C’è davvero qualcosa che non funziona nei percorsi di formalizzazione della volontà anticipata? Insistere sulle DAT o investire meglio e di più sulla pianificazione condivisa della cura (ACP)?

Abstract

L’autore analizza i possibili percorsi di formalizzazione della volontà anticipata riguardo alla cura previsti dalla legge n. 219/2017 individuandoli nelle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) e nella pianificazione condivisa della cura (advance care planning) esaminandone i pregi ed i difetti. Propone inoltre di investire meglio e di più sulla pianificazione condivisa della cura segnalandone i vantaggi e le opportunità che derivano dal suo graduale formarsi all’interno della relazione di cura, sia pur sottolineando l’esigenza di procedere tempestivamente alla nomina del fiduciario prevista in forma opzionale dalla legge. Affronta poi il ruolo esercitato da questa figura di rappresentanza che è quello di coadiuvare il team di cura in tutta la traiettoria di malattia e non solo nel momento in cui si dovranno onorare i desideri e le preferenze espresse dalla persona quando era nelle condizioni di poterlo fare, criticando la scelta fatta dal legislatore che l’ha indicata nel pieno possesso della capacità di intendere e di volere.

Parole chiave: volontà anticipata della persona, disposizioni anticipate di trattamento, pianificazione condivisa della cura, fiduciario, capacità di intendere e di volere, decision making.

Inquadramento generale e sistematica giuridica della formalizzazione anticipata della cura

Il tema in esame, pur essendo abbastanza agevole sul piano della dogmatica giuridica, è un argomento di grande complessità sul piano non solo teorico ma soprattutto pratico. Lo è per tutta una serie di ragioni, perché quest’ambito tematico rinnova ed inasprisce la discussione sulle ricadute dell’autodeterminazione individuale, sui suoi presupposti cognitivi (razionali e affettivi), sui doveri professionali del medico e, più in generale, sulla rifondazione dei fondamentali della cura dopo il tramonto del paternalismo medico (almeno di quello hard) [1], essendo a tutti evidente che il successo del consenso informato non ha risolto né le asimmetrie né le solitudini decisionali che emergono ogni qual volta si debba assumere una decisione clinica difficile o complessa e tutte le volte in cui i diversi valori in gioco vengono a confliggere.

L’inquadramento giuridico è, come anticipavo, relativamente semplice: sono gli artt. 4 e 5 della legge n. 219/2017 (“Norme sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento”) che disciplinano le direttive anticipate di trattamento (DAT) e la pianificazione condivisa della cura (ACP) indicando, per quest’ultima, la possibilità di metterla in pratica nell’ipotesi in cui il paziente sia affetto da una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”, in modo da vincolare l’agire del medico e dell’équipe sanitaria “tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”. In ogni caso, prima di avviare il relativo processo di formalizzazione della ACP, il paziente deve comunque essere preliminarmente informato “sul possibile evolversi della patologia in atto” e su quanto “può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative” per così esprimere “il proprio consenso rispetto a quanto proposto dal medico […] e i propri intendimenti per il futuro”; ciò lo si può fare o per iscritto (documentandola in Cartella clinica) o, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso la videoregistrazione o l’uso di dispositivi che permettano alla persona con disabilità di comunicare la sua volontà. È stata, inoltre, prevista la possibilità di aggiornare l’ACP in relazione “al progressivo evolversi della malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico” con l’opportunità di poter in essa indicare anche il fiduciario, ovverosia la persona scelta direttamente dall’interessato senza particolari formalità burocratiche, purché maggiorenne e capace di intendere e di volere, a cui si riconosce il compito di mediare, interpretare, attualizzare e concretizzare i desideri, le preferenze e la volontà del medesimo. È così che la pianificazione condivisa della cura, alla pari delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), rappresenta l’estensione logica del principio del consenso informato [2] che trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. come ha evidenziato il giudice delle leggi (sent. n. 438/2008) condizionando l’agire terapeutico del medico che non può attuarlo all’insaputa del paziente, al quale è comunque riconosciuta la facoltà di rifiutarlo e/o di modificarlo in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.

Tuttavia, la vincolatività sia delle DAT che della ACP non è assoluta ma relativa, perché la norma prevede la possibilità di disattenderle “in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o  non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” (art. 4, comma 5). Ipotesi, quest’ultima, analogamente a quella della manifesta incongruità che si inserisce nell’ampio problema del come si formalizzano le DAT, davvero improbabile nel caso della ACP per il dinamismo che contraddistingue il processo, che non è mai un atto singolo ma la costruzione in progress di una relazione umana fatta di significati, di carattere prioritariamente morale [3].

 

Una questione aperta: c’è qualcosa che non va nei percorsi di cura previsti dalla legge n. 219/2017?

Nessuno di noi ha contezza su quanto la pianificazione condivisa della cura (ACP) sia entrata a far parte dell’armamentario medico e se essa sia un’opzione che soddisfi o meno i pazienti, il loro entourage familiare, il team di cura e, non da ultimo, anche le organizzazioni sanitarie. Ciò che è certo è che mancano indicatori conoscitivi anche perché l’ultima delle relazioni annuali che il Ministro della salute è tenuto a fornire al Parlamento sull’attuazione della legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento è quella risalente al 30 aprile 2019, dove si ammette che le DAT depositate negli uffici di stato civile comunali sono 62.030, senza dar conto del numero di quelle depositate negli studi notarili. Altre (più recenti) fonti informative, tutte però da verificare, danno notizia che le DAT depositate nella apposita banca dati del Ministero della salute sarebbero, al 15 dicembre 2020, 156.799, ammettendo che la pandemia avrebbe condizionato il trend fortemente in negativo delle richieste visto che da febbraio a dicembre 2020 ne sono state depositate solo 11.096 contro le oltre 145 mila redatte nei due anni precedenti [4].

Se questi sono i numeri reali e non si hanno ragioni per pensare il contrario la débâcle italiana su un tema che ha, a lungo, contraddistinto anche il nostro dibattito bioetico sarebbe evidentissima. Difficile comprendere appieno le sue cause che l’Associazione Luca Coscioni attribuisce, tuttavia, alla mancanza di una campagna di sensibilizzazione nazionale, all’impossibilità di usufruire della videoregistrazione negli Uffici di stato civile comunali, oltre che a quella di accesso al domicilio delle persone per il ritiro, da parte dei funzionari a ciò incaricati, delle DAT [5]. Può essere anche che, più realisticamente, le vere ragioni del loro fallimento siano più ampie, come ha denunciato un recentissimo lavoro scientifico pubblicato su una prestigiosa rivista con la firma, come primo autore, altrettanto prestigiosa, del presidente del Dipartimento di geriatria e medicina palliativa della Icahn School of Medicine del Mount Sinai di New York [6]. Interrogandosi sul che cosa c’è che non va nel biotestamento, gli autori hanno espresso una risposta che non lascia dubbi, ammettendo che non esistono evidenze empiriche (tra le 1.600 pubblicate e che sarebbero costate oltre 300 milioni di dollari) capaci di dimostrare che questa opzione della cura migliori effettivamente il setting assistenziale, non essendo un indicatore di qualità né affidabile né valido. Questo perché le scelte terapeutiche del fine vita non sono mai semplici, coerenti, logiche e lineari, ma complesse, incerte, fluide ed emotivamente impegnate; e perché le preferenze dei pazienti non sono quasi mai statiche essendo sempre influenzate dall’età, dallo stato fisico, dalla situazione cognitiva, dalle risorse finanziarie disponibili e dall’onere che la persona percepisce gravare sulla sua rete familiare. È il divario tra gli scenari ipotetici considerati nei piani di cura anticipati e le circostanze concrete del fine vita ciò che è reale e che, a giudizio degli autori, deve portare ad un forte ripensamento di tutta la questione e ad investire su altre iniziative, senza dimenticare la dura lezione che ci è stata impartita dalla pandemia quando “this occurred in overwhelmed hospitals during the COVID-19 pandemic when treatment decisions were made according to written documents rather than discussions with patients or their surrogate”. Ciò è, purtroppo, avvenuto anche in Europa e, in alcuni Stati come l’Olanda, in piena prima ondata pandemica quando lo scenario di guerra era stato determinato dalla sproporzione tra i bisogni di cura e la limitatezza delle risorse messe in campo, gli anziani hanno dal loro medico curante ricevuto una telefonata in cui si chiedeva di decidere il da farsi nella malaugurata ipotesi di contagio e di scegliere se essere ricoverati in terapia intensiva per iniziare la lunga ventilazione invasiva o se restare a casa permettendo alla malattia di fare il suo decorso naturale [7]. Questo è un altro cattivo esempio del come la pratica clinica possa essere deviata dalle sue coordinate originarie ed essere strumentalizzata per scopi e finalità discutibili, pur essendo da condividere l’idea che la sostenibilità pubblica pretende di misurarci con l’appropriatezza clinica, da non confondere con le logiche economiche e di profitto.

Naturalmente, la decisa presa di posizione di Morrison et al. non è stata accolta in termini favorevoli in tutti gli ambienti scientifici che l’hanno aspramente criticata evidenziando, tra l’altro, che gli autori avrebbero interpretato in modo arbitrario le evidenze scientifiche disponibili travisandone le conclusioni, dalle quali emergerebbe che la pianificazione anticipata della cura offre vantaggi significativi sia per i pazienti che per i loro familiari [8]. Polemiche a parte, il merito che deve essere riconosciuto a Morrison et al. è senz’altro quello di aver coraggiosamente segnalato la spirale involutiva in cui sembra essere caduta la pianificazione anticipata della cura il cui successo, come segnalano gli stessi autori, dipende da numerosi fattori. Tra i più rilevanti: (1) la possibilità di allineare in progress le preferenze ed i desideri del paziente con le sue condizioni di salute e con l’evolversi della situazione personale, familiare e sociale; (2) l’individuazione precoce di una persona in grado di prendere le decisioni che il paziente stesso assumerebbe se ne fosse ancora capace, basandole sulle preferenze dichiarate, così da coadiuvare il team di cura quando l’interessato non sarà più in grado di decidere.

 

Privilegiare le DAT o investire meglio e di più sulla pianificazione condivisa della cura (ACP)?

Se la legge n. 219/2017 ha previsto una duplice modalità di formalizzazione anticipata delle decisioni di cura (nel caso delle persone sane con le DAT e per quelle affette da una o più patologie a traiettoria instabile con la pianificazione condivisa della cura), ciò che è ragionevole suggerire è che su quest’ultima opzione occorre concentrare i nostri sforzi essendo la sola in grado di avviare e di gradualmente costruire un processo decisionale senza estraniarlo a priori dalla relazione di cura. Questo perché, mentre nella DAT è la persona che, spontaneamente e senza alcun supporto medico, decide di formalizzare la sua volontà anticipata indicando quali sono i trattamenti sanitari a cui desidera/rifiuta essere sottoposta quando non sarà più in grado di esprimere la sua voce, nella pianificazione condivisa della cura è la persona informata che, assieme al medico, valuta e seleziona le scelte di cura a cui desidera essere sottoposta lungo la prevedibile traiettoria di malattia.

Cosicché mentre nelle DAT le scelte terapeutiche sono per così dire astrattamente opzionate dalla persona sana in vista di un evento improbabile o comunque non prevedibile, nella advance care planning le decisioni sono contestualizzate (e comunque condivise) rispetto ad un evento ragionevolmente plausibile; nel primo caso la decisione è sostanzialmente razionale, nel secondo la si assume, invece, valorizzando in tutto e per tutto l’umano compasso cognitivo formato, come confermano le molte evidenze neurobiologiche, non solo di ragione ma anche di sentimenti, di emozioni e di affettività [9]. Nelle DAT si ipostatizza l’attimo in cui la persona apparentemente sana decide di esprimere per iscritto la sua volontà anticipata e di depositarla nei luoghi previsti; nella ACP si avvia, si costruisce e si dinamizza una relazione sostanzialmente umana, a partire dal momento in cui il processo viene attivato da uno dei protagonisti della cura. Ricordando che l’inizio non può mai essere né troppo precoce ma nemmeno troppo tardivo per evitare che la fretta dell’ultima ora tradisca, alla fine di tutto, quella fiducia reciproca che lo deve alimentare e sostenere. Ciò con tutte le difficoltà che ne derivano sul piano pratico proprio perché, trattandosi di un processo con una costruzione di significato e di senso, ad esso occorrerà accostarsi ammettendo che la solidarietà è la virtù dei tempi difficili [10]: soprattutto del nostro tempo contraddistinto dall’inabissamento dei valori comuni, dalla globalizzazione, dallo spietato individualismo del ‘qui, ora e subito’ e dalla morte del prossimo [11]. Un tempo oltremodo difficile, un vero e proprio tempo di crisi che ci chiama responsabilmente a produrre solidarietà invitandoci a muoverci lungo il sentiero che essa condivide con la libertà e con l’uguaglianza, principi di pari rango costituzionale che sono le condizioni per la libertà dell’esistenza.

 

I limiti dei poteri di rappresentanza del fiduciario e la posizione di garanzia affidata al medico

Ricordavo, poc’anzi, l’esigenza della nomina, all’inizio di questi processi, del fiduciario della persona interessata, come indicato dalla legge n. 219/2017, anche se la legge l’ha, purtroppo, prevista in termini opzionali quando si sarebbe dovuto pretenderla sempre e comunque, anche per contenere le temibilissime insidie che emergono ogni qual volta è in discussione la capacità di agire (rectius, di intendere e di volere) della persona. Senza dimenticare che nei luoghi della cura le persone pienamente padrone del sé e del loro umano destino non sono la regola ma l’eccezione, riconoscendo le insidie e la fallacia del modello binario capacità/incapacità ed i pericoli che originano dall’assolutizzazione tirannica dell’autodeterminazione individuale che pretende di rappresentarla sempre e comunque come un tutto a cospetto del quale ogni altro valore diventa un niente destinato fatalmente ad essere messo da parte. Anche se quella legge ha confermato che la libertà di cura dell’incapace è un diritto condizionato [12] e che il consenso, per essere legittimo, deve essere formalizzato dalla persona in possesso della capacità di agire (art. 1, co 5) o, con il cifrario dell’archeologia giuridica, dalla persona capace di intendere e volere (art. 4, co 1). Capacità di agire, maggiore età, capacità di discernimento, capacità di comprensione, capacità di decisione, grado di maturità, capacità di intendere e di volere e incapacità sono le locuzioni che si alternano in maniera confusa e, spesso, incoerente (per non dire arbitraria) in quella legge con una gergalità arcaica, discutibile, ambigua e purtroppo confondente. Anche se l’intenzione del legislatore sembra essere stata del tutto chiara: ibernare la questione del consenso/rifiuto alle cure dentro il perimetro del negozio giuridico privatistico, senza dare diritto di cittadinanza a quei modelli comparativi che lo indicano come una scelta dal carattere sostanzialmente morale avendo essa a che fare con i nostri compassi biografici, con i nostri valori di riferimento, con il nostro sentire più intimo e con la traiettoria che desideriamo dare alla nostra vita, anche nel ricordo che vogliamo affidare alla memoria dei nostri cari.

È in questa prospettiva che occorre cogliere il ruolo del fiduciario, che (probabilmente) è la vera novità introdotta dalla legge n. 219/2017, pensato come l’interlocutore privilegiato chiamato a coadiuvare il team di cura in funzione di garante del rispetto della volontà anticipata formalizzata dalla persona. Essendo da respingere l’idea che esso funga da delegato-controllore della correttezza dell’operato medico [13] perché il suo ruolo è quello di rendere flessibile il processo di cura adeguandolo se e quando necessario non ai suoi personali desideri ma a quelli della persona interessata quando la stessa non sarà più in grado di esprimere la sua voce. Fermo restando che nell’ipotesi in cui originasse uno scontro di opinioni tra il fiduciario ed il team di cura la questione dovrà essere rimessa al Giudice tutelare nell’interesse dell’incapace [14]. Scelta, questa, che non convince, non solo perché i tempi della giurisdizione sono spesso del tutto asincroni rispetto a quelli della cura, ma soprattutto perché essa rischia non già di contenere ma di prolungare ed in qualche modo estremizzare il contrasto, il dissidio ed il relativo contenzioso.

 

Capacità di intendere e di volere e decision making

Un’ultima breve riflessione sulla decision making ricordando che la legge n. 219/2017 ha esplicitato il suo substrato giuridico indicandolo nella capacità di intendere e di volere e così confermando la linearità del binarismo capacità/incapacità nonostante la sua perniciosa artificiosità [15, 16] e la sua profonda debolezza costitutiva [17], i cui rischi sono di tutta evidenza essendo oramai giunto il tempo di abbandonare la presunzione iscritta nella vulgata del consenso informato riconoscendo che la persona pienamente padrona di sé non è quasi mai la regola ma l’eccezione [18]; perché così è in tutti gli ambienti reali della cura dove la capacità e l’incapacità non sono mai né un vuoto né un pieno ma un perimetro di difficile delimitazione che chiede di essere sempre riempito di contenuti, soprattutto umani. Pur senza banalizzare le questioni, occorre così abbandonare i tanti pregiudizi perché l’umana capacità di prendere una decisione (la decision making) non può essere confusa con la capacità di intendere e di volere, essendoci persone giuridicamente incapaci che conservano, anche se spesso parzialmente, la capacità di esprimere i loro desideri e di autodeterminarsi nel campo della cura.

Le banalizzazioni orientate a ridurre la complessità sono sempre un inganno e lo sono tanto più quando esse sono dirette a limitare i diritti e le libertà fondamentali, soprattutto delle persone più fragili e vulnerabili, il cui livello di tutela pubblica deve essere comunque garantito e rinforzato senza troppo insistere sulle opzioni offerte dal ruolo di rappresentanza giuridica. Coerentemente a quanto previsto dall’art. 12 (‘Eguale riconoscimento davanti alla legge)’ della Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18, approvata il 3 marzo 2009, che ne ha recepito anche il Protocollo opzionale avendo essa precisato: (a) che la legal capacity è un diritto umano universale; (b) che questa libertà non può essere discriminata a causa di una qualsiasi disabilità; (c) che gli Stati parte sono tenuti ad adottare le misure necessarie a favorire l’accesso delle persone con disabilità al sostegno da esse richiesto per l’esercizio della loro capacità. Per poi indicare le caratteristiche formali e informali delle misure di tutela che devono essere messe in campo rispettando le esigenze della persona, i suoi diritti, volontà e preferenze con la precisazione che esse devono essere applicate per il tempo strettamente necessario evitando gli abusi e le influenze indebite e così riconoscere il diritto delle persone con disabilità di avere il controllo sui propri affari finanziari, di redigere il loro testamento e ricevere per testamento, di avere accesso alle forme di credito e di conservare il diritto di proprietà. Anche se la nostra legislazione interna sembra non essersi accorta di ciò proseguendo, come ha fatto la legge n. 219/2017, sulla vecchia strada della sostituzione vicaria non ammessa dalla Convenzione e dall’organismo incaricato di vigilare sulla sua applicazione (il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità) che ha proposto un’interpretazione particolarmente radicale dell’art. 12 della Convenzione stessa.

Anche se ciò ha suscitato dubbi e perplessità essendo stato evidenziato che i meccanismi di tutela sono giustificati dall’esigenza di garantire la protezione delle persone con disabilità nelle scelte che possono comportare l’autolesionismo o lo sfruttamento da parte di altri, che l’eliminazione della tutela giuridica potrebbe finire per ferire le stesse persone che pretende di aiutare [19] rischiando di annullare le vittorie conquistate a fatica [20] ed evidenziando che il non dirigere la persona dall’esterno per il tramite di una figura di rappresentanza giuridica avrebbe molte controindicazioni soprattutto nelle situazioni cliniche particolarmente gravi quali, ad es., la sindrome locked-in, lo stato vegetativo o la demenza giunta nella sua traiettoria terminale [21].

 

Conclusioni

La formalizzazione della volontà anticipata della persona ed il suo rispetto nella fase terminale della vita pongono, ancora, una serie di questioni problematiche su cui occorre seriamente e responsabilmente riflettere a partire dall’esperienza pratica e dai dati di letteratura non univoci, anche se le criticità recentemente evidenziate riguardano sostanzialmente le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) e non la pianificazione condivisa della cura (ACP).

Ciò che è in discussione è se le prime migliorino o meno la qualità della cura e quale sia il continuum biografico tra il momento della loro redazione e quello in cui esse dovranno poi essere tenute in considerazione dal team di cura. Anche perché la nostra razionalità cognitiva non è quasi mai lineare essendo sempre influenzata dai fattori di contesto oltre che da quelli affettivi ed emozionali come ammettono tutte le evidenze neurobiologiche. Se ciò è vero, la strada che dovremmo privilegiare è quella della pianificazione condivisa della cura visto che essa nasce nel contesto di una complessa relazione umana (quella di cura), dove i suoi (molteplici) protagonisti non devono essere mai abbandonati e lasciati da soli anche se l’estremizzazione tirannica dell’autodeterminazione individuale, rinforzando l’asimmetria dei ruoli, può costituire un serio pericolo finendo con l’ostacolare la promozione della solidarietà.

Naturalmente, sul principio di autodeterminazione non si discute, ma è quel tutto con cui la si rappresenta ciò che non convince perché l’esigenza del vivere comune è quella di trovare una sintesi ed un punto di equilibrio tra gli interessi individuali e quelli collettivi. Ce lo ha insegnato la pandemia da Covid-19 dimostrandoci quanto grande è la forza della fiducia reciproca e dell’alleanza umana. Si investa, dunque, nella advance care planning e sul fiduciario quale figura di riferimento e di rappresentanza della persona che dovrà coadiuvare il team di cura non solo quando si renderà necessario onorare la sua volontà ma in tutta la traiettoria di malattia dove è comunque richiesta la periodica verifica dei suoi desideri e delle sue aspettative. Accettando ed affrontando anche i pur sempre possibili cambi di passo perché il dialogo costante con il malato e con il fiduciario sono le sicure chiavi di volta di un percorso promettente che impegna le nostre umane responsabilità nella costruzione di quel significato di senso il cui focus ispiratore è il rispetto della dignità umana.

 

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