Un paziente con tumore può essere un donatore di organi?

Abstract

La potenziale trasmissione di neoplasie da donatore a ricevente è un rischio noto nell’ambito del trapianto d’organi. Il Centro Nazionale Trapianti (CNT) ha adottato delle linee guida specifiche per la valutazione dell’idoneità di potenziali donatori d’organo con storia di neoplasia. Il CNT fornisce inoltre un servizio di Second Opinion Oncologica per la valutazione dei donatori con storia oncologica e potenziale rischio di trasmissione di neoplasia al ricevente. L’obiettivo del CNT è minimizzare i rischi di trasmissione di malattia da donatore a ricevente.

Secondo le linee guida CNT, il donatore è definito “standard” se non presenta neoplasie attive o in anamnesi al momento della donazione. Donatori non idonei per “rischio inaccettabile” sono quei pazienti che presentano al momento della donazione o in anamnesi una neoplasia con rischio di trasmissione eccessivamente elevato, pertanto inaccettabile. Avere una neoplasia in sé non costituisce una controindicazione assoluta alla donazione, ma ogni caso deve essere valutato singolarmente.

Il CNT ha istituito un registro per eventi avversi (EA) dopo il trapianto. Dal 2012, con 10.493 donatori utilizzati e 34.193 trapianti effettuati, sono stati registrati 283 EA, che corrispondono a circa il 3% dei processi di donazione e l’1% dei trapianti. Il 13% erano EA oncologici. Nella maggior parte dei casi, EA oncologici derivano da una mancata diagnosi al procurement dell’organo, durante la chirurgia da banco o al trapianto.

Le linee guida, il servizio di Second Opinion Oncologica e il registro per EA hanno aiutato a minimizzare il rischio di trasmissione di neoplasie da donatore a ricevente d’organi.

Parole chiave: tumore, donatore d’organo, trapianto

Introduzione

La donazione di organi può comportare, con il beneficio del trapianto, anche il rischio di trasmissione di una patologia presente nel donatore.  Nel caso di donazione da donatore deceduto, il tempo disponibile è limitato a poche ore, e deve essere fatto ogni sforzo per escludere la presenza di quelle patologie che potrebbero costituire un danno al paziente superiore al beneficio del trapianto. Non si tratta solo della presenza di tumori – di cui si tratterà in maggior dettaglio – ma pure di infezioni gravi, patologie immunitarie o genetiche che se presenti nel donatore potrebbero essere di grave danno per i riceventi.

Il divario tra richiesta di organi e l’offerta è, a tutt’oggi, molto elevato. Per quanto sia sempre maggiore l’impegno profuso dalla Rete Nazionale Trapianti, coordinata dal Centro Nazionale Trapianti (CNT), il numero di persone che muoiono in lista di attesa è sempre elevato. Nel 2022 a fronte di 3.887 organi trapiantati, derivanti da 1.830 donatori deceduti/viventi, risultavano ancora in lista al 31.12.22 più di 8.000 pazienti. Per alcuni organi, principalmente il rene, la situazione è sicuramente meno critica considerando le possibilità di terapie alternative, per altri organi invece le difficoltà sono evidenti e questo spinge a dover ampliare sempre di più il pool di donatori e a cercare di utilizzare sempre di più donatori un tempo ritenuti marginali se non addirittura non idonei.

Al fine di ampliare il numero di potenziali donatori, a partire dal 2004 il CNT si è avvalso di una commissione nazionale per la sicurezza che ha il compito di fornire alla Rete Nazionale Trapianti (RNT) un supporto ed un punto di riferimento dal punto di vista medico-legale, infettivologico, anatomo-patologico, immunologico, genetico ed ematologico. Questa task-force di esperti, cosiddetta Second Opinion, garantisce supporto 7 giorni su 7, h24, e contribuisce a rafforzare ulteriormente la qualità e la sicurezza di tutto il percorso della donazione di organi solidi.

In particolare, la Second Opinion Oncologica (SOO) rappresenta lo strumento consultivo cui i Centri Regionali Trapianto (CRT) possono rivolgersi durante la valutazione di idoneità organo/donatore in presenza di un rischio di trasmissione di una neoplasia al ricevente.

La valutazione di idoneità del donatore è un processo dinamico che si basa sia su informazioni clinico-strumentali del donatore in corso di procurement sia sulle caratteristiche cliniche dei potenziali riceventi.

Sono principalmente due i momenti, durante il percorso di donazione, in cui la SOO può essere chiamata in causa, durante il procurement per valutare neoplasie presenti nell’anamnesi del donatore e quindi indicare il rischio oncologico pre-sala, oppure al momento del prelievo degli organi se viene riscontrata una lesione sospetta per neoplasia e si deve valutare la necessità di eseguire un esame istologico estemporaneo e successivamente indicarne il livello di rischio.

 

Le linee guida nazionali di idoneità del donatore d’organi

La rete italiana si è dotata di una normativa di riferimento: “Valutazione dell’idoneità del donatore in relazione a patologie neoplastiche (tumori solidi)” approvata in Accordo Stato-Regioni (ASR 24) nel gennaio 2018 (Rep. atti 17/CSR). Più recentemente queste linee guida sono state aggiornate (Versione 2.0 approvata nella seduta CNT‐Consulta Tecnica Permanente per i Trapianti il 17 marzo 2022, e disponibili al link: https://www.trapianti.salute.gov.it/imgs/C_17_cntPubblicazioni_480_allegato.pdf). Nelle raccomandazioni di questo documento, i due momenti sono, dove possibile, tenuti distinti in linea con quanto suggerito nelle Linee Guida della Comunità Europea, dove è ben evidente la differenza tra neoplasia diagnosticata al momento del prelievo e una neoplasia presente in anamnesi. Nel primo caso, bisogna essere molto scrupolosi ed accurati nei confronti di qualsiasi lesione sospetta per malignità identificata all’esame clinico o con metodiche imaging ed effettuare una verifica attraverso una diagnosi al congelatore in corso del processo donativo. Nel caso di una neoplasia presente in anamnesi si è chiamati ad esprimere un giudizio sul tipo di neoplasia ma si deve tenere ben presenti anche altri fattori, tra cui: intervento chirurgico radicale, stadiazione della neoplasia, follow-up regolare e documentato, eventuali ricorrenze cliniche o biochimiche di malattia. In questi casi è doveroso attendere che siano trascorsi almeno 5 anni dall’intervento chirurgico, tenendo per il momento da parte il carcinoma della mammella ed il melanoma, per i quali probabilmente sarà più prudente attendere un periodo di tempo maggiore, e che siano disponibili quante più possibili notizie inerenti al follow-up svolto dal donatore. In questa revisione delle linee guida è stata introdotta anche un’altra novità inerente al rischio non standard accettabile, infatti all’interno di questa categoria si sono distinte due sotto-categorie: accettabile a basso e ad alto rischio.

 

La valutazione di idoneità del donatore d’organi e di tessuto

Questa procedura è finalizzata a ridurre al minimo il rischio di trasmissione di malattie dal donatore al ricevente in seguito al trapianto. Nelle linee si definisce donatore idoneo o standard un donatore che non presenta, sulla base di tutte le informazioni/evidenze cliniche disponibili al momento della donazione o nella storia anamnestica, segni di neoplasia maligna. Situazione opposta, donatore non idoneo, rischio inaccettabile, quando si identificano al momento della donazione o nel raccordo anamnestico evidenze di un processo neoplastico maligno che comporterebbe un rischio troppo elevato di trasmissione neoplastica e che tale rischio è grandemente più elevato rispetto al rischio connesso al mantenimento in lista di attesa del potenziale ricevente. Tra queste due categorie di donatori esiste un’ampia area intermedia che racchiude una molteplicità di situazioni per le quali il rischio non è completamente assente, ma non è neanche così elevato da dover escludere a priori la possibilità di utilizzo degli organi. Questo gruppo viene definito donatori non standard. Nelle ultime due decadi, grazie ai dati della letteratura e all’enorme lavoro di raccolta di informazioni inerenti i donatori non standard svolto dal CNT, unitamente alle second opinion nazionali e ai vari CRT, è stato possibile rivedere e dettare delle sicure raccomandazioni per l’utilizzo degli organi di questo ampio numero di donatori e si è altresì compreso che non ci sono differenze, per quanto riguarda la qualità dell’organo, tra organi di donatore a rischio standard rispetto a quelli di un donatore a rischio non standard. Con tale affermazione si intende precisare che a parità di caratteristiche cliniche, in genere, la presenza di una neoplasia al momento della donazione o nella storia anamnestica del donatore, non altera la morfologia e la funzione dell’organo. Numerosi dati in letteratura, infatti, dimostrano che, ad esempio, l’utilizzo di organi da donatori con patologia neoplastica pregressa o in atto del sistema nervoso centrale, non inficia in alcun modo la qualità dell’organo e non altera l’outcome del ricevente. Risultati analoghi sono presenti anche per quanto riguarda l’utilizzo di reni con piccole neoplasie, previa la loro escissione radicale, come sottolineato dal gruppo di ricerca australiano [1] o anche dal gruppo di ricerca cinese [2]. Secondo le indicazioni più recenti, i donatori idonei a rischio non standard possono rientrare in una delle seguenti categorie: non standard trascurabile, non standard accettabile a basso rischio (si tratta di un donatore che presenta una neoplasia maligna in anamnesi oppure è stata diagnosticata al momento del prelievo degli organi, per la quale sono definibili con certezza istotipo, grado e stadio) e non standard accettabile ad alto rischio (si tratta di un donatore che presenta una neoplasia maligna in anamnesi che potrebbe avere un rischio di trasmissione dal 4 al 10%. In questa categoria sono contemplati gli organi utilizzabili solo per pazienti in gravi condizioni cliniche). Per ognuna di queste categorie, il trapianto può essere effettuato ma in riceventi che abbiano caratteristiche particolari, per i quali il beneficio del trapianto supera il rischio di trasmissione della patologia neoplastica. Nella Tabella I vengono sintetizzate le tipologie di tumori che rientrano in ciascuna di queste categorie.

Rischio standard Non standard trascurabile Non standard accettabile Rischio inacettabile
Basso rischio Alto rischio
  • i tumori benigni
  • le lesioni precancerose
  • Le lesioni displastiche.
  • Papillomi o adenomi
  • CIN/SIL (cervice uterina);
  • PIN di alto e di basso grado della prostata;
  • qualsiasi lesione precedentemente rimossa con diagnosi di displasia
  • diagnosi di displasia al momento del prelievo organi (esame istologico estemporaneo)

  • carcinoma in situ di qualsiasi organo, escluso quello di alto grado della mammella;
  • carcinoma basocellulare cutaneo;
  • carcinoma spinocellulare/squamoso cutaneo;
  • carcinoma uroteliale papillifero intraepiteliale di basso grado;
  • carcinoma prostatico:
  • micro-carcinoma papillifero della tiroide (dimensioni massime < 1 cm);
  • carcinoma del rene (a cellule chiare/papillifero/cromofobo) a basso grado (grado 1-2) < 4 cm (pT1a sec. WHO 2016) basso stadio
  • IPMN pancreas di basso grado secondo WHO 2019;
  • GIST ≤2 cm con meno di 5 mitosi/50 hpf (vedi tabella GIST);
  • adenocarcinoma polmonare in situ o minimamente invasivo (pT1a-mi) con almeno 5 anni di follow-up;
  • neoplasie cerebrali benigne;
  • neoplasie cerebrali maligne a basso grado di malignità/WHO grado 1-2.
  • carcinoma gastrico EGC-pT1/N0 (trascorsi più di 5 anni)
  • carcinoma intestinale del colon-retto pT1-2/N0, senza invasione vascolare/perineurale (trascorsi più di 5 anni)
  • IPMN pancreas con displasia di alto grado /carcinoma in situ secondo WHO 2019
  • carcinoma prostatico o dopo esame istologico completo durante procurement: ≤pT2 con score di Gleason =7 (4+3); o prostatectomia in anamnesi: dosaggio del PSA <0,2 ng/ml con <pT2 con Gleason score >7 e sono trascorsi più di 5 anni o Rischio pre-sala nei casi che attendono l’esito dell’esame istologico in corso di procurement
  • carcinoide tipico polmonare pT1/N0 (trascorsi più di 5 anni)
  • Melanoma infiltrante ≤0,5 mm (trascorsi più di 5 anni)
  • GIST ≤10 cm con meno di 5 mitosi /50 hpf
  • carcinoma gastrico pT2/N0, senza invasione vascolare perineurale (trascorsi almeno 5 anni e con TAC attuale negativa);
  • carcinoma intestinale del colon-retto pT3/N0 senza invasione vascolare/perineurale (trascorsi almeno 5 anni e con TAC attuale negativa);
  • Carcinoma prostatico o dopo esame istologico completo durante procurement: ≤pT2 con score di Gleason >7 oppure >pT2 e score di Gleason =7 (4+3); o prostatectomia in anamnesi: PSA <0,2 ng/ml con >pT2 e Gleason score >7 e sono trascorsi almeno 5 anni e la TAC attuale è negativa; post-radioterapia: PSA >2 ng/ml nadir con ≤pT2 e Gleason score >7; oppure >pT2 e Gleason score=7 (4+3) e sono trascorsi almeno 5 anni con TAC attuale negativa.
  • carcinoma della mammella;
  • melanoma infiltrante ≤0,8 mm e con linfonodo sentinella negativo (sono trascorsi almeno 5 anni e con TAC attuale negativa);
  • GIST > 10 cm con meno di 5 mitosi /50 hpf (sono trascorsi almeno 5 anni e con TAC attuale negativa).
  • Qualsiasi tipo di neoplasia epiteliale con stadio pT1-4 /N+/- diagnosticata al momento della donazione con esclusione delle neoplasie riportate al punto B1 profilo di rischio trascurabile;
  • carcinoma prostatico dopo esame istologico completo durante procurement: >pT2 e score di Gleason >7; o prostatectomia in anamnesi: PSA >0,2 ng/ml o con >pT2, Gleason score >7 e non sono trascorsi 5 anni; o post-radioterapia: PSA >2 ng/ml nadir con >pT2 e Gleason score >7
  • carcinoma della mammella con meno di 10-15 anni di follow-up
  • IPMN con componente di adenocarcinoma infiltrante
  • GIST con più di 5 mitosi per hpf (vedi tabella GIST)
  • Tumori SNC con neoplasie primitive gliali sec. WHO di alto  grado con almeno uno dei fattori di rischio clinici: carcinomi (ex. carcinoma dei plessi corioidei) / medulloblastoma/ cordomi /tumori embrionari /pineoblastoma
  • melanomi primitivi
  • linfomi
  • tumore fibroso solitario/emangiopericitoma grado 3 WHO/sarcomi delle meningi
  • processi metastatici
Tabella I. Il livello di rischio di trasmissione di un tumore, secondo quanto indicato dalle linee guida nazionali.

 

Quando non viene identificato il rischio oncologico

Pur seguendo le indicazioni della buona pratica clinica, può non essere identificato un rischio oncologico del potenziale donatore. La rete nazionale per questo si è dotato di uno strumento in grado di raccogliere tutti gli eventi non previsti che hanno riguardato la donazione e il trapianto di organi. La gestione del rischio clinico nazionale prevede che ogni CRT debba segnalare Eventi Avversi (EA, che non compartano un rischio di morte per il ricevente) o Reazioni Avverse (RA, che possono essere causa di decesso) che abbiano riguardato il processo di donazione e trapianto. Dal 2012, il CNT ha raccolto 283 segnalazioni di EA/RA. Nello stesso periodo il numero di donatori di organo è stato pari a 10.493, mentre il numero dei trapianti effettuati 34.193. In sintesi, in circa 1% dei trapianti effettuati e in circa 3% dei processi di donazione si è verificata un EA o una RA. Questi rischi non sono diversi da quelli segnalati in letteratura per le varie discipline mediche [3]. La Figura 1 illustra le diverse tipologie di rischio che sono state raccolte: quelle oncologiche rappresentano circa il 13% di tutte le segnalazioni. Il più delle volte la fase del processo nella quale si è generata una EA/RA è quella della chirurgia da banco, o del trapianto o del prelievo. Questo vale anche per le EA/RA oncologiche, è il caso ad esempio un tumore renale non intercettato in fase di monitoraggio del donatore ma di cui ci si accorge solo al momento del prelievo o della chirurgia da banco. Se si intercetta un tumore nella fase della chirurgia da banco o del trapianto di rene, gli altri organi salvavita sono già stati trapiantati. Più di rado, il tumore di origine del donatore viene accertato solo nel follow-up del trapianto, quando più riceventi di organi dello stesso donatore risultano poi ammalarsi dello stesso tumore. È questo il caso, ad esempio, di una leucemia mieloide acuta (LMA) che è stata diagnostica ai 2 riceventi di rene e al ricevente di fegato dello stesso donatore. La LMA non era in alcun modo identificabile nel donatore, che non presentava parametri alterati. Questo caso molto raro di trasmissione di un tumore dal donatore al ricevente è stato approfondito con l’analisi genomica del donatore (utilizzando il campione di DNA a disposizione del CRT) e quello dei riceventi prima e dopo il trapianto, al momento della comparsa della LMA. Queste analisi hanno consentito di comprendere che la LMA era già presente nel donatore, in una quota del 15% circa delle cellule circolanti. Le caratteristiche dei tumori nei riceventi erano quelle del donatore (i profili genetici riconducevano al profilo del donatore), con le stesse mutazioni (ad esempio quella del gene NPM1) presenti nel donatore. Le ulteriori mutazioni del tumore erano però evolute in maniera indipendente nei pazienti trapiantati, come ad esempio la mutazione del gene FLT3, presente in uno solo dei riceventi. Infine, l’analisi genomica ha dimostrato che l’aggressività del tumore nei riceventi trovava spiegazione non solo dalla terapia immunosoppressiva a cui erano sottoposti ma anche dalla delezione di alcuni geni HLA che conferivano al tumore la capacità di sfuggire alla sorveglianza immunitaria [4].

In questo caso non è stato possibile introdurre azioni correttive nella procedura di gestione del donatore, per escludere il ripetersi di questo evento. Infatti, non sono ancora disponibili test molecolari veloci compatibili con le tempistiche della donazione per intercettare potenziali donatori portatori di una LMA che non abbia dato ancora manifestazioni cliniche. In altre situazioni, è stato possibile introdurre elementi correttivi grazie alla raccolta e analisi degli EA/RA. È questo il caso, non in relazione al rischio oncologico, che riguarda la corretta conservazione dei reni durante il loro trasporto. Nella Figura 2 viene illustrato come in 10 anni siano stati segnalati 15 EA per problematiche sorte per un confezionamento non adeguato dei reni, soprattutto in relazione al mantenimento della temperatura di trasporto dell’organo. Per questo il 15 luglio 2021 è stata licenziata una procedura CNT per il confezionamento, conservazione e trasporto dei reni e dei campioni biologici a scopo di trapianto [5].

È interessante notare come da quel momento non siano più stati segnalati dalla rete italiana eventi avversi relativi a questo processo, configurandosi un buon esempio di come la gestione del rischio clinico consenta di apportare azioni correttive importanti e utili.

Figura 1. Eventi o Reazioni avverse che sono state raccolte dal CNT tra il 2012 e il 2021 in relazione alla tipologia di rischio (panel A) o alla fase del processo in cui sono state intercettate (panel B).
Figura 1. Eventi o Reazioni avverse che sono state raccolte dal CNT tra il 2012 e il 2021 in relazione alla tipologia di rischio (panel A) o alla fase del processo in cui sono state intercettate (panel B).
Figura 2. Le reazioni avverse segnalate in 10 anni dalla rete italiana in relazione al confezionamento e/o trasporto dei reni destinati a trapianto.
Figura 2. Le reazioni avverse segnalate in 10 anni dalla rete italiana in relazione al confezionamento e/o trasporto dei reni destinati a trapianto.

 

Conclusioni

La diagnosi pregressa o attuale di un tumore nel potenziale donatore non costituisce di per sé una controindicazione assoluta al prelievo e trapianto degli organi. La rete nazionale trapianti si è dotata di linee guida per facilitare la classificazione dei donatori in relazione al rischio di trasmissione di tumore. Inoltre, mette a disposizione dei “second opinion” per facilitare la valutazione del rischio oncologico. Le analisi preliminari della rete italiana dei trapianti indicano che le sopravvivenze degli organi che provengono da donatori non standard non sono diverse da quelle di donatori classificati come standard. La rete nazionale trapianti si è inoltre dotata di uno strumento per la gestione del rischio clinico, che consente di sorvegliare tutti gli eventi avversi che sono stati segnalati dalla rete. Questo consente una periodica revisione delle linee guida e procedure in atto, per diminuire il rischio di ripetizione degli eventi avversi. Va da sé che le attuali disposizioni in merito al rischio di trasmissione di tumori dal donatore con neoplasia ai riceventi sono dinamiche, e vanno rivalutate alla luce dell’esperienza maturata nella rete e dalla comunità scientifica internazionale. Ad esempio, uno studio recente ha determinato il rischio di trasmissione del cancro associato ai trapianti di organi da donatori deceduti con tumori cerebrali primari. Questo studio ha incluso un totale di 282 donatori con tumori cerebrali primari che avevano reso possibile 887 trapianti. 262 trapianti di essi provenivano da donatori con tumori ad alto grado e 494 da donatori con precedente intervento neurochirurgico o radioterapia. Tra gli 83 tumori maligni post-trapianto che si sono verificati in media dopo 6 anni in 79 riceventi di trapianti da donatori con tumori cerebrali, nessuno era di tipo istologico corrispondente al tumore cerebrale del donatore. La sopravvivenza del trapianto era equivalente a quella dei controlli abbinati. I risultati di questo studio di coorte suggeriscono quindi che il rischio di trasmissione del cancro nei trapianti da donatori deceduti con tumori cerebrali primari era inferiore a quanto si pensasse in precedenza, anche nel contesto di donatori considerati a rischio più elevato. Gli esiti del trapianto a lungo termine sono favorevoli [6].

Questi risultati suggeriscono che potrebbe essere possibile espandere in modo sicuro l’utilizzo di organi da questo gruppo di donatori [7].

 

Bibliografia

  1. DL et al. Kidney from patients with small renal tumors: a novel source of kidneys for transplantation. BJU Int 2008; 102:188–192 https://doi.org/1111/j.1464-410X.2008.07562.x.
  2. Wang X, Zhang X, Men T, et all. Kidneys With Small Renal Cell Carcinoma Used in Transplantation After Ex Vivo Partial Nephrectomy. Transplant Proc. 2018 Jan-Feb;50 (1):48-52. https://doi.org/10.1016/j.transproceed.2017.12.006.
  3. Jena AB, Seabury S, Lakdawalla D, et all. Malpractice risk according to physician specialty. N Engl J Med. 2011 Aug 18;365(7):629-36. https://doi.org/10.1056/NEJMsa1012370.
  4. Marchionni L, Lobo FP, A. Amoroso et all. Donor-derived acute myeloid leukemia in solid organ transplantation. Am J Transplant. 2022 Dec;22(12):3111-3119. https://doi.org/10.1111/ajt.17174.
  5. Centro Nazionale Trapianti – Istituto Superiore di Sanità – 2021 “Procedura nazionale confezionamento, conservazione, trasporto di reni e campioni biologici a scopo di trapianto” https://www.trapianti.salute.gov.it/imgs/C_17_cntPubblicazioni_417_allegato.pdf .
  6. Greenhall GHB, Rous BA, Robb ML, et all. Organ Transplants From Deceased Donors With Primary Brain Tumors and Risk of Cancer Transmission. JAMA Surg. 2023 May 1;158(5):504-513. https://doi.org/10.1001/jamasurg.2022.8419.
  7. Fong Y. Expanding the Donor Pool for Organ Transplant Using Organs From Donors With Cancer. JAMA Surg. 2023 May 1;158(5):513-514. https://doi.org/10.1001/jamasurg.2022.8427.

Candidato al trapianto di rene con cancro: come procedere?

Abstract

L’incidenza dei pazienti con insufficienza renale end stage hanno un rischio aumentato di sviluppare alcune neoplasie. Questo rischio è proporzionale al livello di compromissione funzionale. Una incidenza aumentata di tumori si ha anche nei pazienti in trattamento dialitico. È interessante notare che, dopo un periodo iniziale successivo al trapianto di rene, si osserva un calo nel numero di decessi legati a neoplasie. Tuttavia, una visione a lungo termine rivela un progressivo aumento del rischio di sviluppare tumori anche nel paziente portatore di trapianto renale. Il processo di valutazione della candidatura al trapianto è approfondito e tiene conto di diversi fattori, tra cui l’anamnesi neoplastica del soggetto e le implicazioni della terapia immunosoppressiva. La terapia immunosoppressiva è uno strumento a doppio taglio nella gestione delle complicanze post-trapianto, poiché può favorire ambienti che facilitano la crescita della neoplasia. È fondamentale rivalutare, con l’ausilio di un parere oncologico, il tempo di attesa che intercorre tra la guarigione del cancro e l’inserimento nella lista per il trapianto di rene, sulla base dei dati clinici e del follow-up. Indipendentemente dal tipo di tumore, la necessità di trattare e ottenere la remissione ritarda il processo di inserimento nell’elenco, allungando di conseguenza il tempo trascorso con la malattia renale allo stadio terminale e sottoposto a dialisi. Questi fattori sono correlati ad un aumento della mortalità, ad un aumento del rischio di malattie cardiovascolari e alla perdita del trapianto.

Parole chiave: trapianto renale, tumore, terapia immunosoppressiva

Rischio oncologico nel paziente con malattia renale

I pazienti che soffrono di malattia renale terminale si trovano di fronte ad un incremento significativo del rischio di sviluppare neoplasie, in confronto a individui con una funzione renale normale, trovandosi più esposti ad alcuni specifici tipi di tumori.

Un contributo significativo a questa area di studio proviene da un’analisi condotta da William T. Lowrance e collaboratori, basata su un ampio campione retrospettivo di oltre un milione di adulti seguiti dal 2000 al 2008. In questa ricerca, emerge chiaramente come il rischio associato ad alcune neoplasie cresca parallelamente al progredire della malattia renale cronica, evidenziando come una diminuzione del tasso di filtrazione glomerulare (eGFR) sia correlata ad un aumento del rischio di neoplasia renale e, a valori inferiore di 30 ml/min per 1,73 m², anche ad un rischio maggiore di cancro uroteliale. D’altro canto, non è stata riscontrata una correlazione significativa con altri tipi di tumori, tra cui quelli della prostata, del seno e del polmone [1].

Rivolgendo lo sguardo alla popolazione in dialisi, notiamo come diversi registri nazionali abbiano contribuito a delineare lo scenario attuale. Un dato interessante emerge da uno studio taiwanese pubblicato su “PLOS ONE”, dove la popolazione in dialisi mostra un’incidenza di neoplasie significativamente superiore rispetto a un gruppo di controllo abbinato per età e sesso, con un hazard ratio di 3,43. Questo rischio si concentra principalmente sul rene e sull’apparato urinario [2].

Focalizzandoci sul contesto italiano, grazie ad uno studio recente condotto da Taborelli e collaboratori, possiamo confermare una tendenza simile, con un incremento del rischio neoplastico tra i pazienti in dialisi. Tra questi, si osserva una presenza più marcata di tumori della pelle, delle mucose e del rene. Inoltre, non sono rare neoplasie tipiche dei pazienti trapiantati, come il sarcoma di Kaposi e il mieloma multiplo [3].

In una ricerca pubblicata su JASN da Eric H. Au e collaboratori, viene messa in luce una dinamica interessante: se nei primi anni dall’inizio della dialisi si riscontra un aumento dell’incidenza di morte per neoplasia, questo trend si inverte nel post-trapianto. Con il passare degli anni, infatti, il rischio di morte per tumore cresce progressivamente. È interessante notare come il panorama delle neoplasie mortali muti sensibilmente: mentre nel paziente in dialisi predominano il mieloma multiplo, il tumore del polmone e il tumore renale, nel paziente trapiantato si riscontrano più frequentemente linfoma non-Hodgkin, tumore del polmone e tumore del colon-retto [4].

Il confronto con la popolazione generale svela un rapporto di mortalità standardizzato (SMR) pari a 2,6 per tutti i tipi di tumori nei pazienti in dialisi, un dato che cresce ulteriormente nei casi correlati direttamente alla malattia renale terminale. In modo simile, anche i pazienti trapiantati mostrano un SMR elevato, legato soprattutto ai tumori indotti dalla terapia immunosoppressiva.

Una riflessione attenta richiede anche l’analisi delle cause di morte post-trapianto: i tumori rappresentano la seconda causa di morte, paragonabile alle infezioni, e seguono gli eventi cardiovascolari, manifestandosi mediamente dopo circa 8,2 anni dal trapianto. È importante sottolineare che, con il passare del tempo, tanto l’incidenza di diagnosi di neoplasia quanto la mortalità per tale causa aumentano, in linea con la crescita della mortalità per tutte le altre cause [5, 6].

Guardando alla popolazione di pazienti anziani trapiantati, un gruppo in crescita costante, notiamo come le neoplasie si attestino come seconda causa di morte, superando le malattie cardiovascolari e posizionandosi subito dopo le infezioni [7].

 

Valutazione candidato a trapianto renale con storia di neoplasia

Nella valutazione per l’inserimento in lista per trapianto renale di un paziente con anamnesi positiva per neoplasia, sono da considerare alcuni aspetti, divisibili in 4 gruppi [8]. Per quanto riguarda la priorità, a differenza di altri trapianti quali ad esempio il cuore o fegato, è difficile che si presenti un’urgenza che richieda il trapianto di rene che prescinda una valutazione dello stadio del tumore o del follow-up libero da malattia neoplastica, quale la mancanza totale di accesso per dialisi.

Il secondo gruppo di fattori riguarda quelli legati alla neoplasia. È importante valutare la risposta al trattamento, l’andamento del follow-up, eventuali recidive, lo stadio e l’aggressività del tumore, il tempo trascorso dalla completa remissione.
Il terzo gruppo riguarda invece i fattori legati al paziente, al suo stile di vita, fattori modificabili o non modificabili nel post trapianto e l’aspettativa di vita in termini anche etici di ottimizzazione e gestione delle risorse disponibili oltre all’obiettivo di apporre un beneficio concreto rispetto alla permanenza in dialisi.

L’ultimo gruppo di aspetti da considerare è quello legato alla terapia immunosoppressiva. Infatti bisogna ragionare sugli effetti che la terapia può esercitare nel determinare una recidiva, se ci sono delle differenze organo-specifiche dell’immunosoppressione e anche in questo caso il tempo che passa dal momento del completamento del trattamento antineoplastico che il paziente potrebbe aver eseguito.

La terapia immunosoppressiva determina un’alterazione della funzionalità e del fenotipo del sistema immunitario, con relativa riduzione dell’efficienza nel monitoraggio e prevenzione dell’evoluzione in senso tumorale delle cellule. Le cellule dendritiche e le natural killer si riducono di numero e aumenta il numero delle cellule T senescenti e dei Treg.

In particolare, l’utilizzo degli inibitori della calcineurina, ampiamente utilizzati per l’apporto significativo che hanno dato in termini di riduzione del rigetto e il conseguente aumento della sopravvivenza del graft, determina una riduzione della capacità di riparazione del DNA, oltre a un ambiente citochinico che favorisce lo sviluppo del tumore.
Si verifica un aumento del VEGF, del TGFbeta, del segnale RAS-RAF, dell’IL-6.

Questi portano rispettivamente ad un aumento della neoangiogenesi tumorale, della crescita del tumore, dello sviluppo del carcinoma a cellule renali e dei disordini linfoproliferativi post-trapianto mediante proliferazione delle cellule B.

Lo stato di immunosoppressione porta inoltre all’aumento della replicazione di virus intracellulari o comunque associati ad alterazioni del DNA come l’epstein Barr, l’Herpes virus 8, il Papilloma virus, i virus dell’epatite B e C, il polioma virus delle cellule di Merkel  che determinano un aumento dell’incidenza di alcune neoplasie quali, rispettivamente, le malattie linfoproliferative post-trapianto, il sarcoma di Kaposi e il linfoma primitivo effusivo, tumori di testa e collo, della pelle e dell’apparato genitale, il carcinoma epatocellulare e il carcinoma a cellule di Merkel [9].

 

Outcome post-trapianto dei pazienti con storia di neoplasia

Dagli anni ’90 a oggi il numero di pazienti con storia di neoplasia sottoposti a trapianto di rene è cresciuto costantemente, fino a decuplicare, costituendo nel 2016 l’8,3% della popolazione trapiantata negli Stati Uniti  rispetto allo 0,9% del 1994 [10].
Questo riguardava in particolare i pazienti con storia di tumore solido o tumore cutaneo non-melanoma.
In un lavoro di Acuna S. e colleghi del 2016, analizzati più studi in merito, si considera quanto la storia pregressa di neoplasia sia un fattore di rischio di mortalità  post trapianto non solo per quanto riguarda il rischio di morte per neoplasia, con un rapporto di rischio (hazard ratio, HR) pari a 3,13 rispetto a trapiantati senza storia pre-trapianto di neoplasia, ma anche per tutte le cause di morte (HR 1,51) [11].

Due anni più tardi, nel 2018, sempre Acuna approfondisce questo tema, analizzando i pazienti sottoposti a trapianto di organo solido nel ventennio dal 1991 al 2010 in Ontario: i pazienti con storia pregressa di neoplasia presentavano un rischio dell’85% per la mortalità cancro-specifica e del 29% della mortalità per tutte le cause rispetto a chi non aveva storia di neoplasia.

Ma se si approfondisce dal punto di vista clinico, si evince che il rischio si stratifica a seconda del grado di malignità della neoplasia. I pazienti con storia di neoplasia considerata ad alto rischio presentavano un rischio di mortalità maggiore. Il divario si appiana se si pongono a confronto pazienti senza storia pre-trapianto di neoplasia e pazienti con storia di neoplasie considerate a basso rischio (ad esempio il tumore mammario e renale).

Questo risulta fondamentale nella valutazione pre-trapianto dei pazienti, richiedendo inoltre un confronto multidisciplinare con la figura dell’oncologo al fine di meglio valutare il tempo propizio per l’inserimento in lista.

Fino ad ora le Linee Guida, seppur non mandatorie ma indicative, hanno posto uno spartiacque di attesa per l’inserimento in lista di almeno 5 anni dalla diagnosi di neoplasie considerate a più alto rischio nei pazienti in remissione dal tumore.
Questo atteggiamento, corretto o meno, ha portato ad una aumentata mortalità per neoplasia o per tutte le cause post trapianto (HR 2,32 e 1,53 rispettivamente) rispetto ai pazienti senza storia di neoplasia e comunque maggiore rispetto ai pazienti con storia di neoplasia considerata a basso rischio come già analizzato in precedenza.

Ciò pone l’interrogativo se l’aumentata mortalità sia condizionata dal tempo di permanenza con un quadro di malattia terminale in attesa di trapianto piuttosto che dalla malignità della neoplasia.

Da questo quesito risulta critico il tempo di inserimento in lista trapianto, soppesando il rischio di recidiva e la gestione chemioterapica in concomitanza con la terapia immunosoppressiva dagli effetti di una insufficienza d’organo sull’outcome.
Analizzando poi gli outcome dei pazienti trapiantati dopo cinque anni dalla diagnosi di neoplasia, emerge che poco meno di 1 paziente su 6 è deceduto senza presentare recidiva. L’incidenza cumulativa della recidiva è stata del 14,4% che stratificata per neoplasia ad alto e basso rischio è rispettivamente del 21,1% e del 9,2% [12].

Prendendo in considerazione la popolazione dialitica, come si evince da lavori italiani, anche in dialisi vi è un rischio neoplastico. In particolare, l’incidenza cumulativa di sviluppare una neoplasia dall’inizio della dialisi è del 9,8% a 5 anni e del 13,9% a 10 anni. Tale rischio si riscontra maggiormente nella popolazione dialitica più giovane, soprattutto rispetto alla controparte della popolazione generale [13].

 

Timing di inserimento in lista trapianto renale

Considerando le linee guida KDIGO per il candidato a trapianto renale, si pone l’accento e si ribadisce quanto già analizzato: l’inserimento in lista d’attesa e quindi il trapianto dopo remissione della neoplasia dopo terapia dipende dal tipo di tumore e lo stadio.

Questa valutazione necessita del supporto dello specialista oncologo, oltre ad altre figure professionali che accompagnano il follow-up e la gestione nefrologica. Test molecolari, studi sulla genomica possono essere di aiuto nel paziente oncologico ai fini prognostici. Per alcuni tumori, sulla base dello stadio, il trapianto risulta controindicato (ad esempio il melanoma invasivo, il tumore anaplastico della tiroide).

Considerando piuttosto che anche il paziente dializzato presenta un rischio neoplastico superiore alla popolazione generale, così come di mortalità per tutte le cause, sarebbe opportuno, nella valutazione per inserimento in lista, valutare quelli che sono i benefici del trapianto a seguito del recupero della funzione renale in termini non solo di qualità di vita, ma anche di aspettativa di vita, indipendentemente dalla eventuale storia pregressa di neoplasia.

Infatti, la mortalità per infezione in dialisi è pari a 30,5 persone per mille/anno rispetto alle 6,8 in trapianto mentre, il tasso di mortalità per neoplasia del paziente dializzato è di 14 persone per mille/anno rispetto al 4,6 dopo il trapianto renale [13].

Un tempo di attesa di 2 anni tra il trattamento del tumore e il trapianto di rene è consigliato per la maggior parte delle neoplasie.  Nessun tempo di attesa è richiesto per: riscontro incidentale di carcinoma renale, carcinomi in situ, neoplasie focali e isolate, tumore vescicale di basso grado, carcinoma a cellule basali della cute. Per neoplasie quali la maggior parte dei melanomi, carcinomi mammari e colorettali è richiesto un tempo di attesa maggiore di 2 anni [12].

 

Conclusioni

L’outcome di pazienti con storia di neoplasia pre-trapianto considerata a basso rischio risulta sovrapponibile a quello di pazienti senza precedente storia di tumore. D’altro canto, i pazienti con storia precedente di neoplasia considerata ad alto rischio hanno presentato un outcome peggiore, indipendentemente dal tempo intercorso dalla diagnosi di tumore e il trapianto. Il rischio di recidiva neoplastica pare dunque essere condizionato dal tipo di tumore piuttosto che dal tempo che intercorre dalla guarigione. È opportuno riconsiderare sulla base dei dati clinici e del follow-up, con l’ausilio di un parere oncologico, il tempo di attesa tra la guarigione dal tumore e l’inserimento in lista per trapianto renale. Prescindendo dal tipo di tumore, la necessità di trattare e portare a remissione la neoplasia determina un ritardo nell’inserimento in lista attiva e dunque a un aumento del tempo trascorso con una malattia renale terminale e in dialisi. Questi aspetti sono associati, tra i fattori che determinano un’aumentata mortalità, ad un aumentato rischio di malattia cardiovascolare e perdita del graft.

 

Bibliografia

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  10. Acuna, S. A., Fernandes, K. A., Daly, C., Hicks, L. K., Sutradhar, R., Kim, S. J., & Baxter, N. N. (2016). Cancer mortality among recipients of solid-organ transplantation in Ontario, Canada. JAMA Oncology, 2(4), 463–469. https://doi.org/10.1001/jamaoncol.2015.5137
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  13. Vogelzang, J. L., van Stralen, K. J., Noordzij, M., Diez, J. A., Carrero, J. J., Couchoud, C., Dekker, F. W., Finne, P., Fouque, D., Heaf, J. G., Hoitsma, A., Leivestad, T., de Meester, J., Metcalfe, W., Palsson, R., Postorino, M., Ravani, P., Vanholder, R., Wallner, M. Jager, K. J. (2015). Mortality from infections and malignancies in patients treated with renal replacement therapy: Data from the ERA-EDTA registry. Nephrology Dialysis Transplantation, 30(6), 1028–1037. https://doi.org/10.1093/ndt/gfv007

La tossicità renale degli inibitori tirosin chinasici: un problema emergente dalla ricerca alla pratica clinica

Abstract

Gli inibitori della tirosina chinasi (TKI, Tyrosine Kinase Inhibitors) hanno contribuito a rivoluzionare la terapia farmacologica dei tumori essendo piccole molecole, somministrabili per via orale, in grado di modulare in maniera altamente selettiva vie di segnalazione coinvolte nella crescita del tumore e nell’angiogenesi. Tuttavia, l’utilità clinica dei TKI può essere talvolta limitata dalla comparsa di effetti avversi, che possono colpire diversi tessuti e organi, compresi i reni. Questa revisione della letteratura scientifica ad oggi disponibile offre una panoramica generale degli studi che documentano incidenza e caratteristiche cliniche della nefrotossicità correlata all’esposizione a TKI ed esplora i meccanismi molecolari alla base dell’intricata relazione tra TKI e tossicità renale. Viene qui discusso il razionale biologico delle manifestazioni renali associate al trattamento con agenti TKI selettivi, sottolineando l’importanza di un’accurata valutazione del rischio e di strategie di gestione personalizzata dei pazienti in trattamento con TKI.

Una conoscenza approfondita dei meccanismi molecolari della nefrotossicità indotta da TKI è cruciale non solo per migliorare l’attuale utilizzo clinico di questi preziosi strumenti terapeutici ma anche per poter sviluppare nuove terapie farmacologiche sempre più efficaci e sicure.

Parole chiave: inibitori della tirosina chinasi, rene, nefrotossicità, tumore

Introduzione

Gli inibitori delle tirosin chinasi (TKI, Tyrosin Kinase Inhibitors) sono una importante classe di farmaci che ha permesso di ridefinire il panorama della farmacoterapia dei tumori, grazie alle numerose applicazioni in un ampio spettro di contesti patologici, dalla leucemia mieloide cronica a diverse tipologie di tumori solidi, compresi carcinomi renali. Il loro meccanismo d’azione consiste in una inibizione selettiva di enzimi tirosin chinasi, un gruppo eterogeneo di proteine coinvolte nelle cascate di segnalazione cellulari, che governano un ampio spettro di processi cellulari vitali, tra cui il ciclo cellulare, la migrazione, la proliferazione, la differenziazione e la sopravvivenza [1].

Il loro meccanismo di azione altamente selettivo ha portato a risultati clinici molto interessanti, documentando ottima efficacia associata a elevati tassi di sopravvivenza [2]. Sebbene il potenziale terapeutico dei TKI sia ben documentato e ampiamente riconosciuto, l’utilizzo sempre più su ampia scala di TKI ha portato ad evidenziare la comparsa di effetti collaterali, talvolta anche di grado severo. Recenti dati clinici e di farmacovigilanza hanno documentato in particolare la possibilità di forme diverse di tossicità renale che possono essere associate all’assunzione di questi farmaci [3].

La tossicità renale dei TKI rappresenta un problema emergente, non solo per il loro sempre più esteso utilizzo ma anche per la maggior sopravvivenza dei pazienti e di conseguenza una maggior durata di queste terapie.

L’obiettivo principale di questa revisione della letteratura è quello di analizzare la complessa interazione tra esposizione a TKI e rischio di tossicità renale, evidenziando elementi di criticità e possibili indicazioni per il contenimento del rischio tossicologico.

 

Meccanismo d’azione

Gli enzimi tirosin-chinasi possono essere classificati come proteine tirosin-chinasi recettoriali (RTK, Receptor Tyrosin Kinase), proteine tirosin-chinasi non recettoriali (NRTK, Non Receptor Tyrosin Kinase) e proteine chinasi a doppia specificità (DSTK, Dual specificity protein kinases) in grado di fosforilare residui di serina, treonina e tirosina. Le RTK sono recettori transmembrana che includono recettori del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGFR), recettori del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR), recettori dell’insulina (famiglia InsR) e la famiglia di recettori ErbB, che comprende il recettore umano 2 del fattore di crescita epidermico (HER2) e i recettori del fattore di crescita epidermico (EGFR). Esempi di DSTK sono le chinasi delle proteine mitogeno-attivate (MEK), che sono principalmente coinvolte nelle vie di segnalazione MAP.

Nel contesto dell’oncogenesi, la disregolazione delle tirosin chinasi può innescare una proliferazione cellulare e una sopravvivenza incontrollata, promuovendo lo sviluppo e la progressione tumorale.

Esistono quattro meccanismi principali di trasformazione oncogenica che coinvolgono processi tirosin chinasi-dipendenti:

  • trasduzione retrovirale di un proto-oncogene corrispondente a una tirosin chinasi, concomitante a cambiamenti strutturali [4];
  • riarrangiamenti genomici, come traslocazioni cromosomiche, che danno luogo a proteine di fusione oncogeniche contenenti un dominio catalitico di tirosin chinasi e parte di una proteina non correlata (ad esempio, Bcr-Abl nelle leucemie Philadelphia-positive);
  • mutazioni gain-of-function o piccole delezioni nelle tirosin chinasi (ad esempio, KIT nei tumori stromali gastrointestinali);
  • sovraespressione delle tirosin chinasi a seguito di amplificazione genica (ad esempio, EGFR in diversi tumori solidi) [5].

I TKI sono piccole molecole progettate per inibire l’attività delle tirosin chinasi, attraverso il legame competitivo con il sito di legame dell’adenosina trifosfato (ATP) della chinasi o mediante la modulazione della conformazione della chinasi [6]. Gli inibitori di tipo 1 si legano alla conformazione attiva, mentre gli inibitori di tipo 2 riconoscono la forma inattiva dell’enzima. Poiché le proteine chinasi presentano forti omologie nel sito di legame dell’ATP, i TKI spesso non sono specifici per una singola chinasi e mostrano reattività crociata con altri enzimi, con conseguenti rischi di comparsa di effetti di tossicità off-target.

Oltre alla loro azione di inibizione di cascate di segnale di sopravvivenza nelle cellule tumorali, i TKI esercitano la loro influenza sull’ambiente microscopico del tumore, inducendo in particolare l’arresto dell’angiogenesi [7]. Mediante l’inibizione dell’angiogenesi, i TKI non solo rallentano la crescita del tumore, ma, attenuando la formazione di nuovi vasi sanguigni, riducono anche la capacità del tumore di metastatizzare e infiltrare i tessuti circostanti, ostacolando quindi l’accesso del tumore ai nutrienti essenziali e all’ossigeno.

 

TKI e tossicità renale

Sebbene i TKI abbiano contribuito a rivoluzionare la farmacoterapia tumorale, l’equilibrio delicato tra efficacia terapeutica e potenziali effetti avversi condiziona il loro impiego clinico. L’utilizzo di questi farmaci, infatti, è associato ad una serie di tossicità in particolare a carico della cute (con effetti che possono includere secchezza, ispessimento o screpolatura della cute, bolle o rash cutaneo del palmo delle mani o della pianta dei piedi), del tratto gastrointestinale (diarrea, nausea/vomito, dolore addominale, dispepsia e stomatite/dolore orale), e del sistema cardiovascolare (ipertensione, prolungamento dell’intervallo QT, eventi tromboembolici). Inoltre l’assunzione di TKI può portare a compromissione della funzionalità renale, con rischio di insufficienza renale e/o insufficienza renale acuta, in alcuni casi anche con esito fatale. Sebbene il rischio di nefrotossicità sia comune a molti trattamenti farmacologici chemioterapici, il tipo di danno indotto a livello renale può variare anche significativamente da una classe di farmaci ad un’altra. Ad esempio, farmaci chemioterapici come il cisplatino e la ciclofosfosfamide, inducono solitamente un danno tubulare, portando a necrosi o lesione tubulare acuta. Al contrario, i TKI causano più frequentemente glomerulopatia caratterizzata da podocitopatia o microangiopatia trombotica [3]. Il danno glomerulare da TKI si traduce in proteinuria, spesso associata a ipertensione arteriosa e raramente anche ad alterazioni elettrolitiche come ipofosfatemia, ipocalcemia e iponatremia. Tali alterazioni renali, se persistenti, possono causare una riduzione persistente del filtrato glomerulare, fino a malattia renale cronica terminale [8]. Tra questi effetti avversi, la proteinuria è quello con una maggiore incidenza, la cui comparsa può costringere ad una revisione del regime posologico, non esistendo ad oggi un trattamento farmacologico adeguato a contrastarla efficacemente. Le percentuali di incidenza di proteinuria possono essere anche piuttosto drammatiche e, come ad esempio recentemente documentato per lenvatinib e regorafenib [9, 10], la riduzione del dosaggio che ne consegue può mettere a rischio l’efficacia del trattamento farmacologico stesso.

 

Meccanismi molecolari della tossicità renale da TKI

La comprensione dei possibili meccanismi alla base di questo importante effetto avverso comune a diversi TKI utilizzati nella pratica clinica risulta quindi essere fondamentale per implementare un uso corretto e sicuro di questa classe di farmaci. Numerosi sono gli studi clinici e preclinici che hanno tentato di delucidare i meccanismi molecolari sottesi alla nefrotossicità da TKI, sottolineando in particolare il ruolo chiave svolto dal fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF, Vascular Endothelial Growth Factor), una proteina essenziale per la crescita dei vasi sia in condizioni fisiologiche che patologiche. La proteinuria infatti è strettamente correlata alla distruzione dell’integrità della barriera di filtrazione glomerulare, che è composta da podociti, una membrana basale glomerulare e cellule endoteliali.  L’interferenza con la cascata di segnalazione del VEGF indotta dai TKI determina una patologia renale che si manifesta con perdita delle finestre endoteliali nei capillari glomerulari, proliferazione delle cellule endoteliali glomerulari (endoteliosi), perdita di podociti e proteinuria [11]. In condizioni fisiologiche, il VEGF è espresso costitutivamente dai podociti e, una volta rilasciato a livello glomerulare, si lega al suo recettore (VEGFR, Vascular Endothelial Growth Factor Receptor) presente sulle cellule endoteliali. Il cross-talk cellulare tra podocita ed endotelio mediato da VEGF è di fondamentale importanza per il mantenimento dell’integrità strutturale e funzionale del glomerulo. I farmaci TKI, inibendo i processi di attivazione della cascata di segnale mediata dai recettori del VEGF, interferiscono con questo meccanismo fisiologico di comunicazione cellulare, compromettendo la funzionalità glomerulare. La conseguenza è una maggiore vulnerabilità dell’endotelio glomerulare con aumentato rischio di microaneurismi e di sviluppo di ialinosi focale e segmentaria. Le cellule endoteliali, rese sofferenti dall’inibizione della segnalazione VEGF-dipendente, possono iniziare una abnorme produzione compensatoria di fattori pro-angiogenici, che a loro volta portano a sofferenza podocitaria, aggravando il danno renale ed aumentando il rischio di comparsa di proteinuria.

Recenti studi meccanicistici hanno permesso di chiarire meglio i meccanismi molecolari sottesi alla tossicità glomerulare che si manifesta conseguentemente all’esposizione a farmaci TKI in grado di interferire con la funzionalità chinasica dei recettori del VEGF (Figura 1). Ad esempio, i TKI possono inibire nei podociti l’espressione della proteina Neuropilina-1 (NRP1), che svolge un ruolo fondamentale per un corretto cross-talk tra le cellule endoteliali e i podociti stessi, contribuendo in questo modo alla comparsa di una sofferenza podocitaria [12]. Un’altra proteina chiave, la cui espressione è inibita in presenza di TKI, è la proteina WT1, un fattore di trascrizione specifico dei podociti che regola in questa popolazione cellulare la produzione di VEGF e di altre molecole effettrici come la podocalixina e la nefrina. Pazienti con una ridotta espressione basale di WT1 risultano essere più suscettibili alla tossicità renale dei TKI con una maggiore incidenza di proteinuria [13]. Anche la chemochina CXCL12 e il suo recettore CXCR4, espressi rispettivamente su podociti e cellule endoteliali, svolgono un ruolo essenziale nel reclutamento di cellule pro-angiogeniche in sinergia con il sistema di VEGF/VEGFR. Nella proteinuria indotta da TKI, l’espressione del sistema CXCL12/CXCR4 risulta essere alterato, suggerendo pertanto un suo contributo nella comparsa di anomalie di comunicazione tra l’endotelio e la componente podocitaria [14]. Tuttavia, altri dati di letteratura dimostrano che una aumentata espressione di CXCL12 nei podociti migliora la proteinuria e la perdita della funzionalità podocitaria, portando in questo caso ad ipotizzare possibili effetti protettori di questo pattern chemochinico [15].

Figura 1. Target farmacologico dei farmaci TKI diretti contro il VEGFR e meccanismi molecolari sottesi alla loro tossicità renale.
Figura 1. Target farmacologico dei farmaci TKI diretti contro il VEGFR e meccanismi molecolari sottesi alla loro tossicità renale.

Queste evidenze sperimentali di tipo meccanicistico trovano conferma in studi clinici che documentano rischi di effetti avversi di tipo renale, in particolar modo proteinuria, in pazienti in trattamento con farmaci TKI in grado di interferire selettivamente con il sistema recettoriale VEGF/VEGFR (Tabella I).

La comparsa di proteinuria come effetto collaterale dei TKI non è solo da imputare all’interferenza con il sistema recettoriale del VEGF, ma può anche essere secondaria all’aumento della pressione intraglomerulare conseguente ad una ipertensione arteriosa, che rappresenta un altro effetto collaterale tipico dei TKI. Poiché ipertensione e proteinuria spesso si manifestano contemporaneamente, non è chiaro se entrambi questi fenomeni si presentino in maniera indipendente oppure se ci sia un rapporto causale tra i due eventi avversi.

È importante inoltre sottolineare che complicazioni renali sono documentate anche per altri farmaci TKI che interferiscono con altre tipologie di enzimi tirosin-chinasi, diversi dal sistema recettoriale VEGF/VEGFR. Ad esempio, manifestazioni di tossicità renale, inclusa nefrite tubulointerstiziale, nefropatia membranosa, e nefropatia da IgA, sono state documentate in seguito a trattamento con gefitnib, un inibitore selettivo della tirosin chinasi del recettore per il fattore di crescita dell’epidermide (EGFR) [16]. Tossicità renali sono state registrate anche in seguito alla somministrazione di ibrutinib, un potente inibitore della tirosin chinasi di Bruton (BTK), coinvolta nelle vie del segnale del recettore per l’antigene dei linfociti B (BCR) e del recettore per le citochine. In questo caso sono state riportati danni tubulari acuti e nefrite tubulointerstiziale con elevati livelli di creatinina sierica, dovuti probabilmente ad un danno di tipo endoteliale [17].

Oltre al target farmacologico, anche la via di eliminazione può impattare sull’incidenza di tossicità renale. La maggior parte dei TKI presentano come principale via di eliminazione quella renale, favorendo l’accumulo di farmaco nei reni e quindi un maggiore rischio di tossicità a livello locale. Sorafenib, ad esempio, è un inibitore multi-target non selettivo con una ridotta tossicità renale, in parte dovuta al fatto che questo farmaco utilizza come via di eliminazione principale il sistema epatico/biliare. Un altro TKI con scarsa tossicità renale è l’imatinib, farmaco che presenta una elevata selettività di interferenza con la proteina di fusione BCR-ABL e che viene eliminato principalmente per via fecale. Tuttavia, anche per imatinib sono documentati casi di tossicità renale in letteratura, riconducibili a polimorfismi genetici che possono facilitare un maggiore accumulo cellulare del farmaco anche a livello renale [18]. Particolare attenzione va infatti posta nei confronti di polimorfismi a carico di proteine di trasporto di membrana, la cui variazione di espressione e di funzionalità condiziona la capacità del farmaco di accumularsi nella cellula, con conseguenze clinicamente rilevanti sia in termini di efficacia del trattamento farmacologico sia in termini di rischi di comparsa di resistenze. Infatti i TKI presentano un assorbimento attivo, condizionato dai livelli di espressione e attività di specifiche pompe di influsso e di efflusso. Pertanto, una alterata espressione di trasportatori di membrana responsabili dell’attraversamento di membrana dei TKI può modificare significativamente la concentrazione intracellulare di TKI e quindi condizionare la capacità del farmaco di inibire enzimi tirosin chinasi con alterazioni clinicamente rilevanti del profilo di efficacia/sicurezza del farmaco stesso [19].

Principio attivo Targets farmacologici  

Indicazioni d’uso approvate EMA (anno di approvazione)

Tossicità renale
Axitinib VEGFR1/2/3, PDGFRβ

RCC (2012)

Proteinuria, Insufficienza renale
Cabozantinib VEGFR1/2/3, RET, Met, Kit,TrkB, Flt3, Axl, Tie2, ROS1

MTC (2014), RCC (2016), HCC (2016)

Proteinuria, insufficienza renale, lesione renale acuta, nefrite
Lenvatinib VEGFRs, FGFRs, PDGFR, Kit, RET

RCC (2016)

Insufficienza renale, urea ematica aumentata, necrosi tubulare renale

Regorafenib VEGFR1/2/3, BCR-Abl, B-Raf, B-Raf(V600E), Kit

CRC (2013), GIST (2013)

Proteinuria
Sunitinib VEGFR1/2/3, PDGFRα/β, Kit, Flt3 RCC (2006), GIST (2006) Insufficienza renale
Tivozanib VEGFR2 RCC (2017) Proteinuria
Vandetanib VEGFRs, EGFRs, RET, Brk, Tie2, MTC (2012) Insufficienza renale
Tabella I. Tossicità renale correlata al trattamento con TKI diretti contro il VEGFR.
Axl: anexelekto AXL receptor tyrosine kinase; BCR-Abl: breakpoint cluster region-Tyrosine-protein kinase ABL1; B-Raf: v-raf murine sarcoma viral oncogene homolog B1;Brk: Breast tumor kinase Tyrosine-protein kinase; CRC: Colorectal cancer; EGFRs: Epidermal Growth Factor Receptors.;Fms: Feline McDonough Sarcoma;Flt3: fms related receptor tyrosine kinase 3; GIST: Gastrointestinal stromal tumor; HCC: Hepatocellular carcinoma; Kit: Stem cell growth factor receptor; Lck: lymphocyte-specific protein tyrosine kinase; Met: MET proto-oncogene, receptor tyrosine kinase; MTC: Medullary thyroid cancer; PDGFRβ: Platelet-Derived Growth Factor Receptor beta; Ph+ CML: Philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia; RCC: Renal cell carcinoma; RET: REarranged during Transfection ;ROS1: Proto-oncogene 1 receptor; Tie2: Angiopoietin 1 receptor ;TrkB: Tyrosine Kinase B receptor ;VEGFR: vascular Endothelial Growth Factor Receptor.

 

Conclusioni

La scelta terapeutica del TKI più adatto deve essere effettuata con attenzione, tenendo conto della salute generale del paziente, delle comorbidità, e con una particolare attenzione al grado di funzionalità renale. I dati di letteratura ad oggi disponibili suggeriscono l’importanza di monitorare la funzionalità renale ed evidenziare segni precoci di tossicità, che, se trascurati, possono portare a forme diverse di disfunzione d’organo, con un rischio particolarmente elevato di comparsa di proteinuria. La proteinuria TKI-dipendente è dovuta principalmente ad una alterata comunicazione tra cellule endoteliali e podociti a livello glomerulare. Il danno endoteliale conseguente all’esposizione a TKI può essere causa di una aumentata espressione compensatoria di fattori pro-angiogenici che, a loro volta, contribuiscono ad esacerbare l’insufficienza podocitaria. Una migliore comprensione dei meccanismi patogenetici alla base della tossicità renale dei TKI è fondamentale non solo per ottimizzare i protocolli di somministrazione dei TKI attualmente disponibili in clinica ma anche per poter progettare e sperimentare nuove molecole con profili di efficacia e sicurezza sempre migliori e in grado di limitare i rischi di farmacoresistenza, che possono condizionare gravemente la rilevanza clinica degli approcci farmacologici ad oggi disponibili in ambito chemioterapico.

 

Bibliografia

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Gestione della chemioterapia in pazienti in trattamento dialitico cronico

Abstract

L’incidenza dei tumori è aumentata nei pazienti con insufficienza renale cronica e, ancor più, nei pazienti in dialisi.

La dialisi può influenzare la terapia, così come la prognosi, dei pazienti oncologici, aumentando sia la mortalità relata al cancro che quella non relata, e rappresenta la causa principale di un uso non ottimale delle terapie oncologiche.

Nei pazienti con insufficienza renale, il dosaggio di molti chemioterapici dovrebbe essere ridotto ma, a causa della mancanza di una reale conoscenza delle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche di questi farmaci in dialisi, ciò viene spesso fatto empiricamente. Nonostante siano disponibili in letteratura numerosi lavori riguardanti l’uso della chemioterapia in dialisi, vi è poca uniformità per quanto riguarda le dosi e i tempi di somministrazione dei farmaci e non esistono linee guida a riguardo per la mancanza di “evidenze” poiché questi pazienti vengono solitamente esclusi dai trial clinici dei farmaci. È quindi fondamentale creare degli studi specifici in ambito onconefrologico per decidere come, quando e a che dose utilizzare la chemioterapia nei pazienti in dialisi e quindi garantire un trattamento ottimale anche a questi pazienti.

Parole chiave: onconefrologia, dialisi, tumore, chemioterapia

I numeri del cancro in dialisi

Nell’ultimo decennio del ’900 era già chiaro che i pazienti con insufficienza renale cronica e, ancora di più, i pazienti in dialisi, avessero un rischio aumentato di sviluppare tumori[1-3]. Veniva riportato un rischio del 20% di sviluppare tumore nei pazienti con insufficienza renale cronica terminale (ESRD), con un rischio che aumentava in modo proporzionale al tempo in dialisi [1]. 

Questa aumentata incidenza sembra essere secondaria al fatto che insufficienza renale cronica (CKD) e cancro condividono alcuni importanti fattori di rischio (es. ipertensione, età >65 anni, fumo di sigaretta, obesità, alcol, sesso maschile, patologie cardiovascolari, esposizione ambientale, etc.) [4, 5] e agli eventi avversi secondari all’insufficienza renale avanzata (es. esposizione prolungata alle tossine uremiche, infiammazione cronica, aumento del rischio infettivo, sistema immunitario poco efficiente, malnutrizione, alterazione dei meccanismi di riparo del DNA, etc.) [6, 7]. 

Il miglioramento delle tecniche dialitiche ha portato, nel corso degli anni, a un incremento significativo della vita media del paziente dializzato, rendendo il trattamento del tumore in questa categoria di pazienti un tema di importanza sempre maggiore [6]. 

Negli ultimi anni sono stati pertanto condotti studi epidemiologici volti a una miglior identificazione della reale incidenza di tumore nei pazienti dializzati e dei principali fattori di rischio. 

In particolare, uno dei più grandi studi condotti fino ad ora sull’argomento è uno studio di coorte, retrospettivo, che aveva lo scopo di valutare l’incidenza di tumore in pazienti in trattamento dialitico cronico dal 1996 al 2009. Sono stati valutati 482.510 pazienti; di questi, 37.128 hanno sviluppato una neoplasia entro i 5 anni (prevalenza 7,65%), con un’incidenza cumulativa calcolata in 5 anni del 9,48%. Il rischio era più elevato per il tumore del rene, della pelvi renale e della vescica e i principali fattori di rischio individuati sono stati sesso maschile, razza non ispanica, età superiore ai 65 anni e una causa di ESRD diversa dal diabete [8]. 

Questi dati sono stati confermati da uno studio italiano, condotto da Taborelli et al., su 10.790 pazienti emodializzati. In questa popolazione sono stati registrati 367 tumori de novo in 330 pazienti evidenziando come il rischio di insorgenza di una neoplasia de novo sia di 1,3 volte maggiore nella popolazione dialitica rispetto alla popolazione generale. In questo studio non sono state evidenziate differenze tra i sessi, con un rischio maggiore in pazienti giovani. Il rischio è apparso essere più elevato nei primi tre anni, ed in particolare nel primo anno di dialisi [6]. 

Uno studio condotto in Oceania sempre negli stessi anni si è occupato invece di valutare il rischio di recidiva di malattia oncologica nei pazienti dializzati. Sono stati valutati 4912 pazienti che avevano avuto una precedente neoplasia. Di questi, 323 pazienti (6,6%) hanno sviluppato una recidiva di neoplasia, l’80% dei quali metastatica. 343 pazienti (7%) hanno invece avuto una diagnosi di nuova neoplasia. È stato registrato un tempo medio di recidiva di tumore dall’inizio della dialisi di 1,2 anni e un tempo di insorgenza medio per lo sviluppo di un nuovo tumore di 2 anni. È stato inoltre visto che la sopravvivenza media di questi pazienti era limitata: 1,3 anni per i pazienti che avevano sviluppato un tumore de novo, in particolare di rene, vie urinarie e polmone, e una sopravvivenza a 3 anni inferiore al 50% per i pazienti con recidiva di malattia. In questo caso i tumori più frequenti erano linfoma, vie urinarie, polmone e melanoma [9]. 

Tutti questi studi hanno confermato una stretta relazione tra funzione renale e cancro rendendo evidente la necessità di uno screening specifico e di un follow-up regolare nella popolazione dializzata con particolare attenzione ai pazienti con una storia oncologica e la necessità di rendere la terapia oncologica accessibile anche a questa categoria di pazienti [10]. 

 

Chemioterapia ieri e oggi

La chemioterapia citotossica è stata la prima classe di farmaci utilizzata per il trattamento dei tumori. Nel 1942 Louis Goodman e Alfred Gilman usarono per la prima volta le mostarde azotate in un paziente con linfoma non Hodgkin, dimostrando che la chemioterapia può indurre remissione del tumore [11].

Da allora l’utilizzo della chemioterapia si è diffuso notevolmente con un’esplosione del numero di farmaci utilizzati e il tipo di tumore trattati. Nel 1992, l’approvazione di Imatinib per il trattamento della leucemia mieloide cronica ha segnato l’inizio dell’era dei farmaci a bersaglio molecolare. L’introduzione di nuove classi di farmaci ha migliorato la sopravvivenza dei pazienti oncologici ma la chemioterapia resta ancora oggi molto utilizzata sia in monoterapia che in combinazione con altri chemioterapici o farmaci di altre classi (Tabella 1).

La gestione della chemioterapia nei pazienti in dialisi rappresenta ancora oggi una grande sfida per l’oncologo e per il nefrologo poiché molti chemioterapici sono escreti a livello renale anche solo in parte e la dialisi altera il metabolismo della maggior parte dei farmaci, anche quelli con un’escrezione renale ridotta o nulla [13].

Le principali sfide in questo ambito sono individuare la dose di farmaco da somministrare e il momento in cui somministrarlo rispetto alla seduta dialitica. È importante riuscire a ottimizzare al meglio entrambi i parametri poiché, se da una parte somministrare una dose eccessiva di farmaco può portare a over-esposizione del paziente alla sostanza tossica con un aumento degli eventi avversi e una riduzione della sopravvivenza, anche una riduzione della dose del farmaco eccessiva o una sua rimozione precoce dal circolo ematico porta a un sotto-trattamento e quindi a una riduzione di efficacia dello stesso [14].

Tipo di tumore Uso della chemioterapia Terapie “emergenti”
Polmone Riduzione globale ICI; ICI + CT; TA
Colon-retto Stabile TA + CT
Esofago-stomaco Stabile TA + CT
Pancreas Stabile TA + CT
Ovaio Stabile TA + CT
Endometrio Stabile ICI; TA + CT
Testa-collo Stabile ICI + CT; TA
Urotelio Stabile ADC, ICI
Mammella Riduzione importante ADC, TA
Prostata In aumento TA
Sarcoma Stabile TA
Linfoma/Leucemia Stabile CT + TA
ICI, inibitori di immune checkpoint; CT, chemioterapia; TA, Farmaci a bersaglio molecolare; ADC, antibody-drug conjugates
Tabella 1. Chemioterapia nella pratica clinica [12].

 

Studi clinici e raccomandazioni

Gli studi clinici fase I e II solitamente includono solo i pazienti con funzione renale normale o lievemente ridotta; il problema persiste negli studi di fase III dove soltanto in alcuni vengono arruolati pazienti con insufficienza renale cronica moderata. Per questo motivo i dati relativi a pazienti con insufficienza renale avanzata (eGFR <30 ml/min/1,73 mq), insufficienza renale cronica terminale (ESRD) o in dialisi sono particolarmente limitati o del tutto assenti prima dell’approvazione del farmaco. La presenza di dati limitati e l’inesperienza circa la sicurezza nell’uso dei farmaci in queste popolazioni fanno si che sulla scheda tecnica degli stessi appaia la dicitura “il farmaco è controindicato nei pazienti con insufficienza renale avanzata” [15].

I pazienti con ESRD vengono esclusi dagli studi clinici nonostante ci siano raccomandazioni specifiche da parte di EMA e FDA per l’arruolamento dei pazienti con CKD nei trial clinici a condizione che venga definito una metodica standard per stimare il filtrato glomerulare per tutta la durata dello studio e che vengano stabiliti degli adeguamenti della dose del farmaco in base al filtrato glomerulare standardizzati per lo studio [16, 17].

Uno studio condotto da Kitchlu et al. nel 2018 ha posto l’attenzione sulla grande problematica dell’esclusione dei pazienti con insufficienza renale dai triali clinici dei farmaci oncologici evidenziando come dei 310 triali clinici analizzati, condotti dal 2012 al 2017 su farmaci oncologici per il trattamento dei 5 tumori più comuni (vescica, seno, colon-retto, polmone, prostata) e i cui risultati sono stati pubblicati su riviste ad elevato impact-factor, l’85% escludeva a priori i pazienti con insufficienza renale cronica e il 100% i pazienti in dialisi [18]. Uno studio retrospettivo simile, volto a valutare la percentuale di trial clinici di fase III su farmaci oncologici sistemici che escludono pazienti con CKD, e relativi criteri d’esclusione, è stato pubblicato nel 2022 da Delaye et al.; dei 268 trial valutati, il 68% (185) presentavano almeno un criterio di esclusione basato sulla funzione renale [19].

Questi dati sono particolarmente rilevanti se si considera l’elevata incidenza di tumori nei pazienti con CKD. L’esclusione dei pazienti dai trial fa si che questi pazienti non vengano presi in considerazione per terapie oncologiche. È inoltre importante sottolineare che i pazienti con CKD non sono esclusi solo dai trial di farmaci con elevata potenzialità nefrotossica o per i quali ci sia un elevato rischio di eventi avversi a causa dell’eccessivo accumulo del farmaco nell’organismo in caso di ridotta escrezione renale, ma anche da quelli per i quali il rene non ha un ruolo determinante in farmacocinetica e farmacodinamica [18]. 

Nel 2020 Sprangers et al. hanno proposto delle misure da adottare per migliorare la cura oncologica nei pazienti con insufficienza renale. In particolare hanno suggerito la necessità che Agenzie Nazionali e Internazionali del farmaco come FDA ed EMA impongano l’inclusione dei pazienti con CKD nei trial clinici dei farmaci o che producano dati clinici separati ma specifici sui pazienti con insufficienza renale prima dell’approvazione dei farmaci stessi. Inoltre, raccomandano che vengano eseguiti almeno degli studi secondari, successivi all’approvazione dei farmaci, per i pazienti con CKD o ESRD; suggeriscono anche che i nefrologi vengano coinvolti nelle prime fasi dei trial clinici dei farmaci e nei team dedicati alla disfunzione d’organo per aumentare il reclutamento dei pazienti con CKD, e che vengano creati dei gruppi a livello nazionale con lo scopo di aumentare l’interesse per la problematica [20].

Proposte simili sono state avanzate da Delaye et al., i quali suggeriscono inoltre di stabilire un metodo di stima della funzione renale che possa essere usato in tutti i trial clinici, che le modifiche di dose necessarie per i pazienti con GFR ridotto vengano stabilite nelle prime fasi dei trial in modo da avere maggior facilità nella gestione dei pazienti con CKD nelle ultime fasi degli studi e limitare l’eventuale esclusione dei pazienti con ESRD dai trial clinici per i soli farmaci che, in base alle caratteristiche di farmacocinetica e farmacodinamica, potrebbero mettere a rischio il paziente [19].

I dati clinici disponibili sull’utilizzo dei chemioterapici in dialisi sono pertanto derivati da case report e case series o piccoli studi retrospettivi che raccolgono pazienti trattati con farmaci molto diversi tra loro e che pertanto non permettono di trarre conclusioni statisticamente significative e omogenee sulla dose di farmaco da somministrare, la tempistica di somministrazione rispetto alla seduta dialitica, il profilo di sicurezza e di efficacia [21-25].

Lo studio Candy [26], studio multicentrico retrospettivo condotto dal 1997 al 2010 su 178 pazienti emodializzati, aveva come obiettivo primario quello di dare indicazioni circa la gestione dei farmaci oncologici in pazienti dializzati che sviluppavano un tumore dopo l’inizio della dialisi (tempo medio tra l’inizio della dialisi e la diagnosi di tumore di 2,6 anni). Dei 178 pazienti, 50 erano stati trattati con chemioterapici per un totale di 96 prescrizioni e 36 diversi farmaci prescritti. Delle 96 prescrizioni il 45% richiedeva un adeguamento di dose sulla base dei pochi dati di letteratura o erano farmaci per i quali non erano disponibili raccomandazioni nei pazienti in dialisi; il 75% dei farmaci prescritti era stato somministrato dopo la seduta di dialisi. Dei 50 pazienti trattati, il 72% aveva ricevuto almeno un farmaco che richiedeva adeguamento di dose o per cui non c’erano raccomandazioni nei pazienti dializzati. In generale, dallo studio emerge che l’88% dei pazienti trattati con farmaci oncologici aveva avuto necessità di una gestione specifica della dose o del timing di somministrazione di almeno un farmaco senza però linee guida specifiche.

I principali limiti di questo studio sono l’assenza di indicazioni su come adeguare la dose del farmaco (viene indicato solo se sia necessario un adeguamento), non ci sono dati circa i pazienti trattati con dosi ridotte, e le informazioni sulla necessità di adeguamento di dose o di dializzabilità derivano da casi clinici singoli o piccole case series per la mancanza di evidenze di alto livello in questo setting di pazienti. Mancano inoltre i dati circa la risposta alla terapia.

Nel 2017 l’Associazione Italiana Oncologia Medica (AIOM) e la Società Italiana di Nefrologia (SIN) hanno pubblicato delle “Raccomandazioni” sulla gestione della chemioterapia nei pazienti dializzati basandosi sui dati presenti in letteratura, per stessa ammissione degli autori, nella maggior parte dei casi singoli, case report o piccole case series; nonostante siano state fornite indicazioni circa l’utilizzo della maggior parte dei principali chemioterapici, la mancanza di studi clinici sull’argomento impedisce di avere informazioni certe e quindi delle reali linee guida [27].

Nel 2022 è stata pubblicata una review che, ancora una volta, ha provato a riassumere le indicazioni circa la gestione dei farmaci nei pazienti oncologici in trattamento dialitico cronico. Sempre per una mancanza in letteratura di studi clinici, anche le indicazioni presentate dagli autori di questa review sono basate su una casistica limitata che, per la maggior parte, coincide con quella su cui si sono basati sui case series precedenti [13].

In letteratura è presente una sola review che ha raccolto i dati di pazienti in dialisi peritoneale; si tratta di una raccolta di 16 case report trattati con un totale di 18 regimi terapeutici (15 chemioterapia, 3 farmaci a bersaglio molecolare, no immunoterapia). Sulla base delle poche evidenze gli autori raccomandano l’adeguamento di dose dei farmaci utilizzati [28].

Sempre nel 2022 sono state pubblicate le “International Consensus Guideline for Anticancer Drug Dosing in Kidney Dysfunction (ADDIKD)” con l’obbiettivo di fornire indicazioni generali su come stimare la funzione renale nei pazienti oncologici e su come utilizzare questo dato per adeguare la dose dei farmaci oncologici. Vengono poi fornite indicazioni specifiche su come somministrare i singoli farmaci in base alla funzione renale dei pazienti. Le linee guida non forniscono indicazioni su come adeguare la dose dei farmaci nei cicli di terapia successivi al primo e informazioni specifiche sull’adeguamento di dose in pazienti con filtrato glomerulare inferiore ai 15 ml/min/1,73 mq in terapia conservativa o trattamento dialitico. Per queste categorie di pazienti viene suggerito un approccio multidisciplinare con nefrologi, oncologi/ematologi e farmacologi.

Ancora una volta, la mancanza di studi clinici specifici impedisce di avere linee guida chiare su come gestire i chemioterapici nella popolazione di pazienti dializzati [29].

Il mancato arruolamento dei pazienti con ESRD e in dialisi nei trial clinici dei farmaci non permette inoltre di avere dati circa la farmacocinetica e farmacodinamica in questi pazienti e, anche nei case report descritti in letteratura, spesso non sono state studiate queste caratteristiche dei farmaci. Questo rende ulteriormente difficile l’utilizzo dei farmaci in questa popolazione.

Infatti, nella popolazione generale le proprietà farmacodinamiche derivano dall’interazione del farmaco con i suoi recettori/target cellulari e l’attivazione del successivo pathway a valle e la farmacocinetica dei farmaci può invece essere descritta dall’acronico ADME: assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione (Figura 1) [13]. Questi parametri nei pazienti con ESRD o in dialisi possono essere modificati anche per i farmaci non eliminati primariamente dal rene ma i cui metaboliti lo sono; inoltre, le tossine uremiche possono alterare gli enzimi epatici coinvolti nel metabolismo dei farmaci [13]. Nei pazienti in dialisi la farmacocinetica e farmacodinamica dipendono inoltre anche da variabili specifiche della dialisi: ultrafiltrazione, tipo di membrana utilizzata e superficie, ritmo dialitico e durata del trattamento, peso molecolare dei farmaci, legame con le proteine, etc. [30, 31]; queste sono considerazioni da fare e non controindicazioni alla somministrazione di chemioterapia in dialisi.

Figura 1. La farmacocinetica nel paziente dializzato.
Figura 1. La farmacocinetica nel paziente dializzato.

 

La pratica clinica

Nella pratica clinica quotidiana, nonostante esista la possibilità, somministrare terapia oncologica sistemica ai pazienti in dialisi resta tutt’ora un’enorme sfida per il clinico; la conseguenza nella realtà è che non sempre viene somministrata. Uno studio retrospettivo condotto da Minegishi et al. ha mostrato come di 158 pazienti oncologici affetti da tumore del polmone afferenti a 22 ospedali giapponesi, solo 91 pazienti sono stati trattati con chemioterapia mentre 67 hanno ricevuto solamente cure di supporto a prescindere dallo stadio del tumore [32]. I dati francesi del CANDY study [23] riportano che solo il 28% dei pazienti dializzati con una neoplasia diagnosticata de novo vengono trattati con terapia oncologica sistemica, e uno studio giapponese riporta una percentuale ancora inferiore pari al 15% [33].

Se esiste già una tendenza al sotto trattamento nei pazienti con evidenza di malattia, il problema diventa ancora più rilevante nel setting adiuvante. In particolare, Ishii et al. hanno recentemente pubblicato i dati relativi a uno studio retrospettivo condotto su 99.761 pazienti sottoposti a chirurgia curativa per tumori di colon, polmone o mammella in ospedali giapponesi. Di questi, 1207 pazienti (1%) erano dializzati. Quello che è emerso dallo studio è la conferma che i pazienti dializzati vengono sottoposti a terapia adiuvante meno spesso dei pazienti non dializzati (24% vs 63%, p<0,001) e che, quando viene avviata, la terapia adiuvante è spesso più breve (138 vs 154 giorni, p<0,001), con regimi di terapia modificati senza omogeneità e con riduzioni spesso non necessarie della dose del farmaco (92% dei pazienti trattati in questo studio vs 72% in studi precedenti) [34].

 

Sopravvivenza dopo terapia

I pazienti oncologici con concomitate CKD hanno outcome peggiori rispetto ai pazienti normofunzione renale [18], è stato inoltre riportato un rischio di mortalità cancro-relata 1,5-2,9 volte superiore nei pazienti dializzati rispetto alla popolazione generale [34]. Per esempio, dallo studio di Minegishi et al. non emergono chiari benefici di sopravvivenza nel trattare i pazienti con chemioterapia e, pertanto, viene consigliata una valutazione attenta prima del trattamento di questi pazienti [32].

Se da un lato il peggioramento dell’outcome può essere spiegato dalle numerose comorbidità dei pazienti dializzati, un problema effettivo sembra essere rappresentato dal non trattamento o mal trattamento dei pazienti. Infatti, ai pazienti in dialisi, spesso viene negato un trattamento adeguato per un atteggiamento “nichilistico” da parte degli oncologi ma anche troppo spesso dei nefrologi, per la mancanza di una reale conoscenza della farmacocinetica e farmacodinamica di questi farmaci in dialisi e per la difficoltà gestionale di far coincidere terapia oncologica e seduta dialitica.

È emerso in studi condotti su pazienti con CKD che un adeguamento della dose del farmaco in base alla funzione renale corretto ed effettuato prima dell’inizio del trattamento porti a una miglior prognosi oncologica rispetto a un adeguamento di dose in corso di terapia [14, 35]. Nonostante non esistano al momento studi analoghi condotti su pazienti in dialisi è verosimile credere che l’andamento in termini di prognosi sia il medesimo.

 

Conclusioni

Nonostante in letteratura ci siano lavori riguardo la chemioterapia in dialisi, c’è poca uniformità per quanto riguarda la dose e i tempi di somministrazione, con informazioni a volte contraddittorie, e, al momento, non esistono reali Linee Guida ma solo raccomandazioni o consigli di esperti. È quindi evidente la necessità di trial clinici dedicati in ambito onconefrologico, poiché una conoscenza approfondita delle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche è mandatoria per decidere quanto, come, e quando usare la chemioterapia in questi pazienti.

In conclusione, il cancro di un paziente in dialisi dovrebbe essere trattato allo stesso modo che in un paziente non in dialisi; facendo le opportune valutazioni sulla clearance renale del farmaco, il dosaggio e la sua dializzabilità [26] e considerando etica del trattamento, prognosi oncologica, qualità della vita, desideri e obiettivi del paziente.

 

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