Revisione narrativa sulla fistola artero-venosa per emodialisi

Abstract

La FAV rappresenta la “lifeline” per il paziente in dialisi; pertanto, sono essenziali un suo continuo monitoraggio e sorveglianza.

Per quanto i dati epidemiologici abbiano indicato un incremento nel corso degli anni dell’età anagrafica nonché del numero dei pazienti con diabete e/o arteriosclerosi, la FAV resta tuttora l’accesso vascolare più comune rispetto al catetere venoso centrale ed alla protesi vascolare. La FAV presenta un minor rischio di infezione ed ospedalizzazione, garantisce una maggiore efficienza dialitica e conseguente prolungata sopravvivenza del paziente.

Da quando i medici Cimino e Brescia concepirono la fistola artero-venosa (FAV) per la dialisi cronica, le linee-guida che si sono succedute hanno fornito suggerimenti sul tipo di anastomosi, collocazione (prossimale, distale), primo impiego della FAV, monitoraggio e sorveglianza del patrimonio vascolare del paziente.  È stato sottolineato il ruolo del paziente nell’autogestione della FAV e l’importanza di un team multidisciplinare nel monitorare e sorvegliare la FAV per ottenere prolungata longevità, maggiore efficienza dialitica e migliore sopravvivenza del paziente. La gestione richiede informazione ed istruzione del paziente, esame clinico da parte dello staff di dialisi e controlli periodici con esame ecodoppler per cogliere i primi segni di un malfunzionamento della FAV e procedere in tempo alla correzione.

La letteratura viene rivista e vengono riportati i suggerimenti delle linee guida ed i dati relativi al progetto Accesso Vascolare per Emodialisi (AVE); quest’ultimo è un progetto volto a valutare l’efficacia di un protocollo di monitoraggio e sorveglianza, operato da un team multidisciplinare, sull’efficienza dialitica, sulla longevità della FAV e sulla mortalità.

Parole chiave: fistola artero-venosa, dialisi extracorporea, mortalità, monitoraggio, sorveglianza

Introduzione

La fistola artero-venosa interna (FAV) fu concepita dai medici Cimino e Brescia nel 1966, quale superamento dello shunt artero-venoso esterno di Quinton-Scribner [1, 2].

La FAV resta l’accesso vascolare migliore ed è considerata la “lifeline” per il paziente in dialisi cronica essendo superiore agli altri accessi vascolari, quali catetere venoso centrale e protesi, rispetto ai quali presenta maggiore longevità, minor rischio di infezioni e formazione di trombi, ed assicura maggiore sopravvivenza al paziente [37]. 

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Il trattamento dell’anemia del paziente con malattia renale cronica: dopo un viaggio lungo oltre 30 anni quali evidenze supportano la scelta motivata di un ESA?

Abstract

Gli Agenti Stimolanti l’Eritropoiesi (ESA) sono farmaci efficaci e ben tollerati per il trattamento dell’anemia nei pazienti con malattia renale cronica. Negli anni, la ricerca scientifica e la pratica clinica si sono focalizzati principalmente sul target di emoglobina da raggiungere, fino a valori nel range di normalità. Si è passati poi ad un approccio più cauto di correzione parziale dell’anemia.

Si è rivolta invece poca attenzione alle possibili differenze tra le diverse molecole di ESA. Nonostante presentino un comune meccanismo di azione sul recettore dell’eritropoietina, esse hanno peculiari caratteristiche farmacodinamiche che potrebbero dare segnali diversi di attivazione del recettore, con possibili differenze cliniche.

Alcuni studi e metanalisi, effettuati in passato, non hanno evidenziato differenze significative in tal senso tra i vari ESA. Più recentemente, uno studio osservazionale del registro di dialisi giapponese ha evidenziato un rischio di mortalità da ogni causa maggiore del 20% nei pazienti trattati con ESA a lunga emivita rispetto ai pazienti trattati con quelli a breve emivita; la differenza di rischio era più elevata nei pazienti che avevano ricevuto dosi più elevate di ESA. Tali risultati non sono stati confermati da un recente trial randomizzato che non ha dimostrato differenze significative nel rischio di morte da tutte le cause o di eventi cardiovascolari per la metossipolietilenglicole epoetina beta rispetto agli ESA a breve emivita o alla darbepoetina alfa. Infine, i dati di uno studio osservazionale italiano, effettuato in fase conservativa, hanno evidenziato un’associazione tra l’uso di alte dosi di ESA e un maggior rischio di CKD terminale, limitata al solo uso degli ESA a breve emivita.

In conclusione, la pari sicurezza degli ESA a lunga e a breve emivita è supportata da un trial randomizzato disegnato ad hoc per testare questa ipotesi. Gli studi osservazionali debbono essere considerati solo come generatori di ipotesi, per il rischio di bias prescrittivo.

Parole chiave: anemia, agenti stimolanti l’eritropoiesi, ESA, mortalità, malattia renale cronica, lunga emivita, breve emivita

Introduzione

Dalla pubblicazione dello storico lavoro di Eschbach più di 30 anni fa [1], il trattamento dell’anemia con i farmaci stimolanti l’eritropoiesi (Erythropoiesis Stimulating Agents, ESAs) ha rivoluzionato la qualità della vita dei pazienti con malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD). In quegli anni i pazienti erano gravemente anemici e spesso sopravvivevano con livelli di emoglobina anche inferiori a 5 g/dL, ricorrendo a periodiche trasfusioni, con alto rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e con conseguente accumulo di grandi quantità di ferro. Nei casi più gravi i nefrologi erano costretti ad intervenire con un trattamento chelante a base di desferriossamina, a sua volta gravato da serie complicanze come la mucoviscidosi. Improvvisamente, grazie all’utilizzo dell’eritropoietina, i pazienti ricominciarono a vivere. Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti cronici, che si fecero trascinare fino a una correzione troppo rapida dei valori di emoglobina, portando a complicanze come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni. 

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Associazione tra fratture vertebrali e calcificazioni vascolari

Abstract

Numerosi studi sia cross-sectional sia prospettici evidenziano una associazione tra fratture ossee e calcificazioni aortiche, specie se particolarmente severe, anche indipendentemente da potenziali fattori di confondimento, come invecchiamento, abitudine al fumo di sigaretta, ipertensione e diabete. Tale fenomeno interessa non solo la popolazione generale, ma anche i pazienti con malattia renale cronica, nei quali sono prevalenti le alterazioni strutturali dell’ osso corticale. A loro volta, le fratture ossee e le calcificazioni aortiche sono state associate ad aumentata morbilità e mortalità cardiovascolare, sia nella popolazione generale che nei pazienti con malattia renale cronica, in cui notoriamente è particolarmente elevato è il rischio cardiovascolare.

Pertanto, soprattutto nei pazienti con malattia renale cronica, la ricerca di fratture ossee e di calcificazioni aortiche potrebbe rappresentare un utile strumento per identificare i pazienti esposti ad un maggior rischio cardiovascolare ed ottimizzare la terapia della malattia metabolica ossea.

PAROLE CHIAVE: Fratture vertebrali, calcificazioni vascolari, malattia renale cronica, mortalità

INTRODUZIONE

L’Osteoporosi e le malattie cardiovascolari sono due importanti problemi di salute pubblica, entrambi associati ad elevata morbilità e ospedalizzazione di lunga durata, elevata mortalità ed elevato dispendio di risorse da parte del Sistema Sanitario (1).

Tra queste due patologie, inoltre, è documentata una stretta correlazione, sia nella popolazione generale, sia nei pazienti con malattia renale cronica (MRC), come dimostrato da recenti studi clinici sperimentali (234).

La relazione tra osso e vasi è molto ben riassunta, sotto l’aspetto biologico, dal processo di calcificazione della media dei vasi arteriosi. Infatti, alcuni modulatori chiave del metabolismo osseo e minerale sono coinvolti attivamente nel processo di calcificazione vascolare, in quanto esistono forti analogie tra le cellule della parete vascolare e il tessuto osseo. In particolare, le cellule muscolari lisce, stimolate dagli stessi lipidi ossidati che inducono aterosclerosi, sono in grado di trans-differenziarsi in osteoblasti e, successivamente, di produrre osso mineralizzato nella parete arteriosa. Inoltre, sia il processo di aterosclerosi che di osteoporosi vedono il reclutamento dei monociti e la loro differenziazione in macrofagi-cellule schiumose nelle arterie e negli osteoclasti dell’osso (5). Il processo di trans-differenziazione in senso osteo-condroblastico delle cellule muscolari lisce della tunica media delle arterie vede coinvolto un aumento dell’espressione del fattore di trascrizione Runx2 e di altri mediatori a valle di differenziazione osteoblastica (Msx2, Wnt3a, and Wnt7a), di mineralizzazione della matrice (osterix, fosfatasi alcalina) e proteine tipiche del tessuto osseo (collageno tipo I, osteocalcina, osteopontina, e RANKL) (6). 

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