Nei giorni che vanno dal 15 al 19 maggio 2023 una regione ricca e produttiva come la Romagna è stata duramente colpita da un’alluvione di vastissime proporzioni. In quasi cinque giorni di pioggia continua ed abbondante, fiumi e canali sono cresciuti rapidamente, hanno superato o rotto gli argini riversando acqua e fango nei campi, nelle città, nei paesi, invadendo abitazioni, aree produttive ed edifici pubblici, ma anche sommergendo strade e ferrovie rendendo così le comunicazioni difficili se non impossibili. Molte famiglie sono state sorprese nella notte dalla marea montante dell’acqua; altre, avvisate, sono riuscite a salire ai piani superiori o a sfollare da qualche parente. Mentre in pianura l’evoluzione della situazione dipendente dall’ondata di piena che scendeva dai monti e non trovava sfogo modificava continuamente le vie di comunicazione utilizzabili e i relativi provvedimenti presi dalle autorità, in collina e montagna questa grande quantità d’acqua ha portato a numerose frane e smottamenti minacciando edifici ed attività e lasciando isolate molte comunità montane.
Oltre 36.000 persone sono state costrette a lasciare le proprie case nei primi giorni dell’alluvione, poi sono progressivamente rientrate con il passare della perturbazione. Al momento attuale (10 giorni dopo), ancora migliaia di persone non vivono nelle proprie case, non hanno accesso ad acqua corrente ed elettricità, hanno perduto beni e molti ricordi delle loro vite. Numerose le attività interrotte, danneggiate, non solo in campagna ma anche nelle città, nei paesi, nelle zone industriali ed artigianali. Tre delle quattro grandi città della Romagna, Ravenna, Forlì e Cesena, lamentano danni estesi, ma un conto altrettanto salato l’hanno pagato città più piccole come Faenza, Lugo o Bagnacavallo, per non parlare di alcuni piccoli paesi più vicini ai fiumi.
È stato definito “un evento epocale”, 350 milioni di metri cubi d’acqua caduti su 800 km2 di territorio, 100 comuni coinvolti, 23 fiumi e corsi d’acqua esondati, altri 13 che hanno visto superamenti del livello d’allarme, 756 frane principali e migliaia di microfrane, 772 strade chiuse, fino a 8.000 (il 19 maggio) persone accolte nei centri di accoglienza organizzati dai comuni che erano ancora più di 1.000 a 10 giorni di distanza; questi i numeri che testimoniano l’estensione del territorio colpito e delle persone coinvolte, incluse le 15 vittime, quasi tutte anziani che hanno avuto grandi difficoltà nel fronteggiare l’emergenza.
La Romagna non è nuova a questo genere di eventi che hanno poi portato ad opere importanti: le cronache riportano che nel maggio del 1635 piovve per sei giorni consecutivi e Ravenna fu inondata dai fiumi Ronco e Montone (che scendono dalla montagna forlivese); seguirono altre inondazioni nel 1651, 1693, 1700 e 1715 e lo Stato Pontificio decise di deviare il corso di questi fiumi creando una foce artificiale fra gli attuali Lido di Adriano e Lido di Dante a sud di Ravenna. Nel 1807 venne costruito il Cavo Napoleonico con funzione di scolmatore del fiume Reno nel Po e successivamente il canale Emiliano Romagnolo, lungo 135 km, il cui primo progetto risale al 1620, ma che fu poi realizzato nel dopoguerra. Quest’ultimo ha avuto un ruolo decisivo nell’impedire un’ulteriore estensione delle zone allagate.
Figura 1: foto satellitare della Romagna il 18 maggio 2023. Fonte: Copernicus.
Tra gli edifici coinvolti dall’alluvione, gli ospedali non sono stati risparmiati. Il Pronto Soccorso di Lugo, come quello di Riccione, sono stati parzialmente invasi dall’acqua, altre strutture sanitarie come il Centro di Cardiochirurgia di Villa Maria Cecilia a Cotignola ha dovuto essere evacuato con redistribuzione dei pazienti nelle terapie intensive più vicine, ma anche numerose case di comunità, poliambulatori, RSA, sono stati colpiti o lambiti, inagibili o isolati per giorni.
L’Azienda USL della Romagna, che copre tutto il territorio colpito e i suoi 1.280.000 abitanti, ha adottato diversi provvedimenti in maniera tempestiva bloccando nei giorni più critici visite e diagnostiche ambulatoriali, interventi chirurgici e ricoveri non urgenti. I letti così disponibili sono stati utilizzati per i pazienti in dimissione che non potevano raggiungere il domicilio, mentre aree degli ospedali abitualmente destinate ad altra funzione sono state attrezzate per accogliere pazienti che dovevano essere sottoposti a cicli terapeutici ma non avevano poi modo di raggiungere le abitazioni; anche nelle zone vicine agli Ospedali o altri punti di cura, sale di ogni tipo e palestre sono diventate strutture d’accoglienza per pazienti, anziani e chiunque, impossibilitato a raggiungere il domicilio, avesse bisogno di trovare un punto d’appoggio; dove presenti, anche alcuni alberghi sono stati utilizzati.
La risposta delle strutture sanitarie, coordinate da Prefettura e Protezione Civile, è stata molto efficiente e tempestiva grazie anche a chi ha lavorato ininterrottamente per i tre giorni più difficili. Il momento più drammatico è stato comunque il mattino di mercoledì 17 perché, a mano a mano che arrivavano le notizie dell’estensione delle inondazioni, ci si rendeva conto delle proporzioni, si cercava di fare una lista delle priorità in un contesto in cui tutto era urgente ma la situazione in continua evoluzione richiedeva continui adattamenti e cambi di programma.
A partire dal pomeriggio di venerdì 19 maggio le principali vie di comunicazione erano state ripristinate e chi poteva, gradatamente, ha cominciato a raggiungere le proprie abitazioni anche se i disagi logistici erano ancora enormi.
Per quanto concerne il nostro specifico ambito Nefrologico, fin da subito ci siamo resi conto che il problema più drammatico era quello dei trasporti dei dializzati, e l’impegno maggiore è stato innanzitutto portare i pazienti ai Centri Dialisi; in provincia di Ravenna i Centri Dialisi sono 5: l’hub all’Ospedale di Ravenna, il CAD della Domus Nova di Ravenna, il CAD all’Ospedale di Lugo, il CAD della Clinica San Pier Damiano di Faenza e il Cal di Cervia. In provincia di Forlì-Cesena i due hub sono negli ospedali principali (Forlì e Cesena) e i CAL sono a Santa Sofia, Mercato Saraceno, Savignano e Cesenatico. Ogni Centro, grande e piccolo, ha provveduto a contattare i suoi pazienti segnalando alle autorità i trasporti più difficili (a Modigliana, nella zona montana del Forlivese, isolata dalle frane, due pazienti sono stati evacuati con l’elicottero, mentre più di uno in pianura è stato recuperato con anfibi e gommoni); il Centro di Santa Sofia, nella montagna forlivese, non era raggiungibile nemmeno dagli operatori e i pazienti sono stati pertanto trasferiti all’hub di Forlì; al volo sono stati organizzati turni supplementari per pazienti che era stato più semplice trasportare in un Centro più accessibile rispetto a quello di afferenza abituale; la pianificazione dei turni è stata fatta decine e decine di volte ma nessun paziente ha saltato il turno, tuttalpiù è stato ritardato di qualche ora. Un team parallelo, che faceva capo alla Direzione Infermieristica e alla Medicina Territoriale, ha provveduto nel frattempo a trovare un posto letto (solo alberghiero) per i pazienti impossibilitati a rientrare alle loro case cercando di concentrarli per semplificare i trasporti. Le infermiere della dialisi peritoneale hanno provveduto a contattare tutti i pazienti verificando l’esecuzione del trattamento (più di uno era senza corrente elettrica e senza copertura di rete per inviare i dati delle dialisi notturne) e l’integrità e consistenza delle forniture. Dove non era garantita la disponibilità della corrente elettrica i pazienti sono stati temporaneamente shiftati in CAPD. L’attitudine a lavorare in remoto appresa durante la pandemia ha permesso di attivarsi immediatamente alla consultazione telefonica sia dei trapiantati che dei pazienti in pre-dialisi; l’accesso in urgenza è stato sempre garantito, i reparti di degenza non hanno dimesso fino alla settimana successiva utilizzando i letti delle Chirurgie che avevano fermato gli interventi in elezione.
Molti dei provvedimenti organizzativi che si erano presi nel corso della pandemia sono scattati immediati ed automatici e, tutto sommato, coordinati, a volte prima dell’arrivo delle disposizioni ufficiali, mostrando una grande velocità di reazione e una capacità di interfacciarsi che nella routine quotidiana a volte si perde.
Abbiamo visto Coordinatrici e Coordinatori dei Centri Dialisi restare al lavoro per ore e ore senza fermarsi se non nel momento in cui tutti i pazienti avevano avuto il loro trattamento, stesso dicasi per gli infermieri dei Centri Dialisi, specie quelli più periferici; i medici in turno di guardia o reperibilità hanno dormito in ospedale anche il giorno precedente al loro turno per timore di non riuscire a raggiungere l’ospedale e anche tutto il resto del personale infermieristico ed assistenziale ha fatto la sua parte e anche parecchio di più, cogliendo in pieno il senso del momento. Abbiamo visto dei giganti al lavoro…
Certo non tutto è stato perfetto, specie nelle primissime ore quando ancora le notizie erano frammentarie e soprattutto non ancora coordinate; abbiamo avuto ingenuità, come nel caso di Carabinieri di una remota stazione che, per tutela dei pazienti stessi, non volevano farli andare al centro dialisi; gli stessi, una volta informati, si sono prodigati poi per darci una mano, soprattutto nelle comunità montane isolate dove erano, nelle prime ore, la sola autorità presente in contatto con le Prefetture.
Cosa abbiamo imparato da questa esperienza? Innanzitutto che sia le organizzazioni sanitarie che quelle istituzionali si sono mosse con grande rapidità ed efficacia tanto da dire che la gestione dell’emergenza è stata molto efficiente; ma accanto a questo emerge prepotentemente la capacità di attivarsi, di lavorare in collaborazione, di non risparmiarsi, di tutti gli addetti ai lavori e non, dei vicini di casa, dei compaesani e, non ultimi, di tutti coloro che rapidamente sono arrivati da più lontano a dare una mano senza che nessuno l’avesse chiesto. Hanno spalato e ancora spalano il fango nelle case assieme a chi ci abita, puliscono, provano a rimettere le cose a posto e intanto cantano “Romagna mia” e piangono a vedere la devastazione e scavano e continuano a cantare… grande terra la Romagna. Non vogliamo trarre insegnamenti morali da questa esperienza, ma la solidarietà resta un bene inestimabile.
Più semplice trarre insegnamenti per il nostro ambito: come nel corso del terremoto nel Modenese uno dei punti critici poteva diventare lo stoccaggio e approvvigionamento dei materiali; l’abitudine a tenere scorte ridotte e quasi sempre ubicate nei sotteranei poteva diventare un problema specie nel caso in cui le vie di comunicazione si fossero interrotte. Fortunatamente questo non è successo, ma si conferma che mantenere sempre a portata di mano il materiale dialitico per coprire almeno 48-72 ore è una buona abitudine dettata dal buon senso; un altro punto fondamentale è avere a disposizione l’elenco dei pazienti, inclusi indirizzo e numeri di telefono anche in cartaceo perché i collegamenti internet in queste situazioni possono saltare. Ma più di tutto è necessario mantenere una lucida visione organizzativa delle risorse logistiche e umane a disposizione e di come riallocarle rapidamente in uno scenario in continua mutazione; questo atteggiamento ha permesso di giocare un ruolo importante anche nei confronti dei pazienti che devono sapere di poter contare su un centro dialisi che non li lascia soli e su cui possano fare affidamento nei momenti di difficoltà. Normalmente siamo portati a lamentarci del fatto di farsi anche troppo carico delle esigenze dei pazienti, soprattutto di quelle che poco hanno a che fare con la clinica, ma in quest’occasione il filo che ci lega a loro e la conoscenza dettagliata della loro logistica e rete familiare ha permesso di dare una risposta a tutti.
Infine vorremmo cogliere questa occasione per ringraziare tutti i colleghi che ci hanno chiamato in quei giorni per offrire non solo vicinanza ma anche risorse; è stato importante, ci hanno fatto sentire meno isolati.