazienti con malattia renale cronica. Nella review pubblicata su Lancet nel 2021, si cerca di fornire strumenti ai medici per guidare il processo decisionale in merito all’inizio e alla fine della dialisi nei pazienti con cancro avanzato [21]. Lo scenario che possiamo avere di fronte è duplice: il primo scenario è che i pazienti con neoplasia nota possono sviluppare ESRD e richiedere la necessità di iniziare un trattamento sostitutivo; il secondo scenario è che i pazienti con ESRD in dialisi sviluppino una neoplasia che potrebbe richiedere di non continuare la terapia dialitica. Il problema di trattare o non trattare queste condizioni cliniche spesso si pone nei pazienti più anziani con ESRD associata ad altre comorbilità, una popolazione che inoltre in una percentuale sostanziale mostra una significativa compromissione funzionale e cognitiva [22, 23] oppure perde l’indipendenza personale entro i primi mesi o anni di dialisi [24]. 

Bisogna tener presente, tuttavia, che non vi è una sostanziale eterogeneità nel processo di invecchiamento, e ciò comporta importanti variazioni nei modelli di trattamento e nei risultati nei pazienti più anziani. Inoltre, ci sono poche prove su cui basare le decisioni terapeutiche per i pazienti anziani con tumore e malattia renale, perché questo gruppo è notevolmente sottorappresentato negli studi clinici [25, 26].

Poiché l’età cronologica da sola non è un buon indice descrittivo dell’eterogeneità nel processo di invecchiamento, è necessario un modo sistematico e basato sull’evidenza per valutare la salute e la resilienza di un individuo e per guidare le decisioni terapeutiche oncologiche. Per colmare questa lacuna è stato proposto come approccio la valutazione geriatrica completa (CGA) [27].

La CGA è definita come un processo diagnostico multidimensionale e interdisciplinare fornendo una solida base per un processo decisionale condiviso perché raccoglie informazioni sulle capacità e sui limiti funzionali e psicosociali che sono legati alla discussione di ciò che conta di più nella vita quotidiana del singolo paziente. Con queste informazioni raccolte obiettivamente, il team medico è in grado di sviluppare un piano coordinato e integrato per il trattamento e il follow-up a lungo termine [28, 29].

Dato il contesto complesso dovuto sia alla neoplasia che alla malattia renale (e della possibile fragilità), in questa popolazione è fortemente raccomandato di non utilizzare la sola valutazione geriatrica ma di utilizzare l’intero processo CGA per fornire la migliore assistenza e includere assistenti e infermieri del servizio dialisi nel team interdisciplinare CGA. I punteggi Performance Status e Karnofsky Performance Status dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) sono rapidi e semplici da accertare, ma non hanno una sensibilità sufficiente per rilevare la fragilità in modo efficiente. Inoltre, queste misurazioni non danno informazioni dettagliate sull’esatta gravità dei problemi geriatrici nei diversi domini. In uno studio di Hurria e colleghi, il Karnofsky Performance Status non è stato in grado di prevedere la tossicità della chemioterapia, mentre i componenti della valutazione geriatrica hanno aggiunto un valore sostanziale nel predirla [30].

Diversi studi hanno dimostrato che la maggior parte dei componenti del CGA ha un valore prognostico indipendente per la sopravvivenza (es., stato funzionale [31, 32], stato nutrizionale [33-36] e salute mentale [31, 32]), con la nutrizione costantemente tra i più forti predittori di esito. Tuttavia, un CGA completo richiede tempo, quindi per selezionare i pazienti che trarrebbero i maggiori benefici dalla valutazione geriatrica, sono stati sviluppati numerosi strumenti di screening geriatrico (ad esempio, Geriatric 8 noto anche come G8 [37], l’indagine sugli anziani vulnerabili [38], e la versione fiamminga del Triage Risk Screening Tool [39]. 

Inoltre, nei pazienti con malattia renale avanzata, ci sono rapporti secondo i quali la valutazione geriatrica è utile per informare il processo decisionale condiviso in merito alla scelta della modalità e per massimizzare le opportunità di riabilitazione e mantenimento dell’indipendenza [40, 41]. È stato suggerito che la CGA dovrebbe essere eseguita, e dovrebbe essere applicata per la pianificazione avanzata dell’assistenza, al momento dell’inizio della dialisi e poi riveduta quando si verifica un cambiamento importante nella salute o nello stato funzionale di un paziente, come nel caso di un ricovero in ospedale [40].

Il trattamento dialitico è da considerarsi come “terapia salvavita”, ma in alcune situazioni può essere visto anche come un prolungamento sproporzionato della vita e che può peggiorare la qualità della vita del paziente attraverso l’aumento del carico di cure. Compito del clinico, pertanto, è di “dare vita agli anni, non anni alla vita”. Molti pazienti con ESRD sono fragili e hanno molteplici comorbilità e la loro sopravvivenza globale in dialisi cronica rimane bassa, con un tasso di sopravvivenza a 5 anni inferiore al 50%; tuttavia, vi è un’elevata variazione interindividuale a seconda dell’età, dello stato funzionale e della presenza di comorbilità specifiche al momento dell’inizio della terapia renale sostitutiva [42, 43]. Oltre alle complicazioni mediche, è ben noto che l’inizio della terapia renale sostitutiva è associato ad un improvviso declino funzionale e ad una diminuzione della qualità della vita [44, 45]. Lo stato funzionale è un risultato importante per i pazienti più anziani, la maggior parte dei quali dà priorità allo stato funzionale rispetto al prolungamento della vita [46]. Inoltre, vi è una maggiore probabilità per i pazienti in dialisi di morire in ospedale o in hospice e la maggior parte dei pazienti in dialisi riceve negli ultimi anni di vita un trattamento sproporzionato rispetto ai bisogni del soggetto [47]. 

Nella popolazione anziana, attraverso l’uso di questionari anonimi, si rileva un’alta percentuale di persone che prova rimpianto per aver iniziato il trattamento sostitutivo. Ad esempio, Saeed e colleghi hanno rilevato che il rimpianto decisionale si è verificato in 82 (21%) dei 397 pazienti sottoposti a dialisi cronica [48]. L’invecchiamento della popolazione, l’evoluzione dei pazienti anziani avviati al trattamento dialitico, l’aumento delle ospedalizzazioni legate al trattamento hanno nel tempo favorito il dibattito sull’utilizzo della gestione conservativa come alternativa al trattamento dialitico almeno nella gestione dei pazienti anziani e grandi anziani [47, 49]. Questo sviluppo è stato ben illustrato da Verberne e colleghi che hanno confrontato retrospettivamente i risultati della cura conservativa rispetto alla terapia renale sostitutiva in 311 pazienti olandesi di età pari o superiore a 70 anni [50, 51]. Sebbene questo studio abbia rilevato che questi pazienti di età pari o superiore a 70 anni sottoposti a terapia renale sostitutiva avevano una sopravvivenza significativamente più lunga rispetto a quelli che avevano scelto un trattamento conservativo (tempo medio di sopravvivenza dalla data della decisione sulla cura 3,1 anni vs 1,5 anni rispettivamente; log-rank p<0,001), non è stata osservata alcuna differenza significativa nel sottogruppo di pazienti di età pari o superiore a 80 anni (2,1 anni vs 1,4 anni rispettivamente, log-rank p=0,08). Inoltre, mentre i pazienti di età pari o superiore a 70 anni con comorbidità grave (ossia, punteggio di comorbidità di Davies ≥3) che hanno scelto la terapia sostitutiva renale hanno comunque vissuto significativamente più a lungo rispetto a quelli che hanno scelto la cura conservativa, la differenza di sopravvivenza è stata inferiore rispetto a quelli con meno comorbidità (1,8 anni mediani di sopravvivenza dalla scelta della decisione terapeutica vs 1,0, log-rank p=0.02) [50]. 

Non iniziare la dialisi, o interromperla, è quindi una valida opzione terapeutica anche nelle persone anziane con neoplasia, in particolare se la prognosi della neoplasia o la prognosi generale correlata all’età è sfavorevole. L’équipe medica ha l’obbligo etico nei confronti del paziente di delineare la diagnosi e di evidenziare l’opzione della dialisi senza omettere informazioni sul rapporto rischio-beneficio. Il paziente può anche decidere di provare la dialisi a tempo limitato, prendendosi il tempo necessario per prendere la decisione definitiva di interrompere o proseguire la dialisi. Allo stesso modo, dovrebbe essere descritta la possibilità alternativa di un approccio conservativo con cure palliative. I pazienti hanno il diritto di rinunciare a qualsiasi trattamento, ma non possono richiedere la somministrazione di una terapia che l’équipe medica ritiene futile [21]. 

Come precedentemente ricordato nella pratica clinica si possono prevedere diversi scenari: pazienti con neoplasia nota che sviluppano ESRD e pazienti con ESRD in dialisi che sviluppano una neoplasia. Nel primo scenario sarà importante per il paziente e per l’oncologo comprendere l’effetto dell’ESRD e elaborare un’ipotesi di prognosi con e senza dialisi, in modo che si possa prendere una decisione informata sull’inizio della dialisi. Nel secondo caso diventano rilevanti altre domande: quali sono le opzioni diagnostiche e terapeutiche e qual è la (probabile) prognosi della neoplasia? Qual è la prognosi del paziente, data la sua attuale fragilità, lo stato di salute generale e le comorbilità? In che modo questo è influenzato dalla neoplasia, con e senza trattamento? Quali saranno gli effetti delle possibili opzioni terapeutiche oncologiche per questo specifico paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la scelta del trattamento oncologico? Qual è la prognosi per la malattia renale allo stadio terminale, con e senza dialisi? Qual è l’effetto atteso del proseguo o della sospensione della dialisi in questo particolare paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la decisione terapeutica? Quanto dell’attuale stato di fragilità del paziente è determinato dai sintomi legati alla neoplasia o alla malattia renale e che potrebbero essere alleviati iniziando il trattamento? Cosa succede se il paziente non prosegue il trattamento dialitico oppure non inizia la terapia antitumorale?

Per guidare la discussione con il paziente, sono pertanto necessarie molte informazioni sulla futura evoluzione della malattia e, in particolare, informazioni da tre diversi punti di vista: quello oncologico, quello geriatrico e quello renale. Dal punto di vista oncologico, gli oncologi devono informare il paziente sullo sviluppo previsto della malattia, con e senza iniziare o continuare la terapia antitumorale. Dal punto di vista geriatrico, i geriatri sono nella posizione migliore per informare i pazienti sui possibili effetti sull’indipendenza, sulla funzionalità e sulla qualità della vita in generale per una persona della loro età e grado di fragilità. Dal punto di vista renale, la prognosi renale è un preambolo importante nelle discussioni con il paziente ed è determinata dalla funzione renale residua e dalla gravità della patologia renale sottostante. Anche se difficilmente esatta, il nefrologo può stimare l’evoluzione di una malattia (mesi/anni prima di necessità della terapia sostitutiva). Strumenti prognostici convalidati possono aiutare in questo contesto, ad esempio, l’Equazione del rischio di insufficienza renale [52,53]. Alla luce del declino cognitivo che può manifestarsi nel periodo successivo all’inizio della terapia sostitutiva, è pertanto importante iniziare le discussioni sull’inizio o la fine della dialisi il prima possibile nel decorso clinico del paziente, per consentire un processo decisionale informato e condiviso (équipe-paziente-familiari).

Fornire informazioni è essenziale ed i pazienti che decidono se iniziare o interrompere la dialisi devono essere informati della loro prognosi e del possibile carico di sintomi che si presenteranno alla sospensione del trattamento o al non avvio della terapia sostitutiva. L’alternativa al non avvio della terapia dialitica rimane la massima gestione conservativa, un approccio che comprende il trattamento di supporto per alleviare il carico dei sintomi nei pazienti con ESRD, oltre a misure per preservare la funzione renale residua [54]. Fra queste ultime ricordiamo la prevenzione di episodi di ipotensione prolungata (controllo idratazione, uso ragionato della terapia ipotensiva, presenza di vomito o diarrea), il non utilizzo di farmaci nefrotossici (quali ad esempio i farmaci antinfiammatori non steroidei o gli aminoglicosidici) e il corretto utilizzo delle procedure che richiedono l’uso del mezzo di contrasto per via endovenosa. Gli strumenti di valutazione dei sintomi sono importanti per guidare e valutare il trattamento scelto e attualmente sono disponibili per questo scopo una moltitudine di strumenti [55, 56]. Uno studio di Van der Willik e colleghi [55] ha esaminato 121 questionari per la valutazione dei sintomi e ha identificato l’indice dei sintomi della dialisi (DSI, Dialysis Symptom Index) come il migliore della sua classe [55]. 

Il delicato equilibrio tra il trattamento e la palliazione nel paziente nefropatico con neoplasia (sia nel paziente già in trattamento che in quello che deve iniziare trattamento dialitico) ha portato in questi ultimi anni all’individuazione di una nuova specializzazione in rapida evoluzione quale è l’onconefrologia, che centralizza le competenze oncologiche, nefrologiche e geriatriche per permettere la definizione del percorso di cura del paziente anziano e nefropatico con neoplasia [57].  Le decisioni terapeutiche vanno quindi condivise attraverso un confronto tempestivo tra pazienti, familiari o caregiver e professionisti, sui delicati argomenti della prognosi e delle preferenze del paziente. La pianificazione anticipata dell’assistenza delinea i confini della perseveranza terapeutica in base alle preferenze dei pazienti [57] e mira a preparare i pazienti e i loro caregiver al processo decisionale di fine vita, nel tentativo di migliorare la qualità della vita, senza necessariamente estenderla [58]. Al termine del percorso di confronto, che può richiedere anche momenti di interruzione per permettere una adeguata elaborazione delle informazioni ricevute al paziente e ai familiari, si definisce in maniera dettagliata la pianificazione dell’assistenza (escalation terapeutica, sospensione trattamento dialitico, palliazione). Condivisione, informazione corretta, tempo per l’elaborazione delle decisioni, supporto al paziente e ai familiari nel percorso decisionale sono step fondamentali perché il percorso di cura sia basato sulle conoscenze del clinico e sulle volontà del paziente e dei caregiver. 

Nei pazienti con malattia renale cronica, di solito c’è una relazione terapeutica di lunga data tra il nefrologo e il paziente, e questa relazione favorisce le discussioni congiunte. Nel caso di riscontro di neoplasia in un soggetto dializzato cronico deve essere valutato il peso del trattamento dialitico (sia in termini assistenziali che di impatto sulla vita del paziente) e il vantaggio di sopravvivenza che il trattamento dialitico può dare, valutazione che si rende particolarmente necessaria nei pazienti anziani fragili. Le informazioni predittive sulla sopravvivenza attesa con o senza un trattamento antineoplastico specifico sono importanti per i pazienti nel processo decisionale.  La complessità di questo contesto è che la prognosi globale (cioè il corso anticipato della convivenza con una malattia), è determinata da almeno tre fattori, in parte indipendenti: la prognosi della neoplasia, la prognosi associata alla fragilità (che include altre comorbilità, lo stato funzionale e le sindromi geriatriche) e la prognosi basata sulla malattia renale. Tuttavia, la prognosi è più della sola aspettativa di vita; una definizione più ampia è quella di considerare la prognosi come la visione anticipata della convivenza con una malattia [59].

Nel campo dell’oncologia, ci sono molti dati sui fattori prognostici di sopravvivenza in diversi tipi di tumore. L’età è spesso tra questi fattori prognostici, ma i fattori correlati al tumore (es., le caratteristiche del tumore, l’estensione della malattia) sono generalmente più importanti e la fragilità è raramente inclusa perché non è stata spesso misurata in studi precedenti. Successivi studi oncologici hanno iniziato a integrare i parametri di fragilità (misurati dalla valutazione geriatrica) quando si guarda alla prognosi e alla tolleranza al trattamento. La valutazione geriatrica nei pazienti anziani con neoplasia è in grado di rilevare problemi e rischi non identificati a cui possono essere applicati interventi mirati, prevedere esiti avversi (es., tossicità, declino funzionale o cognitivo, complicanze postoperatorie) [60]. Infine, per il paziente in terapia conservativa o in trattamento dialitico con la neoplasia in cura attiva è necessaria la presa in carico “continuativa e transmuraria (territorio-ospedale-territorio)”, sul modello delle cure simultanee, in questo caso “onco-nefro-palliative”.

Inoltre, il concetto di prognosi deve includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale, l’onere dell’assistenza e delle cure, le speranze e le preoccupazioni dei pazienti e la possibilità di eventi imprevedibili. Sulla base di tutte queste considerazioni, il medico può aiutare il paziente a prendere decisioni che abbiano senso per il paziente nella propria vita [61]. 

Ovviamente vanno garantiti alla persona con prognosi infausta il non abbandono (ageismo) garantendo un supporto base al paziente, il sollievo delle sofferenze attraverso l’attivazione delle cure palliative, il rispetto di tutti i diritti della persona (dignità) e il diritto alla verità/speranza attraverso un’informazione veritiera. 

Per alcuni pazienti la prognosi potrebbe essere principalmente determinata dalla fragilità, per altri dalla progressione della neoplasia e per altri dal problema renale. La CGA è un processo diagnostico multidisciplinare e multidimensionale in cui vengono valutate le capacità mediche, nutrizionali, funzionali e psicosociali. Questo modello di valutazione geriatrica può aiutare a rilevare problemi geriatrici non riconosciuti, consentire un intervento precoce e portare a strategie di trattamento sempre più individualizzate [62].

 

Documenti società scientifiche

Per aiutare nella decisione delle cure sempre più individualizzate sono stati elaborati diversi documenti condivisi sia a livello nazionale che internazionale. Fra i vari documenti, segnaliamo quelli elaborati a livello nazionale, che oltre alle basi scientifiche derivate dalla letteratura, riflettono anche il pensiero elaborato su queste problematiche in numerosi convegni fra nefrologi, giuristi, palliativisti, geriatri, medici legali. Il documento Grandi insufficienze d’organo end-stage: cure intensive o cure palliative?” è stato promosso dal Gruppo di Studio di Bioetica della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) [63]. Il testo è stato elaborato dopo un intenso lavoro di circa due anni da esperti di varie specialità e professionalità impegnati nella gestione dei malati affetti da patologie cronico-degenerative in fase end-stage. L’obiettivo è quello di fornire strumenti di valutazione e un percorso decisionale per definire con maggiore appropriatezza etico-clinica il trattamento di tali malati che giungono nei dipartimenti di emergenza o che sono ricoverati nei reparti ospedalieri per acuti. In data 22 Aprile 2012 il presente documento è stato approvato ad unanimità dal Consiglio Direttivo della SIAARTI ed il 24 Maggio 2013 dal Consiglio Direttivo Nazionale Società Italiana Medicina Emergenza Urgenza (SIMEU).

Altro documento utile per la definizione condivisa del processo delle cure è il “Documento condiviso SICP-SIN” frutto del tavolo di lavoro intersocietario fra la Società Italiana Cure Palliative e la Società Italiana di Nefrologia, approvato da entrambi i consigli Direttivi al termine di un percorso di elaborazione durato tutto il 2015. Nel documento si possono trovare gli strumenti utili per l’identificazione precoce nel paziente con malattia renale cronica avanzata del bisogno di cure palliative, gli aspetti di natura etico-giuridica e le possibili opzioni terapeutiche.

Due documenti che pongono quindi le basi per una corretta e fattiva collaborazione fra i diversi professionisti, e che per quanto ci compete da un supporto particolare a noi nefrologi e ai palliativisti, aiutandoci nelle decisioni di cura che hanno, sempre più, aspetti etici oltre che clinici [64, 65].

 

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Le famiglie dei donatori di organi dovrebbero essere libere, in condizioni controllate, di incontrare i loro riceventi se entrambe lo vogliono, dice il Comitato Nazionale di Bioetica *

Abstract

Il 27 Settembre 2018 il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) ha emesso un parere sulla possibilità di creare un’eccezione all’obbligo dell’anonimato qualora entrambe le parti si dicano d’accordo e abbiano firmato un appropriato modulo di consenso informato. Secondo il CNB, qualsiasi contatto tra famiglia del donatore e ricevente deve essere mediato da un organismo esterno, facente riferimento al Servizio Sanitario Nazionale, creato per garantire un rigoroso controllo sulle manifestazioni del consenso al fine di evitare qualsiasi rischio di comportamento inappropriato.

L’articolo ripercorre come Reg e Maggie Green, originari della California e in vacanza in Italia, donarono gli organi del loro figlio di sette anni, Nicholas, a sette Italiani, dopo che il bambino fu colpito da un proiettile durante un tentativo di rapina in auto lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria nel 1994. Riluttante, in quanto straniero, a proporre un cambiamento della legge italiana che di fatto impedisce alle due parti di contattarsi, Reg Green ha aspettato 22 anni fino a che, all’età di 87 anni, ha iniziato una campagna pubblica per dar voce alla sua preoccupazione che la legge stesse facendo del male alle famiglie coinvolte nei trapianti, piuttosto che aiutarle.

Parole chiave: etica, legislazione sanitaria, donazione di organi, trapianto d’organi

Introduzione

L’articolo 18 della legge 91, 1 Aprile 1999, [1] stabilisce gli “Obblighi del personale impegnato in attività di prelievo e di trapianto”. La sottosezione 2 dello stesso articolo afferma che “Il personale sanitario ed amministrativo impegnato nelle attività di prelievo e di trapianto è tenuto a garantire l’anonimato dei dati relativi al donatore ed al ricevente.” Quindi la legislazione attuale in Italia richiede l’anonimato assoluto tra la famiglia del donatore deceduto e il/i ricevente/i.

Il Centro Nazionale Trapianti dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha chiesto al Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) la sua opinione riguardo la possibilità di eccepire all’obbligo dell’anonimato “qualora entrambe le parti siano d’accordo e abbiano firmato un appropriato modulo di consenso informato”. Il 27 Settembre 2018 il CNB ha emesso un parere su “Anonimato dei donatori di organi e dei riceventi (richiesto dal Centro Nazionale Trapianti)” [2].

Il CNB ha analizzato i vari argomenti a favore dell’anonimato e dell’identificabilità, facendo una distinzione fra prima e dopo il trapianto. Il CNB ha concluso che l’identificazione può essere possibile qualora entrambe le parti abbiano espresso l’intenzione di mettersi in contatto con la controparte. Secondo il CNB, l’anonimato è essenziale durante la fase iniziale della donazione degli organi per garantire l’equità, preservare stringenti criteri clinici, rispettare la priorità delle liste d’attesa, ed impedire un possibile traffico di organi. Tuttavia il CNB crede che, dopo un idoneo periodo, sia ammissibile da un punto di vista etico e a seguito di un’esplicita dichiarazione di consenso, permettere ad ogni parte di essere informata sull’identità dell’altra, al fine di consentire loro di contattarsi ed incontrarsi. Ciò richiede una nuova legge che soddisfi questa possibilità, sempre garantendo l’osservanza dei principi guida del trapianto d’organi (riservatezza, gratuità, giustizia, solidarietà e beneficialità).

Secondo il CNB, qualsiasi contatto fra la famiglia del donatore ed i riceventi deve essere mediato da un organismo terzo nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, deputato a garantire un rigoroso controllo sulle manifestazioni del consenso e al fine di evitare qualsiasi rischio di comportamento inappropriato. Il CNB suggerisce anche che l’Istituto Superiore di Sanità rediga un documento-modello per il consenso, valido sull’intero territorio nazionale. L’informazione data alle due parti deve includere, in primo luogo, il fatto che essere informati dell’identità del donatore non è un diritto ma una possibilità, eticamente giustifica a determinate condizioni che devono essere rigidamente stabilite e confermate.

Nei paragrafi successivi, il Sig. Reginald Green, padre di Nicholas, narra la sua esperienza ed il suo impegno. La storia che si è sviluppata dalla tragedia di Nicholas è illuminante riguardo al possibile impatto del nuovo approccio suggerito dal CNB.

 

Una campagna solitaria porta dei frutti

Sono il padre di Nicholas Green, il bambino americano di sette anni che venne colpito da un proiettile durante un tentativo di rapina in auto, lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria nel 1994, e i cui organi furono donati a sette persone molto malate, quattro delle quali adolescenti, due quasi in punto di morte.

Nicholas era una creaturina magica che cercava il meglio in tutti e nulla è più stato lo stesso da quando è morto. Ma mia moglie Maggie ed io non abbiamo mai avuto un istante di ripensamento sulla nostra decisione e, se mai avessimo avuto qualche dubbio, sarebbe stato scacciato dal vedere i suoi riceventi la prima volta, quattro mesi dopo il loro trapianto, durante una cerimonia organizzata dalla Fondazione Bonino-Pulejo a Messina. Si è trattato di una delle esperienze più appaganti delle nostre vite.

Quando i riceventi entrarono nella sala in gruppo, con solo i loro parenti stretti, furono come una piccola armata – alcuni sorridenti, altri in lacrime, alcuni esuberanti, altri timidi. Un corpicino ha fatto tutto questo? mi domandai. Per la prima volta compresi il potere del trapianto.

Solo poco tempo prima, i corpi in salute che vedevamo in quel momento erano state scarne, spaventate ombre che si trascinavano nel dolore come persone anziane, dentro e fuori gli ospedali, non sapendo mai se la sera, andando a dormire, si sarebbero risvegliate la mattina successiva.

Per citarne una, Maria Pedalà, 19 anni all’epoca, era in coma terminale per una malattia epatica il giorno che Nicholas morì. “Avevamo perso tutte le speranze per lei”, ci ha raccontato in seguito il suo dottore. Ma invece di morire, si è svegliata con un nuovo fegato, è ritornata velocemente in buona salute, ha sposato il suo fidanzato di lunga data e quattro anni dopo il trapianto ha dato alla luce un bambino – un maschio che ha chiamato Nicholas. Dopo tutto questo tempo, la sua devozione al nostro Nicholas fa ancora affiorare lacrime nei miei occhi. Maria Pia oggi è una vigorosa donna nei suoi quarant’anni e una forte sostenitrice della donazione degli organi; il suo Nicholas, in una famiglia con una storia di problemi epatici debilitanti, è talmente idoneo da essere stato arruolato per l’addestramento alla scuola sottufficiali della Marina Militare Italiana.

Al giorno d’oggi, nessuna di queste relazioni sarebbe possibile perché una legge emanata nel 1999 proibisce al personale sanitario di divulgare qualsiasi informazione sulle famiglie coinvolte in un trapianto e di fatto impedisce alle famiglie dei donatori di sapere qualcosa, se non le informazioni basilari sulla controparte – età, sesso, se il trapianto ha avuto successo. Con il passare del tempo, la famiglia del donatore non sa nemmeno se i riceventi siano ancora vivi.

Per molte famiglie questo non è un problema: vogliono mettersi il trapianto alle spalle ed andare avanti con le loro vite. Ma per molte altre è un opprimente sentimento di incompletezza, un punto importante che manca nelle loro esistenze, e per alcuni rappresenta un cronico stato di angoscia, come certi ben conosciuti casi che hanno mostrato delle famiglie fare appelli pubblici nella loro disperata ricerca dei riceventi. Anche molti trapiantati – direi la maggioranza – sentono che c’è qualcosa che manca loro: sono profondamente grati alle persone che gli hanno salvato la vita e desiderano dir loro grazie.

Negli Stati Uniti, dove vivo, le comunicazioni fra le parti non solo sono permesse ma sono anche fortemente incoraggiate perché nella stragrande maggioranza dei casi, nelle migliaia e migliaia di contatti avvenuti in più di venticinque anni, i risultati sono stati terapeutici per entrambe le parti. Avevo conoscenza di tutto questo, ma sentivo che sarebbe stato fuori luogo che io proponessi dei cambiamenti ad una legge di un Paese straniero. Avevo provato a sollevare la questione durante delle conversazioni private con medici e amministratori sanitari ma nessuno pensava che un’abrogazione fosse fattibile, mentre la maggior parte considerava che non fosse neanche auspicabile e quelli che invece erano d’accordo preferivano non farsi coinvolgere in una materia così controversa.

Nel 2016, comunque, mi sono reso conto che a 87 anni avrei potuto non avere molte altre opportunità di portare la questione allo scoperto e così, dopo più di vent’anni in cui avevo mantenuto il silenzio a riguardo, ho preso un respiro profondo e ho iniziato a contattare i media per provare ad aprire un dibattito pubblico. Sono rimasto sorpreso e gratificato dalla risposta. Essendo io stesso un giornalista, mi sono sentito orgoglioso della mia professione quando ho scoperto che i media avevano compreso istintivamente i profondi sentimenti delle persone coinvolte nelle situazioni di un trapianto.

Ho avuto solo un partner in questo, Andrea Scarabelli, di Roma, che quando era uno studente universitario di 21 anni fu uno delle molte centinaia di Italiani che ci scrissero quando Nicholas morì. Andrea è diventato un amico, oggi è nei suoi quarant’anni ed è stato per me un’inestimabile guida nel condurmi attraverso le complessità di una nazione che amo ma in cui sono ancora uno straniero. Un punto di svolta è giunto quando una rivista di larghe vedute, Il Giornale Italiano di Nefrologia, ha accettato di pubblicare un mio scritto [3,4,5]. Da quel momento in poi, gli argomenti a favore di un’attenuazione della legge non sono stati visti più come le idee di un dilettante che non comprendeva gli usi italiani, ma come un problema che meritava una seria considerazione. Quotidiani, settimanali e canali televisivi di primo piano hanno pertanto cominciato a dare risalto a dei reportage che si chiedevano quale fosse esattamente la giustificazione per tenere separate le due parti.

La campagna ha iniziato così ad ottenere anche il sostegno del pubblico, il più rilevante dei quali è venuto da Marco Galbiati, un uomo determinato, intelligente ed ingegnoso di Lecco che nel Gennaio 2017 è rimasto coinvolto in uno di quegli schiaccianti ed imprevedibili sviluppi che contraddistinguono la morte cerebrale. Mentre sciava col figlio 15enne Riccardo, si accorse alla fine della pista che Riccardo non era arrivato insieme a lui. Il ragazzo venne trovato privo di sensi lungo il tracciato e portato di corsa all’ospedale di Bergamo dove però morì due giorni dopo. Devastati, i genitori donarono i suoi organi e dopo solo poche settimane Marco, come mi ha raccontato, in una notte durante la quale il desiderio di “sapere chi fossero i riceventi era particolarmente forte”, decise di promuovere una petizione per cambiare la legge. (Posso figurarmi quella notte insonne, anche voi?). Quasi da solo e senza alcun aiuto finanziario esterno, ha finora raccolto 46.000 firme, davvero tante per un “problema di cui a nessuno importa”. Oggi Marco continua, dedito come sempre, a lavorare con chiunque voglia cooperare con lui per assicurarsi che la nuova legge sia giusta ed efficace. Tre eminenti chirurghi italiani dei trapianti che lavorano in Centri Trapianti di primo livello negli Stati Uniti – i Professori Ignazio Marino, Cataldo Doria e Cristiano Quintini – hanno poi parlato apertamente e fortemente a favore del permettere i contatti.

Ma in Italia l’establishment medico all’epoca è rimasto scettico e mi sono sentito come una voce nel deserto. O, piuttosto, come Don Chisciotte e Sancho Panza. Cosa succede se le due parti si incontrano e non si piacciono? ci venne chiesto. Cosa succede se una parte vuole una relazione molto più intensa dell’altra? E se la famiglia di un donatore dicesse ai riceventi che ha bisogno di denaro e si aspettasse che qualcuno a cui ha salvato la vita gli desse una mano? E nel caso il ricevente morisse poco dopo il trapianto?

Tutti questi scenari da incubo sono possibili, ovviamente. Ma la realtà è nelle statistiche: nelle decine di migliaia di casi dove le due parti hanno comunicato fra loro negli Stati Uniti, solo una piccola minoranza è andata male. E anche in questi casi il problema è stato normalmente gestito ragionevolmente presto. In parte questo accade perché le famiglie coinvolte in un trapianto hanno dovuto occuparsi di problemi molto più difficili di questi. Il pensare che siano indifesi davanti al dover gestire situazioni potenzialmente imbarazzanti significa seriamente sottostimare queste famiglie. E, in aggiunta, un formidabile assortimento di regole è stato elaborato basandosi su decenni di esperienza.

In primo luogo, nessuna comunicazione è permessa a meno che entrambe le parti esprimano il desiderio di farlo. Se lo fanno, la procedura standard prevede che una delle famiglie scriva una lettera anonima all’altra con delle informazioni su se stessa. Quella lettera viene esaminata dall’ospedale per assicurarsi che non contenga nulla di anomalo. Solo allora viene trasmessa all’altra famiglia. Se questa non vuole iniziare un rapporto, il processo finisce lì.

Se però la seconda famiglia vuole realmente rispondere, lo fa, anche in questo caso in forma anonima, e sempre attraverso l’ospedale. Le due parti possono continuare la corrispondenza anonima quanto a lungo vogliono oppure possono rivelare la propria identità. A volte c’è un frequente scambio di lettere, a volte solo in rare occasioni – nell’anniversario del trapianto, per esempio. Le lettere anonime possono suonare un po’ fredde, ma immaginate l’eccitazione di riceverne una da un ragazzo che vi racconta come prima del trapianto per camminare fino alla porta del suo appartamento doveva per forza fermarsi a riprendere fiato e doveva ricevere trasfusioni di sangue due volte a settimana, mentre adesso ha un lavoro e gioca anche a calcio. Non si tratta di un recupero immaginario. Conosco qualcuno che ha fatto esattamente questo.

Con tempo le parti possono decidere di volersi incontrare, e i loro cuori battono sempre più forte con l’avvicinarsi di quel giorno. A volte, come dicono i critici, le differenze fra le parti sono troppo marcate perché vogliano continuare, ma più spesso, molto più spesso, le due parti invece sembrano sciogliersi l’una nelle braccia dell’altra. Perché no? Da un lato c’è chi sta incontrando dei riceventi che hanno al loro interno una parte del corpo di qualcuno che amavano, dall’altra c’è chi sta incontrando delle persone che, nonostante tutte le tentazioni di ritrarsi nel dolore e nell’amarezza, hanno avuto la generosità della comprensione umana di aiutare un completo sconosciuto quando nessun altro poteva farlo. Nella maggior parte dei casi è un abbinamento naturale.

Le persone che decidono di incontrarsi a tu per tu sono solo una piccola porzione di quelli che si scrivono – dopo tutto è un passo nel buio – ma alcuni diventano migliori amici, si incontrano per il pranzo della domenica, si danno forza l’un l’altro nei momenti di difficoltà.

Ma la prova conclusiva viene dalle abbondanti statistiche, raccolte dalle Organ Procurement Organizations (OPOs) che sono responsabili di fronte al Dipartimento per la Salute degli Stati Uniti della cura delle famiglie coinvolte nei trapianti della loro area. Esse lavorano mano nella mano con gli ospedali locali, dalle piccole istituzioni rurali fino ad alcuni dei centri trapianti più conosciuti al mondo; ce ne sono 58, ed ognuna promuove le comunicazioni fra le due parti. Questo è quello che dicono alcuni dei direttori delle maggiori organizzazioni per la gestione delle donazioni negli Stati Uniti:

  • Nel New England, con una popolazione totale di 14 milioni di abitanti, “circa il 52% delle famiglie dei donatori crea un contatto con un ricevente entro due anni dalla donazione della persona amata”. Alexandra Glazier, Presidente e CEO, New England Donor Services;
  • “Avere la possibilità di scambiare lettere tra le famiglie dei donatori ed i riceventi è profondamente curativo e terapeutico per entrambe le parti”, Kevin O’Connor, Chief Executive Office della Life Center Northwest;
  • La nostra esperienza con la comunicazione fra famiglia del donatore e ricevente è stata “in grandissima maggioranza positiva per tutti quelli coinvolti”, Kathleen Lilly, Vice-Presidente Esecutivo della LifeLink Foundation in Florida;
  • “Le famiglie dei donatori hanno un’unica richiesta ed è quella che noi salviamo quante più vite possiamo con il loro dono. Quelli che incontrano i riceventi hanno la possibilità di vedere realizzata quella promessa”, Kevin Cmunt, CEO of Gift of Hope, la cui area include Chicago, dove vivono duecentomila persone le cui famiglie di origine provenivano dall’Italia;
  • “Negli ultimi vent’anni in un’area che include 20 milioni di persone e 200 ospedali nel sud California, nessuna famiglia che ha incontrato la controparte se n’è rammaricata”, Tom Mone, CEO, OneLegacy.

 

Anche il volume di queste comunicazioni dovrebbe infine far accantonare qualsiasi idea che le famiglie non sono interessate a contattarsi: nel 2017, un sondaggio effettuato su 35 delle 58 OPOs ha registrato quasi 13.000 lettere scambiate fra le famiglie.

È vero che le condizioni sono differenti fra gli Stati Uniti e l’Italia e che molte pratiche che negli Stati Uniti funzionano bene potrebbero dover essere modificate, ma mi rifiuto di credere che il dolore italiano sia così diverso da quello americano e che delle norme che funzionano così bene in un Paese possano essere del tutto inefficaci nell’altro. Così, sono stato contentissimo di sapere che il Comitato Nazionale di Bioetica si è detto d’accordo con le argomentazioni principali al fine di permettere che i contatti avvengano sotto condizioni controllate. Spero che potremo guardare avanti quanto prima ad un cambiamento della legge e alla consolazione che potrà portare a persone che hanno già sofferto più di quanto la maggior parte di noi possa immaginare.

 

 

Carlo Petrini è componente del Comitato Nazionale per la Bioetica.

 

Bibiografia

  1. Parlamento Italiano. Legge 1 aprile 1999, n. 91. Disposizioni in materia di trapianti di organi e tessuti (Law no. 91 of 1 April 1999, Dispositions on organs and tissues retrieval). Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. 15 April 1999;87.
  2. Italian Committee for Bioethics. Anonymity of organ donors and receivers (requested by the Italian National Transplant Centre). 27 September 2018. 
  3. Green R. Sopravvivere non basta. La donazione degli organi secondo la famiglia di Nicholas Green – Survival is not enough: organ donation as seen by the family of Nicholas Green. G Ital 2017;34(2):9-16. 
  4. Green R. La privacy sulla donazione di organi causa dolore alle famiglie? – Are the privacy rules on organ donation causing unnecessary grief? G Ital Nefrol 2017;34(4):3-13. 
  5. Green R. Esposizione al Comitato Nazionale di Bioetica. G Ital Nefrol. 2018;35(4):1-19.