Impatto economico dell’utilizzo di carbossimaltosio ferrico nei pazienti in emodialisi

Abstract

La supplementazione con ferro endovena è essenziale nei pazienti emodializzati (ED) per recuperare le perdite di sangue e soddisfare i requisiti per l’eritropoiesi e, nei pazienti che ricevono eritropoietine, per prevenire lo sviluppo di carenza di ferro. In un recente studio real-world, Hofman et al. hanno dimostrato che nei pazienti ED, lo shift terapeutico da ferro saccarato (FSA) a carbossimaltosio ferrico (FCM) migliora i parametri del ferro con minor consumo di risorse. L’obiettivo di questa analisi è confrontare il costo settimanale del trattamento con FCM vs FSA, nei pazienti ED, in Italia. Dai dati dello studio pubblicato è stato ricavato il consumo di farmaci (ferro e eritropoietine) quantificando il costo a prezzi ex-factory per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). L’analisi è stata sviluppata sul totale dei pazienti nello studio e nei due sottogruppi: pazienti con carenza di ferro e pazienti anemici, al basale. Inoltre, specifiche analisi di sensibilità hanno considerato i prezzi effettivamente praticati a livello regionale, simulando l’impiego di FSA vs ferro gluconato (FG) e di epoetina beta vs epoetina alfa. Nell’analisi base-case lo switch verso FCM si traduce in un risparmio di -€12,47 per paziente/settimana (-21%) nel totale dei pazienti, con un risparmio anche maggiore nel sottogruppo di pazienti con carenza di ferro -€17,28 (-27%) e nei pazienti anemici -€23,08 (-32%). Le analisi di sensibilità, sempre favorevoli a FCM, hanno confermato la robustezza dell’analisi. FCM può rappresentare un notevole risparmio per il SSN, e sono auspicabili studi real-world condotti in Italia che quantifichino il reale consumo di risorse nei pazienti dialitici.

Parole chiave: carbossimaltosio ferrico, supplementazione di ferro per endovena, malattia renale cronica, emodialisi, consumo di farmaci, impatto economico

Introduzione

La prevalenza dei pazienti con malattia renale cronica (MRC) è pari al 10-16% della popolazione adulta mondiale [1] con tassi di incidenza in aumento nel corso degli anni [1,2]. Questo trend rappresenta una sfida per i diversi Sistemi Sanitari e i pagatori in generale, particolarmente quando si consideri il più elevato consumo di risorse nei pazienti più anziani [3,4]. Soprattutto, va evidenziato che la mortalità legata alla MRC è quasi duplicata, tra il 1990 e il 2010, con un aumento, in termini di anni persi per morte prematura, inferiore solo a HIV-AIDS e diabete mellito [5].
 

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Utilità della valutazione ecocolordoppler prima dell’allestimento di un accesso vascolare per emodialisi: esperienza di un singolo centro dialisi

Abstract

L’uso dell’ecocolordoppler preoperatorio migliora la valutazione clinica perché fornisce informazioni anatomiche ed emodinamiche che lo rendono uno strumento importante nella pianificazione dell’accesso vascolare.

Lo studio ecografico preoperatorio dei vasi può ridurre significativamente il tasso di insuccesso dell’intervento e l’incidenza di complicanze dell’accesso vascolare.

Riportiamo l’esperienza del nostro Centro, della durata di 10 anni, nel quale il nefrologo sottopone tutti i pazienti a valutazione ecografica preoperatoria del patrimonio vascolare dell’arto superiore.

L’ecocolordoppler è stato di grande utilità nella selezione dei vasi migliori e nella scelta della sede per l’allestimento della fistola artero-venosa, riducendone la percentuale di fallimento. Inoltre, la collaborazione tra le diverse professionalità del team degli accessi vascolari ha permesso il raggiungimento di risultati, a nostro avviso, soddisfacenti.

Parole chiave: accesso vascolare, uso dell’ecografia, ecocolordoppler, mapping preoperatorio, emodialisi

Introduzione

Il buon funzionamento dell’accesso vascolare (FAV) è uno degli elementi cruciali per la riuscita del trattamento emodialitico ed è associato ad una riduzione della morbilità e mortalità del paziente uremico. Un basso tasso di trombosi della FAV è uno degli obiettivi più importanti per migliorare la qualità di vita e delle prestazioni sanitarie dei pazienti in trattamento emodialitico. Tuttavia, ancora oggi, la problematica legata agli accessi vascolari rappresenta, nella sua evidente complessità, un nodo dolente della terapia sostitutiva renale. Inoltre, oggi più che mai, noi nefrologi siamo chiamati a gestire il paziente emodializzato in termini sempre più elevati di qualità della prestazione sanitaria e di riduzione dei costi.

Le prime Linee Guida KDOQI, pubblicate oltre dieci anni fa, raccomandavano di approntare una fistola con vasi nativi almeno 3-4 mesi prima del previsto inizio del trattamento emodialitico e di ridurre il posizionamento dei cateteri venosi centrali (CVC), incrementando il numero dei pazienti portatori di una fistola ben funzionante [1]. Le linee guida pubblicate più recentemente (UK Renal Association, Società Europea per gli accessi vascolari (ESVS), Associazione Europea ERA-EDTA ed il Gruppo Multidisciplinare Spagnolo degli Accessi Vascolari (GEMAV)) sono dirette oltre che ai chirurghi, anche a tutti i professionisti coinvolti nella cura e nella gestione dell’accesso vascolare al fine di migliorare la qualità di vita del paziente emodializzato [25]. Quindi sono di notevole aiuto al fine di stabilire le migliori strategie di gestione per tutti i pazienti che necessitano di un accesso vascolare (AV).

 

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La supplementazione con colecalciferolo migliora il controllo dell’iperparatiroidismo secondario nel paziente in emodialisi

Abstract

Introduzione: La carenza di vitamina D è frequente nei pazienti in emodialisi (HD) ed è un’importante componente nell’eziopatogenesi dell’iperparatiroidismo secondario (IPS). In questo studio abbiamo voluto valutare l’impatto della supplementazione con colecalciferolo sui livelli di paratormone (PTH) e della 25-idrossivitamina D (25(OH)D) in un gruppo di pazienti in HD con carenza di vitamina D ed IPS.

Pazienti e metodi: Sono stati selezionati 122 pazienti con livelli di 25(OH)D ≤30 ng/mL e IPS definito come livelli di PTH >300 pg/mL o livelli di PTH tra 150-300 pg/mL in corso di terapia con cinacalcet e/o paricalcitolo. Di questi, 82 hanno acconsentito alla supplementazione per via orale con colecalciferolo alla dose fissa di 25,000 UI a settimana per 12 mesi, mentre i rimanenti 40 pazienti l’hanno rifiutata, andando a costituire il gruppo di controllo. I due principali endpoint dello studio erano la riduzione dei livelli PTH ≥30% rispetto ai valori basali e l’incremento dei livelli di 25(OH)D a valori >30 ng/mL.

Risultati: Al follow-up, nel gruppo supplementato i livelli di PTH si riducevano da 476 ±293 a 296 ±207 pg/mL (p<0.001) quelli di 25(OH)D aumentavano da 10.3 ±5.7 a 33.5 ±11.2 ng/mL (p<0.001), la calcemia aumentava da 8.6 ± 0.5 a 8.8 ± 0.6 mg/dL (p<0.05) mentre la fosforemia rimaneva invariata. In questo gruppo il dosaggio medio del paracalcitolo veniva ridotto da 8.7 ±4.0 a 6.1 ±3.9 µg/settimana (p<0.001). Un risultato inatteso era l’aumento dei livelli di emoglobina da 11.6 ±1.3 a 12.2 ±1.1 gr/dL (p <0.01) con una riduzione del dosaggio medio di eritropoietina da 119 ±88 a 88 ±65 UI/Kg p.c./settimana (P<0.05). Nel gruppo di controllo i livelli di 25(OH)D e di PTH non si modificavano, mentre vi era un incremento del dosaggio medio di cinacalcet da 21 ±14 a 43 ±17 mg/die (p<0.01).

Conclusioni: La carenza di vitamina D è molto frequente nel paziente in HD. La supplementazione di colecalciferolo migliora questo stato carenziale ed allo stesso tempo consente un miglior controllo dell’IPS ed una riduzione dei dosaggi medi di paracalcitolo.

 

Parole chiave: vitamina D, colecalciferolo, emodialisi, iperparatiroidismo secondario, paracalcitolo

Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (IPS) inizia come un processo adattativo ma in ultimo, a seguito del ridursi della funzione renale, della ridotta escrezione di fosfati, della ridotta produzione di vitamina D e dell’ipocalcemia, si trasforma in un processo patologico [1]. È opinione comune che bassi livelli sierici di vitamina D siano la causa del bilancio negativo del calcio, dell’IPS e della patologia ossea. Le concentrazioni sieriche di 25-idrossivitamina D (25(OH)D) sono il principale indice del patrimonio di vitamina D del nostro organismo e sono utilizzate per definire uno stato carenziale di vitamina D [2]. Nelle linee guida National Kidney Foundation–Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (NKF–KDOQI), livelli sierici di 25(OH)D <5 ng/mL sono utilizzati per indicare una grave deficienza di vitamina D, livelli tra 5 e 15 ng/mL indicano una lieve insufficienza, livelli tra 16 e 30 ng/mL indicano un’insufficienza, mentre livelli maggiori di 30 ng/mL vengono considerati ottimali, anche se non vi è unanime consenso su quali siano i livelli sierici di vitamina D da considerare ottimali [3, 4].

 

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Management del paziente in emodialisi sottoposto ad indagine medico-nucleare

Abstract

Le tecniche di imaging legate all’impiego di radionuclidi hanno acquisito negli ultimi anni sempre maggiore rilevanza clinica in virtù della loro capacità di fornire informazioni di natura funzionale in specifici distretti anatomici. Lo sviluppo di tali metodiche ha coinvolto tra gli altri anche l’ambito nefrologico estendendo l’uso dei radionuclidi ai pazienti con vari gradi di deficit funzionale renale sino all’uremia terminale.

Nonostante la malattia renale cronica e la terapia dialitica in particolare si associno a numerosi fattori potenzialmente capaci di alterare la bio-distribuzione e l’eliminazione dei radiofarmaci, non esistono in letteratura dati coerenti sui rischi connessi al loro impiego in tale contesto clinico. E, così come mancano ampi dati relativi alla sicurezza nella radio-esposizione del paziente dializzato, ancora minori sono le informazioni circa il rischio per il personale sanitario addetto alla conduzione di sedute dialitiche effettuate dopo un esame nucleare.

Questo studio effettuato su 29 uremici terminali sottoposti a emodialisi subito dopo un esame scintigrafico ha valutato l’entità della radio-contaminazione sia degli infermieri addetti alla seduta che dei presidi emodialitici (monitor, kit di dialisi e dialisato). I dati rilevati sono stati impiegati per l’individuazione e la quantificazione del rischio radiologico nel setting dialitico secondariamente all’esposizione ai radionuclidi di più comune impiego in ambito clinico.

 

Parole chiave: malattia renale cronica, imaging, radionuclidi, emodialisi, scintigrafia, radio-contaminazione

Introduzione

Negli ultimi decenni l’evoluzione delle metodiche di imaging ha contribuito significativamente al miglioramento dell’accuratezza diagnostica in medicina. Tra le varie metodiche, quelle utilizzanti radionuclidi, per le caratteristiche in esse presenti, hanno permesso di studiare aspetti particolari della patologia umana. La medicina nucleare usa il principio del tracciante. Le radiazioni, principalmente fotoni gamma, emesse dal radionuclide vengono convertite in immagini planari o tomografiche attraverso la Gamma Camera. Grazie alla versatilità dei radionuclidi, la medicina nucleare trova applicazione in diversi ambiti della clinica [1].

Secondo i dati UNSCEAR 2000 ogni anno vengono effettuati nel mondo circa 32 milioni di esami di medicina nucleare [2]. La crescente diffusione dell’esame scintigrafico e della Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), nel corso dell’ultimo decennio, deriva principalmente dalla loro notevole capacità di integrazione e/o sostituzione delle classiche metodiche di imaging pesante (TC, RM, etc.). La scintigrafia è una tecnica di diagnostica funzionale che, previa somministrazione di un tracciante radioattivo (che si distribuisce nel corpo in base alle sue proprietà chimiche e biologiche), ne valuta e/o quantifica la distribuzione negli organi e nei tessuti che si vogliono studiare. La PET è un esame diagnostico che prevede l’acquisizione di immagini fisiologiche basate sul rilevamento di due fotoni gamma che viaggiano in direzioni opposte. Questi fotoni sono generati dall’annientamento di un positrone con un elettrone nativo. La scansione PET, eseguita con fluorodesossiglucosio (FDG), fornisce informazioni metaboliche qualitative e quantitative. L’FDG è un analogo radiomarcato del glucosio che viene assorbito dalle cellule metabolicamente attive come le cellule tumorali. Le scansioni PET sono in grado di dimostrare un’attività metabolica anormale prima che si siano verificati cambiamenti morfologici. L’attività metabolica dell’area di interesse viene valutata sia mediante ispezione visiva delle immagini sia misurando un valore semi-quantitativo dell’assorbimento di FDG chiamato valore di assorbimento standardizzato (SUV). L’applicazione clinica più comune della PET è in oncologia, dove viene impiegata per differenziare le lesioni benigne dalle lesioni maligne, monitorare l’effetto della terapia su neoplasie conosciute, riposizionare e rilevare la recidiva del tumore; viene anche utilizzata in cardiologia, per la valutazione di aree di ischemia, e in neurologia, nella diagnosi differenziale di demenza e sindrome di Parkinson [3,4].

 

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Covid-19 nel paziente dializzato: strategie di prevenzione e controllo dell’infezione

Abstract

Covid-19 è una malattia causata da un nuovo coronavirus, con una variabilità di sintomi simil-influenzali tra cui febbre, tosse, mialgia ed affaticamento; nei casi più gravi può evolvere in polmoniti, sindrome da distress respiratorio acuto, sepsi e shock settico, fino al decesso del paziente. L’infezione che, come dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha assunto lo status epidemico, è particolarmente pericolosa per i pazienti dializzati perché sono più vulnerabili alle infezioni e presentano una fragilità correlata alla sovrapposizione di più patologie. Nei pazienti con sintomi conclamati è presente una compromissione renale di vario grado nel 100% dei soggetti osservati. Tuttavia, poiché Covid-19 è una malattia emergente, è necessario un maggiore lavoro per migliorare le strategie di prevenzione, diagnosi e trattamento. È fondamentale evitare la diffusione nosocomiale, rafforzando la gestione del personale sanitario medico-infermieristico attraverso programmi di diagnosi precoce, isolamento e trattamento dei pazienti sottoposti a trattamento dialitico con l’obiettivo di controllare e ridurre il tasso di infezione. Riportiamo qui una serie di raccomandazioni relative ai pazienti dializzati negativi al virus, nonché a quelli sospettati o confermati positivi.

Parole chiave: Covid-19, emodialisi, trasmissione, prevenzione

Introduzione

La malattia da Coronavirus 2019 (Covid-19), appartiene alla grande famiglia di virus a RNA che possono essere isolati in diverse specie di animali [1] e che, per ragioni ancora sconosciute, possono attraversare le barriere della specie e possono causare nell’uomo malattie che vanno dal comune raffreddore a patologie più gravi come la SARSr-CoV1e la MERS. Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato ufficialmente l’epidemia Covid-19 un’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale [2].

I sintomi clinici dei pazienti comprendono febbre (44%-98%), tosse secca (68%-76%), mialgia (18%) ed affaticamento (18%); i pazienti in gravi condizioni possono presentare respiro affannoso, rantoli umidi nei polmoni e suoni del respiro indeboliti fino alla polmonite bilaterale, sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), sepsi, shock settico e morte [3]. Sulla base dell’indagine epidemiologica attualmente in corso, il periodo di incubazione della malattia è generalmente compreso tra 3 e 7 giorni, con un massimo di 14 giorni [2] e la trasmissione da uomo a uomo avviene attraverso goccioline di saliva o con contatto diretto; a differenza della SARS, il Covid-2019 è responsabile dell’infezione anche se il paziente è asintomatico [2].

Ad oggi non esiste un trattamento antivirale specifico raccomandato per Covid-2019 così come non è disponibile alcun vaccino. Il trattamento è sintomatico e l’ossigenoterapia rappresenta il trattamento principale per i pazienti con infezione grave. La ventilazione meccanica può essere necessaria in caso di insufficienza respiratoria refrattaria all’ossigenoterapia, mentre il supporto emodinamico è essenziale per la gestione dello shock settico [4]. Nel 100% dei pazienti con sintomi conclamati è stata osservata una compromissione renale di vario grado [5]. Tuttavia, poiché Covid-2019 è una malattia emersa di recente, è necessario un lavoro più accurato per migliorare le strategie di prevenzione, diagnosi e trattamento. In conformità con il principio di “prevenzione in primo luogo, prevenzione e controllo combinati, orientamento scientifico e trattamento tempestivo”, le attività di prevenzione e controllo devono essere svolte in modo coordinato e standardizzato al fine di garantire il contenimento dell’infezione all’interno della comunità [6].

I pazienti anziani affetti da comorbilità quali ipertensione, diabete, neutrofilia, malattie della coagulazione e patologie che coinvolgono più organi presentano un maggior rischio di esiti gravi, che possono evolvere nella sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) alla morte, nei casi più estremi [7]. Si tratta di una pandemia particolarmente pericolosa per i pazienti dializzati, già più vulnerabili alle infezioni con tassi significativamente più alti di polmonite, batteriemia e setticemia; pertanto, questi pazienti dovrebbero essere classificati “ad alto rischio” di contrarre la malattia [8]. I pazienti sottoposti a trattamento dialitico sostitutivo presentano una fragilità correlata alla sovrapposizione di più patologie; la condivisione dello stesso microclima durante le sedute dialitiche, inoltre, aumenta significativamente il rischio di trasmissione e di diffusione dell’infezione tra pazienti e tra operatori sanitari [9]. La frequenza di esposizione a malattie infettive aumenta il rischio di cattiva alimentazione, in un circolo vizioso di malnutrizione – infezione – malnutrizione. Il paziente dializzato presenta, infine, un tasso metabolico alterato che può aumentare sia la suscettibilità che la gravità dell’infezione e che può influenzare anche la risposta ai farmaci [10]. RNA virale è stato identificato nel tessuto renale e nelle urine e, di recente, il laboratorio di Zhong a Guangzhou ha isolato con successo SARS-CoV-2 dal campione di urina di un paziente infetto, suggerendo il rene come bersaglio di questo nuovo virus [11]. Nei pazienti in trattamento dialitico, i sintomi sono spesso più lievi perché la risposta immunologica è meno efficiente e questo, in parte, espone a minori complicanze polmonari; il virus può tuttavia esasperare una situazione clinica in equilibrio precario [12].

Il personale sanitario dei reparti di dialisi è tenuto ad aggiornarsi sull’andamento dell’epidemia; in particolare, deve essere istruito sugli strumenti utili alla prevenzione primaria, finalizzati all’esclusione dei fattori causali delle malattie, sull’utilizzo adeguato dei sistemi di protezione individuale (DPI) e sulle modalità di ottimizzazione dei parametri che costituiscono il microclima. L’inquinamento microbiologico all’interno degli ambienti chiusi, infatti, può essere considerato fonte di trasmissione di numerose malattie infettive a carattere epidemico. La gestione dei pazienti in dialisi affetti da Covid-19 deve perciò seguire rigorosi protocolli, al fine di ridurre al minimo il rischio per gli altri pazienti e per il personale che se ne prende cura. L’obiettivo di questo lavoro è fornire delle indicazioni per la prevenzione e il contenimento della pandemia Covid-19 nei pazienti dializzati.

 

Raccomandazioni per tutti i pazienti dializzati

I pazienti dializzati devono rimanere al proprio domicilio nei giorni in cui non viene effettuata la dialisi. Essi dovrebbero anche astenersi dai contatti con i parenti e specialmente con i bambini, in quanto rappresentano un vettore, spesso asintomatico, di trasmissione della malattia. Vanno evitate strette di mano, baci e abbracci e va mantenuta la distanza sociale di 1 metro.

I pazienti devono essere istruiti sulla corretta igiene delle mani e respiratoria: quando si tossisce o si starnutisce è necessario indossare una mascherina medica, oppure coprire naso e bocca con un tovagliolo di carta e un gomito piegato; è necessario poi pulire le mani immediatamente dopo aver tossito e/o starnutito. Si raccomanda di utilizzare fazzoletti di carta monouso, smaltiti in un contenitore di plastica. L’igiene delle mani apparentemente pulite può essere effettuata con soluzione idroalcolica o, qualora non sia disponibile, con una soluzione di acqua e ipoclorito (la soluzione allo 0,5% corrisponde ad un litro di candeggina e nove litri di acqua). Se le mani sono visibilmente sporche, lavarle con acqua e sapone, e asciugarle con salvietta monouso [13]. Il paziente deve procedere con il lavaggio delle mani e l’utilizzo di maschere adeguate durante tutto il trattamento.

Il personale sanitario si occupa di eseguire il controllo della temperatura a tutti i pazienti afferenti al centro dialisi, insieme alla registrazione di eventuali sintomi riconducibili all’infezione e la segnalazione di contatti del paziente con persone positive a Covid-19. Per raggiungere il centro dialisi i pazienti devono evitare di prendere i mezzi pubblici, prediligendo un’ambulanza o un veicolo privato dove sia possibile aprire un finestrino per garantire la ventilazione lungo il percorso che porta all’ospedale.

 

Raccomandazioni per i pazienti dializzati con sospetta infezione da Covid-19

Qualora i pazienti avvertissero febbre o sintomi respiratori al proprio domicilio devono avvisare preventivamente il centro dialisi così che si possa predisporre l’ambiente adeguato (isolamento con monitoraggio dei sintomi), adottare le precauzioni appropriate ed attivare il percorso diagnostico di triage.

Ove possibile, i pazienti vanno disposti in stanze singole con la porta chiusa. Qualora non fossero disponibili stanze separate o aree contumaciali preesistenti, i pazienti dovranno dializzare su coorti di un turno designato. Qualora i pazienti con Covid-19 dovessero effettuare la dialisi contemporaneamente ai pazienti asintomatici, devono essere situati agli angoli della stanza, indossare una mascherina adeguata ed essere ad almeno un metro di distanza dagli altri pazienti. Qualora la sala dialisi fosse di dimensioni insufficienti a garantire la distanza di un metro, è altamente raccomandata la segregazione temporale, ossia dializzare i pazienti positivi nell’ultimo turno della giornata o predisponendo un turno ad hoc.

 

Raccomandazioni per i pazienti dializzati con confermata infezione da Covid-19

I centri dialisi dovranno prepararsi a dializzare i pazienti infetti da COVID-19 predisponendo un “locale filtro”, deputato al transito o stazionamento dei pazienti prima che accedano alle sale di trattamento. I pazienti risultati positivi dovrebbero indossare guanti e maschere di filtraggio superiore al 95% con valvola a strati FFP3, come da procedura standard nella cura di pazienti altamente contagiosi. Tuttavia, l’utilizzo di mascherina chirurgica è accettabile ove le maschere FFP3 non fossero disponibili. Qualora fossero necessarie procedure che possono provocare aerosol respiratori, è indispensabile l’utilizzo di maschere di protezione FFP3.

I pazienti Covid-19 in condizioni cliniche stabili che non richiedano un’assistenza ospedaliera devono essere in grado di aderire alle raccomandazioni sull’isolamento e sul potenziale rischio di una trasmissione secondaria ai membri della famiglia. Pertanto, al paziente positivo asintomatico o con sintomi lievi, è richiesto di soggiornare in una stanza a lui dedicata, evitando ogni tipo di condivisione con gli altri membri della famiglia. Sia il paziente che i famigliari dovranno utilizzare tutti i dispositivi di protezione individuali: guanti e maschera facciale [14]. Si raccomanda poi di lavare separatamente le lenzuola, gli asciugamani da bagno e gli indumenti del paziente, con normale sapone da bucato e a 40-60° o 90° C. Si sconsiglia vivamente di scuotere gli indumenti contaminati, così come ogni tipo di contatto diretto. I rifiuti generati dal paziente infetto devono essere considerati come raccolta indifferenziata ed inseriti in un doppio sacco (o in idonei imballaggi a perdere) in quanto considerati equivalenti ai rifiuti ospedalieri. È estremamente importante, infine, rispettare il riposo a letto, garantire energia sufficiente, prestare attenzione al bilancio idrico-elettrolitico e rispettare l’aderenza terapeutica.

In ospedale, invece, si raccomanda di monitorare regolarmente durante la giornata i parametri vitali, specialmente saturazione di ossigeno e temperatura. Durante la seduta dialitica e mentre si attende il turno di dialisi va assicurata la distanza di almeno 1 metro dalle altre persone. Al fine di assicurare che la mascherina venga indossata durante tutta la seduta dialitica, non si dovrà distribuire alcun pasto o merenda. I rifiuti devono essere smaltiti quotidianamente, facendo attenzione a chiudere adeguatamente i sacchi, utilizzare guanti monouso ed evitando di schiacciarli e comprimerli con le mani (D.P.R 254/2003).

 

Personale o pazienti con contatti stretti e/o esposizione sospetta a Covid-19

Le persone che hanno avuto contatti stretti e/o esposizione sospetta dovrebbero mantenere un periodo di osservazione sanitaria di 14 giorni, che inizia dall’ultimo giorno del contatto con pazienti infetti o dal giorno dell’esposizione ambientale sospetta. Se si manifestassero i sintomi dell’infezione, quali febbre, o sintomi respiratori come tosse e respiro corto, o diarrea, si dovrà contattare immediatamente il medico [7]. La sorveglianza a distanza, tramite chiamate telefoniche, è indirizzata a coloro che sono in osservazione sanitaria e dovrebbe essere effettuata o dalla struttura di dialisi o da una specifica unità di crisi. L’indagine epidemiologica a distanza si deve focalizzare sulla raccolta dei sintomi auto-rilevati durante lo svolgimento di attività quotidiane [7]. La ripresa dell’attività lavorativa, dopo un periodo di osservazione sanitaria o un evento positivo, deve essere preceduta dalla conferma diagnostica di negatività.

 

Conclusioni

Questa epidemia, causata da un nuovo coronavirus, rappresenta una delle principali minacce globali all’umanità. Al momento non sono ancora disponibili studi sull’impatto del virus nella malattia renale cronica.

Il paziente dializzato presenta una risposta immunitaria indebolita, comorbilità e malnutrizione che causano una condizione di estrema vulnerabilità biologica e clinica e lo espongono ad un elevato rischio di infezioni, ricovero in ospedale e decesso. Il trattamento dell’infezione nei pazienti dializzati presuppone misure di protezione finalizzate all’isolamento, alla disinfezione e alla protezione personale, ma anche di controllo dell’aderenza terapeutica e dell’assunzione di un adeguato apporto nutrizionale. Infine, se vogliamo eliminare la minaccia di questa nuova epidemia e salvaguardare i pazienti più fragili, dobbiamo imparare di più sulla patogenesi del virus e soprattutto sull’effetto che può avere sui pazienti affetti da insufficienza renale cronica terminale.

Non esiste ad oggi nessuna indicazione in merito ad una prevenzione primaria specifica; esistono, tuttavia, regole generiche che posso essere utilizzate per prevenire la contaminazione e per migliorare la nostra risposta immunitaria contro le aggressioni batteriche e/o virali. Come diceva Claude Bernard (Francia, 1813-1878), fisiologo e collega di Pasteur: “il germe (nel nostro caso il virus) è nulla, il terreno è tutto”. Il terreno siamo noi, l’ospite in cui l’agente patogeno può trovare l’ambiente adatto a proliferare. Uno stile di vita sano, che comprenda attività fisica giornaliera, riposo adeguato e una dieta sana, può migliorare il nostro sistema psico-fisico-immunologico.

 

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  13. Gruppo di lavoro ISS Prevenzione e controllo delle Infezioni. Rapporto ISS COVID-19, n.4/2020: Indicazioni ad interim per la prevenzione e il controllo dell’infezione da SARS-COV-2 in strutture residenziali sociosanitarie. Istituto Superiore di Sanità: Roma; 2020. 
  14. Center for Disease Control and Prevention. Interim Guidance for Implementing Home Care of People Not Requiring Hospitalization for Coronavirus Disease 2019 (COVID-19), 2020. 

I progressi della dialisi nella nefrologia italiana dall’origine ai nostri giorni

Abstract

In Italia, negli ultimi cinquanta anni, la dialisi è stata il motore trainante della nefrologia e ha portato, attraverso la sua continua evoluzione, allo sviluppo anche della nefrologia clinica e dell’attività di trapianto. I nefrologi italiani sono stati gli ispiratori di molti dei progressi della dialisi nel mondo ed hanno costruito le basi di innumerevoli nuove tecniche dialitiche, realizzando una altissima qualità nell’offerta della terapia dialitica. Il giudizio unanime dei nostri colleghi esteri ci riconosce il merito di aver guardato per primi all’eterogeneità dei pazienti in dialisi, alla complessità della terapia dialitica ed ad una visione a largo spettro dell’adeguatezza dialitica. Questo ci ha permesso di porre l’attenzione ad un approccio olistico volto alla fusione degli aspetti clinici con l’innovazione tecnologica, al fine di realizzare una “dialisi di precisione” tutta basata sulla centralità del paziente.

Parole chiave: emodialisi, dialisi peritoneale, nefrologia italiana, sviluppo delle tecniche di filtrazione, il progresso in dialisi

In Italia, negli ultimi cinquanta anni, la dialisi è stata il motore trainante della nefrologia e ha portato, attraverso la sua continua evoluzione, allo sviluppo anche della nefrologia clinica e dell’attività di trapianto. I nefrologi italiani sono stati gli ispiratori di molti dei progressi della dialisi nel mondo ed hanno costruito le basi di innumerevoli nuove tecniche dialitiche, realizzando una altissima qualità nell’offerta della terapia dialitica. Merito questo che ci viene riconosciuto universalmente. 

Negli anni sessanta, per preparare la soluzione elettrolitica necessaria a depurare il sangue, si ricorreva a vasche da 180-200 litri che venivano continuamente riempite con acqua deionizzata e sali. Si iniziava alle sette del mattino e si finiva con lo stesso paziente alle sette di sera. Durante quelle dodici ore di dialisi il malato presentava spesso problemi clinici sconosciuti, drammatici, a cui non si riusciva a dare una spiegazione fisiopatologica. Ci si rendeva conto che si stava verificando qualcosa di grave, ma non si sapeva quale fosse la causa della tragedia incombente e quindi la terapia era molto “approssimativa”. 

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La gestione del peso nel paziente in emodialisi: le metodiche strumentali nella pratica clinica

Abstract

Nel paziente in emodialisi, sia la disidratazione che l’iperidratazione favoriscono complicanze intra ed extra dialitiche e cardiovascolari sia nel breve che nel lungo termine, ma la stima della volemia e del peso secco dei pazienti rappresenta ancora oggi una sfida per il nefrologo.

Nonostante la comprensibile necessità di una precisa ed obiettiva definizione del peso secco per il paziente in dialisi, questo viene determinato essenzialmente sulla base di criteri clinici. Per ottenere una maggiore sensibilità, si possono aggiungere altri strumenti come il dosaggio dei peptidi natriuretici, la bioimpedenziometria (Bioelectrical Impedance Analysis, BIA) e, più recentemente, l’ecografia polmonare (Lung Ultra-Sound, LUS). La BIA permette una stima della composizione corporea del soggetto, in particolare dei compartimenti idrici corporei. La presenza di una condizione di iperidratazione determinata con la BIA è predittiva per una aumentata mortalità in numerosi studi osservazionali.

Negli ultimi anni l’ecografia polmonare ha assunto un ruolo sempre più importante nella clinica, non soltanto all’interno delle unità di cardiologia e di terapia intensiva, ma anche in ambito nefrologico e in particolar modo in dialisi.

Lo scopo di questo articolo è quello di analizzare i vantaggi ed i limiti delle metodiche ad oggi disponibili e  potenzialmente utili nella gestione del peso dei pazienti in trattamento emodialitico.

Parole chiave: emodialisi, ecografia polmonare, bio-impendenziometria, iperidratazione, peso secco

Introduzione

Nel paziente in emodialisi, sia la disidratazione che l’iperidratazione favoriscono complicanze intra ed extra dialitiche e cardiovascolari sia nel breve che nel lungo termine, ma la stima della volemia e del peso secco dei pazienti rappresenta ancora oggi una sfida per il nefrologo [1]. L’iperidratazione anche subclinica si associa ad ipertensione arteriosa, incremento della rigidità vascolare, ipertrofia ventricolare sinistra e aumentato rischio di eventi e di mortalità cardiovascolare [2]. 
 

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Un nuovo prototipo di registro degli accessi vascolari per emodialisi

Abstract

Allo scopo di migliorare il management degli Accessi Vascolari (AV) abbiamo sviluppato un nuovo sistema di registrazione degli AV dei pazienti della nostra ASL. Abbiamo registrato tutti gli AV dei pazienti prevalenti al 31/12/2017. Degli AV erano registrati tipologia, sede, vasi coinvolti, numero di accessi avuti dal paziente e tipo di anastomosi. Dei CVC, oltre la sede e le caratteristiche, era registrata la motivazione del posizionamento.

Risultati: I pazienti erano 726 (63% maschi), con età media 66+15 anni. Le fistole artero-venose con vasi nativi (FAV) erano 609 (84%), di cui il 65% localizzate al 1/3 distale dell’avambraccio (DF), il 10% al 1/3 medio (MF), il 5% al 1/3 prossimale dell’avambraccio (PF) e il 4% al braccio (AM). Le fistole protesiche (AVG) erano 12 (1.7%). I CVC erano invece 105 (14.5%). Nelle donne vi era un maggior numero di CVC (p<0.005) e di FAV al braccio (p<0.05). Gli over 75 avevano meno FAV al braccio (p<0.05) e Graft (P<0.05). I diabetici avevano un maggior numero di CVC (p<0.05) ma erano più vecchi rispetto al resto della popolazione (p<0.003). I pazienti rientrati in dialisi per perdita del trapianto renale avevano più FAV al braccio (p<0.001) e Graft (p<0.001) e meno FAV al DF (p<0.001). Il confronto dei dati tra il 2013 e il 2017 dimostra una stazionarietà della prevalenza degli AV.

Conclusioni: Il nuovo sistema di registrazione degli accessi vascolari ci ha permesso di evidenziare numerose informazioni rilevanti sia dal punto di vista clinico che epidemiologico.

Parole chiave: accessi vascolari, registro, sede delle FAV, emodialisi

Introduzione

Le linee guida internazionali sono concordi nell’indicare nella fistola con vasi nativi (FAV) l’accesso vascolare da perseguire nella maggior parte dei pazienti [1]. La FAV, infatti, è preferita rispetto a Graft e CVC perché garantisce una sopravvivenza migliore, sia del paziente che dell’accesso vascolare, e solitamente causa minori complicanze [14]. Le principali linee guida concordano anche nell’indicare la FAV distale radio-cefalica come accesso vascolare da preferire e suggeriscono di dare, comunque, preferenza a tutte le opzioni possibili di confezionamento di una fistola con vasi nativi [1,5,6,7]. Recenti osservazioni, tuttavia, rilevano che in tutto il mondo, escluso il Giappone, vi è un aumento delle FAV al braccio rispetto a quelle all’avambraccio; ciò viene considerato un indice negativo, in quanto le FAV con l’arteria brachiale sono spesso causa di steal syndrome, sindromi da iperafflusso, degenerazione aneurismatica delle vene efferenti e stenosi venose centrali [1,4,812]. Emerge pertanto l’esigenza di conoscere non solo la natura di un AV, se si tratta di una FAV, un Graft o un CVC, ma anche la sua sede. A questo proposito, registrare se una FAV è localizzata all’avambraccio piuttosto che al braccio è importante ma, a nostro avviso, non sufficiente, perché riteniamo utile conoscere anche se la FAV è distale, middle-arm o se è localizzata al 1/3 prossimale dell’avambraccio. Inoltre, un altro interessante dato clinico è il numero di interventi subiti da ogni paziente. Come suggerito dal Gruppo di Studio degli Accessi Vascolari (AV) della Società Italiana di Nefrologia [13], abbiamo messo a punto un sistema di raccolta e archiviazione dati, gran parte dei quali obbligatoriamente registrati alla fine di un intervento chirurgico di allestimento di un AV, che possa poi permettere importanti analisi cliniche ed epidemiologiche e consentire un miglior management degli AV. In questo lavoro ripotiamo i dati ricavati con questo nuovo sistema di registrazione.

  

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La gestione della emodialisi nel paziente anziano

Abstract

La maggior parte dei pazienti che inizia il trattamento dialitico nei paesi sviluppati è in età geriatrica. La dialisi è sì un trattamento salva vita, ma in questa categoria di pazienti è gravata da una alta morbilità e mortalità, con un alto rischio di un declino dello stato funzionale. L’emodialisi è infatti spesso gravata da episodi ipotensivi che determinano gravi danni sia cardiaci che neurologici. Questa prognosi è in gran parte determinata dalla condizione di fragilità dei soggetti geriatrici, caratterizzata da inabilità fisica e psichica e basso stato funzionale. Il riconoscimento di questa condizione e la pianificazione di un piano dialitico personalizzato negli anziani può migliorare la prognosi nonché la qualità di vita.

Parole chiave: emodialisi, anziano, nefrologia geriatrica, cure palliative, fragilità.

Introduzione

Negli ultimi decenni l’incidenza della malattia renale cronica è in progressivo aumento per l’effetto combinato dell’invecchiamento progressivo della popolazione generale e per la più alta prevalenza delle principali patologie che determinano un danno renale, ovvero diabete mellito, ipertensione arteriosa, patologie cardiovascolari, senza dimenticare il sovrappeso e l’obesità (1).  

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Sindrome da ipoperfusione periferica e sindrome monomielica: dalla diagnosi al trattamento. Descrizione di un caso clinico con revisione della letteratura

Abstract

La Sindrome Ischemica è una complicanza severa, ma poco frequente, che può presentarsi dopo l’allestimento di un accesso vascolare (AV) e causare in casi gravi danni ischemici irreversibili. La fisiopatologia è multifattoriale e rappresenta la base per una diagnosi precoce al fine di una gestione corretta del paziente.

Negli anni, vari termini sono stati utilizzati per indicare la sindrome da furto e/o ischemica in soggetti portatori di AV, tanto da creare una certa confusione. Attualmente si utilizzano due nuove denominazioni: Haemodialysis Access-Induced Distal Ischaemia (HAIDI) e Distal Hypoperfusion Ischaemia Syndrome (DHIS).

Clinicamente distinguiamo la Sindrome da Ipoperfusione Periferica (SIP) e la Sindrome Monomielica (SM). Le due entità sono caratterizzate da quadri clinici ben distinti, che il nefrologo deve riconoscere al fine di poter attuare un trattamento adeguato.

Riportiamo il caso di un paziente uremico, diabetico, vasculopatico, portatore di fistola arterovenosa (FAV) brachio-cefalica che ha sviluppato una sindrome da ipoperfusione periferica tanto da rendere necessaria la chiusura dell’AV. La descrizione del caso è seguita da una revisione della letteratura sull’argomento.

Parole chiave: mano ischemica, accesso vascolare, ecocolordoppler, emodialisi

Case Report

Descriviamo il caso di un uomo di 58 anni con una storia di diabete mellito di lunga durata, ipertensione arteriosa e vasculopatia periferica. Il primo accesso vascolare (AV) allestito era una FAV brachio-cefalica al braccio sinistro. Subito dopo l’intervento, però, si assisteva alla comparsa di lieve dolore, parestesie e debolezza della mano, sintomatologia che è andata via via scomparendo nei giorni successivi. 

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