Efficacia del sodio tiosolfato in un caso di calcifilassi in una paziente novantenne nefropatica cronica in terapia conservativa

Abstract

L’arteriolopatia uremica calcifica, nota anche come calcifilassi (CUA), è una condizione rara e potenzialmente fatale che si verifica nel 1-4% della popolazione con insufficienza renale cronica, spesso in trattamento dialitico. La patogenesi non è ancora chiara sebbene siano state avanzate diverse ipotesi tra cui di primaria importanza l’alterazione del metabolismo calcio-fosforo. Il sodio tiosolfato (STS) rappresenta la terapia emergente. Di seguito riportiamo un caso di una paziente affetta da CUA, una grande anziana nefropatica cronica in terapia conservativa che è stata trattata con successo con il STS.

                                                                                                                

PAROLE CHIAVE: calcifilassi, sodio tiosolfato, malattia renale cronica

Introduzione

L’arteriolopatia uremica calcifica, più comunemente conosciuta con il termine di calcifilassi (CUA), è un disordine raro associato ad un’alta frequenza di mortalità. Colpisce 1-4% della popolazione con insufficienza renale cronica ed è caratterizzata da ischemia e necrosi cutanea secondaria alla deposizione di calcio nella tonaca media delle arteriole con fibrosi dell’intima e trombosi delle arteriole sottocutanee [1]. 

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Variazione temporale dell’epidemiologia della Malattia Renale Cronica

Abstract

La malattia renale cronica (CKD) rappresenta un rilevante fattore di rischio di mortalità e morbilità, nonché un crescente problema di salute pubblica. Diversi studi hanno descritto l’epidemiologia della CKD esaminando intervalli di tempo piuttosto ristretti. Al contrario, il trend temporale dell’epidemiologia della CKD non è stato ancora ben esplorato, sebbene possa fornire informazioni utili su come migliorare la prevenzione e l’allocazione delle risorse economiche. Il nostro obiettivo è quindi quello di descrivere i principali aspetti dell’epidemiologia della CKD focalizzandoci sulle sue variazioni temporali. L’incidenza globale della malattia è aumentata dell’89% negli ultimi 27 anni, influenzata soprattutto dall’indice socio-economico e dall’aumentata aspettativa di vita. La sua prevalenza ha mostrato un incremento globale simile, dell’87%, nello stesso periodo di tempo. Il crescente trend di prevalenza e di incidenza della CKD può essere dovuto al concomitante invecchiamento della popolazione e all’aumento di comorbidità come ipertensione, diabete ed obesità. Il tasso di mortalità è però diminuito, nella popolazione generale come nei pazienti con CKD, a causa della riduzione degli eventi fatali cardiovascolari e infettivi. Sembra difficile confrontare il trend italiano con quello di altri Paesi a causa del modo in cui sono state rilevate le misure epidemiologiche. La creazione di Registri specifici della CKD in Italia appare pertanto necessaria per monitorare nel tempo sia il trend della malattia renale cronica che quello delle complicanze ad essa associate.

Parole chiave: malattia renale cronica, CKD, epidemiologia, registri, indice socio-demografico

Introduzione

La malattia renale cronica (CKD) è una condizione patologica associata ad un alto rischio di mortalità e di morbidità. È stato infatti dimostrato, in studi di popolazione generale e di pazienti seguiti dalle unità nefrologiche, che la presenza di un valore di filtrato glomerulare stimato (eGFR) <60 ml/min/1,73m2 o di proteinuria si associa ad un alto rischio di sviluppare, nel tempo, eventi cardiovascolari (CV) maggiori (malattia coronarica, scompenso cardiaco, vasculopatia periferica), progressione del danno renale (riduzione del eGFR ed ingresso in dialisi) e mortalità da tutte le cause [15].  

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Sfide e risultati del progetto PIRP (Prevenzione della Insufficienza Renale Progressiva) della Regione Emilia-Romagna

Abstract

Il progetto PIRP è stato ideato in Regione Emilia-Romagna nel 2004, per far fronte all’aumento di diffusione della malattia renale cronica (MRC) conseguente all’invecchiamento della popolazione generale e all’aumento della aspettativa di vita. La prima fase del progetto è consistita nel formare ed informare i medici di medicina generale (MMG) riguardo all’identificazione delle persone a rischio di MRC e all’implementazione di strategie di intervento efficaci nel prevenire o ritardare la progressione della MRC. Nella seconda fase del progetto sono stati instituiti nelle unità di nefrologia degli ospedali dell’Emilia-Romagna ambulatori dedicati, atti a fornire una valutazione specialistica e un’assistenza personalizzata ai pazienti con MRC inviati dai MMG. Il protocollo del progetto definisce le caratteristiche dei pazienti che, dopo una diagnosi di malattia dal punto di vista eziologico, possono essere reinviati ai MMG, quelli che devono essere seguiti nelle UO nefrologiche ospedaliere oppure quelli che possono essere seguiti in co-gestione. Il registro web, istituito nell’ambito del progetto ed implementato per raccogliere i dati demografici e clinici dei pazienti includeva, al 30 giugno 2018, 26.211 pazienti affetti da MRC, con un follow-up mediano di 24,5 mesi. Nel corso dei 14 anni di del progetto, l’età media dei pazienti alla prima visita è aumentata da 71,0 anni a 74,2 anni e il eGFR medio, alla prima visita, è passato dai 30,56 a 36,52 ml/min/1,73 m2. In pratica sono stati reclutati nel tempo pazienti in media più anziani ma con funzionalità renale maggiormente conservata e quindi con maggiori possibilità di sfruttare interventi terapeutici appropriati. La percentuale di pazienti ancora attivi in registro dopo 5 anni di follow-up è risultata superiore al 45%. Le uscite sono prevalentemente da riferire a decesso o all’inizio del trattamento dialitico. L’implementazione e l’articolazione nel tempo del progetto, ha visto ridursi negli ultimi anni il numero di pazienti che arrivano ogni anno al trattamento dialitico in Emilia Romagna (circa 100 unità in meno di pazienti incidenti dal 2006 al 2016). La coorte PIRP è la più grande in Italia e in Europa, e questo la rende ideale per studi basati su confronti internazionali e come modello per i registri nazionali.

Parole Chiave: Insufficienza renale cronica, Registro, Malattia Renale Cronica, MMG, VFG, Proteinuria, Intervento di salute pubblica

INTRODUZIONE

La Malattia Renale Cronica (MRC) è, nell’ambito delle patologie croniche, una condizione molto diffusa, con una prevalenza crescente nella popolazione generale e con una stima a livello mondiale di circa il 10-15% (1). In Italia la prevalenza della MRC è stimata sull’ordine del 7,5% negli uomini e del 6,5% nelle donne sulla base dello studio CARHES (2). Questi dati di prevalenza italiana, sotto certi aspetti consolanti, sono però destinati ad aumentare per diversi ordini di fattori: i) invecchiamento della popolazione; ii) aumentata prevalenza nella popolazione generale di condizioni cliniche ad elevato rischio di danno renale (diabete mellito, sindrome metabolica, ipertensione arteriosa) (3), iii) aumentata sopravvivenza dei pazienti co-morbidi e complessi.

 

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Farmaci ad azione antivirale diretta, epatite C e dialisi: un aggiornamento

Abstract

L’infezione da HCV rimane frequente nei pazienti con malattia renale cronica, in particolare nei Centri Dialisi di tutto il mondo. La piena estensione della trasmissione di HCV nei pazienti in emodialisi rimane sconosciuta ma numerosi focolai epidemici sono stati riportati in tutto il mondo. L’evidenza accumulata nell’ultima decade suggerisce la presenza di manifestazioni epatiche ed extra-epatiche di HCV. Una recente revisione sistematica della letteratura ha identificato 15 studi clinici longitudinali (n=2,299,134 pazienti); abbiamo osservato associazione tra positività sierologica per HCV ed aumentata frequenza di CKD, la stima aggregata del rischio aggiustato di CKD nei pazienti infetti rispetto a quelli senza infezione era 1.54 (95% CI, 1.26; 1.87) (P<0.001). L’avvento dei farmaci ad azione antivirale diretta (direct-acting antiviral agents, DAAs) ha rivoluzionato la cura di HCV, compresa la popolazione con malattia renale cronica avanzata. Due combinazioni antivirali a base di DAAs sono state di recente approvate per questi pazienti: elbasvir/grazoprevir e glecaprevir/pibrentasvir; tali regimi terapeutici sono dotati di elevata efficacia e sicurezza, in accordo a quanto concluso negli studi clinici C-SURFER e EXPEDITION-4, rispettivamente. Il sofosbuvir (SOF), un inibitore nucleotidico della HCV NS5 polimerasi, è un importante componente di molti regimi terapeutici anti-HCV ed ha significativa escrezione renale; pertanto, non è consigliato nei pazienti con eGFR<30 mL/min/1.73m2. In conclusione, studi recenti hanno evidenziato come esistano numerose combinazioni di DAAs per la cura di HCV nei pazienti con CKD, inclusi quelli con CKD grado 4-5. Tali farmaci hanno mostrato elevata efficacia e soddisfacente tollerabilità, indipendentemente da genotipo e grado di insufficienza renale. Si tratta ora di favorire lo screening e l’accesso alla terapia antivirale HCV in questa popolazione di pazienti.

Parole chiave: Agenti ad azione antivirale diretta; Dialisi; Epatite C; Malattia renale cronica; Risposta virologica protratta

Introduzione

L’infezione cronica da virus dell’epatite C (HCV) è un problema sanitario globale: si calcola che circa 71 milioni di persone siano infette in tutto il pianeta [1]. HCV è tuttora frequente nei pazienti nefropatici, inclusi in pazienti con malattia renale cronica in fase pre-dialitica (Tabella 1) e dialitica [ 211]. Esiste ormai una solida evidenza scientifica riguardo il ruolo deleterio svolto dall’infezione da virus HCV sulla sopravvivenza dei pazienti infetti; HCV sembra produrre danno epatico ed extraepatico. Il danno epatico è legato all’epatite cronica con le sue manifestazioni quali cirrosi epatica, carcinoma epatocellulare e scompenso. Nell’ultima decade si sono rese evidenti le manifestazioni extraepatiche di HCV: il virus favorisce, tra l’altro, l’insorgenza di diabete mellito, aumenta la mortalità cardiovascolare, e promuove lo sviluppo della malattia renale cronica [12]. HCV è considerato la causa più frequente di malattia epatica nei pazienti con malattia renale cronica. A loro volta, le epatopatie sono importante causa di aumentata mortalità e morbilità nei pazienti con CKD, specialmente nei dializzati e nei portatori di trapianto renale [12].

 

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RICOMINCIAMO INSIEME UN NUOVO PERCORSO DI VITA. GIORNATA DI PREVENZIONE DELLE MALATTIE RENALI – AMATRICE

Abstract

La malattia renale cronica (MRC) è una condizione molto diffusa e la sua prevalenza è in aumento in tutto il mondo. Lo studio CARHES in Italia ha mostrato una prevalenza del 6,5% nelle donne e del 7,5% negli uomini. Per questo motivo una precoce individuazione dei soggetti a rischio di sviluppare la MRC e una precoce diagnosi risulta essenziale per rallentarne la progressione e migliorare la prognosi renale e cardiovascolare. Con questo fine l’associazione A.N.Di.P. (Associazione Nazionale Dialisi Peritoneale-onlus“Enzo Siciliano”) ha organizzato la GIORNATA DI PREVENZIONE DELLE MALATTIE RENALI che si è tenuta ad AMATRICE il 15.7.2017 chiamata “RICOMINCIAMO INSIEME UN NUOVO PERCORSO DI VITA”. Lo scopo di questa iniziativa è stato sottolineare e diffondere sul territorio di Amatrice e dintorni l’importanza della prevenzione e della precoce diagnosi delle malattie renali. In questa giornata sono state effettuate anamnesi, misurazioni della pressione arteriosa, esame urine, dosaggio della creatininemia e dell’uricemia ed in base ai risultati ottenuti è stato suggerito al paziente come e se proseguire un ulteriore iter diagnostico, oltre a consigliare un corretto stile di vita, basato su un’alimentazione sana ed una attività fisica regolare. La scelta di rivolgere particolare attenzione alle popolazioni colpite tragicamente dal sisma è avvenuta per individuare patologie renali, eventuali postumi di fattori di rischio e/o stress causati dal terremoto, far conoscere l’importanza della funzione renale nel garantire la corretta omeostasi dell’organismo e infine nel sottolineare come dei semplici controlli di routine, possano essere sufficienti a svelare precocemente patologie renali misconosciute riducendo anche il rischio cardiovascolare.

Keywords: Amatrice, malattia renale cronica, crush syndrome

INTRODUZIONE

La malattia renale cronica (MRC) è una condizione molto diffusa e la sua prevalenza è in aumento in tutto il mondo (13). Lo studio CARHES in Italia ha mostrato una prevalenza del 6,5% nelle donne e del 7,5% negli uomini (45). Si definisce MRC la condizione in cui sia presente almeno da tre mesi una riduzione dell’estimated Glomerular Filtration Rate (eGFR) al di sotto di 60 ml/min/1.73m², oppure la presenza di un marcatore di danno renale quale: proteinuria, alterazioni del sedimento urinario, anomalie elettrolitiche da disordine tubulare, anomalie istologiche, alterazioni dei test di diagnostica per immagini del rene, storia di trapianto renale. La MRC e l’insufficienza renale cronica (IRC) non sono sinonimi poiché negli stadi 1 e 2 della MRC la funzione renale non è particolarmente alterata. La diagnosi e la stadiazione di MRC, secondo le linee guida KDIGO (12), si basano sull’eGFR, sulla presenza o meno di proteinuria, sull’esame delle urine e sull’ecografia renale e prevedono la classificazione della malattia in 5 stadi (Tabella 1). 

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Il trattamento del paziente fratturato con insufficienza renale cronica (CKD)

Abstract

Le fratture da fragilità si possono manifestare in tutti gli stadi della malattia renale cronica (CKD) a causa dell’osteoporosi, così come nella CKD-MBD. Come nel caso delle donne postmenopausali e degli anziani, la precoce identificazione dei pazienti con CKD e storia di fratture da fragilità è essenziale per ridurre il rischio di nuove fratture e delle loro conseguenze. Mentre il trattamento dell’osteoporosi nei pazienti con CKD stadio 1-3 non differisce sostanzialmente dai pazienti sani non-CKD, l’approccio farmacologico nei soggetti con CKD stadio 4-5/5D è differente e più complesso. In questi pazienti, prima di avviare una terapia farmacologica è imperativo determinare l’eventuale presenza di CKD-MBD, con un’istomorfometria ossea. Dopo l’implementazione di misure preventive generali non-farmacologiche volte alla riduzione del rischio di frattura e caduta, nel trattamento del paziente con CKD stadio 4-5/5D si può prendere il considerazione l’uso dei bisfosfonati e denosumab, sebbene le evidenze non siano di grado elevato. Sebbene alendronato, risedronato e denosumab abbiano dimostrato di essere efficaci (nel ridurre l’incidenza di fratture), sicuri e ben tollerati in pazienti con CKD stadio 4, il loro uso sistematico necessita ulteriori evidenze. Mentre, l’approccio farmacologico nello stadio 5/5D è stato esplorato unicamente in studi su piccole casistiche, che hanno prodotto evidenze limitate o scarse. In tutti i casi (stadio 4-5/5D), è necessario essere a conoscenza del rischio di potenziali eventi avversi quali l’ipocalcemia e la malattia adinamica dell’osso.

PAROLE CHIAVE: fratture, malattia renale cronica, osteoporosi, bisfosfonati, denosumab

Introduzione

Il trattamento del paziente affetto da osteoporosi con frattura da fragilità (osteoporosi severa) si deve basare sull’implementazione di misure generali di prevenzione non-farmacologiche e su una terapia farmacologica specifica, con l’obiettivo finale di ridurre l’incidenza di nuove fratture da fragilità (1, 2) e, indirettamente, prevenire le complicanze cliniche delle fratture (disabilità, decesso, riduzione della qualità di vita). Questo approccio, che è stato ormai ampiamente definito e caratterizzato per i pazienti affetti da osteoporosi primitiva (postmenopausale o senile) o secondaria, dovrebbe teoricamente essere implementato anche nei soggetti affetti da insufficienza renale cronica (CKD) ed osteoporosi severa con fratture da fragilità (14). In questo contesto, la prescrizione di misure preventive non-farmacologiche, quali l’implementazione di programmi di attività motoria/riabilitazione volti a migliorare le performance muscolari, l’attivazione di procedure per la riduzione del rischio di caduta, e la rimozione dei potenziali fattori di rischio per frattura da fragilità, non pone particolari problemi nel paziente affetto da CKD; mentre la terapia farmacologica specifica deve tener conto della complessità del paziente affetto da CKD, e dei potenziali rischi a essa connessi sul piano della funzione renale residua, della sicurezza scheletrica/osteometabolica e più in generale della sicurezza clinica (14). 

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Associazione tra fratture vertebrali e calcificazioni vascolari

Abstract

Numerosi studi sia cross-sectional sia prospettici evidenziano una associazione tra fratture ossee e calcificazioni aortiche, specie se particolarmente severe, anche indipendentemente da potenziali fattori di confondimento, come invecchiamento, abitudine al fumo di sigaretta, ipertensione e diabete. Tale fenomeno interessa non solo la popolazione generale, ma anche i pazienti con malattia renale cronica, nei quali sono prevalenti le alterazioni strutturali dell’ osso corticale. A loro volta, le fratture ossee e le calcificazioni aortiche sono state associate ad aumentata morbilità e mortalità cardiovascolare, sia nella popolazione generale che nei pazienti con malattia renale cronica, in cui notoriamente è particolarmente elevato è il rischio cardiovascolare.

Pertanto, soprattutto nei pazienti con malattia renale cronica, la ricerca di fratture ossee e di calcificazioni aortiche potrebbe rappresentare un utile strumento per identificare i pazienti esposti ad un maggior rischio cardiovascolare ed ottimizzare la terapia della malattia metabolica ossea.

PAROLE CHIAVE: Fratture vertebrali, calcificazioni vascolari, malattia renale cronica, mortalità

INTRODUZIONE

L’Osteoporosi e le malattie cardiovascolari sono due importanti problemi di salute pubblica, entrambi associati ad elevata morbilità e ospedalizzazione di lunga durata, elevata mortalità ed elevato dispendio di risorse da parte del Sistema Sanitario (1).

Tra queste due patologie, inoltre, è documentata una stretta correlazione, sia nella popolazione generale, sia nei pazienti con malattia renale cronica (MRC), come dimostrato da recenti studi clinici sperimentali (234).

La relazione tra osso e vasi è molto ben riassunta, sotto l’aspetto biologico, dal processo di calcificazione della media dei vasi arteriosi. Infatti, alcuni modulatori chiave del metabolismo osseo e minerale sono coinvolti attivamente nel processo di calcificazione vascolare, in quanto esistono forti analogie tra le cellule della parete vascolare e il tessuto osseo. In particolare, le cellule muscolari lisce, stimolate dagli stessi lipidi ossidati che inducono aterosclerosi, sono in grado di trans-differenziarsi in osteoblasti e, successivamente, di produrre osso mineralizzato nella parete arteriosa. Inoltre, sia il processo di aterosclerosi che di osteoporosi vedono il reclutamento dei monociti e la loro differenziazione in macrofagi-cellule schiumose nelle arterie e negli osteoclasti dell’osso (5). Il processo di trans-differenziazione in senso osteo-condroblastico delle cellule muscolari lisce della tunica media delle arterie vede coinvolto un aumento dell’espressione del fattore di trascrizione Runx2 e di altri mediatori a valle di differenziazione osteoblastica (Msx2, Wnt3a, and Wnt7a), di mineralizzazione della matrice (osterix, fosfatasi alcalina) e proteine tipiche del tessuto osseo (collageno tipo I, osteocalcina, osteopontina, e RANKL) (6). 

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Fratture da fragilità nella Malattia Renale Cronica (MRC)

Abstract

Le fratture da fragilità (FF) sono comuni nei pazienti con malattia renale cronica (MRC), si verificano più precocemente e con una maggior frequenza rispetto alla popolazione generale, comportando elevata morbilità, mortalità e costi. Dopo quasi mezzo secolo di dialisi, ancora oggi non sono completamente chiare le cause che rendono tali pazienti ad alto rischio di FF. Oltre al disordine sistemico del metabolismo minerale (CKD-MBD: Chronic Kidney Disease-related to Mineral Bone Disorders) sembra avere un ruolo anche lo stato di tossicità uremica (osteoporosi uremica) che va ad alterare soprattutto la bone quality. La mancanza di consistenti studi prospettici ci limita la definizione dei fattori di rischio associati all’evento fratturativo; inoltre gli algoritmi oggi disponibili volti a predire la probabilità di frattura esistenti (FRAX e DeFRA) non considerano la MRC. La diagnosi di frattura vertebrale (FV), sottodiagnosticata anche nella popolazione generale, deve essere fatta con la valutazione morfometrica quantitativa mediante DEXA o con una radiografia del rachide Dorso-Lombare (D5-L4) in L-L, con l’utilizzo di un software dedicato. La bassa BMD è riconosciuta dalle recenti KDIGO come fattore di rischio di frattura negli stadi G3a-G5D. Di recente anche il Trabecular Bone Score (TBS), permettendo anche una valutazione della bone quality, risulta predittivo del rischio fratturativo. La Tomografia Computerizzata Quantitativa, in particolare quella ad alta risoluzione a livello radiale (High Resolution-peripheral QCT), ha mostrato un’associazione tra il rischio fratturativo ed il danno a livello corticale. Tra i biomarkers il PTH presenta dati contrastanti, mentre alti livelli di ALP sono associati a più alto rischio fratturativo.

PAROLE CHIAVE: Fratture da fragilità, Malattia renale cronica, Dialisi, Osteoporosi.

Introduzione

La patologia fratturativa costituisce un enorme problema di salute pubblica in tutto il mondo, soprattutto negli ultimi anni in considerazione del progressivo aumento dell’età media della popolazione generale (1). In particolare è stimato che una donna su tre e uomo su 5 sopra i 50 anni, svilupperà una frattura osteoporotica (2). Infatti, l’età avanzata espone maggiormente al rischio di frattura: negli USA le fratture da osteoporosi colpiscono oltre 12 milioni di anziani e si stima che nel 2050, si avrà un incremento delle fratture fino a 6,3 milioni/anno rispetto a 1,7 milioni riscontrato negli anni ‘90 (3). Di pari passo, per le stesse ragioni legate all’aging, la malattia renale cronica (MRC) è in aumento in tutto il mondo e può colpire dall’8 al 16% della popolazione mondiale (4). L’aumento dell’età stessa costituisce sicuramente uno dei principali fattori di rischio, insieme a diabete ed ipertensione (5, 6). Di conseguenza, risulta facilmente intuibile, come con l’avanzare dell’età sia l’osteoporosi che la MRC possano coesistere (7).

 

La maggior parte delle fratture, specie quelle di femore, richiedono l’ospedalizzazione e comportano sia disabilità fisica che un aumento della mortalità e dei costi sanitari. Negli USA le fratture da osteoporosi rappresentano la maggiore causa di ospedalizzazione, con costi (5.1 bilioni di dollari) addirittura più elevati se comparati all’infarto miocardico (4.3 bilioni), allo stroke (3 bilioni) ed al tumore della mammella (0,5 bilioni) (8). Anche in Europa, in un recente report (EU27 – Osteoporosis in the European Union: Medical Management, Epidemiology and Economic Burden) i costi relativi alle fratture incidenti e pregresse nell’anno 2010, erano stimati pari a ben 37 bilioni di euro (2). Le fratture incidenti nella popolazione esaminata con età uguale o maggiore a 50 anni, costituiscono il 66% dei costi, contro il 29% di quelli sostenuti per le cure a lungo termine ed il 5% per la prevenzione (2). Le fratture sono molto frequenti e comuni nei pazienti con MRC, con un’incidenza variabile da 2 a 14 volte maggiore rispetto alla popolazione generale (9, 10). Si presentano ad un’età di 10-15 anni più giovane rispetto al resto della popolazione di pari sesso (11) e sono associate a maggior ospedalizzazione e mortalità (12). Quest’ultima, dopo frattura di femore, può variare dal 16% al 60% in pazienti portatori di trapianto renale (13, 14). Anche i costi aumentano significativamente nei pazienti con MRC (per frattura d’anca pari a 17.875 dollari/paziente) rispetto a coloro che presentano una funzione renale normale (vs 13.314 dollari/paziente) (15).

Nonostante la rilevanza del problema, la comunità nefrologica ha impiegato più di 30 anni dai primi studi eseguiti in pazienti con MRC, soprattutto negli stadi avanzati G4-G5D (16), per considerare ancora la patologia fratturativa come topic investigativo (17, 18). Scopo di questo articolo è la valutazione delle fratture da fragilità (FF) nei pazienti con MRC partendo dai dati epidemiologici di prevalenza, dai fattori di rischio fino alla diagnosi, basandosi sulle evidenze in letteratura che, ad oggi, risultano purtroppo limitate per la popolazione in oggetto altamente complessa sia sotto il profilo diagnostico che terapeutico (quest’ultimo trattato in un articolo separatamente).

 

Incidenza e prevalenza delle FF ossea nella MRC

I primi dati robusti sull’incidenza delle fratture di femore in pazienti dializzati sono stati pubblicati nel 2000 da Alem et al su un dataset americano (the US Renal Data System, USRDS) comprendente ben 326.464 pazienti, di cui il 55,9% maschi, matched per età e sesso i quali evidenziarono una netta maggiore incidenza (ogni 1000 persone per anno) nei pazienti con MRC rispetto alla popolazione generale (PG). In particolare le femmine con MRC avevano un’incidenza pari a 13 (vs un 3 delle femmine nella PG) mentre nei maschi con MRC era pari a 7 (vs 1.6 dei maschi nella PG) (9) (Tabella 1). A distanza di circa 10 anni Arneson et al analizzarono il trend di incidenza della frattura di femore, sempre da dataset statunitensi, a partire dagli anni ’90 fino al 2010 evidenziando 11.9 eventi (ogni 1000 persone per anno) nel 1993, un progressivo aumento fino ad un picco di 21.9 nel 2004 e una successiva inversione del trend in calo a 16.6 eventi nel 2010 (19). Tale trend è stato confermato anche da Wagner et al, che valutarono l’incidenza oltre che della frattura di femore anche vertebrale riscontrando un valore pari a 12.5 eventi (ogni 1000 persone per anno) nel 1992 con aumento a 25.3 eventi nel 2004 e un declino a 21.4 nel 2009 seppur non statisticamente significativo (20). Al di là del trend, la più alta incidenza di eventi fratturativi nei pazienti con MRC rispetto alla PG rimane ben evidente, soprattutto alla luce di quanto mostrato di recente dall’analisi dei dati DOPPS (Dialysis Outcomes and Practice Patterns Study). Dal 1996 al 2011, in una coorte di 34.597 pazienti in trattamento emodialitico, di cui il 3% andava incontro ad un evento fratturativo. Attraverso una stratificazione per paese, (partecipanti al DOPPS study), la più bassa incidenza si osservava in Giappone con 12 eventi (ogni 1000 persone per anno); la massima, pari a 45 eventi, in Belgio (l’Italia si collocava appena al di sotto dei 20 eventi) (21). I pazienti portatori di trapianto renale non solo non sono esenti al progressivo deterioramento dell’osso sia corticale che trabecolare – infatti vanno incontro ad un evento fratturativo entro i primi 5 anni dal trapianto (22) – ma hanno addirittura un rischio di frattura di femore maggiore del 34% rispetto ai pazienti in dialisi (10) e da 2 a 23 volte maggiore rispetto alla popolazione generale (14, 23).

Relativamente alle fratture vertebrali (FV) gli studi sono ancora più scarsi e meno consistenti di quelli relativi alle fratture di femore (24252627), con una prevalenza alla valutazione semiquantitativa (28) simile alla PG, tra il 19% al 26% (242526, 29). Tale dato è verosimilmente in relazione al fatto che nell’iperparatiroidismo secondario (IPS) nella MRC, l’osso prevalentemente colpito è il corticale rispetto al trabecolare (caratteristico delle vertebre). Tuttavia, la prevalenza delle FV aumenta sia nella MRC che nella PG, quando si esegue una valutazione quantitativa morfometrica (morfometria vertebrale quantitativa: MVQ) come evidenziato in un nostro studio epidemiologico multicentrico, Epidemiological VERtebral FRACtures iTalian Study (EVERFRACT), coinvolgente 18 centri dialisi del nord e centro Italia, dove su 387 emodializzati abbiamo riscontrato FV nel 55.3% dei partecipanti (27). Prevalenze simili erano state precedentemente riscontrate nei pochissimi studi esistenti in letteratura con valutazione quantitativa, sia in pazienti trapiantati pari al 50% (30) che in donne in post-menopausa osteopeniche del 57% (31). D’altronde un corretto approccio diagnostico come quello offerto dalla Morfometria Vertebrale Quantitativa (Quantitative Vertebral Morphometry – QVM, ampiamente trattato in seguito) è fondamentale per evitare il cosiddetto effetto domino già evidenziato in pazienti con osteoporosi (OP), nei quali a distanza di un anno dal riscontro di una prima FV c’era un rischio 5 volte maggiore di ri-frattura rispetto a quelli senza frattura (32).

 

Meccanismo patofisiologico della FF nei pazienti con MRC

Nell’ambito della MRC sono usati più termini per definire le lesioni ossee, e spesso questa molteplicità può causare confusione, ancor più se si cerca di spiegare il meccanismo fisiopatologico associato alle FF. In particolare, le definizioni correlate alle lesioni ossee nella MRC che si trovano in letteratura si distinguono nella seguente triade: Chronic Kidney Disease – Related Bone and Mineral Disease (CKD-MBD), Osteodistrofia renale ed Osteoporosi. La CKD-MBD è un disordine sistemico del metabolismo minerale, caratterizzato a sua volta da:

  1. anormalità riguardanti biomarkers quali Calcio (Ca), Fosforo (P), Paratormone (PTH), vitamina D;
  2. anomalie dell’osso comprendenti il suo turnover, la mineralizzazione, volume o resistenza;
  3. presenza di calcificazioni vascolari e dei tessuti molli (33).

Col termine ‘osteodistrofia renale’ invece, tanto usato in passato, si descrivono i quadri morfologici di patologia ossea associati alla CKD (lesioni istologiche definite con l’esecuzione della biopsia ossea), secondo la classificazione TMV: Turnover, Mineralizzazione e Volume, come da indicazione delle Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) (34). I quadri istologici dell’osteodistrofia renale si caratterizzano a loro volta in: Osteite Fibrosa (ad alto turnover), Osteomalacia (a normale turnover), malattia Adinamica (a basso turnover) e la forma Mista (34). Infine, l’osteoporosi (dal greco osteon: osso e poros: poro) che è definita dalla World Health Organization come un disordine scheletrico sistemico, caratterizzato da compromissione della resistenza ossea che predispone ad un aumento di fragilità scheletrica e quindi a rischio di frattura (35). La resistenza ossea (RO) riflette l’integrità di due componenti fondamentali per la salute dell’osso: la densità minerale ossea (Bone Mass Density: BMD) e la qualità ossea (Bone Quality: BQ). La BMD esprime la quantità di minerale per area ossea (g/cm2) (36), mentre la BQ comprende diverse componenti, quali: la microarchitettura, il turnover, la mineralizzazione, l’accumulo di micro danni (o microcrack) (37).

 

Bone Quality e Osteoporosi Uremica (OU) nella MRC

La BQ rappresenta in realtà una componente fondamentale della RO, poiché essa è il termine usato per descrivere la capacità meccanica portante dell’osso stesso, includendo tra le sue componenti sia le Proprietà Strutturali che le Proprietà dei Materiali (Tabella 2) (38). La matrice extracellulare (ME) del tessuto osseo nella sua componente organica è composta in maniera preponderante dal collagene di tipo I, il quale conferisce all’osso un certo grado di elasticità permettendo in tal modo una resistenza all’allungamento (39). L’altra componente della ME del tessuto osseo, nella componente inorganica, è invece composta dai minerali, di cui il preponderante è il difosfato di calcio, organizzato in forma di cristalli di idrossiapatite; quest’ultima dà all’osso rigidità e durezza, permettendo in tal modo una sua resistenza alla compressione (39). Nella MRC c’è un deterioramento dell’elasticità ossea che associato all’interessamento corticale renderebbe ragione della maggior prevalenza delle fratture di femore (40). Purtroppo è impossibile misurare le proprietà meccaniche dell’osso in termini di elasticità nella comune pratica clinica, mentre questo lo si è potuto evidenziare in diversi studi sperimentali. Le tossine uremiche (per esempio: indossil solfato, p-cresilsofato, Advanced Glycation end products: AGE) ed il conseguente incremento dello stress ossidativo, sembrano deteriorare preferenzialmente le Proprietà dei Materiali nella BQ (Tabella 2) come la produzione di fibre collagene cross-links modificate da AGE con risultato finale di un’aumentata fragilità ossea (41) (Figura 1).

Negli animali da esperimento queste alterazioni della qualità ossea sono caratterizzate da:

  1. peggioramento in modo inversamente proporzionale alla funzionalità renale (42);
  2. indipendenza dai MBD (43, 44);
  3. riduzione delle tossine uremiche dopo somministrazione di una sostanza assorbente (AST-120), mentre non vi è alcun beneficio in termini di funzione renale e dei MBD (41).

In definitiva, verosimilmente, secondo un’intrigante ipotesi di un gruppo di nefrologi nipponici (36, 40), le tossine uremiche sarebbero responsabili in buona parte delle FF nei pazienti con MRC fino allo stadio terminale (dialisi), giustificando così l’elevata prevalenza, nonostante l’inserimento negli ultimi anni di nuove terapie per le alterazioni del metabolismo minerale (36, 38). Pertanto, l’interessamento osseo presente in MRC meriterebbe un concetto più ampio, definito come ‘osteoporosi uremica’, causata appunto dall’ambiente ‘uremico’ e dove la produzione di tossine uremiche e non solo le alterazioni del metabolismo minerale sarebbero responsabili dell’alterata qualità ossea (38, 40). In conclusione, la MRC e lo stato uremico che ne deriva potrebbero indurre osteoporosi al pari di un trattamento con cortisone, ma per confermare ciò avremo bisogno in futuro di studi prospettici ben definiti a tale riguardo (36, 38).

Un cenno meritano anche l’accumulo di microdanni o microcrack. Uno degli scopi principali del rimodellamento osseo normalmente è quello di riparare i microdanni da stress meccanico che si verificano giornalmente nell’osso. L’ assenza del rimodellamento osseo e l’eccessivo accumulo di microdanni potrebbero quindi causare FF (36, 45). In corso di MRC, la presenza di un basso turnover osseo potrebbe quindi condurre ad un elevato rischio di fratture per un accumulo di microdanni (36, 38, 46).

 

 

Fattori di rischio per FF ossea

Nella popolazione generale da qualche anno sono stati sviluppati degli algoritmi che consentono di predire la probabilità di frattura a 10 anni con il dato della Densità Minerale Ossea (BMD). Il più conosciuto, ed elaborato dal World Health Organization, viene chiamato Fracture Risk Assessment Tool, FRAX (FWHOFRAT: World Health Organization (2011) sul sito web http://www.shef.ac.uk/FRAX). Nel FRAX vengono considerati diversi fattori di rischio (Tabella 3). Un gruppo di esperti di osteoporosi italiani ha migliorato l’algoritmo del FRAX, elaborando il cosiddetto DeFRA (Derived Fracture Risk Assessment), non limitandolo a semplici risposte dicotomiche (sì o no) ma permettendo una variabilità di scelte, come per esempio una risposta più dettagliata sulla frequenza delle pregresse fratture, sulle comorbilità ed anche sull’uso di farmaci che aumentano il rischio di frattura oltre i cortisonici, ad es. blocco ormonale adiuvante (47).

Il DeFRA, ha maggiormente tenuto conto dei fattori di rischio indipendenti dalla BMD poiché essi sono stati determinanti sulla definizione dei criteri di rimborsabilità dei farmaci per l’osteoporosi stessa (Nota 79 AIFA).

Un particolare cenno riguardo all’uso di farmaci che aumentano il rischio di frattura nei pazienti con MRC meritano gli inibitori di pompa protonica (PPI) ed il Warfarin poiché il loro utilizzo è elevato in questa popolazione di pazienti rispetto alla PG (48, 49). I primi sembrerebbe che abbassando la concentrazione di acido cloridrico, portino ad un’alterazione (down-regulation) dell’espressione e del funzionamento del trasportatore transcellulare TPRM6 (Transient Receptor Potential) causando ipomagnesemia (50) e conseguentemente un peggioramento dello stato di mineralizzazione dell’osso se il trattamento rimane prolungato negli anni (51). Il Warfarin, inibendo il ciclo della vitamina K, riduce l’osteocalcina (o Bone Gla Protein: BGP), essenziale per una corretta mineralizzazione ossea (52). Trattamenti della durata maggiore di un anno si associano ad un aumento del rischio fratturativo nei maschi trattati sia nella PG (53) che in dialisi (49).

Purtroppo sia nel FRAX che nel DeFRA non compare la MRC (CKD), nonostante ci siano ormai più studi in letteratura che confermano come all’aumentare dello stadio di insufficienza renale vi sia un proporzionale incremento anche dell’evento fratturativo (54).

Per tale motivo noi proponiamo il K-DeFRA (Kidney Derived Fracture Risk Assessment) che tiene conto dei vari stadi di CKD ed anche differenziando le varie metodiche poiché nella emodialisi (HD) convenzionale sembra che l’evento fratturativo sia maggiore rispetto alla HD notturna (HDN) ed alla dialisi peritoneale (DP) (555657) (Tabella 3).

Relativamente all’applicazione del FRAX gli studi nei pazienti con MRC sono limitati ed esso sembra in grado di predire il rischio fratturativo nei vari gradi di insufficienza renale (58) mentre in una popolazione di emodializzati giapponesi è risultato predittivo per mortalità (59). Nei pazienti trapiantati il FRAX si è mostrato debolmente predittivo (60), motivo per cui la comunità nefrologica dovrebbe mostrarsi sensibile ad implementare il K-DeFRA in studi prospettici.

 

Diagnosi di FF nella MRC

Morfometria Vertebrale Quantitativa (Quantitative Vertebral Morphometry, QVM) e Indice di Deformità della Colonna (Spine Deformity Index, SDI)

Le FV, molto frequenti nei pazienti affetti da OP, sono sottodiagnosticate sia nella PG che nella MRC e l’importanza di una loro corretta ed accurata diagnosi, come già accennato, deriva dal fatto che la loro presenza, anche se asintomatica, rende il rischio di ri-frattura entro l’anno molto elevato (32). Per FV si intende una deformazione del corpo vertebrale per riduzione di una delle sue altezze oltre un certo valore soglia (20%: classificazione secondo il metodo semiquantitativo di Genant) (28). Tale riduzione può interessare tutte le pareti del corpo vertebrale: anteriore, media e posteriore, si parlerà rispettivamente di deformità a cuneo, biconcava o crollo. Il grado di severità della deformità viene definito a seconda del grado di riduzione dell’altezza del corpo vertebrale: lieve (20-25%, grado severità 1), moderato (26-40%, grado severità 2) e severo (>40%, grado di severità 3) (28). Tale valutazione può essere eseguita attraverso due metodi: il primo è quello visivo semiquantitativo che solo un radiologo esperto può eseguire; il secondo prevede la QVM. Quest’ultima consiste nella identificazione di 6 punti di repere (anteriore, medio e posteriore), a livello del margine superiore ed inferiore di ogni vertebra, da D5 a L4, sia eseguendo una DEXA (Morphometric X-ray Absorptiometry: MXA) che una radiografia in L-L (morphometric X-ray radiography: MRX). Quest’ultima se eseguita correttamente (ossia bisognerebbe sempre utilizzare la stessa distanza fuoco-pellicola di 100 cm, lo stesso punto di incidenza del raggio centrale; in genere si utilizza D7 per il segmento dorsale e L3 per il segmento lombare) permette una risoluzione maggiore delle immagini e quindi una migliore valutazione rispetto alla MXA (61). Inoltre, la QVM può essere eseguita manualmente (con righello) o computerizzata attraverso dei software preposti. Il nostro gruppo nell’EVERFRACT study (27), in cui abbiamo valutato la prevalenza delle FV attraverso QVM computerizzata (62), ha rilevato che la maggior parte delle FV si localizzavano a livello dorsale, con grado di severità lieve e tipo di deformità a cuneo; completamente in linea con i pochissimi altri studi in letteratura (30, 31). Inoltre, negli stessi pazienti abbiamo valutato lo SDI (63), ossia il grado di deformità della colonna, il quale viene generalmente calcolato come la somma matematica del grado di severità (lieve 1, moderato 2 e severo 3) di tutte le FV presenti da D5 a L4 (28). Tale indice non permette in questo modo di distinguere se lo SDI è generato da più FV di grado lieve o da poche severe. Per esempio, se lo SDI è di 12: potrebbero essere 12 FV lievi (score di severità 1), quindi lo SDI sarebbe generato dal prodotto seguente: 12 x 1. Altresì, lo SDI di 12 potrebbe essere anche dato dalla presenza di 4 FV severe (score di severità 3), quindi in questo caso lo SDI sarebbe generato dal prodotto seguente: 4 x 3 (28). Per rendere tale indice indicativo anche in termini qualitativi, ossia volto ad essere più accurato relativamente alla valutazione del grado di severità, noi ne abbiamo elaborato un altro integrativo al precedente: il cosiddetto c-SDI, ossia SDI corretto, dato dal rapporto tra lo SDI diviso per il numero di FV della vertebra considerata da D5 a L4. Nei casi precedenti, il c-SDI sarà rispettivamente 12/12=1, 12/4=3; quindi più alto è il c-SDI e peggiore sarà la severità della FV (62) (Tabella 4). Nell’EVERFRACT Study il c-SDI si è dimostrato qualitativamente efficace nell’evidenziare sia una maggior severità delle FV a livello lombare rispetto il tratto dorsale, che una sua associazione con biomarkers dell’osso e di rischio cardiovascolare (63). Esiste infatti un importante cross-talk tra FV e calcificazioni vascolari (CV), quest’ultime risultanti predittrici delle prime (27), topic separatamente trattato in un articolo dedicato.

 

Bone Mass Density (BMD) e Trabecular Bone Score (TBS)

Fino al 2009 le KDIGO (33) suggerivano che la BMD (misurata tramite Dual-Energy Absorptiometry, DXA) in pazienti con MRC, stadi 3-5D, non dovesse essere valutata di routine poiché non c’erano dati sul suo valore predittivo di rischio fratturativo (livello di raccomandazione 2B). Dal 2012 però cominciarono a comparire alcuni studi prospettici (646566, 58) i quali hanno portato ad un update delle Linee Guida con cambiamento della raccomandazione, suggerendo invece come la BMD negli stadi di MRC G3a-G5D, è predittiva del rischio fratturativo se i risultati saranno impattanti sulle decisioni terapeutiche (67). E’ bene comunque sottolineare che la BMD non è indicativa né del bone quality né tantomeno del tipo di osteodistrofia renale, quindi, come sottolineato nella sessione dedicata alla biopsia ossea ed alla terapia, la biopsia ossea rimane il gold standard per le decisioni terapeutiche nei casi in cui il nefrologo non abbia ben definito il quadro di patologia ossea nel paziente poiché, a nostro parere, il rischio di un trattamento errato è più dannoso del rischio fratturativo stesso (68, 69).

Il Trabecular Bone Score (TBS) è un’indagine eseguita da un software applicato sugli scanner della DXA, che va a misurare attraverso una scala di grigi la struttura della microarchitettura da L1 a L4, dando in tal modo una valutazione della bone quality (70). In particolare esso assumerà valori elevati, pari a ≥ 1.3, quando l’osso si presenterà con piccoli spazi tra le ampiezze segno di una microarchitettura densa e connessa, rappresentativa di un buon stato di salute dell’osso; viceversa, quando la microarchitettura risulterà con ampi spazi, meno densa e connessa, sarà rappresentativa di uno stato di osteopenia od osteoporosi, i cui bassi valori saranno compresi tra 1.2-1.3 o ≤ 1.2 (70). In pazienti trapiantati di rene valori di TBS <1.37 sono risultati predittivi di frattura indipendentemente dal FRAX (71) ed associati alla struttura trabecolare (72).

 

Tomografia Computerizzata Quantitativa (Quantitative Computed Tomography, QCT)

La QCT è una metodica diagnostica avente una risoluzione di 300 µm3, che permette una valutazione tridimensionale della densità del tessuto osseo in un determinato volume (a differenza della DEXA che la valuta in una determinata area), analizzando separatamente l’osso corticale dal trabecolare (69, 26). Esiste anche una QCT ad alta risoluzione (high resolution peripheral QCT: HR-pQCT), tra 60 a 80 µm3, che permette una valutazione della bone quality in termini di microarchitettura, in particolare numero, spessore e separazione delle trabecole (69). Alla HR-pQCT può essere applicata l’Analisi degli Elementi Finiti (FE: Finite Elemet), un metodo di calcolo per valutare la competenza meccanica dell’osso sia in toto che nei vari compartimenti corticale e trabecolare (73).

In 52 pazienti emodializzati, di cui più della metà presentava patologia fratturativa, era stata eseguita una pQCT radiale che evidenziò un’associazione significativa con la riduzione dei parametri corticali (densità, area e spessore) (26). Nickolas et al in 55 pazienti con MRC, stadio 2-5D, valutati con la HR-pQCT sempre a livello del radio distale, evidenziò una significativa riduzione a livello corticale dell’area (-2.9%), della densità (-1.3%), dello spessore (-2.8%) ed un incremento della sua porosità (+4.2%) (74). Un recente studio di comparazione tra biopsia ossea e HR-pQCT, in 31 pazienti in dialisi, ha riscontrato un’associazione significativa tra i parametri istomorfometrici e i valori corticali dell’HR-pQCT (75).

 

Biopsia Ossea (BO)

Alla BO c’è una sessione dedicata, noi vogliamo solo puntualizzare come anche nelle recenti KDIGO c’è una raccomandazione all’esecuzione della medesima quando il tipo di osteodistrofia renale sarà impattante sulle decisioni terapeutiche. A livello nazionale sfortunatamente tale metodica è andata in disuso nelle ultime due decadi, per tale motivo tra i topic perseguiti anche dal nostro gruppo, coinvolto nel connubio tra la Società Italiana di Nefrologia (SIN) e la Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS) c’è stato il recente riconoscimento di Hub nazionali atte alla lettura e diagnosi istopatologica delle BO nel tentativo di sensibilizzare ed orientare i medici ad una rivalutazione ed applicazione della metodica stessa.

 

Biomarkers

Più volte le Linee Guida hanno incoraggiato il nefrologo a mantenere il PTH a livelli tali da consentire un rimaneggiamento osseo per ridurre quindi al minimo il rischio fratturativo. Purtroppo la mancanza di un numero consistente di studi prospettici con obiettivo primario l’evento fratturativo ha fatto sì che ad oggi non sappiamo ancora quali siano i livelli ottimali di PTH per prevenirlo. Anzi, i dati sono addirittura contradditori, ci sono studi che trovano un’associazione con la patologia fratturativa per valori di PTH > a 900pg/ml (76) ed altri invece per livelli opposti, < 195 (11). Di recente, uno studio prospettico giapponese coinvolgente ben 185.277 ha evidenziato una più alta incidenza di fratture di femore con livelli più bassi di PTH e più alti di ALP (77). Quest’ultimo dato, relativo all’ALP era stato osservato anche in precedenza da Iimori et al, sempre in uno studio prospettico coinvolgente 485 emodializzati (AUC 0.766, p<0.0001) (65). In effetti, l’entrata in commercio dei differenti kit di dosaggio per il PTH, sul finire degli anni ‘90, ha fatto sì che il nefrologo abbia meno focalizzato il monitoraggio del paziente con tale biomarker (78); tuttavia da questi risultati l’ALP risulta essere un predittore di rischio fratturativo e quindi il nefrologo dovrebbe considerarlo alla pari del PTH nel monitoring del paziente con patologia ossea in MRC.

Come già descritto in precedenza, dai dati DOPPS, si evidenzia come il Giappone risulta essere il paese con più bassa incidenza di fratture tra i partecipanti (21). Vogliamo fare un accenno che in tale nazione c’è un alto consumo di Vitamina K, la quale nella sua forma K1 o fillochinone, in un nostro studio multicentrico, VItamin K Italian (VIKI) study, in 387 emodializzati, è risultata il più forte predittore per FV (79). In tal senso il dosaggio di proteine vitamina K dipendenti, quali la BGP, potrebbero essere biomarkers predittivi di FV (27).

Intrigante lo studio di Campos-Obando et al, il quale ha investigato la possibile associazione tra livelli di P e rischio fratturativo in 6791 pazienti provenienti dal Dutch Rotterdam Study ed in 5425 pazienti dell’US Osteoporotic Fractures in Men. In entrambi gli studi si osserva un’associazione tra livelli di P e rischio di frattura, in particolare nei soggetti senza MRC l’HR era di 1.44 (1,26-1,63) mentre nei maschi con MRC arrivava a 1.93 (1,42-2,62) (80). Tale studio dovrebbe stimolare noi nefrologi ad investigare a tale riguardo.

 

Conclusioni

Rispetto ai numerosi studi pubblicati nella popolazione generale, la patologia fratturativa nei pazienti con MRC pur avendo un impatto clinico importante è stata per molti anni ignorata.

Recenti dati epidemiologici confermano che le fratture rimangono ancora oggi un serio problema perché associate ad elevata morbilità, mortalità e costi. La riduzione della resistenza scheletrica è da imputare non solo alla CKD-MBD, ma anche ad alterazioni della qualità dell’osso legate allo stesso ambiente uremico, che assieme ai vari fattori di rischio contribuisce a spiegare il rischio più elevato in MRC rispetto alla popolazione generale. Sulla base di questa complessità patogenetica, è importante che la comunità nefrologica si impegni a rispondere a più quesiti dirimenti, quali ad esempio definire al meglio il concetto di osteoporosi uremica, proporre studi prospettici volti a definire fattori certi di rischio fratturativo, il tutto per arrivare ad un più corretto approccio diagnostico e terapeutico in una popolazione di pazienti altamente a rischio. 

 

 

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La Workforce nefrologica in Italia. Chi siamo e dove andiamo: un progetto SIN

Abstract

Il gruppo di lavoro del tavolo permanente sulla workforce della SIN ha realizzato un progetto iniziale di studio della demografia che mette in evidenza la situazione della workforce nefrologica in paesi europei ed extraeuropei, evidenziando in particolare le apparenti discrepanze fra il numero di nefrologi in altri sistemi sanitari e in quello italiano. L’Italia sembra avere il più alto numero di nefrologi pro-capite: in realtà il numero di nefrologi si è ridotto negli anni recenti a causa del numero di pensionamenti molto più alto rispetto all’ingresso di nuovi specializzandi. Il progetto nasce dalla necessità di definire il numero effettivo dei nefrologi italiani in rapporto alla popolazione e all’epidemiologia della malattia renale cronica, tenendo conto dei trend di ageing e femminilizzazione della nostra specialità. Gli strumenti con cui verranno raccolti i dati relativi alla demografia dei nefrologi italiani sono un database per la raccolta dei dati demografici a cura dei presidenti delle sezioni regionali SIN e un questionario finalizzato a una survey che permette di descrivere la demografia, il carico di lavoro, l’attaccamento alla disciplina e i programmi di assunzione e di pensionamento della comunità nefrologica italiana.

Parole Chiave: workforce, nefrologia, malattia renale cronica

1 Premessa

La malattia renale cronica è un problema di salute pubblica. È inoltre strettamente associata con altre malattie croniche maggiori quali diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari con le quali contribuisce in maniera importante all’aumento della mortalità nella popolazione generale (1) e alla crescita progressiva dei costi dei sistemi sanitari nazionali. I dati epidemiologici pubblicati negli ultimi anni mostrano un aumento progressivo della malattia renale cronica e della necessità di cura. Si stima che negli Stati Uniti circa il 13% della popolazione generale adulta sia affetta da malattia renale cronica (2) e che questa percentuale potrebbe raddoppiare nei prossimi anni a causa dell’invecchiamento della popolazione, del diabete e dell’ipertensione.

In Italia, lo studio CARHES ha recentemente messo in evidenza una prevalenza di Malattia Renale Cronica dell’8,1% negli uomini e del 7,8% nelle donne (34). Conoscere la prevalenza di una malattia cronica è essenziale per una corretta programmazione delle risorse umane ed economiche necessarie ad assicurare appropriati percorsi di prevenzione e cura della malattia.

In controtendenza con la crescita epidemiologica della CKD, la workforce nefrologica globale non ha seguito in molti Paesi la stessa tendenza di sviluppo necessaria ad incontrare i bisogni di cura di questi pazienti vulnerabili. Le cause dell’apparente “shortage” possono includere l’incremento della malattia renale, l’invecchiamento della workforce nefrologica, un training inadeguato, un diminuito attaccamento alla specialità.

Vi è un’enorme variabilità nella dimensione della forza lavoro specialistica nefrologica tra i vari paesi e questo ha certamente un impatto sulla disponibilità di cura per i pazienti con malattia renale. La Kidney Health For Life Initiative ha fornito molteplici informazioni sulle differenze che esistono fra i vari paesi Europei i cui sistemi sono pubblicamente finanziati.

Un articolo di Bello e Coll (1), recentemente pubblicato su AJKD, ha analizzato i sistemi sanitari di 17 paesi europei, la loro politica sanitaria in ambito nefrologico e le strategie di cura e gestione della malattia renale cronica (MRC). Il dato che più colpisce è che tra i 17 paesi ci sono differenze sostanziali nella disponibilità di nefrologi. In particolare, l’Italia ha il più alto numero di nefrologi , 5.3 per 100.000 persone specie se comparato a paesi come l’Irlanda in cui il numero di nefrologi è 0,5 per 100.000 persone. Il dato riportato all’interno dell’articolo e riguardante il numero dei nefrologi deriva però dal censimento del 2004: 3248 nefrologi (a fronte di circa 1923 nefrologi iscritti alla SIN al 31 Dicembre 2016) (Figura 1) (5). Il numero di nefrologi si è ridotto negli anni recenti per il numero dei pensionamenti molto più alto rispetto all’ingresso di nuovi specializzandi.

I dati del censimento promosso dalla SIN nel 2014 stimano invece un numero di 2718 nefrologi che lavorano nelle strutture pubbliche, con un rapporto di circa 50 specialisti per milione di abitanti (67). Ma un dato risulta certamente controverso ed è il numero di nefrologi presenti in Italia. Non esistono database che riportino informazioni anagrafiche su tutti i nefrologi praticanti in Italia.

Accanto ad analisi che indicavano fino ad anni recenti la presenza di una pletora di specialisti in Nefrologia, vi sono altre evidenze sempre più frequenti che, anche in rapporto ai cambiamenti della epidemiologia della MRC e delle politiche sanitarie avvenuti nell’ultimo decennio, esista una preoccupante difficoltà di reclutamento di specialisti nefrologi.

Comunque, se questi dati riflettono una mancanza di pianificazione organizzativa in alcuni paesi, come ad esempio l’Italia, è certamente necessaria un’accurata analisi dello scostamento.

L’articolo di Bello e colleghi (1) pone comunque un problema: alla SIN sono iscritti al 31/12/2016 circa 1900 nefrologi; rispetto a quanto pubblicato sull’articolo, risultano non censiti all’incirca 1500 nefrologi.

Un’accurata pianificazione della workforce rappresenta certamente un elemento fondamentale per valutare le concrete possibilità di sviluppo della Nefrologia Italiana. Dal censimento esistente emergono alcuni trend che necessitano tuttavia di ulteriori studi e ricerche:

In Italia, la percentuale dei medici sopra i 60 anni è di c.a. il 40%. I dati del censimento del 2014-2015 e l’analisi per gobba di età degli iscritti SIN al Dicembre 2016 confermano l’ageing della forza lavoro nefrologica, con un numero di 519 specialisti nefrologi sopra i 60 anni di età (> 20%) e la femminilizzazione (6).

La conoscenza della demografia dei Medici in generale e dei Nefrologi in particolare, rappresenta certamente un elemento fondante per valutare le concrete possibilità di sviluppo della Nefrologia italiana all’interno di alcune dinamiche che riguardano più in generale la professione medica.

Numeri e composizione demografica dei medici e dei Nefrologi rappresentano infatti vincoli molto rilevanti nella esperienza italiana, che dal 1986 ha visto l’introduzione del numero chiuso ai corsi di laurea di medicina e chirurgia e quindi una drastica riduzione dei flussi di entrata nella professione medica, seguita negli ultimi anni da una forte riduzione dei posti disponibili nelle scuole di specializzazione.

La SIN ha condotto e pubblicato pochi studi sulla workforce, tra cui uno studio condotto in collaborazione con CERGAS e SDA Bocconi (5).

Tuttavia i pochi progetti condotti dalla SIN in collaborazione con Istituti di Ricerca sono stati pubblicati nel 2010 e, anche se hanno proposto una visione nel medio lungo – termine (5-10 anni) dell’evoluzione di alcuni aspetti della forza lavoro in Nefrologia, richiedono certamente importanti aggiornamenti, anche in considerazione dei cambiamenti demografici e di quelli sopravvenuti nei Sistemi Sanitari Nazionale e Regionali.

 

2 Obiettivi

2.1 Obiettivo strategico

L’obiettivo principale del progetto è quello di definire le basi strutturali per l’osservazione permanente del profilo demografico dei nefrologi, dell’attaccamento alla specialità, del rapporto offerta/domanda in relazione al dato epidemiologico della malattia renale cronica e al cambiamento sistema sanitario nazionale nell’ambito dell’erogazione della cura, con finalità scientifiche e di definizione delle politiche di programmazione strategica.

 

2.2 Obiettivi programmatici

  1. Rilevare la situazione attuale della composizione demografica della workforce nefrologica e colmare il relativo gap conoscitivo tra gli iscritti SIN e il reale numero di nefrologi in Italia;
  2. Creare una base di dati nazionale attualizzata ed estesa non solo agli iscritti della SIN ma anche al resto della compagine costituita dalla forza lavoro nefrologica (sul modello della ASN) riguardante principalmente le seguenti variabili: ageing, genere, rapporto nuovi ingressi dalle scuole di specializzazione/uscita dal lavoro, scelta e attaccamento alla specialità;
  3. Far emergere i trend caratterizzanti e le motivazioni ad essi sottostanti (es. femminilizzazione della branca in particolari fasce d’età, esistenza dei cosiddetti “imbuti formativi” costituiti dalle scuole di specializzazione, invecchiamento progressivo della forza lavoro);
  4. Creare un osservatorio permanente sulla forza lavoro e un workforce plan all’interno della SIN attraverso la collaborazione con enti statali, istituti di studi statistici e sociologici e possibilità di riferimento strutturato alle fonti;
  5. Rapportare la forza lavoro nefrologica con l’epidemiologia della malattia renale e i conseguenti bisogni di cura in relazione alla popolazione affetta da patologie renali e alla popolazione generale;
  6. Implementare in base ai risultati ottenuti una pianificazione della forza lavoro in termini di politiche di gestione e programmazione della formazione dei giovani nefrologi;
  7. Rafforzare le collaborazioni con reti internazionali sul tema della workforce stringendo legami con enti e istituzioni che lavorano attualmente su questo, comparando i dati ottenuti attraverso la ricerca con i dati relativi ad altri Paesi.

 

 

3 Descrizione del progetto 

La Demografia dei Nefrologi in Italia

Guardare ai cambiamenti demografici e sociali della popolazione medica significa guardare al futuro e a quello che le nuove realtà emergenti possono comportare. Il quadro demografico della Nefrologia in Italia è rapidamente cambiato nell’ultimo decennio. Già nel 2007 un lavoro di Gambaro e Zoccali metteva in evidenza attraverso i dati di un questionario, che “il giovane nefrologo era una donna fra i 30 e i 40 anni che lavora in una unità operativa complessa di Nefrologia”. Un successivo lavoro del 2010 (3), ha descritto la Nefrologia italiana come una delle specialità in cui, anche rispetto ai report europei e americani, risultava maggiormente evidente il dato della femminilizzazione nella branca. Secondo i dati MIUR sulle iscrizioni alle specializzazioni commentati nello studio le donne costituivano infatti il 53% del totale.

I risultati di un progetto di ricerca del 2009 condotta dal CERGAS per la Società Italiana di Nefrologia, evidenziavano che sia la “gobba nelle classi di età comprese fra 50 e 60 anni-ageing della popolazione – che la femminilizzazione della branca nella fascia di età più giovane, sembravano più accentuate in Nefrologia rispetto ad altre specialità” (5). I dati riportati dall’analisi demografica condotta sugli iscritti della Società Italiana di Nefrologia nel 2009, nell’ambito dello stesso progetto mostravano che su un totale di 2021 soci, 1400 erano uomini (64%) mentre 784 erano donne (36%). La piramide per età degli iscritti SIN, confermava la gobba lavorativa nella fascia di età fra i 50 e i 60 anni e la forte femminilizzazione nelle fasce di età fra 30 e 34 anni.

Ostacoli importanti ad una più aggiornata definizione del profilo demografico dei Nefrologi italiani in anni recenti, sono costituiti dall’assenza di database nazionali e regionali in grado di fornire informazioni anagrafiche aggiornate su tutti i Nefrologi praticanti in Italia e dalla totale mancanza di studi recenti promossi in questo ambito, dalla Società italiana di Nefrologia.

L’assenza di database nazionali e regionali in grado di fornire informazioni anagrafiche aggiornate e la mancanza, dopo il 2009, di studi recenti, costituiscono un ostacolo importante ad una più aggiornata e consapevole definizione della demografia dei nefrologi anche in rapporto ai notevoli cambiamenti del sistema Sanitario Nazionale, alla crescita epidemiologica della malattia renale e alla programmazione del fabbisogno di nefrologi per il mantenimento delle competenze e delle attività clinico-assistenziali.

Per ottenere informazioni in questo ambito può essere quindi necessario ricorrere a molteplici fonti complementari istituzionali, ai database degli iscritti SIN aggiornati, e alla elaborazione di dati provenienti da questionari inviate alle sezioni regionali della SIN cui dovrebbe essere affidato il compito di mettere sistematicamente insieme e trasmettere alla SIN le rilevazioni demografiche e di attività condotte nelle unità operative regionali.

Recentemente anche in assenza di specifici items, il Censimento a cura della Società italiana di Nefrologia delle Strutture Nefrologiche e della loro attività nel 2014-2015, cui ha risposto il 98% dei centri pubblici intervistati, ha comunque costituito una rilevante fonte di dati aggiornati, anche su aspetti della demografia dei nefrologi italiani. I dati, elaborati da Pino Quintaliani della Commissione del Governo Clinico della SIN, hanno riguardato numerosità e tipologia di Nefrologi in servizio presso strutture di Nefrologia alla data del 31 Dicembre 2014 (6).

Sono stati valutati il numero globale di medici censiti nelle Nefrologie pubbliche, la distribuzione per genere e il numero sia assoluto che per milioni di abitanti.

Sono stati censiti 2718 medici: di questi 1370 erano uomini i e 1347 erano donne, con una suddivisione per genere sul numero globale, del 50% circa.

Il numero per milioni di abitanti (pmp) rilevato dal censimento era di 45 nefrologi pmp (Figura 2).

In Italia, a percentuale di medici sopra i 60 anni, è di circa il 40%. Dai dati del Censimento emerge che nelle Nefrologie censite vi sono 500 medici sopra i 60 anni (18%). Il dato conferma il progressivo processo di invecchiamento della Nefrologia nella gobba lavorativa precedentemente descritta.

Una seconda evidenza ancora più recente deriva dall’analisi demografica condotta sugli iscritti alla Società italiana di Nefrologia al 31 Dicembre 2016.

La rilevazione dei dati è stata effettuata su 1923 soci iscritti alla Società Italiana di Nefrologia nell’anno 2016. Il profilo di età ha valutato un numero di iscritti pari al 98% del totale.

I risultati dell’analisi dei dati, condotta per classi di età e per genere, sono riportati nella Figura 3.

La distribuzione per fasce di età è cosi ripartita:

< 50 anni n. 841, pari al 43,7% degli iscritti

50-55 n. 214, pari al 11,1%

55-60 n. 358, pari al 18,6%

60-65 n. 326, pari al 16,9%

65-70 n. 123, pari al 6.2%

70-90 n. 60, pari al 3,1%

I risultati confermano le precedenti osservazioni con una “gobba” cioè una forte concentrazione nelle classi di età comprese fra 55 anni e 65 anni che costituiscono il 44,1% del totale, mentre il 26,2% dei medici censiti ha un’età compresa fra 60 e 75 anni.

Questo dato evidenzia molto bene il fenomeno demografico dell’invecchiamento della popolazione nefrologica e potrebbe comportare la prospettiva del pensionamento di circa un quarto dei nefrologi iscritti SIN già nel prossimo triennio.

I nefrologi in quiescenza iscritti alla SIN nel 2016 rappresentano il 9,4% (n 184).

Un altro rilevante aspetto già presente in letteratura e confermato dall’analisi per genere del database SIN 2016, è costituito dalla forte femminilizzazione osservata nelle fasce d’età più giovani fino a 50 anni.

In questa fascia di età composta da 841 medici che  rappresenta il 43,7% degli iscritti, 535 sono donne, mentre 306 sono uomini.

Le donne in  questo gruppo, che di fatto  costituisce la forza lavoro del prossimo decennio, rappresentano il 63,6% mentre  gli uomini il 36,3%.

Tra le possibili spiegazioni di questo dato demografico possiamo annoverare una tendenza generale di tutte di tutte le discipline mediche verso la femminilizzazione, come risulta evidente dai dati della FNOM CEO in cui le donne rappresentano il 57% del totale; ma anche le prospettive di lavoro offerte da una specialità giovane che è cresciuta di pari passo con la femminilizzazione e in cui le coorti più giovani, composte da donne, sostituiscono la progressiva uscita dall’attività dei medici più anziani.

La cura della malattia renale cronica e le attività dialitiche, in qualche misura programmabili, hanno reso la specialità particolarmente apprezzata da medici donne e da una nuova generazione di nefrologi che danno più valore ad una ripartizione bilanciata fra vita professionale e personale.
Prospettive future
La complessità della Nefrologia e la molteplicità degli impegni non scoraggia evidentemente le

nuove generazioni che la scelgono. Si potrebbe quindi pensare che nel nostro paese la Nefrologia sia una delle specialità più equilibrate e in grado di rispondere nel medio termine all’aumentato fabbisogno assistenziale che deriva dai cambiamenti demografici della popolazione.

Per le prospettive future della Nefrologia italiana e per garantirne lo sviluppo bisogna comunque tenere conto di due importanti tendenze demografiche che emergono principalmente nell’ultimo decennio: l’invecchiamento della popolazione dei nefrologi italiani e la femminilizzazione della specialità.

Il censimento SIN del 2004 (5) aveva rilevato 3728 medici dedicati alle attività di nefrologia e dialisi, di cui l’80% Nefrologi (78) (pari a 2982 professionisti).

Rapportati ai 241.000 medici attivi in Italia nel 2004 (stima di ISTAT e OECD), i 3728 medici corrispondevano all’1,55% del totale e i 2982 Nefrologi all’1,24%.

Lo studio SIN CERGAS del 2009, citava 2191 iscritti alla Società Italiana di Nefrologia (SIN) (5).

Il più recente censimento SIN aggiornato al 31/12/2014 e pubblicato nel 2016, al quale ha risposto una grande percentuale di centri pubblici (sino al 98%), ha evidenziato su tutti i medici in servizio in Nefrologia (non solo iscritti alla SIN), un dato complessivo di 2718 medici che lavorano in nefrologia, pari a 45 pmp, di cui 412 sono specializzandi (15,15% del totale).

Contestualmente, gli iscritti alla SIN risultavano al 31/12/2014 essere il 60% del totale del numero censito.

Applicando questo dato al censimento 2004 (al 2004 la stima era di 3600 nefrologi), nonostante le differenza nel campionamento del 2014 rispetto ai precedenti dati, si apprezzerebbe una contrazione del 25% circa del numero totale dei nefrologi operativi.

In Italia la percentuale di medici sopra i 60 anni è di circa il 40%. Dai dati del censimento al 2014 sono emersi, nelle nefrologie censite, 500 medici con un’età superiore ai 60 (18%) mentre la stessa fascia di età interessava, nel censimento 2004 il 9,6% circa dei medici censiti.

Ciò dimostrerebbe l’incompleta sostituzione dei Nefrologi che si sono ritirati per età rispetto ai giovani diplomati dalle Scuole di Specializzazione.

L’analisi della discrepanza, era già segnalata dall’analisi dei dati dello studio Cergas del 2009 (5). Infatti dal numero di diplomati fino al 2006 ,delle scuole italiane di specializzazione in Nefrologia) e dal loro andamento annuo si concludeva che i 100 medici che in media si sono diplomati in nefrologia tra il 1998 e il 2006 erano insufficienti a soddisfare il bisogno prevedibile in futuro, nell’ipotesi di mantenere le competenze necessarie della professione del nefrologo e le stesse attività clinico assistenziali.

Nell’ipotesi di una vita lavorativa media da specialista di 37 anni (30–67 anni), con una distribuzione per età lineare per i 3728 medici dedicati a Nefrologia e Dialisi presenti nel 2004, il bisogno stimato era di 107 medici all’anno; l’imbuto formativo a livello delle scuole di specializzazione e le difficoltà nei meccanismi di reclutamento dei giovani medici specialisti in molteplici e variabili servizi sanitari regionali quali quelli italiani soggetti a vincoli di finanza, piani di rientro e con ricorso a forme di collaborazione non stabile, potrebbero concorrere ad una riduzione dell’offerta nefrologica con uno squilibrio futuro fra domanda e offerta di medici nefrologi.

Anche la crescente femminilizzazione rende necessario un numero maggiore di neo-specializzati per garantire il ricambio in termini di monte ore lavorate sull’intera vita lavorative.

In media, i medici donna lavorano meno ore la settimana rispetto agli uomini e hanno avuto, finora, vite lavorative più brevi dei colleghi maschi. Nelle coorti giovani al di sotto dei 50 anni le nefrologhe rappresentano già oggi il 63% dei medici della specialità e per effetto dell’aumento degli anni di attività lavorativa richiesta dalla normativa contributiva europea e sostituendo nelle assunzioni i medici che escono per età, anche nelle coorti meno giovani ,costituiranno la forza lavoro preponderante in nefrologia.

Non meno importante risulta, nella stima del fabbisogno di nefrologi, l’aumento della prevalenza della malattia renale che richiederebbe, per mantenere le attività qualificanti per il nefrologo, un numero adeguato di neo – specializzati.

 

La pianificazione della forza lavoro (WFP), assicura che “le persone giuste, con le giuste competenze siano nel posto giusto al momento giusto” (9).

La maggior parte delle organizzazioni ha qualche forma di pianificazione della forza lavoro, anche se nella maggior parte dei casi l’approccio è uno sguardo molto essenziale di domanda e offerta. Questo ha valore solo nel breve termine, mentre le organizzazioni hanno bisogno di un approccio che appaia strategico per il futuro.

Un approccio strategico è un processo globale che fornisce ai responsabili un quadro per la pianificazione attuale, per le future decisioni di sviluppo del personale basate su mission organizzativa, piani strategici, obiettivi, risorse di bilancio e l’insieme di definite abilità e competenze per la specialità. Molte società scientifiche fra cui la Società Americana di Nefrologia (ASN) e alcune società europee hanno sviluppato modelli per la pianificazione della forza lavoro.

Tutte si basano su un’analisi della forza lavoro attuale (alimentazione), un’identificazione della futura forza lavoro necessaria (domanda); un confronto della forza lavoro presente ai bisogni futuri per identificare le lacune; la preparazione di una strategia per affrontare tali lacune e costruire la necessaria pianificazione della workforce (azione), un processo di valutazione per assicurare che la direzione della forza lavoro rimanga valida e che gli obiettivi siano raggiunti.

Fase 1. Definire la visione per il futuro

La prima fase comprende due Work Packages: WP0 – Ricognizione stato dell’arte e letteratura esistente sulla demografia della workforce nefrologica; WP1 – Ideazione e progettazione dello studio.

La ricognizione dello stato dell’arte avverrà attraverso la consultazione di ricerche e censimenti preesistenti, il riferimento alle fonti istituzionali quali ISTAT, Miur, Ragioneria dello Stato, Agenas, Ministero della Salute. Lo studio sarà articolato in due macroaree: la prima riguarderà i dati demografici provenienti dalle Unità Operative e dei centri di Nefrologia e Dialisi attraverso la distribuzione di un questionario tramite le sezioni regionali della SIN attraverso una survey, oltre alla demografia aggiornata, l’attaccamento alla specialità e la possibilità di impiego in unità operative di Nefrologia dopo la specializzazione, le necessità formative dei giovani nefrologi.

Fase 2. Censire la forza lavoro nefrologica

WP2 – Raccolta dati tramite questionario indirizzato alle sezioni regionali SIN.

Questa prima ricognizione ha lo scopo di raccogliere dati recenti sulla demografia dei nefrologi, dal momento che l’ultimo lavoro pubblicato risale al 2010.

WP3 – Raccolta dati tramite questionario indirizzato a tutti i nefrologi con l’obiettivo di conoscere, oltre alla demografia, le possibilità di employment, l’attaccamento alla specialità, il bisogno formativo dei nefrologi.

Il questionario è stato elaborato con l’obiettivo di comprendere: la demografia attuale, il carico di lavoro, i piani per lo sviluppo dell’attività professionale e le modalità di reclutamento dei nefrologi italiani. Queste informazioni aiuteranno a comprendere aspetti complessi e multisfaccettati del sistema sanitario e serviranno per lo sviluppo di una strategia futura per la workforce nefrologica italiana; inoltre saranno utili per definire i programmi di training e la programmazione, sia per la nefrologia accademica che per quella clinica.

Fase 3.

WP4 – Predisposizione database e analisi dei dati.

Una volta raccolti i dati verranno predisposti appositi database per la loro elaborazione, con l’eventuale apporto di istituti statistici.

In seguito all’analisi dei dati verranno predisposti report annuali che verranno presentati all’Assemblea della SIN.

Fase 4.

WP5 – Diffusione dei risultati del progetto.

Sarà pubblicato un report annuale che comprenderà risultati dell’indagine, report che verrà presentato all’Assemblea dei soci durante il Convegno Nazionale e diffuso attraverso comunicati stampa e pubblicazioni scientifiche sul GIN ed eventualmente sul JN.

Inoltre i dati rilevati nel corso dell’indagine saranno resi disponibili su decisione del direttivo SIN per attività di ricerca scientifica: in ogni caso, i dati comunicati saranno privi degli elementi identificativi dei soggetti al quale si riferiscono, nonché di ogni altro elemento che consenta, anche indirettamente, il collegamento con gli individui intervistati.

 

3.1 Squadra di lavoro e organigramma

 Il Tavolo tecnico permanente sulla workforce con il supporto della SIN è in grado di sviluppare almeno uno studio annuale di interesse prioritario per il mondo della nefrologia italiana.

Il Tavolo tecnico attraverso la SIN dovrà riunirsi per l’implementazione della metodologia, per lo studio e la rilevazione della workforce con i Presidenti delle sezioni regionali attraverso 2/3 incontri annuali per monitorare lo stato della forza lavoro a livello regionale.

La squadra di lavoro è composta da un team di professionisti con competenze in epidemiologia, statistica, attività strategiche e organizzative, censimento, aree della programmazione scientifica, gestione, coordinamento e gestione (coordinatore e referente SIN).

 

3.2 Diagramma di Gantt

Diagramma di Gannt mostrato in Figura 4 illustra la tempistica di realizzazione del progetto

 

4 Metodologia

Indipendentemente da quanto sia complesso o semplice, un workforceplan (WFP) richiederà l’input di una varietà di aree funzionali, e livelli di program manager, risorse umane, valutazione delle pari opportunità di occupazione, bilancio, link istituzionali e intersocietari ed internazionalizzazione. L’organizzazione deve identificare un team multidisciplinare che conduca il WPF.

Diventa quindi fondamentale considerare i seguenti punti (10):

  • Capire perché è necessario sviluppare un WFP;
  • Analizzare i fattori interni ed esterni che influiscono sull’organizzazione;
  • Definire la visione e gli obiettivi futuri dell’organizzazione;
  • Descrivere la forza lavoro ideale per realizzare gli obiettivi;
  • Identificare la forza lavoro a breve termine (1-2 anni) e obiettivi a lungo termine (3-5 anni) per l’organizzazione;
  • Determinare i principali problemi di pianificazione, influenze esterne, tendenze e cambiamenti previsti;
  • Mantenere un ambito gestibile che possa essere eseguito entro un periodo di tempo ragionevole.

 

Fase II offerta – domanda e discrepanza

Informazioni che aiutano a sviluppare un piano completo della forza lavoro

Al fine di disegnare un quadro per il futuro, si dovrebbe iniziare esaminando:

  • Demografia della forza lavoro attuale;
  • Documenti di planning;
  • Bilancio attuale e fonti di finanziamento.

 

Affrontare ciascuno di questi problemi può aiutare a definire lo stato corrente della forza lavoro.

 

Analisi della domanda

Questo esame dei dati consente di determinare le esigenze future dell’organizzazione.

  1. Quali cambiamenti sono previsti nei prossimi 3-5 anni per quanto riguarda:
  • influenza dell’ambiente interno ed esterno (modifiche legislative, trend di politica sanitaria, sociali ed economici;
  • programmazione del tempo di lavoro (tempo indeterminato, determinato, full time, part time);
  • tendenze nazionali nella forza lavoro;
  • modifiche delle abilità e delle competenze necessarie;
  • nuove tecnologie ed innovazioni;
  • cambiamenti nelle strutture organizzative;
  • partenariati e Opportunità di sfruttare le risorse con altre organizzazioni interne;
  • durata dei progetti e dei programmi.

 

  1. Quali sono le prospettive organizzative previste per il futuro e capacità di raggiungere gli obiettivi:
  • analisi della forza lavoro nei punti seguenti: abilità e competenze necessarie per l’organizzazione e livello di competenza per numero di dipendenti necessari ad ogni livello ed entro quale lasso di tempo;
  • report sui dati dei cambiamenti demografici;
  • esigenze di formazione e sviluppo professionale della forza lavoro.

 

Fase III analisi del GAP (discrepanze)

Ci sono vari metodi per analizzare le discrepanze fra stato corrente (attuale offerta e futuro stato (domanda) della forza lavoro.

L’approccio quantitativo esamina domanda e offerta dati, mentre l’approccio qualitativo esamina la forza lavoro da un approccio più strategico e tematico.

Entrambi, sono approcci importanti da utilizzare in un piano globale strategico della forza lavoro.

Una gap analisi di abilità consente all’organizzazione di determinare se la workforce ha le competenze per soddisfare le esigenze della forza lavoro del futuro, e in primo luogo, l’organizzazione identifica le future competenze necessarie.

Gli strumenti per la raccolta dati elaborati all’interno del nostro progetto sono due: il database per la raccolta dei dati demografici a cura dei Presidenti delle sezioni regionali SIN e il questionario elaborato dal tavolo permanente della Nephrology Workforce della SIN per descrivere la demografia, l’attaccamento alla disciplina, il carico di lavoro, i programmi di assunzione e di pensionamento della comunità nefrologica italiana. La survey si propone inoltre di individuare punti di forza e punti di debolezza dell’attuale percorso formativo, con l’obiettivo di rendere tale percorso più adatto alle esigenze della Nefrologia odierna, sviluppando strategie di reclutamento che possano garantire adeguate coperture per la cura della malattia renale cronica in Italia. Il questionario è rivolto a tutti i medici che lavorano in ambito nefrologico.

 

5 Conclusioni

In Italia il numero di nefrologi per milione di abitanti in rapporto alla CKD non è ben conosciuto per l’assenza di database nazionali. Esistono pochi lavori sulla demografia dei nefrologi che offrano dati recenti che considerino aspetti importanti fra cui l’ageing e la femminilizzazione, trend maggiormente accentuati in Italia rispetto ad altri paesi. Nonostante in letteratura si riportino dati che indicherebbero un elevato numero di nefrologi attivi in Italia, il numero effettivo di specialisti nella disciplina non è tuttavia ben conosciuto e non vi sono recenti aggiornamenti sulla demografia dei nefrologi e delle nefrologhe italiane. Per lo sviluppo della disciplina è necessaria invece un’accurata pianificazione della workforce, che richiede un planning dettagliato dei numeri e delle caratteristiche demografiche della popolazione nefrologica. Considerato che l’epidemiologia della malattia renale cronica nell’ultimo decennio mostra un progressivo incremento della richiesta di cure, la programmazione, il recruitment e il training di un adeguato numero di nefrologi diventano indispensabili, sia per garantire uno standard adeguato di cure che per lo sviluppo della disciplina. Senza un’adeguata programmazione e planning, e dunque in mancanza dell’attuazione di un progetto riguardante la workforce nefrologica, si può verificare una discrepanza tra domanda di cure nefrologiche e offerta di una forza lavoro nefrologica adeguatamente formata per le attuali esigenze.

 

 

Bibliografia 

  1. Bello AK, Levin A, Manns BJ et al. Effective CKD Care in European Countries: Challenges and Opportunities for Health Policy. American journal of kidney diseases: the official journal the National Kidney Foundation 2015 Jan;65(1):15-25. DOI: 10.1053/j.ajkd.2014.07.033 | PMID:25455091
  2. Coresh J, Selvin E, Stevens LA, et al. Prevalence of chronic kidney disease in the United States. JAMA 2007; 298: 2038-47. 2. National Kidney Foundation. K/DOQI clinical practice guidelines for chronic kidney disease: evaluation, classification, and stratification. Am J Kidney Dis 2002; 39 (2 Suppl. 1): S1- 266. DOI: 10.1001/jama.298.17.2038 | PMID:17986697
  3.  Castellino S. Donne nefrologhe in Italia: Una riflessione, Giornale Italiano di Nefrologia 2010; 27 (4) 2010, pp.417-421
  4. De Nicola L, Donfrancesco C, Minutolo R. et al. Epidemiologia della Malattia Renale Cronica in Italia: stato dell’arte e contributo dello studio CARHES. Giornale Italiano di Nefrologia 2011; 28 (4): 401-407.
  5. De Pietro C. Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale (CERGAS) e SDA Bocconi, Milano, Il profilo demografico dei nefrologi italiani. G Ita Nefrol 2010; 27 (2), pp.166-177
  6. Quintaliani G., Di Luca M., Di Napoli A, et al. Censimento a cura della Società Italiana di Nefrologia delle strutture nefrologiche e della loro attività in Italia nel 2014-2015: il lavoro del nefrologo. G Ital Nefrol 2016; 33 (5)
  7. SIN – Commissione di organizzazione dei servizi di nefrologia, dialisi e trapianto.
  8. Gambaro G, Zoccali C. The “new nephrology,” reality and hope: results of an analysis.G Ital Nefrol. 2007 Mar-Apr;24(2):165-8. PUBMED ID:17458833
  9. USC Strategic Plan. COnsultato in data 24/07/2017
  10. L’analisi è tratta dal sito American Society of Nephrology. The US Adult Nephrology Workforce 2016: developments and Trends

Anticoagulanti orali non Vitamina K Dipendenti (NOACs) nei pazienti affetti da Malattia Renale Cronica e fibrillazione atriale non valvolvare

Abstract

La fibrillazione atriale (FA) rappresenta l’aritmia più comune nei pazienti con malattia renale cronica (CKD) in cui si associa, come nella popolazione generale, ad un aumento del rischio tromboembolico e di stroke con il progressivo ridursi del filtrato glomerulare (GFR). In tali pazienti, e soprattutto in quelli sottoposti a terapia dialitica (RRT), è presente inoltre un incremento del rischio emorragico, soprattutto a carico del tratto gastroenterico.

Gli anticoagulanti orali costituiscono la forma di tromboprofilassi  più efficace nei pazienti con FA che presentino un rischio maggiore di stroke. Tuttavia, le limitate evidenze scientifiche riguardanti la loro efficacia, nonché l’aumento del rischio emorragico ed alcuni aspetti riguardanti l’uso del warfarin in CKD hanno spesso portato ad un loro scarso utilizzo in tali pazienti.

Un crescente numero di studi sembra suggerire che nei soggetti con normale funzione renale i farmaci anticoagulanti orali non vitamina K dipendenti (NOACs) riducono significativamente il rischio di stroke, emorragia intracranica e mortalità, con riduzione dei sanguinamenti maggiori in confronto agli antagonisti della vitamina K (come il warfarin). Pertanto, essi sono raccomandati nei pazienti con FA a rischio di stroke. Tuttavia, dal momento che loro escrezione è fortemente influenzata dal livello di funzione renale, attualmente disponiamo di scarse informazioni sul loro utilizzo nei pazienti con clearance della creatinina inferiore a 25 ml/min poiché essi stati esclusi da tutti i trial di fase 3 riguardanti l’impiego dei NOACs.

Scopo della presente review è quello di puntualizzare i principali aspetti di farmacocinetica nonché le evidenze note, anche prospettiche, relativamente ai NOACs nei pazienti con malattia renale cronica in fase conservativa (clearance della creatinina < 25 ml/min) ed in quelli sottoposti a trattamento dialitico.

Parole chiave: Anticoagulanti orali non vitamina K dipendenti (NOACs), Fibrillazione atriale, Malattia renale cronica, Terapia anticoagulante, Warfarin

INTRODUZIONE

La fibrillazione atriale (FA) rappresenta l’aritmia più comune nei pazienti con malattia renale cronica (CKD) e si associa ad aumento del rischio tromboembolico e dell’insorgenza di stroke [1] [2].[3]. Le attuali evidenze scientifiche dimostrano che nei pazienti con FA e funzione renale normale la terapia anticoagulante rappresenta la più efficace forma di profilassi per l’aumentato rischio tromboembolico e/o  per l’insorgenza di stroke  [4]. Per contro, nei pazienti con CKD, in particolar modo quelli sottoposti a terapia dialitica (RRT), l’aumento del rischio emorragico nonché la mancanza di prove sicure a favore di un efficace rapporto rischio/beneficio ed infine il potenziale ruolo degli antagonisti della vitamina K nella patogenesi delle calcificazioni vascolari [5] hanno portato ad un ridotto utilizzo degli anticoagulanti in tali soggetti.
 

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