Manifestazioni extraepatiche associate al virus dell’Epatite E

Abstract

Il virus dell’epatite E (HEV) rappresenta un problema di salute pubblica che affligge quasi 20 milioni di persone all’anno e causa insufficienza epatica acuta in 3,5 milioni di persone. Il virus dell’epatite E può causare epatite acuta, fulminante e cronica ed è associato a molte manifestazioni extraepatiche. Lo spettro di queste manifestazioni è ancora in corso di completa definizione. L’interessamento extraepatico si manifesta con pancreatite acuta, patologie neurologiche, renali, ematologiche, muscolo-scheletriche. L’interessamento renale può essere dovuto a glomerulonefrite mebranoproliferativa con o senza crioglobulinemia, glomerulonefrite membranosa e necrosi tubulare. L’eziopatogenesi delle manifestazione extraepatiche non è ancora del tutto chiara. Il virus dell’epatite E potrebbe causare un danno tossico diretto o potrebbe causare danno attraverso un meccanismo autoimmunitario. Riportiamo il caso di un uomo di 46 anni che ha presentato epatite acuta da virus E con contemporanea insufficienza renale acuta grave e pancreatite. Sono rari i casi riportati in letteratura di pazienti con virus dell’epatite E e manifestazioni extraepatiche con decorso benigno e completo recupero funzionale.

Parole chiave: epatite E, manifestazioni extraepatiche, insufficienza renale acuta

INTRODUZIONE

L’epatite E è una patologia sostenuta da un RNA virus a filamento singolo, appartenente alla famiglia degli Hepeviridae. Si presenta come una malattia rara nei paesi industrializzati, mentre è spesso presente in forma epidemica nei paesi in via di sviluppo, rappresentando il più frequente tipo di epatite a trasmissione enterale nel mondo. Sono riconosciuti due diversi pattern di malattia con caratteristiche epidemiologiche differenti. Nei paesi in via di sviluppo, i genotipi più comuni sono il genotipo 1 e il genotipo 2, la cui trasmissione è oro-fecale e la sorgente d’infezione è rappresentata dall’acqua contaminata. Nei paesi industrializzati, invece, i genotipi più comuni sono il genotipo 3 (il più espresso in Europa) e il genotipo 4 tramessi principalmente da carne animale in particolar modo carne suina (13). 

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Insufficienza renale acuta e rabdomiolisi dopo overdose di cocaina: caso clinico e review della letteratura

Abstract

La cocaina, un alcaloide naturale derivato dalla pianta della coca, è una delle droghe illecite più comunemente utilizzate.

L’abuso di cocaina provoca effetti collaterali sistemici come ictus, infarto miocardico, dissezione arteriosa, trombosi vascolare e rabdomiolisi.

L’uso della cocaina, inoltre, è associato a complicanze renali quali insufficienza renale acuta, vasculite, nefrite interstiziale acuta, insufficienza renale cronica, ipertensione maligna con microangiopatia trombotica.

L’insufficienza renale acuta può o no essere associata alla rabdomiolisi.

La rabdomiolisi causata dall’abuso di cocaina è multifattoriale, i meccanismi fisiopatologici interessano l’ischemia tissutale secondaria alla vasocostrizione e i danni cellulari diretti causati dal farmaco.

Riportiamo il caso di un uomo di 50 anni, con storia di epatite cronica C e abuso di droga, giunto alla nostra osservazione per grave insufficienza renale acuta e rabdomiolisi dopo overdose di cocaina tanto da rendere necessario il trattamento dialitico.

In conclusione la cocaina influenza negativamente la funzione renale; cocaina e rabdomiolisi sono doppio pericolo per l’insufficienza renale acuta.

Il management del paziente con tossicità acuta da cocaina richiede un approccio multidisciplinare con stretta sorveglianza cardiaca, neurologica e della funzione renale.

Parole chiave: Insufficienza renale acuta, rabdomiolisi, cocaina

Introduzione

La cocaina, un alcaloide del tropano presente nelle foglie della pianta di coca di eritroxilone, nota come il più potente stimolatore di origine naturale, esalta e prolunga gli effetti della stimolazione simpatica inibendo il reuptake delle catecolamine nelle terminazioni nervose (1, 2). 

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Il trattamento dell’AKI in degenza nefrologica: la SLE-HDF 15 litri in 10 ore

Abstract

L’argomento AKI in terapia intensiva è stato ampiamente trattato negli ultimi decenni, mentre minor interesse ha mostrato nel tempo il trattamento dell’AKI in pazienti non richiedenti ricovero in terapia intensiva, spesso ospedalizzati in degenza nefrologia.
Da più di 5 anni nel nostro centro per il trattamento dell’AKI in degenza nefrologica utilizziamo una tecnica lenta intermittente attuata in circa 600 pt per un totale di circa 3000 trattamenti. In questo studio riportiamo i risultati clinici ottenuti in 100 pazienti afferiti per AKI consecutivamente alla nostra UO dal 01/01/2014. Il protocollo dialitico prevedeva un trattamento lento intermittente a bassa efficienza denominato SLE-HDF (Sustained Low Efficiency Hemo-Dia-Filtration), con durata 10 ore, dialisato 1,5 L/ora per un paziente fino a 75 kg, 2 L/ora fin a 85 kg, 2.5 L/ora oltre 85 kg. Metà del dialisato veniva utilizzato in convenzione in post e metà in diffusione.
Endpoints erano il recupero della funzione renale e la sopravvivenza del paziente. Su ogni paziente è stato calcolato almeno su una seduta, il Kt/V dell’urea (UKt/V).
Sono stati studiati 100 pazienti giunti consecutivamente alla nostra osservazione dal mese di gennaio 2014, 45 donne e 55 uomini, con età 79.4+11 aa. Sono stati esclusi i pazienti con AKI ed acidosi lattica da Metformina, che sono stati trattati con CVVHDF. Il peso era di kg 74+18 all’inizio del trattamento. Le cause di AKI erano: 41% scompenso cardiaco, 31% AKI su MRC, 7% rabdomiolisi, 6% sindrome epato-renale, 4% sepsi, 11% altre cause. Le principali comorbidità erano cardiopatia (63%), diabete (50%), pneumopatia (38%), età >85 aa (31%), cancro (23%), epatopatia (16%), ipotensione richiedente amine (15%), sepsi (10%). Il 65% dei pazienti avevano una diuresi inferiore a 500 ml/24 ore. In totale nei 100 pt sono stati effettuati 512 trattamenti, in media 5.12+3.7 trattamenti per pazienti. I decessi sono stati 43. L’UKt/V è risultato pari a 0.4+0.05 per seduta. I pazienti dimessi sono stati 57. Di questi, 43 hanno avuto un recupero funzionale renale. Quattordici pazienti sono stati avviati al trattamento dialitico cronico. In nessun caso abbiamo dovuto aumentare l’efficienza dialitica per inadeguato controllo dell’uremia, del quadro elettrolitico ed acido-base. I deceduti avevano una maggior incidenza di cancro (p<0.05), di insufficienza epatica (p<0.05) ed erano più anziani (p<0.05). In conclusione, il nostro protocollo di SLE-HDF, che ha utilizzato volumi di dialisato nettamente inferiori rispetto a quanto riportato in letteratura, si è dimostrato efficace nel correggere il profilo biochimico del paziente con AKI. I risultati clinici sono da considerare soddisfacenti, avendo ottenuto il miglioramento clinico nel 57% dei pazienti e considerando che dei 43 pazienti deceduti, 10 erano affetti da epato-cirrosi e 13 da neoplasia maligna. Ulteriori studi sono indispensabili per confermare le nostre osservazioni. PAROLE CHIAVE: Insufficienza renale acuta, SLE-HDF, RRT.

Introduzione

Nell’ultimo decennio l’argomento AKI in terapia intensiva ha visto un proliferare di letteratura ed è stato ampiamente trattato da linee guida internazionali (1) e nazionali (2). Minor interesse ha mostrato nel tempo il trattamento dell’AKI in pazienti non richiedenti ricovero in terapia intensiva, in genere ospedalizzati in degenza nefrologica. Spesso si tratta di pazienti critici con molte comorbidità, frequentemente con instabilità emodinamica. E’ ipotizzabile che anche i pazienti con AKI in degenza nefrologica possano trarre beneficio da trattamenti lenti a bassa efficienza, siano essi continui o quotidiani intermittenti. Per questa categoria di pazienti le linee guida (2) rilevano come sia estremamente complesso stabilire la dose dialitica da prescrivere, anche perché spesso la dose prescritta è inferiore a quella ottenuta (3, 4, 5). Non sembra definito, in caso di tecniche ibride, lente intermittenti, quale indice di efficienza dialitica sia da applicare. Nel nostro centro da più di 5 anni viene attuato un nuovo protocollo dialitico per il trattamento dell’AKI che, finalizzato ad ottenere un Kt/V dell’urea almeno uguale a quello della dialisi giornaliera per i pazienti con MRC, fosse di facile attuazione e di basso impatto per il personale infermieristico. Con tale protocollo sono stati trattati circa 600 pazienti. In questo studio abbiamo valutato i risultati clinici in 100 pazienti con AKI avviati consecutivamente al trattamento dialitico nella nostra Unità Operativa dal 1° gennaio 2014.
 

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Sindrome emolitico uremica atipica da mutazione del fattore B del complemento. Rarissima causa di malattia rara

Abstract

La Sindrome Emolitico-Uremica (SEU) è una patologia rara caratterizzata da emolisi microangiopatica, consumo piastrinico e danno multiorgano con prevalente interessamento renale. Nella maggior parte dei casi (85-90%) è associata a un’infezione enterica da ceppi di Escherichia coli produttori di Shiga-like o verocitotossine (STEC-VTEC). Più raramente, in circa il 10-15% dei casi, si manifesta in presenza di un disordine della regolazione della via alternativa del complemento ed è definita atipica (SEUa).

Descriviamo il caso di un uomo di 65 anni venuto alla nostra osservazione con un quadro suggestivo di SEUa, con decorso clinico caratterizzato da insufficienza renale acuta (IRA) a rapida progressione che ha reso necessario il trattamento sostitutivo renale e da un quadro stabile di compromissione ematologica come marker di una forma non severa e autolimitante. Il monitoraggio clinico e laboratoristico ci ha permesso di non ricorrere a terapie specifiche come la plasmaferesi e/o il blocco del complemento con eculizumab. A distanza di meno di due settimane dal ricovero ospedaliero, si è avuta sia la ripresa spontanea della diuresi con recupero progressivo della funzione renale sia la contemporanea remissione ematologica.

Lo screening genetico ha evidenziato una mutazione in eterozigosi del fattore B del complemento (CFB) non descritta in letteratura e quindi non ancora caratterizzata dal punto di vista della correlazione genotipo/fenotipo, anche per l’estrema rarità delle forme da alterazione del CFB.

In conclusione, la presenza di una nuova mutazione a carico del CFB come quella da noi descritta è probabilmente associata allo sviluppo di SEUa ma non ha comportato una prognosi sfavorevole, come in genere riportato in letteratura per le varianti note del CFB.

Parole chiave: Fattore B del complemento, Insufficienza renale acuta., Microangiopatie trombotiche, Sindrome emolitica uremica atipica

Introduzione

La Sindrome Emolitico-Uremica (SEU) è una patologia rara caratterizzata sul piano clinico da emolisi microangiopatica, consumo piastrinico e danno multiorgano con prevalente interessamento renale e sul piano istologico da una microangiopatia trombotica sistemica (1).

Nella maggior parte dei casi (85-90%), la SEU è associata a un’infezione enterica da ceppi di Escherichia coli produttori di Shiga-like o verocitotossine (STEC-VTEC); tale forma interessa prevalentemente l’età pediatrica e viene definita come forma “tipica” (2).

Più raramente, in circa il 10-15% dei casi, la SEU non è causata da batteri produttori di verocitotossine ed è definita atipica (SEUa); essa riconosce, più spesso, come meccanismo patogenetico un disordine della regolazione della via alternativa del complemento. Questa forma può manifestarsi a qualsiasi età della vita e si presenta maggiormente in forma sporadica e solo nel 20% in forma familiare. In più della metà dei casi, la SEUa è associata a mutazioni in eterozigosi a carico dei geni che codificano per le proteine regolatrici del complemento come Fattore H (CFH), Fattore I (CFI), Cofattore proteico di membrana (MCP), Fattore B (CFB) e C3 (3 – 5). In aggiunta a tali mutazioni genetiche, la SEUa può essere causata da anticorpi anti-FH (AbAnti-FH) che interferiscono con la regione C-terminale del CFH determinando una deficienza funzionale acquisita del CFH; lo sviluppo di tali anticorpi è associato a una delezione in omozigosi del gene CFHR1, responsabile della sintesi di una molecola altamente omologa al CFH (6, 7). Inoltre, nelle SEUa sono state identificate mutazioni anche a livello del sistema di attivazione della coagulazione con particolare riguardo alla trombomodulina (8) e al plasminogeno (9) e, recentemente, a carico della diacil-glicerolo-chinasi epsilon (DGKe), una chinasi espressa a livello endoteliale con funzione regolatrice nell’attivazione piastrinica e nella coagulazione, caratterizzate da una precoce manifestazione, generalmente entro il primo anno di vita (10).
 

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