Influenza da Covid-19 e impatto sui pazienti con nefropatia: l’esperienza del Centro di Piacenza

Abstract

Roberto Scarpioni e colleghi riportano qui in breve l’esperienza del Centro di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale “Guglielmo da Saliceto” di Piacenza in questo difficile momento, che vede tutti ancora impegnati nella prevenzione e nel fronteggiare una situazione clinica correlata all’infezione da Covid-19, difficile da sostenere. A causa del forte afflusso di pazienti dalla zona rossa del basso lodigiano, a soli 15 Km di distanza, l’Ospedale di Piacenza si è trovato a fronteggiare un’escalation di pazienti con diagnosi di Covid-19. Gli autori descrivono la riorganizzazione del reparto di Nefrologia e i presidi utilizzati per contenere l’infezione tra i pazienti in emodialisi, soprattutto. Riportano anche le informazioni disponibili al 25/03/2020 sui pazienti positivi al virus, e sul tasso di mortalità, purtroppo molto elevato. Lo fanno sperando che sia di utilità per chi non è stato per fortuna ancora travolto dall’infezione come è accaduto in Emilia, Lombardia, Veneto, Marche ed altre zone.

Parole chiave: Covid-19, coronavirus, malattia renale, dialisi, nefrologia, Piacenza, Emilia Romagna

Il 31 dicembre 2019 è stato segnalato un focolaio di episodi di polmonite ad eziologia sconosciuta presso la città cinese di Wuhan; successivamente è stato identificato da ricercatori cinesi (China CDC) l’agente eziologico di questa infezione, un nuovo coronavirus denominato SARS-CoV-2 o Covid-19 [1]. Un mese dopo, il 31 gennaio, sono stati individuati e trattati in Italia i primi pazienti con infezione da Covid-19, due turisti Cinesi dalla città di Wuhan in vacanza a Roma. Il 21 febbraio primo paziente italiano con malattia da Covid-19 è stato ricoverato l’Ospedale di Codogno (Lodi), a soli 15 km di distanza da Piacenza [2]. Nelle settimane successive si è assistito a una crescita esponenziale dei casi di infezione da Covid-19 nel nostro Paese. L’Italia è, in queste ore, il Paese più colpito a livello globale dalla pandemia dopo la Repubblica Popolare Cinese, con 57.521 casi accertati; di questi, più di 8.256 nella sola Emilia Romagna, ove 1.077 pazienti sono deceduti e 721 sono stati dichiarati guariti [3].

Riportiamo qui in breve l’esperienza del Centro di Nefrologia e Dialisi in questo difficile momento, che vede tutti ancora impegnati tanto nella prevenzione che nel fronteggiare una situazione clinica difficile da sostenere. Speriamo che possa essere di utilità in chi, per fortuna, non è ancora stato travolto dall’onda dell’infezione come è accaduto in Emilia e in Lombardia. A causa del forte afflusso di pazienti dalla zona rossa del basso lodigiano, a soli 15 Km da Piacenza, nei giorni seguenti la chiusura dell’Ospedale di Codogno, l’Ospedale di Piacenza si è trovato a fronteggiare un’escalation di pazienti afferenti in pronto soccorso con diagnosi di Covid-19 (vedi Fig. 1).

 

Fig. 1: Accesso al pronto soccorso per polmonite-Covid-19

 

Nei giorni successivi abbiamo assistito a un esponenziale incremento del numero di pazienti nefropatici con infezione da Covid-19, che ci ha imposto di adottare rigide misure per contenere l’infezione tra i nostri pazienti ambulatoriali che accedevano direttamente al Centro per eseguire l’emodialisi. A partire dalla 3a e 4a giornata abbiamo autonomamente adottato delle misure di contenimento del virus sia tra i pazienti che tra il personale sanitario. Alla data odierna (25/03/2020), nessun medico è per fortuna stato trovato positivo, mentre tre infermieri positivi per contatto sono attualmente in isolamento al domicilio, per fortuna in buone condizioni.

I pazienti, accolti prima dell’ingresso in reparto con la misurazione della temperatura corporea, venivano invitati a indossare mascherine, lavarsi le mani con amuchina o soluzione alcolica e sostituire gli abiti e le calzature. Il personale indossava maschere sul volto, visiere e guanti, e disinfettava le sale e gli apparecchi prima di ogni turno [4].

Inizialmente i pazienti in emodialisi cronica sono stati trattati presso i reparti di ricovero con metodiche CRRT (Continuous Renal Replacement Therapy) o con emofiltrazione ad alti volumi (6 L/ora), associate a membrane adsorbenti allo scopo di rimuovere endotossine oltre a citokine infiammatorie (IL-6); una sola infermiera ha gestito contemporaneamente due trattamenti, nella stessa stanza e con trasporti dedicati, al fine di isolare il più possibile l’eventuale contagio. Successivamente, visto che l’incremento del numero di pazienti positivi non ci ha più permesso la gestione in reparto, distante dalle sale dialisi, abbiamo ‘sacrificato’ una sala contumaciale dedicata a pazienti con documentata infezione. In attesa dei tamponi, tutti i pazienti sono stati trattati come potenzialmente infetti da un personale bardato con mascherine, occhiali, guanti e sovracamice. Svuotando le sale del materiale non indispensabile, i posti dialisi sono stati distanziati di almeno 1-1,5 m; tutto il personale è stato obbligato ad utilizzare maschere e cuffie e si sono evitate le riunioni al chiuso. Con non poche difficoltà è stato anche organizzato un percorso dedicato specificatamente per i pazienti Covid positivi, con trasporti dedicati, sanificati a fine trasporto.

Alla data in cui scrivo la triste fotografia dimostra come tanti pazienti nefropatici siano stati colpiti da infezione da Covid-19: 41 pazienti, il 16% dei pazienti in dialisi, di età media 73±11 anni e range 52-90 anni, 31M/10F, tutti di razza caucasica. La diagnosi è stata data dal tampone oro-rino-faringeo, quando disponibile, o dal quadro TAC polmonare (infiltrato interstiziale a vetro smerigliato diffuso con eventuali focolai confluenti). Paradossalmente, la quantità di pazienti contagiati a Piacenza è uguale a quella del Renmin Hospital di Wuhan (16%) [5], anche se vi è un bias dovuto al numero selezionato di tamponi, eseguiti nei primi giorni solo ai pazienti sintomatici.

Tutti i pazienti con insufficienza respiratoria e febbre sono stati trattati empiricamente con 5-OH-clorochina e terapia anti-retro virale, quando ritenuto opportuno dell’infettivologo. Purtroppo, il tasso di mortalità è stato assai elevato nei pazienti nefropatici, anziani e fragili per definizione, spesso con comorbidità associate. Al momento in cui scrivo la metà dei pazienti in emodialisi cronica colpiti dal virus sono deceduti, ben 18/41 (41% mortalità grezza a Piacenza) versus circa 10% dei decessi totali in Italia (3), un prezzo assolutamente inaccettabile e di molto maggiore rispetto ai soggetti non-nefropatici [6].

In merito ai pazienti domiciliari trapiantati (118 in totale) ed a quelli in dialisi peritoneale (34), che sono stati invitati a recarsi in ospedale il meno possibile, abbiamo attivato contatti telefonici pressoché quotidiani da parte dei medici ed infermieri dell’ambulatorio. Al momento contiamo 4 pazienti trapiantati affetti da Covid-19: due sono ricoverato presso il Centro trapianti a Bologna e gli altri due si trovano a domicilio, con stretto monitoraggio clinico anche per le interazioni farmacologiche tra la terapia empirica anti-retrovirale e quella immunomodulatrice (dove somministrata). Fortunatamente solo un paziente in dialisi peritoneale domiciliare è risultato positivo e prosegue la terapia domiciliare sotto stretto monitoraggio.

Ad oggi sono solo 5 i casi di insufficienza renale acuta (IRA) che hanno richiesto trattamento in Rianimazione con CRRT, tuttora in corso per 4 pazienti maschi di età media 60 anni e range 39-71, tutti con comorbidità; la nostra esperienza è in linea coi pochi dati in letteratura che indicano una percentuale di IRA Covid-correlate relativamente scarsa (<3%) [7].

La nostra pesante esperienza legata all’infezione da Covid-19 ci dimostra come le rigide misure di vestizione e precauzioni abbiano verosimilmente consentito di limitare i danni dal contagio, anche in considerazione dell’elevatissimo tasso di mortalità nei pazienti nefropatici. Siamo in attesa di verificare i punti ancora controversi, come il ruolo del blocco dell’enzima di conversione dell’angiotensina in pazienti con Covid-19 quale potenziale ipotetico recettore funzionale del virus [8, 9]. Siamo in attesa di sapere se l’utilizzo su ampie casistiche di farmaci immunomodulatori inibenti IL-6 quali il tocilizumab (usato nell’artrite reumatoide) possano ridurre la progressione dell’insufficienza respiratoria, inibendo la cascata infiammatoria; oppure se altri nuovi farmaci anti-virali, o persino un ipotetico vaccino, possano ridurre l’incidenza di infezione e migliorare la prognosi, ad oggi infausta in circa l’8-10%. Per il momento, tuttavia, dobbiamo puntare soprattutto sulla prevenzione dell’infezione da Covid-19; essa è tanto più imperativa per i nostri pazienti fragili con insufficienza renale ed elevatissimo rischio di mortalità, che sono purtroppo esposti al contagio dovendo venire in Centro tre volte la settimana. L’efficacia dell’isolamento è peraltro dimostrata dallo scarso numero di contagiati tra i pazienti a domicilio.

 

Bibliografia

  1. Zhu N, Zhang D, Wang W, et al. A novel Coronavirus from patients with pneumonia in China, 2019. N Eng J Med 2020; 382(8):727-33. https://doi.org/10.1056/NEJMoa2001017
  2. Carinci F. Covid-19: preparedness, decentralisation, and the hunt for patient zero. BMJ 2020; 368:bmj.m799. https://doi.org/10.1136/bmj.m799
  3. Ministero della Salute (ultimo accesso 25/03/2020).
  4. Center for Disease Control and Prevention. Interim Additional Guidance for Infection Prevention and Control Recommendations for Patients with Suspected or Confirmed COVID-19 in Outpatient Hemodialysis Facilities: (ultimo accesso 15/03/2020).
  5. Naicker S, Yang C-W, Hwang S-J, et al. The Novel Coronavirus 2019 Epidemic and Kidneys. Kidney Int 2020; in press. https://doi.org/10.1016/j.kint.2020.03.001
  6. Xianghong Y, Renhua S, Dechang C. Diagnosis and treatment of COVID-19: acute kidney injury cannot be ignored. Natl Med J China 2020; epub ahead of print. https://doi.org/10.3760/cma.j.cn112137-20200229-00520
  7. Guan W, Ni Z, Yu Hu, Liang W, et al for the China Medical Treatment Expert Group for Covid-19. Clinical Characteristics of Coronavirus Disease 2019 in China. New Engl Journ Med 2020; https://doi.org/10.1056/NEJMoa2002032
  8. Zheng YY, Ma YT, Zhang JY, Xie X. COVID-19 and the cardiovascular System. Nat Rev Cardiol 2020; https://doi.org/10.1038/s41569-020-0360-5
  9. Perico L, Benigni A, Remuzzi G. Should COVID-19 Concern Nephrologists? Why and to What Extent? The Emerging Impasse of Angiotensin Blockade. Nephron. 2020 Mar 23:1-9. https://doi.org/10.1159/000507305

 

Lo scoppio dell’epidemia Covid-19 alla Nefrologia di Lodi: cronaca delle prime ore

Abstract

Marco Farina e colleghi presentano qui la cronaca delle prime ore dell’epidemia Covid-19 nella Nefrologia dell’Ospedale Maggiore di Lodi. Dal trapelare delle prime notizie da Codogno, il 20 febbraio, al ricovero, il giorno successivo, del primo paziente emodializzato con segni di polmonite, risultato poi positivo al virus.

Ci raccontano della riorganizzazione dell’intero ospedale, una vera e propria rivoluzione strutturale realizzata in tempi da record e presa a modello in più di una occasione, e dello spirito di abnegazione di tutto il personale sanitario. Presentano poi un quadro dei pazienti contagiati nei giorni successivi, sintetizzandone le caratteristiche cliniche, e concludono con una descrizione dei presidi sanitari utilizzati e delle opzioni attualmente disponibili per un paziente che risultasse Covid+ e sintomatico all’Ospedale Maggiore di Lodi.

Parole chiave: Covid-19, Ospedale Maggiore di Lodi, nefrologia, dialisi

Introduzione

L’epidemia Covid-19 ci ha travolti a febbraio. Era il giorno 20 e da poche ore iniziavano a trapelare notizie sul primo caso di isolamento di SARS-CoV-2 in quel di Codogno, estrema appendice del lodigiano. Non si erano ancora del tutto spenti i riflettori sulla sciagura ferroviaria del Frecciarossa e ancora una volta il lodigiano saliva alla ribalta delle cronache, questa volta per un’emergenza sanitaria.

Nelle prime ore convulse ci si è molto affannati a cercare di individuare da dove fosse partito il contagio, chi fosse il caso 1, dove fosse il caso 0, e si iniziava a parlare della possibilità che l’origine di tutto potesse essere una cena fra colleghi, uno dei quali forse  era rientrato dalla Cina. Ai quesiti che si accumulavano si aggiungeva l’apprensione per il paziente 1 e la moglie incinta, entrambi inviati immediatamente in altri nosocomi. È parso subito evidente che il virus era ormai approdato in Italia, iniziando la sua diffusione proprio dalla nostra terra, e che non era più il caso di indagare sulle eventuali frequentazioni cinesi. Da quel giorno si è avuta una escalation che, al momento in cui scrivo, non ha ancora fatto registrare una battuta d’arresto.

Il primo caso

Ricordo che il 21 febbraio, al mio arrivo in reparto, venni messo al corrente del ricovero in Nefrologia di un emodializzato di 62 anni con una RX del torace suggestiva per polmonite. Con molta lungimiranza la nostra ASST aveva già pubblicato il 5 febbraio un PDTRA con lo scopo di definire le modalità di identificazione, gestione e segnalazione di eventuali casi sospetti, probabili e confermati che avrebbero avuto accesso all’ASST di Lodi. Questo documento ci ha permesso, se non proprio di essere preparati a quanto sarebbe poi accaduto (e chi lo sarebbe stato?), per lo meno di avere criteri per non sottostimare il problema. E così il paziente ricoverato in Nefrologia, proveniente dalla cittadina che si sarebbe a breve dimostrata il cluster principale di origine del virus, venne messo in isolamento in una stanza singola e subito gestito dal personale sanitario con tutti i DPI del caso. Questi erano illustrati dettagliatamente nel PDTRA. Al paziente venne immediatamente effettuato il tampone naso-faringeo ed il panel dei prelievi ematochimici, secondo precise istruzioni operative contenute sempre nel PDTRA. Iniziarono ore di attesa fibrillanti. All’epoca si trattava dei primi invii presso il Laboratorio di Microbiologia clinica dell’Ospedale Sacco di Milano e dunque già in serata avemmo a disposizione il referto: positivo. Ci fu subito la segnalazione all’Unità di crisi della Regione, appena istituita allo scopo, e, nella notte fra il 21 e 22 febbraio, il paziente venne trasferito nel Reparto Infettivi dell’Ospedale S. Anna di Como. Mi hanno spiegato che l’Unità di crisi, almeno inizialmente, aveva avocato a sé la destinazione di tutti i trasferimenti ritenuti necessari. Il paziente poi venne trasferito presto in Rianimazione, non tanto per le condizioni (al momento del trasferimento da Lodi non fu necessario alcun supporto ventilatorio), ma per la necessità dialitica, impraticabile nell’U.O. di Malattie infettive. Purtroppo, di lì a un giorno le condizioni respiratorie si deteriorarono assai rapidamente (come abbiamo imparato a vedere nella storia clinica di alcuni di questi pazienti) e in poco tempo si arrivò all’exitus.

Come si può ben immaginare, la notizia, appresa essenzialmente dalla stampa, fu accolta con grande sconcerto in Nefrologia a Lodi. Non tanto per la giovane età del paziente che sapevamo tutti avere comorbidità importanti, ma per l’impatto emotivo che la prima morte di un paziente Covid+ del nostro Centro esercitò sul personale messo cautelativamente in quarantena. I primissimi contatti e le primissime esposizioni, quando ancora non era chiaro che ci trovavamo di fronte a un caso sospetto, erano avvenute, comprensibilmente, senza presidi.

 

La riorganizzazione dell’Ospedale di Lodi

Fin qui la cronaca delle prime ore. C’è un resoconto a cura del Direttore del Pronto Soccorso di Lodi-Codogno che arricchisce di maggiori dettagli quanto nelle stesse ore accadeva a Codogno (che noi non potevamo sapere); il resto è ben noto a tutti ed è il frutto delle direttive regionali e ministeriali che si sono succedute, definite e corrette di ora in ora. Dall’istituzione della “zona rossa” (DPCM 21 febbraio per i 10 Comuni del lodigiano), estesa successivamente a tutta la Regione Lombardia (DPCM 8 marzo), alle restrizioni assolute come richiesto da Regione Lombardia (DPCM 11 marzo). Fin dai primi giorni caratterizzati dal dilagare delle diagnosi Covid-19 in Pronto Soccorso (al momento in cui scrivo non viene ancora segnalata alcuna inversione del trend, ma la attendiamo con ansia…), l’Ospedale di Lodi ha iniziato una vera e propria rivoluzione strutturale, realizzata in tempi da record e in più di una occasione presa a modello da altri nosocomi. Il 26 febbraio ha aperto l’”area blu”, con 18 posti per Covid+ con necessità ventilatoria NIV (ex Neurologia); il 28 febbraio ha aperto l’”area gialla” con 37 posti letto per Covid+ senza necessità ventilatoria o con semplice supporto di O2-terapia in maschera (ex Medicina; il 4 marzo ha aperto l’”area arancione” con 38 posti letto (ex Medicina) e lo stesso giorno iniziavano anche i lavori in Sala dialisi ospedaliera per l’istituzione di 2 postazioni contumaciali per l’emodialisi dei Covid+; il 6 marzo è stata aperta l’”area rossa” in Nefrologia, con 13 posti letto per Covid+ (pareti di cartongesso, tirate su in una notte, hanno delimitato una zona filtro per vestizione/svestizione a regola d’arte). Il 7 marzo infine hanno iniziato a ricoverare polmoniti Covid+ anche nel reparto di Ortopedia, con gestione da parte del Chirurgo coadiuvato come in tutte le aree dal team infettivologo/pneumologo/rianimatore.

Medici ed infermieri venivano trasversalmente adibiti a nuove funzioni secondo le necessità, mutevoli di ora in ora ed erano chiamati ad acquisire competenze (es. sulle tecniche di ventilazione) che nessuno avrebbe lontanamente immaginato di dover affrontare in tempi normali. Alla regia un team multidisciplinare costituito dal Direttore di Pronto Soccorso, dal Direttore della Rianimazione, dal Direttore di Pneumologia, dal Direttore di Malattie infettive e da alcuni infermieri che, in stretta collaborazione con il Direttore del Laboratorio di Biochimica e Microbiologia e con la Direzione Strategica, costituirono l’Unità di Crisi dell’Ospedale. L’Unità di Crisi si era praticamente costituita in riunione permanente. Ho visto tutti darsi un gran daffare, spesso nel silenzio, accettando turni massacranti con grande spirito di abnegazione. A guardare le cronache è quello che è avvenuto un po’ in tutta la Lombardia, il Veneto e in molte altre situazioni.

Passando a qualche dato preliminare sul panorama della dialisi occorre dire subito che a dispetto delle sconcertanti previsioni iniziali, almeno a Lodi, non c’è stata l’ondata temuta (ma la realtà potrebbe cambiare). Fin da subito i dializzati provenienti dalla “zona rossa” sono stati trattati con molta attenzione e con presidi sia al CAL che in dialisi ospedaliera. Inoltre, data l’elevata promiscuità dei pazienti nei vari Centri di trattamento, quelli di essi che provenivano dall’area rossa e venivano dializzati, ad esempio, nella dialisi ospedaliera, effettuavano il trattamento in una sala dedicata, separata dal resto dei pazienti. L’anamnesi accurata all’attacco della seduta unitamente alla misurazione della temperatura corporea e della saturazione, ha permesso di esercitare una sorveglianza puntuale (triage pre-dialitico).

 

Altri contagi

I tamponi effettuati preventivamente ai pazienti venuti a contatto con il dializzato deceduto al S. Anna hanno rivelato solo 3 positivizzazioni su 18 tests (15% circa); nulla, tuttavia, si può affermare con certezza causa-effetto sulla reale fonte del contagio.

Al momento in cui scrivo, i dializzati risultati positivi al SARS-CoV-2 sono 7, anche se il dato è destinato probabilmente a salire; poiché i pazienti del Centro sono 162, fra emodializzati e dializzati peritoneali, questo numero rappresenta circa il 4%. A parte il caso di Como, altamente comorbide anche se in buone condizioni al momento del trasferimento, ne sono deceduti altri 2. Uno è un paziente di 84 anni, anch’esso altamente comorbide, ricoverato per altri motivi clinici e positivizzatosi per Covid-19 durante la degenza; oltre al riscontro RX di polmonite si era precisata recentemente la diagnosi di una neoplasia polmonare. Il terzo decesso riguarda una paziente con insufficienza renale in stadio 5, dunque non ancora in dialisi, gravemente cardiopatica che ha contratto l’infezione polmonare durante la degenza. Per le gravi condizioni generali precedenti l’infezione era stata avviata la palliazione.

In questa tabella cerco di sintetizzare le caratteristiche cliniche dei pazienti positivi e il loro outcome; mi riservo di recuperare in un secondo tempo i dati biochimici salienti eventualmente disponibili.

 

Tabella I: Caratteristiche cliniche e outcome dei pazienti positivi

Addendum e conclusioni

Essendo stati i primi ad essere travolti dall’epidemia, siamo stati di sicuro fra i primi a mettere in atto procedure e protocolli molto rigorosi. In ogni caso si fa sempre tutto il possibile, ma bisogna aggiungere che nella realtà non c’è sempre coincidenza fra la teoria dei protocolli e i presidi a disposizione. Finora tutti gli infermieri hanno mascherine FFP2 (che vengono consegnate “contate” ad inizio turno) e l’approvvigionamento è spesso in capo alla direzione sanitaria o alla Farmacia. Il corpo infermieristico dei CAL (dove non si dializzano casi Covid+ accertati) indossa divise monouso; in uno dei due CAL appartenente all’area rossa viene anche dato in dotazione un camice chirurgico impermeabilizzato. Tutti gli infermieri indossano il cappellino, mentre la FFP2 ostacola in molti casi la sovrapposizione della mascherina con visiera. Abbiamo quindi dotato ogni sala di occhiali che vengono sanificati a fine turno con alcool 70% per essere usati nel turno successivo. A parte la FFP2 e il camice impermeabilizzato (disponibile in un solo CAL) si può ben vedere che si tratta per la maggior parte di presidi standard e di buona pratica di sala dialisi.

Quanto ai pazienti, tutti indossano la mascherina chirurgica che viene rinnovata ad ogni inizio turno. La maggior parte la utilizza anche durante il trasporto (non riuscirei ad essere ineccepibile su questo punto), ma è probabile che sia la stessa con cui sono rientrati al domicilio la dialisi precedente. Durante l’attesa, tutti i pazienti vengono invitati a rispettare almeno un metro di distanza e a lavarsi accuratamente le mani e l’arto della FAV.

Attualmente, per un paziente che risultasse Covid+ e sintomatico a Lodi, si prospettano le seguenti opzioni, gestite dal bed manager (infermiere) di concerto con il Responsabile di pronto soccorso, il Responsabile rianimatore e il Coordinatore del team multidisciplinare descritto sopra:

  1. se vi è necessità di ventilazione invasiva: ricovero in RIA ed inizio CRRT o emodialisi secondo i casi. Sono disponibili attacchi per l’osmosi portatile;
  2. se vi è necessità di NIV: ricovero in “area gialla” dove è possibile fare CPAP; due stanze da 2 letti ciascuna sono state dotate di attacchi idraulici per l’osmosi portatile;
  3. con o senza necessità di NIV: ricovero in “area rossa” nefrologica, dove tre stanze da 3 letti ciascuna sono state dotate di attacchi idraulici per l’osmosi portatile.

In questi giorni è stato acquisito un secondo sistema per il trattamento dell’acqua che permette di trattare contemporaneamente due pazienti. Se si trasferisse il sistema che attualmente staziona nell’area gialla (che ha la capacità di far dializzare un paziente alla volta) e si associasse al sistema da due pazienti, nelle stanze da 3 letti della Nefrologia si potrebbero dializzare fino a 3 pazienti contemporaneamente, stabilendo un rapporto infermiere/paziente di 1:3.

Per un paziente Covid+ asintomatico o sospetto positivo l’emodialisi potrebbe essere condotta nella sala dialisi ospedaliera, dove sono state create le due postazioni contumaciali dotate di zona filtro. Queste due postazioni  potrebbero all’occorrenza diventare sei con pochissime modifiche strutturali (fissaggio di una porta intercomunicante con le altre sale).

Considerando complessivamente le opzioni a disposizione, il sistema appare ad oggi sufficientemente dimensionato. Tuttavia per il mutare continuo della situazione epidemiologica, qualsiasi valutazione potrebbe rivelarsi improvvisamente inesatta. Il problema più serio resta la disponibilità di posti in Rianimazione per pazienti dializzati che avessero necessità di essere intubati.

Gestione del paziente in dialisi e con trapianto di rene in corso di infezione da coronavirus Covid-19

Abstract

L’emergenza sanitaria che ci troviamo ad affrontare è qualcosa di nuovo per tutti noi e richiede l’identificazione di approcci condivisi, specialmente per quelle categorie di pazienti che definisco la nostra specialità (emodializzati, trapiantati). Brescia rappresenta al momento della stesura di questo documento un focolaio infettivo molto attivo (2918 casi al 17/03/2020) e secondo solo a Bergamo. La logistica della nostra struttura ci ha consentito una riorganizzazione tale per cui i casi di pazienti trapiantati ed emodializzati Covid-19 positivi vengono ad essere gestiti direttamente nel nostro reparto; al momento della stesura di questo documento stiamo gestendo/abbiamo gestito su un’ampia rete territoriale 20 pazienti portatori di trapianto renale e 17 emodializzati. Questo ci ha posto di fronte alla necessità di un approccio organico, volto non solo alla gestione clinica dei pazienti ma anche all’organizzazione di un apparato di ricerca su questa malattia. Questo approccio è esitato nella stesura delle linee guida allegate, originariamente intese per un uso interno, ma che riteniamo possano rappresentare un punto di riflessione per altri colleghi che dovranno fronteggiare gli stessi problemi. Abbiamo inoltre avviato una raccolta dati su questi pazienti al fine di meglio comprendere la patologia, le sue dinamiche e le modalità di gestione; per chi fosse interessato chiediamo di contattarci per coordinare uno sforzo comune in tal senso.

Parole chiave: Covid-19, Brescia, nefrologia, dialisi, trapianto, linee guida

Introduzione

L’epidemia da Covid-19 in Lombardia richiede la messa a punto di un protocollo nei pazienti nefropatici, in particolare nei pazienti in trattamento dialitico e in quelli portatori di trapianto renale.

Recentemente, il China CDC ha pubblicato la più ampia casistica di Covid-19, che includeva 44672 casi; da questo studio emerge una mortalità totale del 2.3%. I fattori di rischio principali sembrano essere, oltre all’età (mortalità dell’1.3% nella fascia 50-59, 3.6% nella fascia 60-69, 8% nella fascia 70-79 e 14.8% nella fascia ≥80 anni), la presenza di malattie cardiovascolari (mortalità 10.5%), diabete (mortalità 7.3%), malattie respiratorie croniche (mortalità 6.3%), ipertensione arteriosa (mortalità 6%) e neoplasie (mortalità 5.6%) [1,2]. Nella regione Lombardia, tuttavia, la malattia sembra avere una mortalità decisamente maggiore di quella riportata in Cina, e questo deve indurci a studiare con attenzione tutti i fattori potenzialmente responsabili di questo andamento.

Le comorbidità associate ad aumentata mortalità in corso d’infezione da Covid-19 sono molto frequenti nei pazienti affetti da Insufficienza Renale Cronica (IRC) e nei pazienti in corso di terapia sostitutiva della funzione renale mediante emodialisi. Non esistono inoltre, al momento, dati solidi sui pazienti Covid-19 positivi in trattamento dialitico e nei portatori di trapianto di rene in cui, oltre ai vari fattori di rischio cardiovascolare, esiste una condizione di ridotta immunocompetenza.

Al momento della prima stesura di questo documento (17/03/2020) abbiamo seguito presso la nostra struttura di Brescia e l’annessa rete territoriale 20 pazienti trapiantati e 17 pazienti dializzati; la nostra preliminare esperienza suggerisce che la malattia ha un decorso severo, con outcome potenzialmente fatale, soprattutto nel sottogruppo di pazienti portatore di trapianto renale. Inoltre, un numero consistente di pazienti nefropatici con Covid-19 sono stati seguiti preso i centri di Lodi, Cremona, Manerbio, Montichiari e Chiari, che aderiscono alla task force di Brescia. L’esperienza cinese suggerisce che la malattia abbia un andamento meno severo nei pazienti dializzati, non solo rispetto ai pazienti con trapianto renale, ma anche ai pazienti non nefropatici. Questa è anche l’esperienza iniziale di Brescia, ma non è confermata da tutti i centri partecipanti alla nostra task force. Ovviamente, in assenza di dati adeguati sia nella popolazione generale (percentuale di asintomatici) che nei pazienti nefropatici, non è possibile formulare riflessioni conclusive. Proprio per questo, stiamo raccogliendo in dettaglio dati clinici e di laboratorio nei nostri pazienti, per poter condividere con la comunità nefrologica le caratteristiche cliniche e di outcome della malattia nei nefropatici.

In generale, l’ottimale gestione della patologia è ancora dibattuta e l’approccio terapeutico è privo di significative evidenze. L’indicazione alla terapia anti-retrovirale è dubbia e, ad oggi, non esiste alcun farmaco registrato per il trattamento di infezioni da Covid-19 [3]. Tuttavia, ci si può avvalere dell’esperienza derivante dall’uso di agenti anti-virali su virus appartenenti alla medesima famiglia di Beta-coronavirus (SARS e MERS); bisogna comunque considerare come la condizione di emergenza fornisca una buona ragione per l’utilizzo di antivirali, nonostante la mancanza di evidenze scientifiche preliminari. Nei pazienti affetti da IRC avanzata si pone inoltre la problematica dell’aggiustamento della terapia per il grado di funzione renale e, nei pazienti portatori di trapianto renale, la necessità di un’attenta modulazione della terapia immunosoppressiva; al momento non esistono chiare linee guida per la gestione di questi pazienti [4].

Al momento, Brescia rappresenta il secondo focolaio in Italia dopo Bergamo (2918 casi al 17/03/2019). Un gruppo di lavoro formato da infettivologi e intensivisti lombardi ha messo a punto un protocollo di terapia nei pazienti con Covid-19, sulla base della severità di malattia: le Linee guida sulla gestione terapeutica e di supporto per pazienti con infezione da coronavirus COVID-19. Edizione 2.0, del 12 marzo 2020. Mutuando in parte il background infettivologico ed intensivista del protocollo, abbiamo adattato questo approccio ai nostri pazienti in trattamento dialitico e con trapianto di rene, creando questa Proposta di schema di gestione terapeutica di pazienti emodializzati e trapiantati affetti da Covid-19 (cliccando questo link è possibile scaricare il documento in questione). Di seguito, forniremo inoltre alcune considerazioni logistiche derivanti dalla nostra esperienza diretta sulla gestione dei flussi di pazienti in corso di epidemia da Covid-19.

 

Trattamento farmacologico

Clorochina e idrossiclorochina: evidenze sperimentali supporterebbero un ruolo anti-virale in vitro e nel modello animale per la clorochina nei confronti del virus SARS e dell’influenza aviaria. Un panel di esperti cinesi supporta l’utilizzo del farmaco in ragione di un beneficio in termini di ospedalizzazione e outcome generale del paziente [5].

Lopinavir/ritonavir: evidenze aneddotiche supporterebbo un possibile ruolo di questo antiretrovirale di seconda generazione in corso di infezione da Covid-19.

Darunavir/ritonavir e darunavir/cobicistat: potenziali alternative al Lopinavir/ritonavir in ragione del meccanismo d’azione analogo.

Remdesivir: è un analogo nucleotidico il cui meccanismo d’azione consiste nell’incorporazione del farmaco nelle catene di RNA neosintetizzate. Viene proposto, in modelli animali e in vitro, un suo possibile ruolo nel ridurre la carica virale e nel migliorare i parametri di funzionalità polmonare [6,7]. Due trials clinici sono attualmente in corso in Cina.

Corticosteroidi: l’utilizzo dei corticosteroidi sarebbe controindicato nelle fasi iniziali della patologia. Dati suggeriscono tuttavia un loro ruolo nella gestione della sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), con un impatto significativo sulle curve di sopravvivenza dei pazienti trattati [8].

Tocilizumab: sulla scorta del ruolo centrale che l’IL6, in associazione ad altre citochine pro-infiammatorie, sembrerebbe avere nello sviluppo di ARDS indotta da Covid-19, il Tocilizumab potrebbe aver un ruolo nella gestione di casi selezionati, in assenza di controindicazioni maggiori.

 

Considerazioni logistiche

Riteniamo assolutamente necessaria un’adeguata pianificazione logistica nella gestione di questa emergenza sanitaria. Nel trattare questi pazienti si devono conciliare protocolli infettivologici (es. isolamento) con necessità intrinseche alla nostra specialità, come quella di movimentare i pazienti per l’emodialisi. La nostra esperienza, se pur ancora limitata, sembra suggerire un outcome migliore nei pazienti trapiantati gestiti direttamente in un reparto nefrologico rispetto al gruppo gestito in altre aree Covid generali e valutati dal nefrologo solo in consulenza.

La peculiare organizzazione logistica della nostra struttura ci ha in questo senso consentito un modello organizzativo efficiente. Riportiamo qui uno schema della nostra struttura:

 

Piano 1:

Piano 2:

A partire dal 27-28 febbraio abbiamo impostato una riduzione dei posti letto del Reparto femminile e un aumento delle dimissioni nel reparto maschile con successivo trasferimento delle pazienti donna non dimissibili nel lato maschile. Nella notte tra il 27 e 28 febbraio abbiamo ricoverata la prima paziente portatrice di trapianto di rene e positiva al virus, successivamente trasferita in terapia intensiva per deterioramento clinico. Al 28 febbraio, la situazione logistica era la seguente; da notare che nell’area COVID erano disponibili attrezzature ed impianti per l’eventuale effettuazione di emodialisi.

 

Piano 1:

Piano 2:

Tra il 2 e il 4 marzo abbiamo ricoverato i primi pazienti positivi nell’area COVID; in questa fase, la necessità era rivolta quasi esclusivamente ai pazienti trapiantati, avendo il nostro centro un grosso bacino d’utenza che include anche le aree di Lodi e Codogno. Il progressivo afflusso di pazienti positivi presso il nostro ospedale, unito alla necessità di accogliere pazienti emodializzati, ha quindi portato allo spostamento del reparto maschile e femminile al piano 2, alla chiusura del centro trapianti e alla rimodulazione degli spazi centrali del reparto in sale da emodialisi, in parte destinate a pazienti Covid positivi, in parte destinate a pazienti negativi.

 

Piano 1:

Piano 2:

In conclusione, ricordiamo nuovamente che le nostre linee guida per la gestione terapeutica dei pazienti emodializzati e trapiantati può essere scaricata qui.

 

La “Brescia Renal Covid Task Force”

Federico Alberici, Università degli Studi di Brescia, Dipartimento di Specialità Medico-Chirurgiche, Scienze Radiologiche e Sanità Pubblica; ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Elisa Del Barba, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Chiara Manenti, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Laura Econimo, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Francesca Valerio, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Alessandra Pola, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Camilla Maffei, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Possenti Stefano, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Nicole Zambetti, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Margherita Venturini, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Stefania Affatato, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Paola Piarulli, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Mattia Zappa, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Guerini Alice, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Fabio Viola, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Ezio Movilli, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Paola Gaggia, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Sergio Bove, ASST Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Montichiari (BS), Italia

Marina Foramitti, ASST Cremona, Unità Operativa di Nefrologia, Cremona, Italia

Paola Pecchini, ASST Cremona, Unità Operativa di Nefrologia, Cremona, Italia

Raffaella Bucci, ASST Lodi, Unità Operativa di Nefrologia, Lodi, Italia

Marco Farina, ASST Lodi, Unità Operativa di Nefrologia, Lodi, Italia

Martina Bracchi, ASST Franciacorta, Unità Operativa di Nefrologia, Chiari (BS), Italia

Ester Maria Costantino, ASST del Garda, Unità Operativa di Nefrologia, Manerbio (BS), Italia

Fabio Malberti, ASST Cremona, Unità Operativa di Nefrologia, Cremona, Italia

Nicola Bossini, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Mario Gaggiotti, ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

Francesco Scolari, Università degli Studi di Brescia, Dipartimento di Specialità Medico-Chirurgiche, Scienze Radiologiche e Sanità Pubblica; ASST Spedali Civili di Brescia, Unità Operativa di Nefrologia, Brescia, Italia

 

Bibliografia

  1. The Novel Coronavirus Pneumoniae emergency Response Epidemiology Team. The Epidemiological Characteristics of an Outbreak of 2019 Novel Coronavirus Disease (COVID-19) – China. 2020. Chinese Center for Disease control and Prevention 2020; 2(8).
  2. Huang C, Wang Y, Li X, Ren L, et al. Clinical features of patients infected with 2019 novel coronavirus in Wuhan, China. Lancet 2020; 395:497-506.
  3. World Health Organization. Clinical management of severe acute respiratory infection (SARI) when COVID-19 disease is suspected. WHO reference number: WHO/2019-nCoV/clinical/2020.4 (13 March 2020).
  4. Naicker S, Yang C-W, Hwang S-J, Liu B-C, et al. The Novel Coronavirus 2019 Epidemic and Kidneys. Kidney Int 2020; in press. https://doi.org/10.1016/j.kint.2020.03.001
  5. Multicenter collaboration group of Department of Science and Technology of Guangdong Province and Health Commission of Guangdong Province for chloroquine in the treatment of novel coronavirus pneumonia. Expert consensus on chloroquine phosphate for the treatment of novel coronavirus pneumonia. Zhonghua Jie He He Hu Xi Za Zhi 2020;43(0):E019.
  6. Sheahan TP, Sims AC, Leist SR, Schäfer A, Won J, Brown AJ, et al. Comparative therapeutic efficacy of remdesivir and combination lopinavir, ritonavir, and interferon beta against MERS-CoV. Nat Commun 2020; 11:222.
  7. de Wit E, Feldmann F, Cronin J, Jordan R, Okumura A, Thomas T, et al. Prophylactic and therapeutic remdesivir (GS-5734) treatment in the rhesus macaque model of MERS-CoV infection. Proc Natl Acad Sci USA 2020; pii: 201922083.
  8. Wu C, Chen X, Cai Y, Xia J, Zhou X, Xu S, et al. Risk Factors Associated With Acute Respiratory Distress Syndrome and Death in Patients With Coronavirus Disease 2019 Pneumonia in Wuhan, China. JAMA Intern Med 2020; online first. https://doi.org/10.1001/jamainternmed.2020.0994

Salivary creatinine and urea in patients with end-stage chronic kidney disease could not be used as diagnostic biomarkers for the effectiveness of dialysis treatment

Abstract

Introduction. End-stage chronic kidney disease (CKD) is characterized by kidney failure with the organ’s functions reduced or lost completely, where the kidneys are incapable of filtering excess fluids. Renal replacement therapy may be provided by peritoneal dialysis, hemodialysis or renal transplantation. Among the key indicators for tracking patients’ current status are urea and creatinine levels.

Aim. The study analyzed saliva as a medium to detect and measure urea and creatinine levels in end-stage CKD patients as well as to use it as criteria for the effectiveness of the dialysis treatment by comparing salivary urea and creatinine levels with their blood levels.

Material and methods. The study targeted 70 end-stage CKD patients from northeastern Bulgaria undergoing hemodialysis treatment. The urea in blood serum was carried out using the UV kinetic method. Creatinine levels were measured using Jaffe reaction colorimetric method without deproteinezation, adapted on an Olympus AU 400 automated biochemical analyzer (Beckman Coulter Inc., USA). Samples from whole unstimulated saliva were collected in a 15 ml sterile test tube as per Navazesh method. The qualitative determination of salivary urea was performed using the UV kinetic method. Creatinine levels in whole unstimulated saliva were measured using Jaffe reaction colorimetric method.

Results. There was a statistically significant reduction in blood urea levels (P=0.000) and in blood creatinine levels (P = 0.000) following hemodialysis. The results revealed that there was no statistically significant dependence between both, the urea levels (P=0.240) and the creatinine levels (P=0.065) in whole unstimulated saliva obtained prior to and after a hemodialysis.

Conclusion. Despite the parallel increase of the urea and creatinine levels in blood serum and in whole unstimulated saliva in end-stage CKD, salivary urea and creatinine levels could notbe used as diagnostic biomarkers for the effectiveness of dialysis treatment.

 

Key words: end-stage chronic kidney disease, dialysis, salivary urea, salivary creatinine

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Introduction

 Chronic kidney disease (CKD) is recognised as a health concern globally, leading to ever-increasing rates of morbidity [1]. End-stage renal disease is characterized by kidney failure with the organ’s functions reduced or lost completely, where the kidneys are incapable of filtering excess fluids.  

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La Nefrologia nella Regione Sicilia

Regione Sicilia

 

 

 

 

 

 

In Sicilia come anche in altre Regioni d’Italia, la sanità è in una fase di profonda trasformazione strutturale di natura organizzativa volta a ridurre gli sprechi, le inefficienze e a migliorare l’accoglienza, non solo alberghiera, ma anche e soprattutto umana al fine di garantire ai pazienti un rapido e qualificato accesso alle strutture sanitarie dell’Isola e rispondere così, al meglio, ai bisogni di Salute dei Siciliani.

 

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The contribution to nephrology of Professor Joseph Erden

Abstract

Professor Josef Erben, MD, DSc. died on May 24, 2015 in Hradec Králové, Czech Republic. He was one of the most outstanding Czechoslovak medical personalities who lived in the 20th and at the beginning of the 21st century. His work significantly influenced the development of general internal medicine and clinical nephrology, especially renal replacement therapy and kidney transplantation. He finished his medical studies at the Medical School of Charles University in Hradec Králové in 1951. From 1956 to 1993 he worked at the 1st Internal Clinic in Hradec Králové. From 1990 to 1993 he was the Head of this Clinic. Professor Erben’s principal contributions were at the national level: 1) He was a founder of regular dialysis treatment of chronic renal failure in Czechoslovakia; 2) He designed the project and production of the Hradec hemodialysis system; and at the international level: 3) Using the Subclavian vein, as vascular access for hemodialysis; 4) The development of a hemodialysis coil of Czechoslovak production of the Chiradis type for hemodialysis.

Keywords: clinical nephrologist, dialysis; subclavian vein catheterization; simultaneous hemodialysis system, scientist and organizer

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The life of Josef Erben

Josef Erben was born on May 24, 1926 in Nova Paka, Czechoslovakia, and he died on May 24, 2015 in Hradec Králové, Czech Republic (Figure 1). He completed his medical study at the Medical School of Charles University in Hradec Králové in 1951. After the graduation he began to work at the Hospital in Nova Paka until 1956. From 1956 to 1993 he worked at the 1st Internal Clinic of the Faculty Hospital in Hradec Králové. At first he was an internist charged for the development of nephrology, from 1961 he was the Deputy Head of the Clinic, and from 1990 to 1993 he was the Head of this Clinic. Professor Erben defended his academic title “Doctor of Medical Sciences” (DSc) in 1982 on the thesis of “Residual renal function in chronic renal insufficiency during regular dialysis treatment”. He became Associate Professor in 1990, 25 years after the defense of his habilitation thesis because of his past political positions in 1968. In 1991 he was appointed as the full professor of Internal Medicine.

In 1958 he performed the first hemodialysis in Hradec Králové, which was the second in the former Czechoslovakia. The first clinical kidney transplantation in Czechoslovakia was carried out with a team of physicians together with Professor Erben on November 29, 1961 in Hradec Králové. Coincidentally, it was in the 16-year old girl from Košice, after removal of the right kidney for stones in the presence of a non-functional left kidney. The donor was her mother.

At the initiative of Professor Jan Brod MD, DSc., the Head of the “Institute of Cardiovascular Research” in Prague, Professor Erben completed a one-year internship at the “Cleveland Clinic Foundation” in the United States. He worked at the Department of Artificial Organs of Professor William J. Kolff, the “father of artificial kidney”, in 1966 (Figure 2). Here he was exposed to the problems of regular dialysis treatment and kidney transplantation.

After completing the Examinations for Educational Council for Foreign Medical Graduates (ECFMG), he was also allowed to work at the bedside of dialysed and transplanted patients. He also worked in the “emergency rooms” where patients were admitted for hemodialysis or for evaluation for kidney transplantation in the State of Ohio.

After one year he returned to Czechoslovakia. Under his leadership a project was created as “Hradec simultaneous hemodialysis system (HSHS)” with central distribution of dialysis solution and with the central control units of 6 monitors, which allowed for the simultaneous hemodialysis of 6 patients (1st contribution of Professor Erben) (1). Professor Erben was involved into research on using his own method of determination the active dialysis area using the Berlin blue (2). Together with J. Macek, MD, they developed a hemodialyzer coil of Czechoslovak production of the Chiradis type (3). The coil was inserted into the metal cylinder with an active recirculation of the dialysate using an electric pump (Figure 3). Hydrostatic pressure was used for the distribution of dialysis solution to each dialyzer using the elevation of two 300-liter reservoirs of dialysis solution above the level of dialysis beds. Hradec simultaneous hemodialysis system was successfully used in many dialysis facilities in Czechoslovakia and abroad (Hungary and German Democratic Republic). At the 1st and later at the IVth Internal Clinic of the Faculty Hospital in Košice HSHS was used from 1972 to 1990. Professor Erben was a founder of regular dialysis treatment of chronic renal failure in Czechoslovakia. His proposal for this treatment was accepted by the Advisory council of the Ministry of Health in 1967. It was not easy to introduce this concept into practice, because it was a financially demanding program.

In 1969 at the VIth EDTA Congress in Stockholm Professor Erben lectured about using the Subclavian vein for vascular access in hemodialysis therapy, first in the world. Catheterization of the subclavian vein was performed by the Seldinger technique (4, 5). This world contribution of Professor Erben was recognized by Professor Scribner at the EDTA Congress in Madrid, 1990. He was awarded many honors, the most important being the award of the State Prize for contribution in the field of kidney transplantation in 1979. From 1980 to 1990 he served as an expert consultant to the Ministry of Health for Nephrology. Professor Erben published more than 260 scientific papers, including 48 in international journals. He was the author of 13 scientific patents, in five as the first author. He organized The First National Nephrology Conference in Hradec Králové, 1969.

Professor Erben became the undisputed leader of Czechoslovak clinical nephrology.

Summary

Professor Erben was a founder of regular dialysis treatment for chronic renal failure in Czechoslovakia. A contribution of Professor Erben to international nephrology was using the subclavian vein for vascular access in hemodialysis (1969). The scientific and research work that Professor Erben performed during his active life will remain the stimulus of the contributions of the next generation of nephrologists. His impact on the field of nephrology in Czechoslovakia was manifold. It included his work in clinical nephrology, his teaching activities, and last but not least his excellent organizing and research abilities. He left a historical impact in the international medical and scientific community.

 

References
  1. Erben J, Máša J, Macek J et al. A new modification of a monitoring unit with a single pass system for simultaneous hemodialysis. Proc Europ Dial Transplant Ass 1969; 6: 328 -332.
  2. Erben J, Kvasnička J, Groh J, Rose F, Kolff WJ. Colorimetric determination of effective dialysis area of artificial kidney. (Letter to editor). J Amer Med Ass 1967; 202: 166.
  3. Macek J, Erben J, Šidák Z. Consumer hemodialysis coils of Czechoslovak production. Služ Zdravot 1969; 10: 231.
  4. Erben J, Kvasnicka J, Bastecky J et al. Experience with routine use of subclavian vein cannulation in haemodialysis. Proc Europ Dial Transplant Ass 1969; 6: 59-64.
  5. Erben J, Kvasnicka J, Bastecky J et al. Long-term experience with the technique of subclavian and femoral vein cannulation in hemodialysis. Artif Organs. 1979; 3: 241–244.