Il Finerenone nella cura dei pazienti con insufficienza renale cronica

Abstract

L’insufficienza renale cronica (CKD) è una condizione clinica associata ad un elevato rischio di eventi cardiovascolari (CV), mortalità e progressione verso la fase terminale della malattia, anche nota come kidney failure (KF). La CKD è caratterizzata da una ampia variabilità di progressione, che dipende in parte da una variabilità di risposta individuale ai trattamenti nefroprotettivi. Da ciò ne consegue che un consistente numero di pazienti presenta un elevato rischio residuo sia CV che renale, confermato dal fatto che circa il 70% dei pazienti seguiti dal nefrologo ha proteinuria elevata. Tra i nuovi farmaci, che sono stati sviluppati proprio con lo scopo di minimizzare tale rischio residuo, una classe di particolare interesse è rappresentata dai nuovi antagonisti recettoriali dei mineralocorticoidi non steroidei (MRA non-steroidei). Tali farmaci esercitano un importante effetto anti-fibrotico e anti-proteinurico e, a differenza degli MRA steroidei, sono associati ad un’incidenza di effetti avversi nettamente inferiore. La molecola MRA non-steroidea di cui sono disponibili più dati è il finerenone, che è potente ed estremamente selettivo e questo ne spiega in parte le differenze in termini di efficacia e sicurezza rispetto agli MRA steroidei. Nei trials clinici, il finerenone ha dimostrato di ridurre significativamente il rischio di progressione verso la KF. Inoltre, ci sono anche evidenze che la combinazione degli MRA non-steroidei insieme agli inibitori dei canali SGLT2 possa rappresentare una valida opzione terapeutica per ridurre il rischio residuo nei pazienti CKD. Date queste evidenze, gli MRA non-steroidei stanno acquisendo slancio nella cura, ed in particolare nella cura individualizzata, dei pazienti con CKD.

Parole chiave: CKD, epidemiologia, aldosterone, iperpotassiemia, insufficienza renale, rischio cardiovascolare

Introduzione

La malattia renale cronica (nota su larga scala come Chronic Kidney Disease, CKD) è una condizione clinica definita da una o più delle seguenti alterazioni confermate e persistenti per almeno 3 mesi: una riduzione del tasso di filtrazione glomerulare stimato (eGFR) <60 mL/min/1.73m2, un livello anomalo di albuminuria (o proteinuria) > 30 mg/die alla raccolta delle urine delle 24 ore (30 mg/g se misurata attraverso il rapporto albuminuria-creatininuria o ACR, sulle urine del mattino in estemporanea), una anomalia di funzione o struttura dei reni diagnosticata con esami strumentali o clinici [1, 2]. L’eGFR e la albuminuria sono cruciali nella definizione e quindi nella diagnosi della CKD e sono anche conosciute, data la loro importanza prognostica come “kidney measures” o “fattori di rischio non tradizionali” per distinguerle da altri fattori di rischio cardiovascolare tradizionale quali possono essere l’età, il fumo di sigaretta o i livelli di pressione arteriosa sistolica [3]. La presenza di CKD espone il paziente ad una prognosi sfavorevole, intesa come un aumento significativo del rischio di incidenza di eventi cardiovascolari (CV) fatali e non fatali (infarto del miocardio, ictus, scompenso cardiaco, vasculopatia periferica), rapida progressione del danno renale verso la kidney failure (KF) che viene definita come lo stadio più avanzato della CKD con ricorso alla terapia sostitutiva, e la mortalità da ogni causa [4, 5]. Tali eventi sono complessivamente considerati “eventi maggiori”, sia nella pratica che nella ricerca clinica, in quanto condizionano in modo sostanziale la qualità della vita. I pochi dati fin qui riportati acquistano ancora maggiore enfasi se si considera che la CKD ha una prevalenza in netto aumento nella popolazione generale a livello globale [6]. Per arginare tale fenomeno, il cui trend in ascesa è già da tempo evidente, un grande sforzo è stato rivolto all’individuazione di trattamenti farmacologici in grado di minimizzare il rischio sia di progressione renale che di eventi CV. I primi trattamenti che hanno portato ad una riduzione della progressione della CKD sono stati gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAASi), in particolare gli ACE inibitori ed i sartani [7]. Tuttavia, circa il 40% dei pazienti con CKD non risponde a questi farmaci, rimanendo ad un rischio elevato di eventi futuri sfavorevoli cardiovascolari e renali [8, 9].

Tra il 2010 e il 2020, sono stati condotti altri studi clinici randomizzati che hanno testato nuovi trattamenti farmacologici come gli inibitori degli SGLT2 (es. dapagliflozin, canagliflozin), gli antagonisti recettoriali delle endoteline (ERA es. atrasentan), e i nuovi antagonisti non steroidei dei recettori dei mineralocorticoidi (MRA, es. finerenone). I rispettivi studi di intervento hanno dimostrato un effetto additivo significativo di questi farmaci se combinati con i RAASi, che ad oggi sono considerati lo standard-of-care nel rallentare la progressione della CKD sia in presenza che in assenza di diabete. In questa Review prendiamo in esame i nuovi MRA. Sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, presenteremo il razionale di utilizzo degli MRA,378982 l’entità dell’effetto nefro- e cardio-protettivo nel contesto della complessità del paziente con CKD.

 

Epidemiologia e prognosi della CKD

La CKD ha acquisito nelle ultime decadi le caratteristiche di un problema di Sanità Pubblica globale [10]. Sulla base dei Registri disponibili, la prevalenza della CKD nella popolazione generale varia tra il 7% e il 13%, corrispondente ad una frequenza che spesso supera quella del diabete tipo 2 [11]. Inoltre, osservando i dati del Global Burden of Disease (GBD), che riporta il trend epidemiologico tra il 1990 e il 2016, la prevalenza e l’incidenza della CKD sono aumentate globalmente dell’87% e 89%, rispettivamente, in questo arco temporale, con un tasso di mortalità da cause renali quasi raddoppiato [6]. Inoltre, la CKD è, tra le malattie non trasmissibili, quella a più rapido incremento di incidenza. Il trend epidemiologico della CKD è in parte spiegato dalle modifiche epidemiologiche globali. Da una parte si è osservato, negli ultimi anni, una riduzione della mortalità generale da cause CV. Considerando il 1940 come anno di riferimento, la mortalità annua per infarto del miocardio e ictus si è ridotta del 56% e del 70% alla fine degli anni ‘90 [12]. Tale riduzione del rischio di morte da cause CV è stata attribuita all’introduzione di terapie preventive come le statine e ad un migliore controllo dei fattori di rischio tradizionali come il fumo di sigaretta e la pressione arteriosa. Parimenti, la mortalità associata a malattie infettive si è ridotta con il miglioramento delle terapie antibiotiche e dei vaccini, garantendo un incremento medio della durata della vita media di circa 20 anni [13]. La diffusione, quasi pandemica, della CKD è anche in linea con l’incremento della dimensione globale del diabete tipo 2. Nel 2019, circa 463 milioni di persone (9.3 % della popolazione globale) era affetto da diabete, di cui il 90% era rappresentato dal diabete tipo 2. È stato stimato che circa 2 pazienti su 5 affetti da diabete tipo 2 siano allo stesso tempo affetti da CKD [14]. L’incidenza di CKD associata al diabete (anche nota come ‘diabetic kidney disease’ DKD) è aumentata negli ultimi 30 anni in tutte le fasce di età [15]. Tale evidenza è ancora più allarmante se si considera che il diabete tipo 2, per il coinvolgimento di specifici meccanismi eziopatogenetici, è la principale cause di CKD e di KF, complessivamente. Di per sé, l’incidenza di KF, a differenza del positivo trend di morte CV, non si è ridotta negli ultimi anni, restando una condizione che espone il paziente ad alto rischio di morte. Ciò è vero in particolare per i pazienti affetti da diabete tipo 2, dei quali meno del 50% sopravvive a distanza di 5 anni dall’inizio del trattamento emodialitico sostitutivo [16].

La CKD è riconosciuta come un fattore di rischio indipendente di mortalità ed eventi CV oltre che di progressione verso la KF. Il termine indipendente fa riferimento in particolare, a fattori come l’età, il sesso e la presenza di altre comorbidità [17, 18].  È stato ampiamente dimostrato che la presenza di albuminuria, è associata indipendentemente allo sviluppo di eventi CV e progressione della CKD nel tempo [19]. Ancora più intrigante è l’osservazione che non vi sia un vero e proprio cut-off di albuminuria al di sopra del quale il rischio di progressione della CKD (ed anche il rischio CV) aumenti. In una meta-analisi del CKD-Prognosis Consortium, che includeva i dati di quasi 1.000.000 di soggetti di popolazione generale o ad alto rischio CV, il rischio di progressione della CKD verso la KF era già 5 volte aumentato per un livello di ACR di 30 mg/g, ed aumentava di oltre 13 volte per un livello di ACR di 300 mg/g [20]. Degno di nota è che i livelli di 30 e 300 mg/g sono considerati i limiti, inferiore e superiore, della categoria di proteinuria definita come moderatamente aumentata dalle linee guida KDIGO [1]. In uno studio osservazionale che includeva 3.957 pazienti con CKD seguiti dallo specialista Nefrologo in Italia, il rischio di KF aumentava di 2-3 volte passando da un livello di proteinuria 0.5 a 1.0 g/24h, con un rischio leggermente più alto nello stadio G3 rispetto al G4 [21]. Una simile associazione è stata osservata tra la proteinuria e gli eventi CV fatali e non fatali [22]. Il eGFR è per definizione la somma dei tassi di filtrazione di tutti i nefroni funzionanti e rappresenta il principale marcatore di funzione renale [23]. Negli studi prognostici, il eGFR rappresenta il più robusto predittore di progressione renale ed eventi CV. Infatti, al ridursi dei livelli di eGFR < 75 mL/min/1.73m2, il rischio di KF è di circa 30 volte più alto per livelli di 45 mL/min/1.73m2, e di circa 400 volte aumentato per livelli di 15 mL/min/1.73m2 [20]. L’associazione tra eGFR ed eventi CV ha un andamento simile seppure con una minore forza di associazione [22]. Albuminuria e eGFR sono considerati due parametri fondamentali sia per la stratificazione del rischio dei pazienti con CKD che per monitorare la risposta ai trattamenti. Una riduzione della albuminuria a 6 mesi di tempo, di circa il 30% rispetto al livello basale, si associa ad una riduzione del rischio di poco meno del 30% di progressione della CKD [24]. La riduzione del eGFR del 40% e quella del 50% sono considerati due surrogati di KF sia negli studi osservazionali che di intervento [25]. Nonostante la robustezza e affidabilità delle ‘kidney measures’, altri fattori di rischio tengono conto della scarsa prognosi dei pazienti con CKD.

È noto che la CKD è una condizione patologica multifattoriale dove più fattori di rischio rendono conto dell’outcome cardiorenale del paziente. Tra questi, accanto a eGFR e albuminuria, ipertensione arteriosa, iperpotassiemia, alterazioni del metabolismo calcio-fosforo, anemia, acidosi metabolica e dislipidemia sono quelli più noti [26].

 

Variabilità prognostica nella CKD: il problema del rischio residuo

Una delle caratteristiche principali della CKD risiede nella sua variabilità, concetto discusso già in varie pubblicazioni [8, 2730]. La variabilità, nel contesto della CKD, ha un duplice significato: prognostico e predittivo. Per variabilità prognostica si intende che pazienti con lo stesso grado di severità della malattia (ad es. livelli basali di proteinuria e eGFR) hanno una progressione ed un rischio CV completamente diversi. Questo concetto è insito nella eterogeneità della patogenesi del danno renale. In alcuni pazienti l’insorgenza di diabete tipo 2 è di per sé sufficiente, dopo un certo intervallo di tempo dalla sua comparsa, a generare un danno renale progressivo e severo. In questo caso il diabete è una causa sufficiente della CKD. In alcuni pazienti, la presenza del diabete tipo 2 incide meno sullo sviluppo della CKD che, se presente, si manifesta in genere in forma più lieve ed è secondaria perlopiù al danno da nefroangiosclerosi [2]. In questo caso, il diabete tipo 2 è una causa componente (ma non sufficiente) per lo sviluppo del danno renale cronico. Dunque, il peso di un fattore di rischio non è lo stesso in soggetti diversi. Per variabilità predittiva si intende che non tutti i pazienti rispondono ugualmente agli stessi farmaci. Nell’ambito della CKD è stato già dimostrato che una proporzione notevole di soggetti (circa il 30-40%) non risponde ai RAASi [31, 32].  Una variabilità di risposta tra pazienti è presente verso gli SGLT2i, in termini di riduzione della emoglobina glicosilata, peso corporeo, pressione arteriosa e proteinuria con circa la metà dei pazienti che non mostra una riduzione di almeno il 30% della proteinuria nei primi mesi di trattamento [33]. Similmente, ci sono evidenze di variabilità di risposta interindividuale anche verso gli ERA, in particolare atrasentan, dipendendo questa da fattori come la biodisponibilità del farmaco che è variabile e dal profilo di rischio CV del paziente [34]. Questo vuol dire che una quota significativa di pazienti continua ad avere proteinuria nel tempo e di conseguenza un alto rischio residuo di eventi CV e renali.

I dati sul rischio residuo sono attualmente allarmanti. In uno studio di coorte che ha arruolato 2.174 pazienti CKD seguiti negli ambulatori di Nefrologia in Italia, e tutti in terapia con RAASi al massimo dosaggio tollerato, Minutolo et al. hanno dimostrato che il 70% dei pazienti aveva una proteinuria >0.150 g/die, rimanendo ad elevato rischio sia CV (tasso di incidenza: 4.86 per 100 pazienti/anno) che di progressione verso la KF (tasso di incidenza: 5.26 per 100 pazienti/anno) (Figura 1) [35]. Questo dato è più che allarmante se si considera che i pazienti riferiti al nefrologo sono in generale quelli più intensivamente trattatati (e con dimostrato beneficio) per le complicanze e la progressione della CKD [2, 36]. Il dato del rischio residuo emerge anche dagli studi randomizzati più recenti. Nello studio SONAR, che ha testato l’efficacia dell’ERA atrasentan, in aggiunta al trattamento con RAASi, nei pazienti con CKD e diabete tipo 2, il tasso di incidenza di eventi cardiorenali (composito di KF, raddoppio della creatinina, morte CV, infarto del miocardio e ictus), era di 5.2 per 100 pazienti/anno nel gruppo atrasentan e di 6.1 per 100 pazienti/anno del gruppo placebo [37]. A discapito della significatività dell’effetto del trattamento, è evidente che anche nel gruppo trattato con il farmaco sperimentale il rischio assoluto di eventi resta molto alto. Similmente, nello studio DAPA-CKD, il tasso di incidenza dell’outcome primario (declino del 50% di eGFR, KF, morte da cause renali o CV) era di 4.6 per 100 pazienti/anno, molto lontano dal considerarsi minimo o abolito. Complessivamente, nonostante l’effetto significativo sulla prognosi renale, gli SGLT2i lasciano il 61% di rischio residuo sugli endpoint renali [38]. Questo dato collima con una analisi post-hoc del CREDENCE, la quale evidenziava che il 60% dei pazienti nel braccio trattato con canaglifozin non mostrava una riduzione di almeno il 30% della albuminuria nei primi 6 mesi del trial, e maggiore era la albuminuria al mese 6 maggiore era il rischio renale [39].

L’impressione collettiva è che si è raggiunto un buon successo in termini di rallentamento della progressione della CKD e del rischio CV ad essa associato, ma che allo stesso tempo questo alto rischio residuo sia la spia del fatto che non si sta accuratamente trattando la malattia di base con il farmaco più appropriato e indicato possibile [7]. Come fase successiva della ricerca, ci si è quindi concentrati da una parte sulla individuazione di nuovi trattamenti, e dall’altra sulla possibilità di individuare su base scientifica rigorosa, quale sia il farmaco giusto per ogni singolo paziente data l’ampia, già descritta, variabilità.

Figura 1: Meccanismi fisiopatologici associati all’iperattivazione del recettore dei mineralocorticoidi.
Figura 1: Meccanismi fisiopatologici associati all’iperattivazione del recettore dei mineralocorticoidi. Il pathway che coinvolge la serum glucocorticoid kinase-1 (Sgk1) conduce alla regolazione della ritenzione di sodio e dell’efflusso di potassio dalle cellule tubulari renali. La regolazione genica alterata in risposta ad eccessivi livelli di aldosterone conduce alla generazione di stimoli pro-infiammatiori e pro-fibrotici.

 

I nuovi antagonisti recettoriali dei mineralocorticoidi

Una classe di farmaci che ha suscitato interesse nell’effetto di rallentamento della progressione della CKD è rappresentata dagli MRA. Questi farmaci agiscono antagonizzando essenzialmente l’azione dell’aldosterone, ormone sintetizzato dalla zona glomerulosa del corticosurrene che promuove, dopo stimolazione diretta da parte dell’angiotensina II, la ritenzione di sodio e la perdita di potassio e magnesio [40]. Il trasporto del sodio attraverso le cellule epiteliali nella porzione distale del nefrone è il principale meccanismo in cui è coinvolto l’aldosterone attraverso il recettore dei mineralocorticoidi (MR) e la cascata di fattori ad esso associati. Il recettore dei MR appartiene alla sottofamiglia dei recettori nucleari che agiscono sia come recettori intranucleari che come fattori di trascrizione dopo traslocazione nel nucleo cellulare [41]. L’attivazione del MR porta alla espressione di geni target, tra cui quello chiave è serum glucocorticoid kinase (Sgk1). Sgk1 fosforila ed inattiva la ubiquitin ligasi Nedd4-2 che regola a sua volta la degradazione dei canali ENaC tramite il sistema dei proteasomi. In presenza dell’aldosterone, l’attività di Nedd4-2 è bloccata da Sgk1 che quindi porta ad una aumentata espressione e funzione degli ENaC sulla membrana dalle cellule tubulari renali. Quando invece i livelli plasmatici di aldosterone sono ridotti (fisiologicamente o per blocco farmacologico), la degradazione degli ENaC è aumentata. Oltre al trasporto del sodio, il MR regola anche l’escrezione di potassio e idrogeno sia tramite un meccanismo passivo di cariche elettron-neutre associato al trasporto del sodio sia attraverso stimolazione diretta della N+/K+ ATPasi e i canali renal outer medullary potassium channel (ROMK) [42]. Oltre al suo ruolo fisiologico, è stato dimostrato che l’attivazione anomala del MR sia associata ad una serie di meccanismi fisiopatologici che interessano vari organi tra cui il rene (Figura 1).

Livelli incrementati di aldosterone, infatti, promuovono il generarsi di fibrosi a livello del cuore, dei vasi sanguigni e del rene. La scoperta dell’effetto pro-fibrotico degli ormoni mineralocorticoidi risale alla dimostrazione, nel 1943, che la somministrazione di desossicorticosterone acetato nel topo, in combinazione con un altro introito di sale nella dieta, conduceva allo sviluppo clinico di ipertensione maligna e alla comparsa di nefroangiosclerosi e ipertrofia cardiaca [43]. Inoltre, successivi studi hanno dimostrato che l’iperaldosteronismo associato all’ipertensione arteriosa era in grado di promuovere ipertrofia cardiaca con coinvolgimento dei fibroblasti cardiaci [44]. Riguardo ai meccanismi molecolari che conducono alla fibrosi, sembra che l’aldosterone sia in grado di promuovere la sintesi di citochine pro-infiammatorie, come ad esempio l’osteopontina 1, l’espressione macrofagica di TGF-β1 ed il PAI-1 (prothrombotic protein plasminogen activator inhibitor-1), essendo quest’ultimo coinvolto direttamente nella deposizione di collagene nella matrice extracellulare e nell’iniziare la fibrosi interstiziale [45]. Tali meccanismi assumono un’importanza fondamentale se si considera che i fattori scatenanti l’infiammazione e la fibrosi sono i principali target delle terapie di rallentamento della progressione della CKD, nel futuro [46]. Inoltre, ancora da un punto di vista fisiopatologico, è noto che nonostante il blocco del RAAS attraverso l’utilizzo degli ACE e ARB, non tutta l’attività dell’aldosterone è abolita (fenomeno di “escape” dell’aldosterone), fattore che perpetua l’effetto pro-infiammatorio e pro-fibrotico di questo ormone [47].

Sulla base di questi meccanismi, l’antagonismo farmacologico dei MR rappresenta di per sé un importante bersaglio farmacologico. La prima molecola appartenente alla classe MRA, sviluppata nel 1957, fu lo spironolattone. Successivamente, fu sviluppato l’eplerenone. Sia eplerenone che spironolattone vengono classificati, in base alla loro struttura molecolare, come MRA steroidei. I primi studi clinici randomizzati, il RALES con l’aldosterone e poi l’EPHESUS e l’EMPHASIS-HF con eplerenone, avevano dimostrato che questi due MRA conferivano una protezione dal rischio di morte nei pazienti affetti da scompenso cardiaco o cardiopatia ischemica [4850]. Studi meno corposi, in termini di numerosità campionaria, condotti su pazienti CKD avevano mostrato che lo spironolattone riduceva i livelli di proteinuria e pressione arteriosa nei pazienti affetti da CKD [51]. Tuttavia, gli MRA steroidei sono associati ad una serie di effetti collaterali potenzialmente gravi come l’iperpotassiemia, la ginecomastia e l’impotenza. Il rischio di iperpotassiemia associato all’uso di MRA è raddoppiato nei pazienti in CKD non in dialisi ed aumenta di ben tre volte nei pazienti in trattamento dialitico [52]. Questo ha spinto la ricerca e l’industria farmaceutica allo sviluppo di MRA potenti ma più selettivi, quindi con un miglior profilo di ‘safety’. Le nuove tecnologie di biologia molecolare hanno, in particolare, reso possibile lo sviluppo di una nuova classe di MRA, gli MRA non steroidei. Due molecole appartenenti a questa nuova classe di farmaci sono l’esaxerenone, introdotto in Giappone per la cura dell’ipertensione arteriosa, ed il finerenone, del quale sono disponibili le più ampie evidenze sia sperimentali che cliniche. Il finerenone blocca il MR in modo potente e selettivo a differenza degli MRA steroidei come spironolattone (blocco potente ma non selettivo) ed eplerenone (blocco meno potente ma più selettivo di eplerenone) (Figura 2) [52].

Figura 2: Meccanismo d’azione specifico degli MRA non-steroidei.
Figura 2: Meccanismo d’azione specifico degli MRA non-steroidei. L’interazione ligando-recettore porta alla protrusione dell’a-elica 12 (H12) del MR e questo ne determina la sua destabilizzazione e degradazione. L’interazione ligando-recettore coinvolge la formazione di legami idrogeno con residui specifici del MR come Ala773 e Ser810.

Questa differenza nel meccanismo molecolare di antagonismo, insieme ad altre differenze nella distribuzione tissutale e nella farmacocinetica, spiegano la differente risposta clinica tra gli MRA steroidei e non. Le differenze dettagliate tra le due classi sono riportate in Tabella 1.

MRA steroidei MRA non steroidei
Meccanismo molecolare di antagonismo del recettore mineralcorticoide (MR)

Spironolattone

(prima generazione)

Non selettivo e potente

Passivo

Eplerenone

(seconda generazione)

Meno selettivo e potente dello spironolattone

Finerenone

Selettivo e potente

Passivo e ingombrante

Distribuzione tissutale in modelli animali

 

Spironolattone

Rene > cuore

Eplerenone

Rene > cuore

Finerenone

Rene = cuore

Farmacocinetica

Spironolattone

Profarmaco di numerosi metaboliti attivi;

lunga emivita

Eplerenone

No metaboliti attivi;

emivita 4-6 ore

Finerenone

No metaboliti attivi;

breve emivita

Effetto in vitro sul reclutamento del cofattore in assenza di aldosterone

Spironolattone ed eplerenone

Agonisti parziali nel reclutamento del cofattore

Finrenonene

Agonista inverso

 

Effetto in vitro sul reclutamento del cofattore in presenza di aldosterone

Spironolattone ed eplerenone

Inibiscono il reclutamento del cofattore

Finerenone

Più potente ed efficace dell’eplerenone nel bloccare il legame con il cofattore del MR e indurre il legame con il corepressore.

 

Effetto sulla mutazione (S810L) del MR in vitro

Spironolattone ed eplerenone

Agonisti

 

Finerenone

Antagonista

Effetto sull’infiammazione e sulla fibrosi in modelli di cuore murino

 

Eplerenone

Effetto poco significativo sull’infiammazione e sulla fibrosi

Finerenone

Inibisce significativamente l’infiammazione e la fibrosi

Effetto sull’infiammazione e sulla fibrosi renale nel modello murino “salt-deoxycorticosterone acetate” con malattia renale cronica

 

Eplerenone

Significativa riduzione della pressione arteriosa; meno efficace nella riduzione della proteinuria e del danno renale

Finerenone

Significativa riduzione della pressione arteriosa solo ad alte dosi; significativa riduzione dell’espressione di fattori profibrotici, proinfiammatori e del danno renale.

Tabella 1: Principali differenze tra MRA steroidei e non steroidei.

Esperimenti in modelli animali hanno mostrato come il finerenone si distribuisca, a livello tissutale, equamente tra cuore e rene, a differenza di eplerenone e spironolattone che invece hanno una maggiore concentrazione a livello del rene comportando un maggiore effetto sul bilancio di sodio e potassio [53, 54]. Inoltre, il finerenone confrontato con gli MRA steroidei ha una breve emivita e non ha metaboliti attivi [55]. Lo spironolattone invece è pro-farmaco di metaboliti attivi, tra cui il canrenone, che possono essere individuati nelle urine fino a 4 settimane dopo la sospensione del trattamento ed essere attivi farmacologicamente fino a circa 2 settimana dopo la sospensione. Ciò spiegherebbe in parte la persistenza dell’effetto iperpotassiemico dopo interruzione dello spironolattone, con un profilo di maneggevolezza decisamente a favore di finerenone. È interessante osservare come ci siano delle differenze anche nella farmacodinamica tra MRA steroidei e non. Il finerenone, a differenza degli MRA steroidei, inibisce il reclutamento di cofattori ai vari domini del MR (che in genere dipende dai livelli di aldosterone) ed in questo modo riduce l’espressione di geni pro-infiammatori e pro-fibrotici [56]. Quindi la cascata di segnali a valle del recettore evocata da MRA steroidei e non steroidei è differente. Confrontato con eplerenone, il finerenone a parità di dose ha un maggiore effetto anti-fibrotico ed ha azione antifibrotica anche a dosaggi non ancora sufficienti a ridurre la pressione arteriosa [53]. Il finerenone è di fatto l’unico farmaco tra gli MRA che combina una eccezionale potenza e selettività. La IC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per inibire del 50% l’attivazione del recettore, è pari a 17.8 per finerenone, ed è più bassa sia rispetto a spironolattone (24) che eplerenone (990). Peraltro, lo spironolattone ha una IC50 bassa anche per il legame con il recettore degli androgeni (77 vs > 10.000 di finerenone) e i glucocorticoidi (2410 vs >10.000 di finerenone). Invece la EC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per attivare il 50% del recettore del progesterone, è pericolosamente più bassa per lo spironolattone (740 vs >10.000 di finerenone). Questi parametri spiegano, nell’insieme, come mai lo spironolattone sia un farmaco molto potente ma poco selettivo [57, 58].

 

Il finerenone nella realtà clinica del paziente con CKD

Gli MRA non steroidei hanno compiuto ampia strada nell’ambito della ricerca clinica raggiungendo la fase III della sperimentazione con gli studi Finerenone in Reducing Kidney Failure and Disease Progression in Diabetic Kidney Disease (FIDELIO-DKD) e Finerenone in Reducing Cardiovascular Mortality and Morbidity in Diabetic Kidney Disease (FIGARO-DKD) [59, 60]. Nel FIDELIO-DKD, sono stati arruolati pazienti affetti da DKD albuminurici e già in trattamento con RAASi.  Lo studio ha dimostrato per la prima volta nella storia degli MRA una diminuzione del 18% dell’endpoint composito primario (KF, riduzione persistente di almeno il 40% del GFR, morte da causa renale) nel corso dei 2.6 anni di follow up, e con un basso number-needed-to-treat, associata ad un marcato e persistente effetto antialbuminurico associato al trattamento (31% di riduzione rispetto al placebo dopo 4 mesi di terapia). Dal punto di vista nefrologico il trial risponde al principale “medical need” nella DKD, ossia come ridurre la progressione della nefropatia, e ha arruolato popolazione tipicamente presente negli ambulatori di Nefrologia, con l’86% di pazienti con eGFR compreso tra 60 e 25 mL/min/1.73m2 e albuminuria già in terapia con RAASi. Inoltre, lo studio è long-term consentendo pertanto una maggiore affidabilità sulla analisi della “effectiveness”.  Va notato inoltre che il trial è stato dimensionato sulla nefroprotezione; pertanto, si è definita una dimensione campionaria sufficiente per ottenere il 90% di potenza nella discriminazione del rischio dell’endpoint primario (progressione malattia renale). Ciò nonostante, è risultata significativa anche la riduzione del 14% nel rischio dell’endpoint secondario cardiovascolare (composito di eventi cardiovascolari fatali e non-fatali e ospedalizzazione per scompenso cardiaco). I dati di ‘safety’ testimoniano una buona tollerabilità del finerenone con una simile incidenza di eventi avversi nonostante la popolazione in esame sia per definizione fragile e ad alto rischio. D’altra parte, è stata registrata una maggiore incidenza di uscita dal trial a causa dell’iperkalemia, seppure bassa in assoluto, nel braccio finerenone (2.3% vs 0.9%).  Il maggiore rischio di iperkalemia con finerenone, seppure inferiore rispetto agli MRA steroidei, era quindi un dato atteso.

Un ulteriore dato di interesse per la comunità Nefrologica deriva dall’analisi post-hoc dei 254 pazienti dello studio che ricevevano finerenone “on top” non solo di anti-Angiotensina II ma anche di inibitori di SGLT2 [61]. Tale analisi, seppure limitata dal basso numero di pazienti, suggerisce un effetto nefroprotettivo nel lungo termine simile tra pazienti trattati e non trattati con inibitori di SGLT2 (p dell’effetto di interazione: 0.21). Altrettanto rilevante è il dato sulla risposta antiproteinurica, anch’essa simile tra i due gruppi (p dell’effetto di interazione: 0.31). Una ulteriore analisi pooled degli studi FIGARO-DKD e FIDELIO-DKD (FIDELITY in più di 13.000 pazienti con malattia renale diabetica), ha confermato l’efficacia del finerenone, indipendente dall’uso di inibitori di SGLT2 [62]. Il FIGARO-DKD ha testato l’efficacia del finerenone in aggiunta a trattamento con RAASi nel ridurre il rischio di eventi CV, essendo l’endpoint primario misurato il composito di morte CV, infarto del miocardio non fatale, ictus non fatale e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Il trial ha dimostrato, in un follow-up di 3.4 anni, una riduzione del rischio significativa, del 13%, dell’endpoint primario nel gruppo finerenone rispetto al placebo. L’incidenza di iperpotassiemia era maggiore nel gruppo finerenone che nel gruppo placebo (10.8 vs. 5.3%).

 

I nuovi MRA e la nefrologia di precisione

L’interesse verso i nuovi MRA non-steroidei sta progressivamente aumentando visti i risultati dei primi studi clinici randomizzati. Al contempo, lo sviluppo clinico degli MRA è stato anche portato nell’ambito degli studi di ‘medicina di precisione’. La medicina di precisione (o nefrologia di precisione nel caso specifico) è una branca relativamente recente della ricerca che mira ad elaborare dei disegni di studio che forniscano stime, sia prognostiche che di risposta alle terapie, individualizzabili al singolo paziente [8]. Ciò non deve essere confuso con lo studio del singolo individuo. Gli studi di medicina di precisione sono comunque svolti su una moltitudine di soggetti, partendo dal concetto statistico che le stime frequentiste (quelle quindi fornite insieme ad un intervallo di confidenza e ad un parametro di variabilità) sono il risultato della sommatoria di tante singole stime individuali. Nel campo nefrologico, gli avanzamenti più recenti, da questo punto di vista, sono essenzialmente due: il miglioramento dei disegni degli studi clinici randomizzati, ad esempio attraverso l’inclusione di pazienti più omogenei e/o la randomizzazione di coloro che rispondono efficacemente al trattamento sperimentale (es. i disegni di studio adattivi) [37]; l’acquisizione, anche da altre branche della medicina, degli studi cross-over: questi particolari disegni di studio consistono nell’esporre uno stesso paziente a più sequenze di trattamento intervallate da sequenze libere dal farmaco (wash-out) [26]. È stato di recente completato uno studio cross-over in pazienti affetti da CKD, diabetica e non, che ha incluso l’MRA eplerenone, lo studio ROTATE-3 [63]. Nel ROTATE-3 sono stati arruolati con eGFR compreso tra 30 e 90 mL/min, albuminuria ≥ 100 mg/24h, ed in trattamento con RAASi. I pazienti sono stati randomizzati, dopo un breve periodo di run-in mirato a confermare la stabilità della albuminuria, a ricevere in tre successivi periodi di trattamento delle durate di quattro settimane ciascuno (intervallati da quattro settimane di wash-out) eplerenone 50 mg/die, dapagliflozin 10 mg/die oppure la combinazione di eplerenone 50 mg/die + dapagliflozin 10 mg/die. L’endpoint primario dello studio è stato quello di valutare l’entità di risposta in termini di riduzione della albuminuria in base al tipo di farmaco somministrato, ed inoltre comprendere se i pazienti rispondessero similmente ai farmaci somministrati. Lo studio ha mostrato che la albuminuria si riduceva in media del 20% in seguito alla somministrazione di dapagliflozin, del 34% in seguito a eplerenone e di ben il 53% in seguito alla combinazione dei due trattamenti. Questa osservazione è stata importante in quanto per la prima volta si è compreso l’entità della risposta antialbuminurica di un MRA in associazione ad un inibitore di SGLT2, entrambi in aggiunta allo standard of care (RAASi). Inoltre, altro risultato importante dello studio è stata l’assenza di correlazione significativa tra le risposte alle tre fasi di trattamento. Questo dimostra che gli stessi pazienti non rispondono contemporaneamente al MRA ed al SGLT2 che hanno un meccanismo di azione differente e, ancora più importante, che coloro che non rispondono ad un farmaco, possono rispondere all’altro. L’assenza di correlazione spiega quindi la maggiore efficacia antialbuminurica quando usati in contemporanea.

Il ROTATE-3 si inserisce negli studi di combinazione farmacologica, studi sempre più evocati nel setting della CKD vista, come detto nelle precedenti sezioni, la necessità di modificare più target di trattamento contemporaneamente. Le combinazioni di più farmaci con diverso meccanismo di azione hanno un razionale scientifico robusto in CKD [64]. Gli MRA, sia steroidei che non, hanno un effetto opposto sulla potassiemia rispetto agli inibitori di SGLT2, i primi associandosi ad un incremento dei livelli mentre i secondi ad una riduzione per inibizione del riassorbimento tubulare. Nello studio ROTATE-3 il trattamento di combinazione eplerenone+dapagliflozin era associato ad un numero di episodio di iperpotassiemia significativamente inferiore rispetto al trattamento con eplerenone da solo (p=0.003), portando quindi non solo ad un aumento dell’efficacia antialbmunirica ma anche ad una riduzione dell’incidenza di uno dei più temibili effetti avversi. Inoltre MRA e SGLT2i hanno effetti sinergici di nefroprotezione riducendo entrambi la glomerulosclerosi e la progressione del danno renale. Simili effetti sinergici sono presenti tra MRA e ERA e tra ERA e SGLT2i (Tabella 2).

Classe del farmaco Meccanismo di azione Reazioni avverse Effetto sinergico con ERA
 

ERA (agonisti selettivi del recettore dell’endotelina tipo A)

 

Aumentano il flusso renale, riducono le alterazioni dei podociti, lo stress ossidativo, la sclerosi glomerulare e l’infiammazione.

 

 

Ritenzione di liquidi o ipervolemia e anemia.

RAASi (inibitori del sistema renina angiotensina aldosterone)

Riducono la pressione intraglomerulare tramite la vasodilatazione delle arteriole efferenti e l’incremento della produzione di prostaglandine.

Riducono la glomerulosclerosi, la proliferazione cellulare, la fibrosi tubulo-interstiziale e l’infiammazione.

Aumento dei livelli creatinina sierica, iperkaliemia, anemia e tosse.

Sia l’ATII che l’endotelina

(ET) -1 causano un aumento della produzione della matrice extracellualare e della fibrosi tubulo interstiziale.

L’ATII e l’aldosterone stimolano la produzione di ET-1 nei dotti collettori.

Aldosterone e ET-1 hanno un effetto opposto a livello dell’Enac.

Negli studi di fase due il trattamento combinato con ERA e RAASi ha dimostrato una migliore efficacia nel controllo della proteinuria rispetto al trattamento con solo RAASi.

 

SGLT2i (inibitori del cotrasporto sodio glucosio)

Riducono il riassorbimento di sodio e glucosio nel tratto prossimale del tubulo renale.

Aumentano l’apporto di sodio alla macula densa con conseguente normalizzazione del feedback tubulo glomerulare e riduzione dell’iperfiltrazione.

Infezioni del tratto genito-urinario, amputazione degli arti inferiori, cheto acidosi e insufficienza renale acuta.

La natriuresi indotta dagli SGLT2i può controbilanciare la ritenzione di fluidi (effetto avverso frequente del trattamento con ERA).

Sia gli ERA che gli SGLT2i riducono la rigidità vascolare, la disfunzione endoteliale, la sclerosi glomerulare, lo stress ossidativo e l’infiammazione.

 

Antagonisti del recettore mineralcorticoide (MRA) non steroidei Presentano una maggiore selettività e affinità per il recettore mineralcorticoide rispetto agli MRA steroiodei. Promuovono la degradazione e l’inattivazione dell’ENac con conseguente natriuresi. Iperkaliemia.

Gli MRA non steroidei e gli ERA causano rispettivamente un incremento e una riduzione dell’attività dell’ENac. La somministrazione sinergica potrebbe quindi ridurre la probabile ritenzione di fluidi conseguente al trattamento con ERA.

Sia gli ERA che gli MRA non steroidei determinano una riduzione della fibrosi e dell’infiammazione renale.

Tabella 2: Meccanismo di azione e potenziale effetto sinergico degli ERA in associazione con RAASi, SGLT2i e MRA non steroidei.

L’implementazione degli studi di associazione farmacologica in pazienti CKD sarà nel prossimo futuro una tappa importante per la ricerca clinica.  Relativamente ai nuovi MRA, è già in corso uno studio, il COmbinatioN effect of FInerenone anD EmpaglifloziN in participants with chronic kidney disease and type 2 diabetes using an UACR Endpoint study (CONFIDENCE), che valuterà l’efficacia antiproteinurica della combinazione finerenone+empagliflozin rispetto ai singoli trattamenti, in pazienti con CKD nelle fasi iniziali di malattia [65].

 

Conclusioni

La progressione verso la KF è uno dei principali “unmet clinical need” nella CKD, anche rispetto al rischio cardiovascolare che, negli ultimi anni, ha mostrato una progressiva diminuzione secondaria alla introduzione di terapie cardiovascolari più efficaci.

Il mancato miglioramento della prognosi renale dei pazienti con CKD è da attribuirsi in larga parte alla assenza in questi anni di nuovi farmaci nefroprotettivi.  Il rischio residuo nei pazienti trattati con la terapia standard, cioè i RAASi, resta infatti molto alto.  Ai RAASi, di recente, si sono aggiunti gli inibitori di SGLT2. Tuttavia, anche dopo uso combinato di queste due diverse classi di farmaci, il rischio di progressione della nefropatia verso la fase dialitica permane ancora significativo.

Il finerenone rappresenta un importante avanzamento nella storia della nefroprotezione in quanto va a riempire il vuoto della terapia mirata in primis a ridurre l’infiammazione e la fibrosi nella CKD con la minimizzazione degli eventi avversi tipici dei MRA steroidei, in particolare l’iperpotassiemia. I dati del FIDELIO-DKD dimostrano l’efficacia di finerenone sulla nefroprotezione a lungo termine in pazienti diabetici e con CKD ad alto rischio di progressione verso la fase dialitica anche se trattati con RAASi e inibitori di SGLT2.

 

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La causa di insufficienza renale è ignota in un ampio numero di pazienti in trattamento sostitutivo renale: un possibile approccio genomico all’approfondimento diagnostico

Abstract

La mancanza di una diagnosi conclusiva della causa di insufficienza renale nei pazienti in trattamento renale sostitutivo ha una frequenza del 16-17% nelle casistiche europee e americane. Questo può avere implicazioni importanti per le morbidità che i pazienti possono sviluppare nel caso di malattie sistemiche con coinvolgimento extrarenale o di malattie renali recidivanti nel paziente trapiantato. La conoscenza della malattia di base può avere importanti ripercussioni prognostiche e terapeutiche. In questo studio abbiamo valutato la quota di pazienti uremici che possano beneficiare di un approccio diagnostico genomico. I pazienti passibili di un futuro approfondimento diagnostico genomico sono stati selezionati sulla base di 2 criteri: (i) l’età di ingresso in dialisi inferiore o uguale a 55 anni, (ii) l’identificazione di una diagnosi non conclusiva. Sulla base dei dati estratti dal registro REGDIAL, sono stati analizzati 534 pazienti in trattamento sostitutivo renale. Abbiamo identificato 300 soggetti con età di ingresso in terapia sostitutiva precedente ai 55 anni (56.2% della popolazione generale). Tra questi, abbiamo identificato 107 pazienti con diagnosi mancante o non conclusiva, pari al 20% della popolazione complessiva. In questi pazienti il 32.8% riferisce una anamnesi familiare positiva per patologia renale. Questo studio conferma come una frazione rilevante dei pazienti in trattamento sostitutivo renale non abbia una diagnosi eziologica e sia passibile di un possibile approfondimento genomico. Con l’aumentare della disponibilità della tecnologia di sequenziamento genomico e col calo dei costi, i nefrologi saranno sempre più inclini ad incorporare test genetici clinici nel loro armamentario diagnostico. Esiste la necessità di approfonditi studi multicentrici per sviluppare linee guida basate sull’evidenza, per fornire indicazioni e indagare l’utilità dei test genetici in nefrologia.

Parole chiave: insufficienza renale cronica, epidemiologia, nefroangiosclerosi

Introduzione

L’uremia terminale in Europa, secondo dati relativi al Report ERA-EDTA 2014, si caratterizza per un’incidenza di 70.953 nuovi pazienti all’anno (133 persone per milione di abitanti –pmp) ed una prevalenza di 490.743 individui (924 pmp) [1]. Le principali cause riportate sono la nefropatia diabetica (19%), le glomerulonefriti (17%) e la nefropatia ipertensiva (nefroangiosclerosi) (16%), ma è sorprendente che la patologia di base sia sconosciuta nel 17% dei casi (Figura 1). Nella realtà americana incidenza e prevalenza sono superiori rispetto al dato europeo (rispettivamente 378 pmp per l’incidenza, e 2128 pmp per la prevalenza). Dal punto di vista eziologico negli Stati Uniti, le principali cause di IRC terminale sono rappresentate dalla nefropatia diabetica (38%) e dalla nefropatia ipertensiva (25%), ma anche nella popolazione americana il 16% dei pazienti non ha una diagnosi conclusiva: un numero elevato e in linea con il dato europeo (Figura 2). Una considerazione particolare deve essere fatta per quella ampia quota di pazienti che ricevono una diagnosi di nefropatia ipertensiva o nefroangiosclerosi (16% nella popolazione europea, 25% nella popolazione americana). La nefroangiosclerosi è definita come l’esito finale della malattia ipertensiva non adeguatamente controllata da terapie antipertensive efficaci [2]. I soli criteri clinici hanno una limitata specificità e sensibilità, in particolare nella diagnosi differenziale con la glomerulosclerosi secondaria che può essere invece determinata dall’ esito di processi glomerulonefritici. Per aumentare l’accuratezza diagnostica, è necessario associare ai criteri clinici la biopsia renale che però è eseguita molto raramente in questa classe di pazienti [3]. Ne deriva quindi che una porzione consistente di pazienti con diagnosi di nefroangiosclerosi sia in realtà orfana della reale causa patogenetica della propria malattia renale. Da questi dati emerge quindi un quadro poco confortante riguardante la ampia quota di soggetti che iniziano il trattamento dialitico senza una diagnosi eziologica. Questo può avere implicazioni importanti per le morbidità che i pazienti possono sviluppare anche dopo il raggiungimento della insufficienza renale terminale, ad esempio nel caso di malattie sistemiche con coinvolgimento extrarenale o di particolari malattie renali che possono recidivare nel paziente trapiantato [4]. Crediamo che una quota di pazienti senza diagnosi eziologica, ed in particolare la quota di pazienti più giovani, possano essere portatori di malattie con una eziologia genetica e che quindi possano beneficiare di un approccio diagnostico genomico. La finalità di questo studio è stata primariamente effettuare un’analisi epidemiologica delle cause di insufficienza renale cronica nella popolazione in terapia renale sostitutiva nella provincia di Modena e identificare i casi con diagnosi mancante o non conclusiva. Attraverso questa indagine si vuole individuare una popolazione per la quale un approccio genomico possa avere una elevata chance di definizione della reale causa patogenetica.

 

Figura 1: Eziologia dei prevalenti in IRC Terminale secondo i dati dell'European Renal Association del 2014 [5]
Figura 1: Eziologia dei prevalenti in IRC Terminale secondo i dati dell’European Renal Association del 2014 [5]

 

Figura 2: Eziologia dei prevalenti in IRC terminale secondo i dati di United States Renal Data System del 2015 [7]
Figura 2: Eziologia dei prevalenti in IRC terminale secondo i dati di United States Renal Data System del 2015 [7]

Materiali e Metodi

Lo studio è stato autorizzato dal Comitato Etico della Area Vasta Emilia Nord (Pratica C.E. N.170/2019).

I dati sono stati raccolti attraverso un foglio di calcolo Excel (Office 365, Microsoft Corporation). I dati sono stati analizzati descrittivamente con le funzioni incorporate nel foglio di calcolo Excel, oppure con il pacchetto statistico Stata 11.2 (Copyright 1985-2009 StataCorp LP).

 

Estrazione dei dati

La popolazione dello studio è stata individuata attraverso il registro regionale dialisi e trapianto (REGDIAL), che raccoglie i dati della popolazione in trattamento renale sostitutivo della provincia di Modena. I dati sono stati estratti con aggiornamento al 31 dicembre 2016 e riguardano tutti i pazienti affetti da IRC terminale in trattamento con tutte le metodiche disponibili (emodialisi, dialisi peritoneale, trapianto renale).

Sono stati raccolti i seguenti dati: sesso; età all’inizio del trattamento renale sostitutivo; età al 31 dicembre 2016; tipologia di terapia renale sostitutiva iniziale e tipologia in atto al 31 dicembre 2016; etnia, eziologia dell’IRC terminale; biopsia renale; familiarità per nefropatia. La familiarità per malattia renale è stata estratta attraverso la sottomissione ai pazienti del questionario riportato nei materiali e metodi (Allegato 1 materiali supplementari). Come unico criterio di esclusione è stata applicata l’esclusione dei pazienti per i quali non erano disponibili dati clinici nei database elettronici (REGDIAL, ARIANNA) o nelle cartelle cliniche cartacee.

Abbiamo revisionato ogni diagnosi che fosse discrepante tra quanto riportato nel registro REGDIAL e quanto riportato nella restante documentazione clinica. Una commissione formata da RM, FT e DS ha collegialmente ridiscusso la diagnosi ed in caso di mancanza di unanimità nei confronti della diagnosi conclusiva questa è stata decisa attraverso votazione a maggioranza.

 

Classificazione dei casi passibili di eventuale studio genomico

I pazienti passibili di un futuro approfondimento diagnostico genomico sono stati selezionati sulla base di 2 criteri:

  • Età di ingresso in dialisi inferiore o uguale a 55 anni. La scelta dell’età inferiore a 55 anni è stata presa in considerazione dell’età media di ingresso in dialisi della più rappresentativa patologia renale genetica renale: il rene policistico autosomico dominante (ADPKD)[5].
  • Pazienti con diagnosi non conclusiva: mancata diagnosi, nefroangiosclerosi non approfondita biopticamente, CAKUT, nefropatia interstiziale idiopatica.

Queste categorie diagnostiche sono state identificate in quanto condizioni con scarsa caratterizzazione patogenetica e/o maggiore probabilità di una significativa componente eredo-familiare.

 

Risultati

Caratteristiche della popolazione

Sulla base dei dati estratti dal registro REGDIAL sono stati identificati 626 pazienti in trattamento sostitutivo renale nel periodo compreso dall’1/1/2016 al 31/12/2016 pari ad una prevalenza nella provincia di Modena di 438.7 pmp. L’età media dei pazienti in trattamento dialitico è 63 ± 15 anni mentre l’età’ media di inizio dialisi è 54 ± 19 anni. Il 63,5% della popolazione è di sesso maschile. La distribuzione dell’età di inizio della terapia di sostituzione renale presenta un andamento grossolanamente bimodale con un primo picco intorno ai 48 anni e un secondo a circa 72 anni (Figura 3). 363 soggetti sono in trattamento emodialitico (58% della popolazione); 67 soggetti sono in trattamento dialitico peritoneale (10,7% della popolazione) e infine 196 soggetti hanno ricevuto un trapianto renale (31,3% della popolazione).

 

Figura 3: Distribuzione dell’età di inizio trattamento renale sostitutivo della popolazione in esame
Figura 3: Distribuzione dell’età di inizio del trattamento sostitutivo renale della popolazione in esame

 

Eziologia IRC terminale

92 soggetti di 626 (14.6%) in trattamento sostitutivo sono stati esclusi dalle successive analisi per mancanza di dati clinici (Figura 4). Per ogni singolo paziente sono stati analizzati i dati clinici estratti dalle base dati descritte nella sezione dei materiali e metodi. La diagnosi eziologica riscontrata nei documenti clinici è stata confrontata con quella riportata nel registro REGDIAL. 101 diagnosi (18.9%) sono risultate discrepanti nel confronto tra la codifica REGDIAL e quanto riportato nelle cartelle cliniche.

Sulla base della riclassificazione le prime tre diagnosi per incidenza sono: 149 soggetti della categoria eziologica delle glomerulonefriti (24.5%), 83 soggetti della categoria nefropatia diabetica (13.6%), 75 soggetti della categoria nefroangiosclerosi (12.3%). In queste ultime due categorie la diagnosi bioptica è stata condotta in un limitato numero di casi, rispettivamente il 22,9% e il 18,7% e quindi l’accuratezza di queste diagnosi deve essere considerata subottimale. Sempre relativamente alla biopsia renale, essa è stata effettuata nella categoria ‘no diagnosi’ in 9 casi su 55 (16,4%) riscontrando appunto una diagnosi istologica non conclusiva. In 55 soggetti (10.3%) non è stata identificata una causa eziologica della insufficienza renale terminale (Tabella1).

Abbiamo confrontato l’età di ingresso in dialisi in queste categorie eziologiche, in particolare dividendo i soggetti in diagnosi conclusive e non conclusive non si apprezza una differenza statisticamente significativa nei due gruppi: 332 soggetti con diagnosi conclusiva ed età media di ingresso in dialisi 52 anni, 202 soggetti con diagnosi non conclusiva ed età media di ingresso in dialisi 54.2 anni.

 

Figura 4: Diagramma che illustra il processo di classificazione dei pazienti affetti da IRC terminale
Figura 4: Diagramma che illustra il processo di classificazione dei pazienti affetti da IRC terminale

 

CATEGORIA N. ELEMENTI PERCENTUALE
Glomerulonefriti 149 27,90%
Nefropatia a Depositi di IgA 43 28,86%
Gn Membrano-proliferativa 22 14,77%
Gn membranosa 13 8,72%
FSGS 10 6,71%
LES 10 6,71%
Vasculite 9 6,04%
Amiloidosi 6 4,03%
Sindrome Emolitico-Uremica 6 4,03%
Nefropatia a depositi di IgM 5 3,36%
Gn Post-Infettiva 5 3,36%
Gn intra ed extra-capillare 4 2,68%
Gn Necrotizzante 3 2,01%
Gn crioglobulinemica 3 2,01%
Altro 10 6,71%
Nefropatia Diabetica 83 15,54%
Diagnosi bioptica 19 22,89%
Diagnosi clino-laboratoristica 64 77,11%
Nefroangiosclerosi 75 14,04%
Diagnosi bioptica 14 18,67%
Diagnosi Clinica-laboratoristica 61 81,33%
Nefropatie ereditarie 73 13,67%
ADPKD 54 73,97%
Sindrome di Alport 6 8,22%
Nefronoftisi 5 6,85%
Altro 8 10,96%
CAKUT 36 6,74%
Reflusso vescico-ureterale 12 33,33%
Monorene congenito 7 19,44%
Ipoplasia renale 6 16,67%
Stenosi del giunto pielo-ureterale 2 5,56%
Stenosi ureterale congenita 2 5,56%
Altro 7 19,44%
Malattie Tubulo-Interstiziali 36 6,74%
Pielonefrite cronica 14 38,89%
Nefropatia interstiziale 13 36,11%
Nefropatia da farmaci 7 19,44%
Nefropatia interstiziale da S. di Sjogren 1 2,78%
Granulomatosi interstiziale 1 2,78%
Altre alterazioni renali 27 5,06%
Litiasi renale 9 33,33%
Tumore renale 5 18,52%
Iatrogena 2 7,41%
Meningocele 2 7,41%
Stenosi arterie renali 2 7,41%
Altro 7 25,93%
No Diagnosi 55 10,30%
Biopsia renale eseguita 9 16,36%
Biopsia renale non eseguita 46 83,64%
N.B.

· Glomerulonefrite, Altro: 4 glomerulonefriti avanzate e inclassificabili (con immunofluorescenza positiva), 2 da microangiopatia trombotica, 2 glomerulonefriti mesangiali, 1 myeloma kidney, 1 connettivite non meglio definita

· Nefropatie ereditarie, Altro: 4 glomerulonefriti familiari, 2 nefropatie interstiziali familiari, 1 sclerosi tuberosa, 1 malattia di Fabry; “CAKUT, Altro”: 1 ipodisplasia renale, 1 malformazione ureterale, 1 monorene funzionale, 1 estrofia vescicale congenita, 1 malformazione valvole uretrali posteriori, 1 malformazione renale, 1 malformazione apparato escretore congenita

· Altre alterazioni renali: 1 tubercolosi renale, 1 monorene chirurgico, 1 ipertrofia prostatica, 1 nefrocalcinosi, 1 idronefrosi, 1 nefropatia da sofferenza ipossica perinatale, 1 nefrectomia bilaterale per sospetta sindrome di birt-hogg-dubè

Tabella 1: Eziologia dell’IRC terminale nel dettaglio. In questa tabella sono riportati tutti i pazienti indipendentemente dall’età di ingresso in dialisi.

 

Popolazione con diagnosi non conclusiva e probabilità di patogenesi di origine genetica

I criteri di inclusione per la definizione di una popolazione a maggiore probabilità di essere portatrice di una malattia eredo-familiare sono stati riportati nella sezione dei materiali e metodi. In breve, i criteri riguardano la necessità di inizio del trattamento sostitutivo prima dei 55 anni e la mancanza di una diagnosi eziologica conclusiva. I soggetti appartenenti alla popolazione in esame con età di inizio della terapia renale sostitutiva inferiore o uguale a 55 anni sono risultati 300 (56.2%). In questo gruppo di pazienti abbiamo identificato 107 (20%) soggetti con una diagnosi clinica non nota o non conclusiva (Fig.4). Questi pazienti appartengono alle seguenti classi: nefroangiosclerosi (24 pazienti), CAKUT (30 pazienti), no diagnosi (33 pazienti) e malattie tubulo-interstiziali idiopatiche (20 pazienti). Nel gruppo dei pazienti affetti da malattia tubulo-interstiziale sono stati esclusi i soggetti che avevano una chiara causa eziologica della loro nefrite interstiziale: nefrotossicità da farmaci (3 soggetti) e da nefropatia interstiziale secondaria a sindrome di Sjogren (1 soggetto) (Materiali supplementari, Allegato 2). Questi 107 soggetti selezionati possono quindi potenzialmente beneficiare di un approccio diagnostico genomico.

Per valutare il possibile ruolo di una componente eredo familiare nella popolazione selezionata abbiamo valutato la anamnesi familiare per il riscontro di familiarità per nefropatie. I soggetti con familiarità per nefropatia sono risultati 34 (corrispondenti al 32,8% del totale). Tre (39,4%) appartengono alla classe “no diagnosi”, 7 (23,3%) alla classe CAKUT, 8 (40%) alla classe malattie tubulo-interstiziali e infine 7 (29,2%) alla classe nefroangiosclerosi. La presenza di anamnesi familiare positiva nei pazienti di etnia africana è di 3 su 14 pazienti complessivi (21,4%; in due pazienti non è stato possibile raccogliere il dato). La presenza di anamnesi familiare positiva nei pazienti di etnia caucasica è di 32 su 86 pazienti complessivi (37,2%; in 5 pazienti non è stato possibile raccogliere il dato) (vedi Tabella 2 e Materiali Supplementari, Allegato 2). La proporzione di storia familiare positiva per malattie renali non risulta statisticamente significativa rispetto alla etnia caucasica/africana (Fisher’s exact test p = 0.368).

 

CATEGORIA Num tot/% Familiarità per nefropatia/% Assenza di Familiarità/% Assenza del dato sulla Familiarità/%
CAKUT 30 28,04% 7 23,33% 23 76,67% 0 0%
Reflusso vescico-ureterale 11 36,67 2 18,18% 9 81,82% 0 0%
Monorene congenito 6 20% 2 33,33% 4 66,67% 0 0%
Ipoplasia renale 4 13,33% 2 50% 2 50% 0 0%
Stenosi ureterale 2 6,67% 0 0% 0 0% 0 0%
Altro 7 23,33% 1 14,29% 6 85,71% 0 0%
Malattie tubulo-interstiziali 20 18,69% 8 40% 10 50% 2 10%
Nefropatia interstiziale 10 50% 5 50% 3 30% 2 20%
Pielonefrite cronica 9 45% 3 33% 6 66,67% 0 0%
Granulomatosi interstiziale 1 5% 0 0% 1 100% 0 0%
Nefroangiosclerosi 24 22,43% 7 29,17% 15 62,50% 2 8,33%
Diagnosi bioptica 9 37,5% 2 22,2% 7 77,78% 0 0%
Diagnosi clinica-laboratoristica 15 62,5% 5 33,3% 8 53,33% 2 13,33%
No Diagnosi 33 30,84% 13 39,39% 17 51,52% 3 9,09%
Biopsia renale eseguita 6 18,18% 2 33,33% 4 66,67% 0 0%
Biopsia renale non eseguita 27 81,82% 11 40,74% 13 48,15% 3 11,11%
TOTALE 107 100% 35 32,71% 65 60,75% 7 6.54%
N.B.
CAKUT, Altro: 1 ipodisplasia renale, 1 malformazione ureterale, 1 monorene funzionale, 1 estrofia vescicale congenita, 1 malformazione valvole uretrali posteriori, 1 malformazione renale, 1 malformazione apparato escretore congenito
Tabella 2: Eziologia dell’IRC terminale nei pazienti con ingresso in dialisi prima dei 55 anni e diagnosi non conclusiva.

 

Discussione

L’insufficienza renale è una causa di alta mortalità e morbidità. Nella popolazione dialitica la sopravvivenza a 5 anni è del 41,8%. Sebbene in misura minore rispetto alla popolazione dialitica anche la sopravvivenza della popolazione trapiantata è ugualmente ridotta (sopravvivenza a 5 anni del 91,7%) nel confronto con la popolazione generale. Il numero di soggetti che raggiungono lo stadio di insufficienza renale terminale senza che sia stata identificata una diagnosi causale varia dal 16 al 17% nelle statistiche europee e americane rispettivamente [6,1] . Questi valori probabilmente sottostimano la reale dimensione del problema a causa del fenomeno della ‘diagnosi di convenienza’ che viene formulata in un certo numero di casi senza un sufficiente supporto diagnostico eziologico. Questo avviene principalmente nel gruppo di pazienti con diagnosi di nefroangiosclerosi ma non solo (sicuramente anche in un cospicuo numero di casi di nefropatia diabetica). I pazienti con diagnosi di nefroangiosclerosi hanno una storia positiva di ipertensione e non sono sottoposti a particolari approfondimenti diagnostici e nello specifico sono sottoposti a biopsia renale solo in un numero molto limitato di casi. Il sospetto che la etichetta di nefroangiosclerosi mistifichi una diversa diagnosi è forte soprattutto nella popolazione che raggiunge l’insufficienza renale terminale in età giovanile. Lo studio epidemiologico presentato in questo lavoro ha voluto puntualizzare l’entità del fenomeno della mancanza di diagnosi o del rischio di una diagnosi di convenienza nella provincia di Modena. In particolare, rispetto al problema della mancata diagnosi, nella prospettiva dell’utilizzo di un approccio genomico per la disambiguazione diagnostica, abbiamo aggiunto come ulteriore criterio lo sviluppo della insufficienza renale terminale in età precoce. Infatti è notorio che la malattia genetica / eredo familiare è più prevalente nella popolazione pediatrica rispetto a quella anziana [7,8]. Abbiamo in questo senso scelto come valore di cutoff una età arbitraria di 55 anni. A parziale supporto di questa scelta possiamo riportare che 55 anni corrisponde all’età mediana di ingresso in dialisi nella nostra popolazione. Inoltre, l’età di 55 anni corrisponde anche all’età media di ingresso in dialisi dei pazienti ADPKD che costituiscono il principale gruppo di pazienti affetti da nefropatia genetica della popolazione nefropatica.

Nella nostra casistica il numero di soggetti in trattamento sostitutivo renale senza una diagnosi corrisponde a 55 soggetti, il 10.3% della popolazione complessiva, un valore significativamente più basso rispetto ai valori espressi dai registri europei e americani. Ugualmente i valori di soggetti con diagnosi di nefroangiosclerosi e diabete (14% e 15.5% rispettivamente nel nostro centro) sono tendenzialmente inferiori alle statistiche europee e significativamente inferiori ai dati americani. Le motivazioni per queste differenze sono certamente imputabili ad un complesso di fattori: i fattori di ordine geografico, ambientale e di genetica delle popolazioni sicuramente ricoprono un ruolo dominante. Non si può escludere però che anche la propensione all’approfondimento bioptico possa avere un ruolo in queste percentuali contribuendo ad erodere quote che sono tipicamente ad appannaggio delle diagnosi di convenienza. In questo senso il dato riguardante le diagnosi ad eziologia glomerulare del nostro centro (27.9%) è significativamente più elevata rispetto alle stime medie europee e americane. Il dato della provincia di Modena si avvicina molto a quello del registro nazionale australiano dove le malattie glomerulari sono la prima causa di IRC terminale [9]: L’Australia è uno dei paesi che tradizionalmente ha una elevata propensione all’approfondimento bioptico [10]. Abbiamo quindi concentrato la nostra attenzione sui soggetti con diagnosi mancanti o dubbie di età inferiore ai 55 anni in quanto, il potenziale arricchimento in questo gruppo di individui di una eziologia genetica, permetterebbe di applicare metodologie diagnostiche innovative di tipo genomico [11]. I pazienti rispondenti a questi criteri nel nostro centro sono 107 pari al 18% della popolazione totale in trattamento sostitutivo renale.  Poiché la presenza di una storia familiare positiva per malattie renali suggerisce una natura eredo familiare della patologia di base[1214], abbiamo valutato la loro storia familiare attraverso l’utilizzo di uno specifico questionario (Allegato 1 materiali supplementari). I dati hanno mostrato una elevata prevalenza di storia familiare positiva per malattia renale (32.8%) in questa popolazione selezionata. ll confronto tra l’etnia africana e quella caucasica, relativamente alla positività di storia familiare, inaspettatamente riporta una più elevata frequenza nella etnia caucasica (37,2% verso 21.4%). Il nostro dato potrebbe, però, essere stato falsato sia dalla disparità numerica dei due campioni, sia per una più difficoltosa e parziale raccolta anamnestica nel gruppo di etnia africana, dovuta a barriere linguistiche e distacco geografico dalle famiglie di origine.

Gli ultimi due decenni hanno visto una esponenziale crescita delle potenzialità diagnostiche, legate all’analisi delle varianti genomiche, attraverso le tecnologie di sequenziamento super parallelo. Le tecniche di diagnostica riconosciute con i termini di Whole Exome Sequencing (WES) e Whole Genome Sequencing (WGS) permettono la rapida ed economica genotipizzazione dei pazienti [15,16] con costi che sono in continua progressiva decrescita. La recente esperienza ha dimostrato che la ricerca genomica sia un nuovo e potente strumento per l’identificazione di cause di malattia renale che sfuggono agli approcci diagnostici tradizionali. L’analisi genetica ha un’utilità diagnostica eccellente nella nefrologia pediatrica, come illustrato da studi di sequenziamento di pazienti con anomalie renali e urinarie congenite e sindrome nefrosica resistente agli steroidi. Una recente esperienza ha evidenziato una capacità diagnostica significativa attraverso l’approccio genomico anche nella popolazione adulta [17]. Questo approccio può potenzialmente portare alla luce la causa eziologica di una porzione considerevole di soggetti al momento privi di diagnosi. Le motivazioni cliniche per arrivare ad una conclusione diagnostica nei pazienti in trattamento sostitutivo renale sono molteplici. I pazienti sentono la necessità di una conclusione diagnostica che spieghi la causa della loro insufficienza renale terminale. Oltre al bisogno informativo del paziente, la diagnosi in questi pazienti ha significati clinici più stringenti. Alcune patologie genetiche, infatti, determinano alterazioni sistemiche causative di complicanze extrarenali la cui conoscenza è essenziale e determinante nella gestione clinica del paziente affetto.  Un esempio classico in tal senso è la patologia di Fabry che determinando, tra le altre, complicanze cardiache, cerebrali e intestinali richiede di essere tempestivamente diagnosticata e trattata indipendentemente dall’esito dell’insufficienza renale. La diagnosi genetica può portare ad una terapia mirata ed a migliori risultati in termini di sopravvivenza nella popolazione trapiantata. Ad esempio, i risultati di un test genetico in una donna di 67 anni, con insufficienza renale terminale senza diagnosi eziologica e sottoposta a trapianto renale, hanno permesso di giungere alla diagnosi di deficit di adenina fosforibosiltrasferasi, una causa genetica di litiasi renale. L’introduzione in terapia di allopurinolo ha prevenuto la recidiva di nefropatia e la potenziale perdita del rene trapiantato [4]. Infine, la diagnosi di una malattia genetica può avere importanti implicazioni relative al counselling familiare. Il corretto counselling può permettere di diagnosticare precocemente la condizione nei parenti, modificandone positivamente il decorso clinico, o permette di programmare una diagnosi preimpianto nella pianificazione di una gravidanza.

Questo studio conferma come una frazione rilevante dei pazienti in trattamento sostitutivo renale non abbia una diagnosi eziologica. Le tecniche di indagine genomica promettono di essere un prezioso strumento diagnostico in gruppi selezionati di questi pazienti. Con l’aumentare della disponibilità della tecnologia di sequenziamento genomico e dei costi in calo, i nefrologi saranno sempre più inclini ad incorporare test genetici clinici nel loro armamentario diagnostico. Esiste il rischio che queste nuove tecnologie vengano adottate prematuramente, prima che sia stata generata la prova sistematica della loro utilità. Vi è la necessità di approfonditi studi multicentrici per sviluppare linee guida basate sull’evidenza per indicazioni e utilità dei test genetici in nefrologia.

 

Materiali supplementari

 

Allegato 1: Questionario per la valutazione della familiarità per nefropatia in pazienti in terapia renale sostitutiva
Allegato 1: Questionario per la valutazione della familiarità per nefropatia in pazienti in terapia renale sostitutiva

 

Allegato 2: Diagramma riassuntivo delle modalità di selezione della popolazione con diagnosi di IRC terminale non conclusiva e probabilità di patogenesi di origine genetica.
Allegato 2: Diagramma riassuntivo delle modalità di selezione della popolazione con diagnosi di IRC terminale non conclusiva e probabilità di patogenesi di origine genetica.

 

Bibliografia

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  9. Jegatheesan D, Nath K, Reyaldeen R, Sivasuthan G, John GT, Francis L, Rajmokan M, Ranganathan D. Epidemiology of biopsy-proven glomerulonephritis in Queensland adults. Nephrology (Carlton, Vic) 2016; 21(1):28-34. https://doi.org/10.1111/nep.12559
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  17. Aissani B. Confounding by linkage disequilibrium. Journal of human genetics 2014; 59(2):110-15. https://doi.org/10.1038/jhg.2013.130

Variazione temporale dell’epidemiologia della Malattia Renale Cronica

Abstract

La malattia renale cronica (CKD) rappresenta un rilevante fattore di rischio di mortalità e morbilità, nonché un crescente problema di salute pubblica. Diversi studi hanno descritto l’epidemiologia della CKD esaminando intervalli di tempo piuttosto ristretti. Al contrario, il trend temporale dell’epidemiologia della CKD non è stato ancora ben esplorato, sebbene possa fornire informazioni utili su come migliorare la prevenzione e l’allocazione delle risorse economiche. Il nostro obiettivo è quindi quello di descrivere i principali aspetti dell’epidemiologia della CKD focalizzandoci sulle sue variazioni temporali. L’incidenza globale della malattia è aumentata dell’89% negli ultimi 27 anni, influenzata soprattutto dall’indice socio-economico e dall’aumentata aspettativa di vita. La sua prevalenza ha mostrato un incremento globale simile, dell’87%, nello stesso periodo di tempo. Il crescente trend di prevalenza e di incidenza della CKD può essere dovuto al concomitante invecchiamento della popolazione e all’aumento di comorbidità come ipertensione, diabete ed obesità. Il tasso di mortalità è però diminuito, nella popolazione generale come nei pazienti con CKD, a causa della riduzione degli eventi fatali cardiovascolari e infettivi. Sembra difficile confrontare il trend italiano con quello di altri Paesi a causa del modo in cui sono state rilevate le misure epidemiologiche. La creazione di Registri specifici della CKD in Italia appare pertanto necessaria per monitorare nel tempo sia il trend della malattia renale cronica che quello delle complicanze ad essa associate.

Parole chiave: malattia renale cronica, CKD, epidemiologia, registri, indice socio-demografico

Introduzione

La malattia renale cronica (CKD) è una condizione patologica associata ad un alto rischio di mortalità e di morbidità. È stato infatti dimostrato, in studi di popolazione generale e di pazienti seguiti dalle unità nefrologiche, che la presenza di un valore di filtrato glomerulare stimato (eGFR) <60 ml/min/1,73m2 o di proteinuria si associa ad un alto rischio di sviluppare, nel tempo, eventi cardiovascolari (CV) maggiori (malattia coronarica, scompenso cardiaco, vasculopatia periferica), progressione del danno renale (riduzione del eGFR ed ingresso in dialisi) e mortalità da tutte le cause [15].  

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