Supplemento S77 - Articoli originali

Tossicità renale da farmaci antineoplastici

Abstract

L’onconefrologia è una recente disciplina sorta in campo nefrologico e oncologico, volta ad esplorare le numerose connessioni tra patologie neoplastiche e renali. Tra i numerosi campi di applicazione dell’onconefrologia, un ruolo significativo è ricoperto dalla gestione degli eventi avversi in corso di terapia antineoplastica attraverso una analisi individualizzata dei fattori di rischio del paziente, delle caratteristiche dei farmaci oncologici prescritti e l’instaurazione di un preciso follow-up che spesso prosegue anche al termine del trattamento oncologico. Lo scopo di questa revisione è, oltre che descrivere i fattori di rischio per la nefrotossicità da farmaci antitumorali, analizzare le principali criticità onco-nefrologiche legate alle specifiche classi di farmaci. I chemioterapici classici presentano un profilo variabile di tossicità renale, per la maggior parte dei casi ben definito, che consente di mettere in campo delle collaudate strategie terapeutiche per la gestione degli eventi avversi renali. Le terapie a bersaglio molecolare e i farmaci immunoterapici nonostante abbiano dimostrato di migliorare significativamente la prognosi a breve e lungo termine in numerose neoplasie presentano un ampio profilo di tossicità renale ancora in fase di definizione. La costante analisi dei report relativi alle specifiche molecole, associata ad un a condotta proattiva per la definizione istologica delle lesioni renali in questo contesto clinico, è la chiave per completare rapidamente la definizione del profilo di sicurezza ampliando contestualmente la platea dei pazienti che potranno beneficiare  dei nuovi farmaci antineoplastici.

Parole chiave: Danno renale acuto, AKI, cisplatino, gemcitabina, anti-VEGF, immunoterapia, bevacizumab

Introduzione

L’onconefrologia è una recente disciplina nata in campo nefrologico che studia le numerose interrelazioni tra malattie renali e patologie oncologiche [1].  I recenti progressi a livello di diagnosi e terapia hanno infatti portato ad un significativo incremento della sopravvivenza dei pazienti affetti da patologie oncologiche; contestualmente è emerso l’impatto che le patologie renali esercitano in senso prognostico e terapeutico in questa categoria di pazienti. Il danno renale acuto (acute kidney injury [AKI]), sia esso di natura pre -post o intra-renale è sicuramente la sindrome clinica nefrologica maggiormente riscontrata nei pazienti oncologici. Frequentemente, questa sindrome clinica si inserisce in un contesto complesso, caratterizzato dalla presenza di altre sindromi cliniche nefrologiche, quali una preesistente malattia renale cronica o quadri di sindrome nefrosica e/o nefritica riconducibili ad un danno glomerulare. (figura 1). Tra le cause di AKI, un ruolo preminente è esercitato dalla terapia antineoplastica: in tale ottica un’attenta analisi onco-nefrologica risulta imprescindibile, al fine di minimizzare il potenziale impatto negativo a livello multi-organo, al momento della prescrizione, durante il trattamento e, in alcuni casi, al termine del ciclo terapeutico. In questa sede, sono analizzati gli effetti renali a breve e a lungo termine conseguenti alla terapia con farmaci chemioterapici classici, farmaci a bersaglio molecolare e farmaci immunoterapici.

Figura 1. Spettro dei meccanismi di danno renale in corso di patologia neoplastica
Figura 1. Spettro dei meccanismi di danno renale in corso di patologia neoplastica

 

Fattori di rischio per danno renale in corso di terapia con farmaci antineoplastici

Non tutti i pazienti trattati con farmaci antineoplastici nefrotossici presentano danno renale; ciò può dipendere da numerosi fattori che, se presenti, incrementano il rischio di nefrotossicità. In generale, è possibile identificare: 1) fattori dipendenti dalla neoplasia; 2) fattori legati alla tossicità innata del farmaco; 3) fattori dipendenti dal paziente; 4) fattori legati al metabolismo renale dei farmaci oncologici (figura 2) [2].

Fattori di rischio per nefrotossicità da famaci antitumorali
Figura 2. Fattori di rischio per nefrotossicità da famaci antitumorali

Fattori dipendenti dalla neoplasia. Alcune neoplasie possono esercitare un effetto nefrotossico diretto; come avviene nel mieloma multiplo, nei casi di infiltrazione renale in corso di linfomi, del danno intra-renale nel corso delle GN paraneoplastiche o post-renale in corso di neoplasie del tratto urinario. È inoltre frequente un effetto nefrotossico indiretto di alcune neoplasie che possono causare AKI pre-renale per deplezione di volume vera (es. disidratazione conseguente a vomito, diarrea o eccessiva diuresi), o relativa, (es. insufficienza epatica). Infine alcune neoplasie possono causare alterazioni metaboliche come iper/ipocalcemia e iperuricemia, potenziando l’effetto nefrotossico del trattamento oncologico.

Fattori legati alla tossicità innata del farmaco. Il potenziale nefrotossico dei farmaci può dipendere da un effetto diretto, da una prolungata esposizione o da un’elevata dose cumulativa, anche in assenza di altri fattori di rischio. Ad esempio, successivamente alla somministrazione di alcuni trattamenti oncologici (es. methotrexate) è possibile osservare un danno diretto per precipitazione del farmaco o diretto tossico per azione dei metaboliti a livello tubulare. Infine, il danno indotto della molecola anti-tumorale può sommarsi agli effetti di altri nefrotossici noti, su tutti i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), gli aminoglicosidi e i mezzi di contrasto iodati.

Fattori dipendenti dal paziente. Alcuni pazienti, a parità di esposizione a nefrotossici, hanno un maggior rischio di sviluppare danno renale. Le categorie maggiormente a rischio sono soggetti anziani (età superiore a 65 anni) e quelli affetti da malattia renale cronica (chronic kidney disease [CKD]) o che già hanno presentato episodi di AKI. E’ possibile che la presenza di un background genetico sfavorevole sia un ulteriore fattore di rischio. In particolare, è noto che la presenza di polimorfismi a carico del citrocromo P-450 renale, possa causare una ridotta attività metabolica intra-renale e contestuale accumulo di farmaci nefrotossici. Una ridotta escrezione cellulare dei farmaci a seguito di mutazioni causanti ridotta attività dei trasportatori apicali e delle proteine carrier, può favorire l’accumulo intra-cellulare di molecole nefrotossiche. Infine, le differenze individuali su base genetica, in termini di iperreattività del sistema immunitario, possono in parte spiegare la maggiore predisposizione di alcuni pazienti allo sviluppo di danno immunomediato in corso di trattamento oncologico.

Fattori legati al metabolismo renale dei farmaci oncologici. Il metabolismo renale dei farmaci rappresenta un ulteriore fattore che può incrementarne la tossicità. I reni, a causa dell’elevato apporto di sangue che ricevono (circa il 25% della gittata cardiaca) sono contestualmente esposti in maniera superiore rispetto agli altri organi ai potenziali effetti tossici dei farmaci. In particolare, l’ansa di Henle e il tubulo collettore sono particolarmente vulnerabili al danno tossico ischemico come conseguenza di un ambiente cellulare ed extracellulare relativamente ipossico e dell’elevata attività concentrante che innalza i livelli locali dei farmaci e dei loro metaboliti. L’elevata attività metabolica espone inoltre ad un incremento della produzione di specie reattive dell’ossigeno che contribuiscono al mantenimento del danno d’organo attraverso meccanismi di alchilazione degli acidi nucleici, degenerazione proteica, perossidazione lipidica e danno strutturale del DNA. Il tubulo prossimale è interessato da danno tossico successivamente all’uptake cellulare del farmaco dal circolo peritubulare.

Dall’analisi dei sopracitati meccanismi di danno renale in corso di terapia oncologica emerge come l’effetto nefrotossico sia spesso multifattoriale. Dal momento che una quota rilevante di questi effetti dipende da fattori non modificabili legati ai pazienti, anche l’efficacia degli interventi messi in atto con il fine di ridurre o regredire il danno renale, sarà limitata.

 

Danno renale in corso di terapia con chemioterapici classici

La trattazione organica degli effetti avversi renali dei chemioterapici classici non è possibile in questa sede; suggeriamo pertanto alcune risorse specifiche [3, 4]. In questo contesto ci concentreremo sui composti a base di platino, ifosfamide, e gemcitabina.

 

Cisplatino

Il cisplatino è un potente chemioterapico utilizzato per il trattamento di un elevato numero di neoplasie. La nefrotossicità rappresenta un effetto avverso frequente e spesso può limitare il proseguo della terapia oncologica, oltre che determinare conseguenze negative a carico della funzione renale a breve e a lungo termine. Il danno renale acuto si osserva nel 30% dei pazienti [5] ed è conseguente a un principale interessamento del tubulo prossimale, (in particolare il suo segmento S3). Ciò che sottende al danno tubulare sono prevalentemente effetti tossici diretti, l’induzione di ischemia tubulare per diminuita vascolarizzazione tubulare, l’accumulo di metaboliti cellulari tossici e lo stato infiammatorio locale [6]. In oltre metà dei pazienti che presentano AKI in corso di terapia con cisplatino si riscontra ipomagnesemia, che a sua volta può potenziare l’entità del danno renale. Altre possibili manifestazioni del danno renale sono la sindrome di Fanconi, la acidosi tubulare renale di tipo 1 e nefropatia sodio disperdente; in alcuni pazienti è stato descritto un quadro clinico ed istologico di microangiopatia trombotica.

Tra i principali fattori che hanno dimostrato di poter incrementare il rischio del danno renale si annoverano 1) l’incremento del picco di concentrazione libera del farmaco a livello sierico, 2) aver praticato precedentemente dei cicli di chemioterapia a base di platino, 3) la presenza di una malattia renale cronica già al momento dell’inizio del trattamento chemioterapico, e 4) l’uso concomitante di altri agenti nefrotossici.

Alla luce dei fattori di rischio prima citati, sono stati proposti diversi approcci che sottendono a ridurre la concentrazione libera di farmaco [6], in particolare l’idratazione con soluzione salina nel danno renale acuto e l’utilizzo di dosi inferiori di farmaco (o la sostituzione con analoghi del cisplatino) nelle forme con evidenza di danno cronico. Tra gli analoghi del cisplatino, il carboplatino ha dimostrato di avere un potenziale nefrotossico significativamente ridotto se la dose è adattata alla funzione renale (formula di Calvert )[7].

 

Ifosfamide

L’ifosfamide è una mostarda azotata che, al pari del cisplatino, è utilizzata nel trattamento di un gran numero di neoplasie solide, in particolare tumori della linea germinale, sarcomi e linfomi non Hodgkin. Noti effetti collaterali del trattamento con ifosfamide sono la cistite emorragica, la sindrome da inappropriata secrezione di ADH e la tossicità diretta a carico del tubulo prossimale.

Le principali manifestazioni cliniche comprendono AKI associata a ipofosfatemia, sindrome di Fanconi (glicosuria, bicarbonaturia, aminoaciduria, proteinuria tubulare) e acidosi tubulare renale distale o prossimale [8].

Il maggiore determinante del danno renale è costituito dalla dose cumulativa del farmaco: per dosi cumulative inferiori a 60 g/m2, l’insorgenza di AKI è possibile ma le conseguenze nel lungo termine sono rare. Nei pazienti che invece hanno ricevuto una dose cumulativa superiore a 120 g/m2, oltre ad un danno renale acuto è frequente il riscontro di compromissione persistente della funzione renale [9].

La riduzione della dose cumulativa, l’assicurazione di una corretta idratazione e l’abolizione dell’esposizione ad altri farmaci nefrotossici noti, rappresentano al momento gli unici strumenti per limitare l’insorgenza e l’entità del danno renale nei pazienti trattati con ifosfamide.

 

Gemcitabina

La Gemcitabina è un antagonista delle pirimidine utilizzato come antitumorale in particolare nei carcinomi della vescica, mammella, polmone (non a piccole cellule), ovaio e pancreas. Il principale evento avverso renale è il danno renale acuto, nella maggior parte dei casi conseguente all’insorgenza di microangiopatia trombotica (TMA), che è preceduto da ipertensione arteriosa resistente e, successivamente, si palesa con segni di interessamento sistemico quali alterazioni neurologiche e lesioni ischemiche periferiche; secondo alcune casistiche, la TMA in corso di gemcitabina si osserva in circa 1% dei pazienti [10]. Tra i fattori di rischio si annovera la pregressa esposizione a mitomicina C, la presenza di CKD ed il superamento di una dose cumulativa di 20000 mg/m2 [11].

Nonostante il rischio incrementato di presentare eventi avversi, il trattamento con Gemcitabina è stato proposto, con opportuna riduzione di dosaggio, anche nei pazienti con CKD avanzata e talvolta in end stage renal disease (ESRD) in emodialisi. Plasmasferesi, rituximab ed eculizumab sono stati proposti per il trattamento della TMA [12,13], ma allo stato attuale la sospensione del farmaco e la terapia di supporto restano le uniche misure di provata efficacia [14].

 

Danno renale in corso di terapia con farmaci a bersaglio molecolare

Il miglioramento delle conoscenze relative alla fisiopatologia dei tumori, ha permesso negli ultimi due decenni, di sviluppare dei farmaci diretti contro i meccanismi molecolari alla base della crescita, della progressione e della diffusione metastatica delle neoplasie. Questi agenti antineoplastici, definiti collettivamente come “farmaci a bersaglio molecolare” o “target therapy” hanno radicalmente migliorato la prognosi a breve e lungo termine dei pazienti affetti da neoplasie solide e ematologiche [15]. Nonostante l’ampia diffusione dei farmaci a bersaglio molecolare, il profilo di sicurezza degli stessi è in corso di definizione a seguito di un numero crescente di eventi avversi riportati a seguito del loro estensivo utilizzo. Gli eventi avversi renali sono un’evenienza che è stata frequentemente riportata in studi osservazionali, principalmente nella fase post marketing. Ciò può essere una conseguenza dell’esclusione dai trial randomizzati controllati di fase 3 dei pazienti con funzione renale ridotta, in particolare dei pazienti anziani che rappresentano metà dei malati oncologici [15]. Come i chemioterapici tradizionali, la nefrotossicità da farmaci a bersaglio molecolare può coinvolgere tutti i segmenti del nefrone. Concentreremo la nostra attenzione sugli effetti renali dei farmaci antiangiogenetici riferendo i lettori alla pubblicazione di Porta e colleghi per l’analisi sistematica degli effetti avversi renali dei farmaci a bersaglio molecolare [15].

 

Farmaci antiangiogenetici

L’iperespressione del vascular endothelial growth factor (VEGF) o del suo recettore (VEGFr) sono elementi chiave della neo-angiogenesi tumorale. Gli inibitori del VEGF (es. bevacizumab, afilbercept), o dell’attività delle tirosin-kinasi associate al VEGFr (TKi) (es. sunitinib, sorafenib, pazopanib) sono i principali anti tumorali in uso ad azione anti neoangiogenetica. Essi riducono la perfusione tumorale attraverso una inibizione del microcircolo e della proliferazione endoteliale neoplastica.

La forma A del VEGF (VEGF-A) è abbondantemente prodotta a livello dei podociti, delle cellule mesangiali e tubulari, mentre il VEGFr è espresso a livello delle cellule mesangiali e tubulari [16]. Il VEGF-A esercita un ruolo fondamentale nella formazione e mantenimento della barriera di filtrazione glomerulare; in sua assenza i podociti e le cellule endoteliali sono incapaci di maturare e proliferare. L’inibizione eccessiva del VEGF-A è causa di tossicità  podocitaria e mesangiolisi [17].

Dall’alterazione dell’omeostasi glomerulare derivano verosimilmente le principali lesioni istologiche; la TMA è maggiormente descritta in corso di terapia con i ligandi del VEGF, mentre le podocitopatie (es. malattia a lesioni minime e glomerulosclerosi focale e segmentaria variante “collapsing”) sono state osservate principalmente in corso di terapia con TKi [18-19].

Dal punto di vista clinico, si osservano proteinuria, ipertensione arteriosa di nuovo riscontro (o esacerbazione di ipertensione preesistente), AKI (con o senza proteinuria) e raramente alterazioni elettrolitiche come ipofosfatemia, ipocalcemia e iponatremia [15]. Tali alterazioni renali, se persistenti, possono causare una riduzione persistente del filtrato glomerulare, fino alla malattia renale cronica terminale. Il riscontro di proteinuria è un’evenienza frequente nei pazienti trattati con Bevacizumab (circa il 13%); solo nel 2% dei casi si tratta di proteinuria ad alto grado (> 3,5 g/24h o ³ 4+ al dipstick urinario o riscontro di sindrome nefrosica) [20].

Allo stato attuale il trattamento della proteinuria in corso di farmaci antiangiogenetici non è sostenuto da evidenze di qualità; appare tuttavia importante monitorare questo dato prima, durante e dopo ogni ciclo terapeutico, preferendo la raccolta delle urine delle 24 ore all’esame su stick urinario. Un approccio iniziale consiste nell’introduzione o nel potenziamento della terapia con ACEi o ARBs al fine di ridurre i fenomeni di ipertensione glomerulare. Tuttavia, in caso di riscontro di proteinuria >2 g/24h, è necessario valutare la prosecuzione della terapia oncologica o la sua sospensione temporanea; d’altra parte, la sindrome nefrosica rappresenta un’indicazione assoluta alla sospensione definitiva del farmaco.

Le alterazioni microvascolari in corso di farmaci antiangiogenetici possono comparire in qualsiasi momento del ciclo terapeutico e non sono dose correlate, contrariamente a quanto si osserva nei pazienti trattati con chemioterapici classici. Le lesioni istologiche sono solitamente limitate al rene con pattern di microangiopatia trombotica (trombosi glomerulare) mentre le arteriole sono solitamente risparmiate o presentano modesti segni di endoteliosi. Il danno renale è solitamente autolimitante e reversibile con la sospensione del farmaco. Alcuni autori hanno suggerito, in alcuni casi, la ripresa della terapia ad un dosaggio inferiore con stretto monitoraggio clinico [19].

La terapia con farmaci antiangiogenetici causa ipertensione arteriosa nel 30-80% dei pazienti. Il legame del VEGF con il suo recettore a livello endoteliale media infatti effetti di vasodilatazione attraverso l’incrementata produzione di ossido nitrico e il rilascio di prostaclina-12 e causa inoltre un incremento della permeabilità vascolare; questi effetti vengono inibiti in corso di terapia con inibitori dell’angiogenesi [15].

Contrariamente al riscontro di proteinuria e TMA che possono essere considerati effetti off-target, l’ipertensione è espressione di un effetto terapeutico diretto a livello del blocco della cascata del segnale VEGF-dipendente ed è diretta espressione dell’entità dell’effetto antineoplastico della terapia [21], osservabile nella quasi totalità dei pazienti. Appare pertanto fondamentale, prima dell’inizio della terapia con farmaci inibitori dell’angiogenesi, raggiungere un ottimale controllo pressorio. Sebbene non siano al momento presenti delle linee guida condivise in merito al trattamento dell’ipertensione in corso di terapia con farmaci antiangiogenetici, i calcio antagonisti associati o meno con ARBs e ACEi sono una ragionevole prima scelta [22].

 

Danno renale in corso di terapia con farmaci immunoterapici

Gli inibitori dell’immuno-checkpoint (Immuno Check Point Inhibitors, [ICIs]) rappresentano una nuova classe di farmaci immunoterapici che ha profondamente rivoluzionato la terapia di diverse forme di neoplasie (sia solide che ematologiche), migliorandone significativamente la prognosi, risultando efficace in circa un quarto dei pazienti affetti da neoplasia avanzata [23]. Gli anticorpi monoclonali appartenenti a questa classe di farmaci esplicano la loro azione attraverso l’inibizione dell’attività di alcune specifiche molecole coinvolte nella downregulation del sistema immunitario, i cosidetti “immuno checkpoint”, e la conseguente attivazione della risposta immunitaria specifica diretta verso gli antigeni tumorali. I due target di questa classe di farmaci sono rappresentati dal cytotoxic T-lymphocyte–associated antigen 4 (CTLA-4) a dal programmed death 1 pathway (PD-1/PD-Ligand-1[PD-L1]), espressi su diversi tipi di cellule quali linfociti T e cellule presentanti l’antigene [APCs]. Il ruolo fisiologico di tali pathway molecolari è quello di regolare in maniera negativa l’attivazione del sistema immunitario, con il fine mantenere la self-tolerance e prevenire il danno tissutale secondario ad un’incontrollata attività del sistema immunitario. CTLA-4 è responsabile dell’inibizione dei linfociti T antigene-specifici espressi a livello linfonodale, attraverso il legame competitivo con il recettore co-stimolatore CD28 sulla superficie dei T linfociti e con la molecola B7 (CD80/86) sulle superficie dell’APCs.  PD-1 è una molecola con attività co-inibitoria espressa sulla superficie dei linfociti T, attivata dall’interazione con PD-L1, in seguito alla presentazione dell’antigene da parte delle APCs. L’iperespressione di PD-L1 è stata descritta quale meccanismo di evasione della risposta immunitaria dell’ospite da parte cellule tumorali. Attualmente, sette differenti molecole con azione sul sistema dell’immunocheckpoint sono state approvate dalla Food and Drugs Aministration statunitense: un anticorpo monoclonale anti CTLA-4, tre anticorpi monoclonali anti PD-1 e tre anticorpi monoclonali antiPD-L1.

Il medesimo meccanismo d’azione alla base dell’efficacia terapeutica degli ICIs è verosimilmente responsabile della nefrotossicità osservata in una percentuale compresa tra 3 e 17% dei pazienti trattati con tali terapie. Una prima ipotesi patogenetica ipotizza una perdita di tolleranza nei confronti di antigeni self espressi a livello renale [24], mentre una seconda ipotesi patogenetica chiama in causa l’attivazione di una risposta immunitaria cellulo-mediata innescata dall’esposizione ad antigeni non-self (principalmente farmaci) con conseguente danno tissutale cellulo-mediato a livello renale [25].

Il più comune quadro istopatologico descritto nei casi di AKI osservati in corso di terapia con ICIs è la TIN: in un recente studio multicentrico, Cortazar et al descrivono un quadro istologico di AIN nel 93% dei pazienti con evidenza di AKI sottoposti ad agobiopsia renale [26]. Il restante 7% dei casi descritti, coerentemente con quanto riportato in precedenti case report e case series, era rappresentato da necrosi tubulare acuta e da una varietà di quadri di danno glomerulare (GN necrotico-crescentica paucimmune ANCA-negativa, C3 glomerulopathy, anti-GBM disease).

I dati presenti in letteratura permettono di identificare fattori di rischio per lo sviluppo di AKI nei pazienti in terapia con ICIs: l’utilizzo di farmaci noti quali responsabili di TIN (i.e. FANS, inibitori di pompa protonica), la combinazione di più farmaci che agiscono sul sistema dell’immuno check-point (anti CTLA-4 in associazione con inibitori di PD-1/PD-L1) e la presenza di un quadro di malattia renale cronica al momento dell’inizio della terapia con ICIs [27].

Le caratteristiche cliniche della nefrotossicità in corso di terapia con ICIs mostrano, nella maggior parte dei casi, le stesse peculiarità cliniche osservate nei casi di nefrite interstiziale acuta da farmaci con evidenza di danno renale acuto associato a piuria sterile e proteinuria subnefrosica [26, 28]. Il danno tubulare in corso di terapia con ICIs può manifestarsi anche con un quadro di acidosi tubulare renale distale, in assenza di danno renale acuto: tale quadro clinico è stato correlato ad un’attività autoimmunitaria diretta contro le cellule intercalate di tipo A del tubulo contorto distale, con conseguente alterazione della funzione dell’H+-ATPasi e della Cl-/HCO3- ATPasi [29-30]. Nei casi di interessamento glomerulare è possibile, invece, osservare differenti sindrome cliniche nefrologiche, in relazione allo specifico quadro istologico descritto: sindrome nefrosica, sindrome nefritica o insufficienza renale rapidamente evolutiva [27].

Il ruolo della biopsia renale nella nefrotossicità da ICIs è attualmente oggetto di un profondo dibattito. Le Linee Guida della Società America di Oncologia Clinica indicano l’inizio della terapia immunosoppressiva nei casi di AKI in pazienti trattati con ICIs (una volta escluse cause prerenali e postrenali di AKI) senza porre indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale [31].

Per quanto la nefrite interstiziale acuta sia il danno istologico più frequentemente osservato nei casi di nefrotossicità da ICIs, tale approccio diagnostico-terapeutico espone una percentuale non trascurabile di pazienti ad un trattamento immunosoppressivo non necessario. In tale ottica la biopsia renale, qualora non controindicata, appare uno strumento imprescindibile per la gestione della nefrotossicità da ICIs.

La sospensione della terapia con ICIs e la terapia steroidea rappresentano i capisaldi del trattamento della AIN associata ad inibitori dell’immuno checkpoint. L’utilizzo di dosi di prednisone pari a 0.8-1 mg/kg/die (o equivalenti), fino ad un massimo di 60-80 mg/die ha mostrato un’eccellente prognosi nei pazienti con AKI stadio I e II; nei pazienti con AKI stadio III l’inizio della terapia orale è generalmente preceduto dall’utilizzo di corticosteroidi per via endovenosa (fino a 3 dosi consecutive).

I dati presenti in Letteratura suggeriscono una correlazione tra la risposta clinica e la durata della terapia steroidea: la durata raccomandata della terapia è compresa tra 8 e 12 settimane, con un lento scalaggio della terapia steroidea, finalizzato a ridurre il rischio di recidive.

Accanto alla durata della terapia steroidea, anche la dose iniziale sembrerebbe essere associata alla prognosi renale dei pazienti con AIN indotta da ICIs. Un recente lavoro pubblicato da Manohar et alii mostra come i pazienti con risposta completa presentassero dosi iniziali di prednisone significativamente superiori rispetto a coloro che mostravano una risposta parziale (2.79 mg/kg/mese vs 1.74 mg/kg/mese) [28].

La possibilità di riprendere la terapia con ICIs, una volta risoltosi l’episodio di danno renale acuto, è stata valutata in diversi Studi, partendo dall’evidenza che, spesso, tale terapia è l’unica disponibile per la gestione della patologia neoplastica. I dati recentemente pubblicati da Cortazar et al, mostrano una bassa percentuale (23%) di recidive di danno renale acuto in seguito alla ripresa della terapia con inibitori dell’immuno checkpoint. Il principale fattore di rischio per recidiva di AKi sembra essere riconducibile alla durata dell’intervallo tra l’episodio di danno renale acuto e la ripresa della terapia con ICIs (2.05 mesi nei soggetti che non mostravano recidiva di AKI vs 1.4 mesi nei soggetti con recidiva di AKI). È interessante sottolineare, tuttavia, come solo un soggetto tra coloro che avevano presentato una recidiva di AKI non abbia presentato una risposta completa alla terapia steroidea [26].

 

Conclusioni

La nefrotossicità da farmaci antineoplastici rappresenta una delle maggiori sfide dell’onconefrologia, sintetizzando al meglio quella che è la natura multidisciplinare della gestione del paziente oncologico.
La costante espansione dell’armamentario di farmaci antitumorali a disposizione per la gestione del paziente oncologico, ha sicuramente contribuito ad ampliare il concetto di “nefrotossicità da farmaci antitumorali” che, attualmente, abbraccia un eterogeneo gruppo di meccanismi patogenetici e un’importante variabilità di sindromi cliniche nefrologiche. Alla luce di tale complessità, la gestione di tali eventi avversi, rende imprescindibile la figura dello specialista nefrologo, quale riferimento nella diagnosi (es. indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale) e nella terapia (es. indicazione alla terapia steroidea, indicazione alla terapia sostitutiva della funzione renale).
Il ruolo del nefrologo diventa di essenziale importanza in un percorso personalizzato, che parte dalla valutazione preliminare volta a inquadrare i fattori di rischio (sia quelli relativi allo schema terapeutico proposto sia quelli intrinseci dello specifico paziente), coadiuva l’oncologo nella scelta di farmaci e schemi terapeutici adeguati alla funzione renale del paziente, prosegue con il monitoraggio durante il trattamento e, spesso, si prolunga in un follow-up nel lungo periodo, anche successivo alla conclusione del ciclo terapeutico.

 

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