Settembre Ottobre 2021 - Editoriali

ANED e la nefrologia

L’ANED è un partner della medicina nefrologica e non semplicemente un soggetto portatore di interessi, perché la storia di ANED è la storia della nefrologia. È un dato che segna l’atto di nascita dell’associazione, cooprotagonista delle più importanti scelte istituzionali e di politica sanitaria, e che ne contraddistingue il tratto ancora oggi.

La pandemia da Covid-19 sta rivoluzionando tutto, inducendo cambiamenti in molti campi della vita sociale e incidendo anche sui sistemi di protezione sanitaria, ad esempio ampliando le esperienze di digitalizzazione e comunicazione a distanza nel campo dell’attività clinica.

 

La prospettiva digitale e la deospedalizzazione

Stiamo assistendo, infatti, ad una maggiore diffusione della comunicazione a distanza, cioè l’insieme delle attività (visive, audiovisive e testuali) che vengono condivise attraverso sistemi digitali, ovvero tramite i social network o i siti web/blog. Tutto ciò avviene in continuità con il recente passato, ma anche segnando una forte discontinuità, non fosse altro che per la velocità e l’estensione massiccia a settori decisivi del sistema economico-sociale.

Queste nuove esperienze vanno osservate per sottolinearne le potenzialità, ma anche per valutarne i possibili rischi. Si pensi, ad esempio, al rapporto personale insostituibile tra curanti e pazienti nel percorso terapeutico. Inoltre, è importante avere la consapevolezza che la prospettiva digitale è una componente di processi duraturi, destinati a cambiare profondamente il modo di operare di milioni di persone, e che per questo la direzione di marcia è fondamentale.

La salute è già parte di questi nuovi percorsi per effetto, ad esempio, delle sperimentazioni in atto di telemedicina, intesa come comunicazione di dati medici a fini diagnostici o terapeutici a distanza. Essa comprende lo scambio sia tra reparti o tra ospedali sia direttamente con i pazienti, quando il medico – effettuata la visita e formulata la diagnosi – ha la necessità di acquisire informazioni ulteriori sull’evoluzione della malattia, per intervenire nel percorso di cura.

È mia convinzione che oggi, nel campo della nefrologia, di fronte alla necessità di giungere maggiormente preparati ad altre ondate pandemiche e per aumentare i margini di tutela dei malati nefropatici dai rischi di contagio, sia giusto dare impulso a processi di deospedalizzazione in combinazione con la telemedicina e, in prospettiva, a esperienze di cura a distanza. Tali processi, però, non sono una novità, essendo anzi previsti nel piano nazionale delle malattie croniche e annoverati tra i principali esiti attesi dall’applicazione del piano, che risale al 2016. Tali obiettivi hanno però ricevuto nuovo impulso negli ultimi mesi per effetto della survey promossa dalla SIN sulla diffusione del Covid-19, ove è stato rilevato che il contagio nei pazienti in dialisi è molto meno frequente tra coloro che effettuano la dialisi domiciliare peritoneale rispetto ai pazienti che eseguono l’emodialisi presso i centri ospedalieri.

Il Ministro della Salute On. Roberto Speranza ha raccolto le sollecitazioni, individuando nelle cure domiciliari – in combinazione con la diffusione della telemedicina – un campo da esplorare per rafforzare l’assistenza territoriale. Sottolineo questo passaggio perché è di grande importanza: viene riconosciuto che le cure domiciliari richiedono una complessa organizzazione e sollecitano la realizzazione di una rete di cura che coordini e integri sia le varie figure professionali (medici, infermieri, professionisti della riabilitazione e altri operatori sanitari) sia le attività di supporto e di accesso alla specialistica ambulatoriale, consentendo di acquisire anche farmaci e altri ausili necessari per l’assistenza medica a domicilio, secondo le necessità cliniche.

 

Il paziente nefropatico di fronte alla prospettiva delle cure domiciliari

L’ANED, dunque, non è ostile alla estensione delle cure domiciliari perché raccolgono potenzialmente il consenso di molti pazienti, tanto più se le terapie a domicilio risulteranno di qualità e sicure sia per la stabilità e il benessere dei pazienti sia per i familiari, garantendo loro adeguato supporto, quando chiamati ad assumere il ruolo di caregiver.

Tuttavia, è utile rimarcare che si tratta di obiettivi che richiedono lo spostamento del baricentro dei servizi sanitari dall’ospedale al territorio; il che vuol dire che le conoscenze e le professionalità devono essere messe a disposizione dell’intera rete e che deve essere reso usufruibile per i pazienti cronici l’accesso diretto alle prestazioni specialistiche, anche nei territori più svantaggiati, garantendo la presa in carico nella quotidiana gestione della cronicità, senza che il paziente sia costretto ad una corsa ad ostacoli per accedere alle cure tra CUP e medico di medicina generale (MMG).

In altre parole, per assicurare una deospedalizzazione che rafforzi il servizio sanitario pubblico ed escluda altre tentazioni favorevoli alle logiche di mercato nella sanità, occorre procedere alla riorganizzazione sanitaria e alla distribuzione dei servizi, secondo un modello di continuità Ospedale-Territorio che avvantaggi i pazienti sia nella qualità sia nell’accessibilità delle cure.

Il Piano Nazionale della Cronicità, approvato dalla Conferenza Stato-Regioni, cui ho accennato, è chiarissimo al proposito, ove specifica che “l’obiettivo dei sistemi di cura della cronicità è quello di mantenere il più possibile la persona al proprio domicilio e impedire o, comunque, ridurre il rischio di istituzionalizzazione, senza far ricadere sulla famiglia tutto il peso dell’assistenza al malato”.

I trattamenti dialitici domiciliari, sempre che correttamente indicati, costituiscono quindi una forma ottimale di terapia perché, a parità di efficacia depurativa, consentono una migliore riabilitazione del paziente, una migliore integrazione nel contesto socioculturale in cui vive, consentendo allo stesso tempo di liberare risorse in termini di posti letto, personale sanitario e attività di supporto (trasporto pazienti verso i centri dialisi, logistica ambientale, stoccaggio materiali).

La mia opinione è che le regioni, nel definire i piani di assistenza domiciliare per le persone in dialisi, debbano, in particolare, assicurare il personale sanitario pubblico necessario per l’organizzazione di una adeguata rete territoriale di caregiver professionali (infermieri e altre figure sanitarie necessarie).

Si può fare! Una possibile occasione è rappresentata dagli obiettivi che a proposito di sanità sono enunciati, ad esempio, nel piano nazionale di ripresa e resilienza per il reclutamento di nuovo personale medico e infermieristico, che dovrebbe esplicitamente essere destinato alla medicina territoriale, di prossimità e domiciliare.

Sono necessarie, dunque, scelte coraggiose per realizzare una riorganizzazione dell’intera rete nefrologica, superando le strettoie dei decreti di riordino che nei fatti mettono in discussione l’autonomia della specialità nefrologica (Decreto Balduzzi e DM 70) e assicurando ai servizi ambulatoriali territoriali mezzi e personale adeguato. È possibile in tal modo assicurare al paziente in cura domiciliare ed ai suoi familiari un approccio olistico che garantisca allo stesso tempo sia la presa in carico del paziente sia la continuità assistenziale, comprendendo in modo strutturale anche la formazione del caregiver e gli incentivi/rimborsi per le spese sostenute.

 

Nuove sfide e criticità dell’oggi

ANED è pronta a queste sfide che si pongono di fronte alla nefrologia. Tuttavia, non possiamo trascurare che nella fase più cruenta del contagio in moltissime realtà si è dovuto assistere a tendenze opposte, di segno chiaramente regressivo. Sotto l’imperio dell’urgenza di rispondere alla morsa del Covid-19, le attività programmate sono state trascurate, come gli ambulatori, le visite specialistiche e le altre attività diagnostiche che garantiscono percorsi terapeutici necessari per i malati cronici. Le visite di controllo dei pazienti trapiantati di organo – se si escludono le urgenze – sono state sospese. Lo stesso è avvenuto per le attività chirurgiche programmate, che non venivano praticate a causa dell’indisponibilità delle sale operatorie (per gli uremici, ad esempio, molte di queste attività sono state soppresse o rinviate). A questa situazione si è aggiunta la condizione degli organici del personale medico e infermieristico, continuamente a rischio di insufficienza.

È bene precisare che l’ANED, come associazione di rappresentanza dei malati nefropatici e trapiantati, ha condiviso – per ovvie ragioni legate alla sicurezza dei pazienti – l’opportunità di rallentare ed escludere in tanti casi il rapporto diretto con i malati e con i reparti nella fase del lockdown. Sono stati momenti difficili dai quali è opportuno trarre importanti insegnamenti per il futuro. In primo luogo, penso che i pazienti ricoverati non debbano essere esclusi da qualsiasi possibilità di contatto con le famiglie e ritengo che, al ripresentarsi di situazioni critiche o di emergenza, sia necessario il coinvolgimento diretto delle associazioni che rappresentano i malati cronici e i trapiantati di organi e tessuti, diversamente da quanto è avvenuto. Si possono, infatti, definire protocolli che garantiscano la sicurezza dei pazienti e del personale, senza alimentare una situazione di disperazione sociale, considerato che si dovrà convivere con il contagio per un tempo che non è chiaramente definibile.

Tra i tanti temi da affrontare, considero particolarmente importante l’obiettivo di rafforzare il rapporto tra centro di nefrologia e paziente. Bisogna infatti evitare che si approfondisca il solco scavato dal Covid-19 e incoraggiare allo stesso tempo la condivisione dei problemi della nefrologia con i pazienti, un attore insostituibile nel percorso di cura. Inoltre, sono convinto che sia possibile trarre esempio dalle numerose esperienze in corso in questa direzione.

 

Partecipazione e consapevolezza dei pazienti

Riguardo la necessità del coinvolgimento dei pazienti e della loro partecipazione attiva alla cura, ritengo, senza alcuna presunzione, che la missione di ANED, fin dalle origini, sia stata rivolta ad accrescere la consapevolezza del paziente. La nostra fondatrice Franca Pellini, negli anni ’70, affermava che “il paziente informato è colui che è capace di curarsi al meglio”: una visione di patient engagement ad litteram. Sennonché occorre riconoscere che l’attuale livello di patient engagement per le persone con malattie renali e/o dialisi è una relazione tra il dire e il fare. Con luci, ma anche tante ombre.

Tutti gli attori del sistema sono concordi nel ritenere l’engagement dei pazienti un modo più ricco ed efficace di concepire il Servizio Sanitario Nazionale. La maggiore partecipazione del paziente al percorso di cura, la consapevolezza e la responsabilità sono interessi evidenti del sistema di cura, sotto molteplici aspetti. Il paziente informato e partecipe aderisce meglio alla terapia, non pretende a tutti i costi prestazioni inappropriate e diventa un alleato del sistema, rendendo più facile perseguire obiettivi di efficacia ed economicità dei servizi sanitari. Un trapiantato non compliante potrebbe andare incontro al rigetto e, nei casi più gravi, al rischio di perdere l’organo trapiantato. Quando questo accade il danno è enorme: il ritorno in dialisi, nel caso del rene, ma, nel caso di altri organi, è in gioco la vita.

A tutt’oggi non si è raggiunto un livello adeguato di relazione tra i diversi attori, finalizzato a realizzare un buon livello di partecipazione consapevole del paziente rispetto alle cure che riceve. Esiste tuttora un diaframma, in particolare tra i nefrologi e i MMG; senza una forte integrazione tra la medicina generale del territorio e l’attività specialistica è difficile parlare, ad esempio, di un percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) all’altezza della sfida di deospedalizzare la cura della malattia renale cronica.

I benefici offerti da un sistema di cura orientato al coinvolgimento dei pazienti, tuttavia, possono essere davvero molteplici. Oltre al miglioramento della qualità dei servizi e dei percorsi di cura, ritengo che, in un quadro di relazioni condivise, sia più facile realizzare forme avanzate e praticabili di alleanza terapeutica, elaborare e implementare piani diagnostici terapeutici individualizzati e percorsi assistenziali condivisi. Non ultimo, ritengo che l’engagement del paziente produca benefici anche sul fronte del personale curante, dei medici e degli altri operatori sanitari. Una relazione improntata ad un rapporto di fiducia e basata sulla condivisione può allontanare l’insidia del burnout, che spesso colpisce il personale sanitario. L’interazione con il paziente, seppure non sempre facile, arricchisce le relazioni umane e consente di affermare una reciprocità nel rispetto dei ruoli.

Come ho accennato, accrescere la consapevolezza del paziente è un obiettivo statutario dell’ANED. Le nostre guide educazionali hanno come compito precipuo quello di aiutare il paziente nefropatico nel percorso di gestione della malattia renale cronica, non solo nella fase dialitica ma in tutto il percorso della malattia, fino al trapianto e dopo, quando è possibile. Più recentemente, insieme alla direzione della rivista scientifica Giornale di Tecniche Nefrologiche e Dialitiche, abbiamo avviato una rubrica di Nefrologia narrativa. Sosteniamo da alcuni anni il concorso annuale Quirino Maggiore, destinato a pazienti e familiari, in cui centinaia di lavori di narrativa, di poesia, di fotografia e di pittura vengono presentati nella cornice straordinaria di Palazzo Vecchio a Firenze.

Il Foglio Informativo, periodico trimestrale dell’ANED, giunto ormai al numero 198, ospita con continuità le storie dei pazienti, le difficoltà che incontrano quotidianamente, ma anche le speranze nonostante la malattia. Non bisogna trascurare che spesso chi si ammala si vergogna della propria condizione e ha paura di parlarne agli amici. Talvolta si innescano dinamiche negative rispetto al lavoro, si temono ritorsioni e ci si sente in colpa. Sono implicazioni che non risparmiano neppure la sfera familiare e che possono assumere un carattere distruttivo.

Non lasciamo allontanare il malato, ingaggiamo un percorso che si occupi con costanza di dare più spazio al rapporto tra medici e pazienti e diamo spazio all’ingresso e alla diffusione nelle nefrologie e nei centri dialisi di figure professionali fondamentali, come lo psicologo e il nutrizionista; promuoviamo altresì in modo sistematico l’esercizio fisico, in tutti gli stadi della malattia, compresa la dialisi.

 

Più prevenzione più trapianti e meno dialisi

Sono convinto che, sia tra i cittadini, sia nell’universo medico scientifico, sia anche in buona parte dei soggetti istituzionali, vi sia oggi maggiore consapevolezza del carattere pandemico delle affezioni renali e che la nefrologia attuale sia in grado di affrontare buona parte dei problemi che accompagnano la malattia renale. Registriamo invece un ritardo nella diffusione delle esperienze positive e delle buone pratiche perché la sanità a competenza regionale ha prodotto modelli organizzativi che differiscono notevolmente gli uni dagli altri e tutto è proposto in forma semplicemente normativa. In assenza di percorsi di accompagnamento, di verifica, di coinvolgimento costante dei destinatari e di condivisione dei risultati, queste buone pratiche fanno fatica a diffondersi e ad essere recepite nella prassi delle singole regioni.

Ritengo che si debbano annoverare due aspetti decisivi della malattia renale cronica sui quali occorre intervenire per migliorare ulteriormente la situazione. Mi riferisco alla prevenzione e al trapianto.

In riferimento alla prevenzione penso che si debbano valorizzare alcuni orizzonti offerti dai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) ove, in materia di malattia cronica, vengono sollecitate forme di cooperazione tra sistemi sanitari, le altre istituzioni e i cittadini, oltre ad una più attenta sorveglianza dei fattori di rischio e degli stili di vita. Ma quali strumenti occorrono per mettere in pratica tutto ciò? L’esperienza dell’Emilia-Romagna – che ovviamente non è la sola – pone al centro la necessità di sistemi informativi dialoganti, per estrarre ed elaborare – in un’ottica di reciprocità – informazioni già esistenti, come ad esempio i dati dei laboratori di analisi, per inferenze statistiche utili ai fini epidemiologici e, dunque, alla pianificazione e programmazione sanitaria. In questa ottica è possibile immaginare di comporre in un unico percorso:

  1. interventi di prevenzione primaria, diretti alla modificazione dei fattori di rischio
  2. interventi di prevenzione secondaria, con l’identificazione precoce della patologia attraverso indagini epidemiologiche o screening rivolti a specifici gruppi di popolazione, nella prospettiva dell’attuazione di misure di intervento multifattoriale, che includano modifiche dello stile di vita e interventi terapeutici specifici
  3. infine, interventi di prevenzione terziaria, per la prevenzione dell’ulteriore progressione della malattia renale cronica nella popolazione con diagnosi certa, attraverso la strutturazione di PDTA.

Il trapianto è il secondo aspetto da sottolineare. Quando i reni si ammalano e smettono di funzionare, l’unica alternativa alla dialisi è il trapianto. Il programma nazionale per la donazione degli organi afferma che:

“La donazione di organi costituisce il presupposto e il limite per offrire, nell’ambito del SSN, alle migliaia di cittadini italiani, affetti da gravissima insufficienza d’organo e in lista di attesa di trapianto, un trattamento insostituibile ed efficace, anche nell’urgenza salva-vita. Finalità precipua della Rete Nazionale Trapianti è l’incremento del numero e della qualità delle donazioni di organo a favore dei pazienti in attesa di trapianto, nella garanzia dei principi etici, del rispetto della normativa e dei criteri clinici di sicurezza e qualità di buona medicina, come attività sostenibile, efficace ed efficiente di tutti i Servizi Sanitari Regionali (SSR) nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale.” (Programma Nazionale Donazione di Organi 2018-2020. Trapianti 2017; 21(3):80-94.  https://doi.org/10.1709/2859.28834)

Cosa aggiungere, se non l’annotazione critica che, pur riconoscendo alcuni importanti cambiamenti, come quello dell’adozione di un nuovo algoritmo nazionale per la formazione delle liste di attesa del trapianto di rene, si procede troppo lentamente nella direzione dell’attuazione delle linee guida di riferimento. Nel programma citato è annotato che a livello nazionale si registra una notevole disomogeneità tra le regioni, relativa sia all’alto tasso di opposizione al prelievo degli organi da parte dei parenti aventi diritto, sia al basso numero di segnalazioni al Sistema Informativo Trapianti di decessi con gravissime lesioni cerebrali in rianimazione/terapia intensiva e accertamenti di morte con criteri neurologici, che identificano il presupposto e il punto di inizio della donazione di organi da donatori in morte encefalica (DBD). Sennonché, le differenze e le criticità organizzative della Rete (centri regionali, coordinamenti ospedalieri, terapie intensive centri trapianto, servizi) rappresentano un problema da affrontare con priorità.

In molte regioni, i risultati sono inferiori alle potenzialità stimate e i Centri Regionali per i Trapianti hanno difficoltà nel dimostrare l’importanza di un sistema organizzativo efficiente e nell’ottenere le risorse indispensabili per mettere in atto un appropriato modello organizzativo. D’altra parte, i modelli più efficienti non possono essere facilmente replicati per le evidenti differenze regionali in termini organizzativi e strutturali (posti letto, medici ed infermieri nei reparti di rianimazione e di terapia intensiva, criteri per la intensità di cura, rete della emergenza) e di management dei maggiori percorsi clinico assistenziali per acuti (gravi cerebrolesioni, gravi insufficienze cardiocircolatorie, stroke, trauma, gravi insufficienze d’organo). È tuttavia necessario che la donazione sia obiettivo essenziale di tutti i centri trapianto e in tutte le regioni, definendone criteri omogenei di valutazione in termini di qualità, efficacia e di efficienza. Occorre produrre un’azione corale di tutti gli attori, comprese le associazioni che rappresentano i pazienti. Dalla nefrologia, dai centri dialisi, può arrivare un contributo decisivo. I problemi non mancano, spesso – in particolare nei centri dialisi privati – i pazienti vengono informati dell’opportunità del trapianto in ritardo, e le procedure di svolgimento degli esami per l’iscrizione in lista di attesa sono talvolta lunghe e frammentate.

Insomma, si può fare tantissimo per migliorare e operare per un mondo senza dialisi.

Dott. Giuseppe Vanacore – Presidente ANED