Luglio Agosto 2020 - In depth review

SGLT2 inibitori, non solo ipoglicemizzanti: impatto nella pratica clinica nefrologica

Abstract

I dati epidemiologici mostrano un continuo aumento della diffusione del diabete mellito nel mondo.  Nel soggetto diabetico, il rischio di insorgenza della malattia renale cronica (MRC) e la sua progressione sino allo stadio terminale rimangono elevati, nonostante le attuali misure di prevenzione e trattamento. Sviluppati e approvati a scopo ipoglicemizzante, gli SGLT2 inibitori hanno mostrato un’inaspettata e sorprendente efficacia cardioprotettiva e nefroprotettiva. Alla base, meccanismi d’azione multipli che trascendono e sono indipendenti dal controllo glicemico. Da ciò l’ipotesi di estendere l’utilizzo di questi farmaci anche ai soggetti con MRC negli stadi più avanzati, inizialmente esclusi in ragione del limitato effetto ipoglicemizzante. Degli effetti favorevoli degli SGLT2 inibitori potrebbero giovarsi anche i non diabetici: soggetti con patologie renali a varia eziologia, scompenso cardiaco, elevato rischio o malattia cardiovascolare conclamata. Questi farmaci presentano un buon profilo di sicurezza, anche se sono state registrate diverse segnalazioni di eventi avversi post marketing. Gli studi clinici in corso potranno fornire informazioni più chiare sull’efficacia, il potenziale e la sicurezza di queste molecole. Scopo della presente review è vagliare le evidenze disponibili e le prospettive future degli SGLT2 inibitori, candidati ad un ampio utilizzo nella pratica clinica nefrologica.

Parole chiave: diabete mellito, ipoglicemizzanti orali, SGLT2 inibitori, malattia renale cronica

Introduzione

Il diabete mellito (DM) è una delle patologie più diffuse nel mondo: ne soffre circa l’8,5% della popolazione adulta ed il trend nelle ultime decadi mostra un progressivo aumento dell’incidenza e della prevalenza [1].

La malattia renale cronica (MRC) è frequente complicanza del DM, sia di tipo 1 (DM1) che di tipo 2 (DM2). Si calcola che tra il 40 e il 50% dei soggetti affetti da DM2 sviluppa MRC nell’arco della vita e la sua presenza e severità influenzano significativamente la prognosi [2, 3, 4]. Pochi e dibattuti sono i dati relativi alla progressione del danno renale nel diabetico fino alla malattia renale cronica terminale (ESRD). Le cifre sono sottostimate e inficiate dall’elevata mortalità di questi soggetti, molti dei quali muoiono prima di giungere alla necessità di terapia sostitutiva della funzione renale, soprattutto per patologie cardiovascolari (CV) [5, 6, 7]. Negli Stati Uniti nel 2010 la prevalenza di ESRD tra i diabetici adulti è stata di 20/10.000 [8]. Guardando all’eziopatogenesi, il DM è ormai stabilmente la causa principale dell’ESRD. È da ascrivere al DM il 23% e il 16% dei casi incidenti e prevalenti di ESRD, rispettivamente, secondo il più recente report ERA-EDTA (European Renal Association-European Dialysis and Transplant Association) [9].

Gli studi dimostrano che la coesistenza di DM e MRC si associa ad un tasso di mortalità significativamente più elevato rispetto a quello delle due condizioni valutate separatamente [10]. A ciò si aggiunge che l’incidenza di ESRD nel soggetto diabetico è rimasta pressoché invariata negli ultimi 20 anni, mentre si è assistito ad una significativa riduzione di altre complicanze cardiovascolari, quali l’infarto miocardico acuto, l’ictus cerebri e le amputazioni [11]. L’insuccesso nel miglioramento della prognosi renale del DM può avere ragioni diverse. L’aumento dell’età anagrafica media, la migliorata assistenza e cura del paziente diabetico (per esempio in caso di infarto miocardico acuto), l’avvento di importanti classi farmacologiche (ad es. β-bloccanti, ACE-I, sartani, etc.,) implicano che la popolazione diabetica è sempre più anziana, fragile e con pluripatologie. Inoltre, allo stretto controllo glicemico è stato attribuito il ruolo chiave di ridurre il rischio di insorgenza e/o la progressione del danno renale, in assenza, fino a qualche anno addietro, di ipoglicemizzanti ad attività nefroprotettiva diretta [12].

Gli SGLT2 inibitori, detti anche glifozine, sono stati inizialmente sviluppati allo scopo di migliorare il compenso glicemico nel soggetto affetto da DM2. Il razionale d’uso di questa classe di farmaci sta cambiando negli ultimi anni in ragione degli emergenti effetti favorevoli sugli outcome CV e renali.

Scopo della presente review è quello di focalizzare le evidenze disponibili, dall’aspetto fisiopatologico all’efficacia terapeutica, e valutare le prospettive future degli SGLT2 inibitori.

 

Diabete mellito e rene – aspetti fisiopatologici

Il rene riveste un ruolo importante nel mantenimento dell’omeostasi del glucosio. È sede di gluconeogenesi, sebbene in misura nettamente inferiore rispetto al fegato, ma soprattutto è impegnato nel riassorbimento del glucosio che filtra liberamente a livello glomerulare. Il glucosio, essendo un composto polare, per attraversare la membrana plasmatica necessita di proteine di trasporto. Il passaggio del glucosio dal lume del tubulo all’interno della cellula avviene per trasporto attivo mediato da due cotrasportatori sodio/glucosio, SGLT2 e SGLT1. Il primo è localizzato nel segmento S1 del tubulo prossimale ed è responsabile del riassorbimento di circa il 90% del glucosio filtrato; il secondo si trova più a valle, nel segmento S3 del tubulo prossimale, oltreché a livello intestinale, ed è deputato al riassorbimento della restante parte. Il glucosio filtrato viene totalmente riassorbito nel tubulo, fino ad un valore soglia di saturazione del sistema, corrispondente ad una glicemia di 180-200 mg/dL [13, 14, 15]. Se il glucosio ematico è oltre il suddetto valore soglia, risulterà superata la capacità del sistema e si osserverà la presenza di glucosio nelle urine [16].

Nel soggetto diabetico, in rapporto alla condizione di iperglicemia, la quantità di glucosio che filtra nel glomerulo è aumentata. Studi sperimentali suggeriscono che l’aumento del glucosio filtrato è il primum movens dell’iperfiltrazione glomerulare, l’alterazione renale più precocemente osservata nel DM secondo la visione classica della storia naturale della nefropatia diabetica. Il legame tra carico di glucosio e incremento del filtrato glomerulare renale (GFR) è rappresentato dal tubulo renale prossimale (ipotesi tubulare). Il glucosio agisce sulle cellule tubulari sia direttamente che indirettamente attraverso l’angiotensina II, di cui determina un’aumentata produzione intrarenale: attiva multiple vie di trasduzione intracellulare del segnale che conducono all’aumentata sintesi di fattori quali il VEGF. Il tubulo va incontro inizialmente ad iperplasia e successivamente ad ipertrofia. Tali fenomeni concorrono all’aumento volumetrico del rene caratteristico dell’esordio della malattia. Inoltre, di grande importanza, si realizza un’iperespressione degli SGLT [17, 18, 19, 20]. Trattandosi di un sistema di cotrasporto del tipo simporto, non solo il glucosio ma anche il sodio va incontro ad aumentato riassorbimento: una ridotta quantità ne giunge alla macula densa con soppressione del feedback tubulo-glomerulare, un meccanismo di autoregolazione del flusso ematico renale e del GFR di norma costantemente attivo. Si realizza una condizione di vasodilatazione dell’arteriola afferente, ipertensione ed iperfiltrazione glomerulare [17, 21]. Non meno importante, l’aumentato riassorbimento del glucosio favorisce la persistenza dell’iperglicemia e inoltre è causa di tossicità tubulare per aumentato consumo di energia e ossigeno, il che prelude a danno di tipo ipossico, produzione di radicali liberi dell’ossigeno e stress ossidativo, flogosi e fibrosi tubulo-interstiziale [22].

L’iperfiltrazione glomerulare è un’alterazione dell’emodinamica renale che si osserva nelle fasi iniziali della MRC nel 40% dei diabetici di tipo 2 e nel 75 % dei diabetici di tipo 1, rispettivamente [22]. Le alterazioni renali nel DM1 e nel DM2 sono simili, ma la nefropatia da DM2 è caratterizzata da notevole eterogeneità e limitata correlazione con la presentazione clinica [23]. La storia naturale della nefropatia diabetica, nella sua rappresentazione tradizionale, muove dall’ipertensione glomerulare, causa di ispessimento della membrana basale glomerulare ed espansione del mesangio. In entrambi i casi, le alterazioni sono da correlare prevalentemente ad accumulo di matrice extracellulare [24, 25]. La progressiva espansione del mesangio può portare alla formazione di noduli di matrice con cellule mesangiali disposte a palizzata perifericamente (noduli di Kimmelstiel-Wilson), che possono comprimere i capillari e generare microaneurismi [26]. A livello vascolare si osserva anche arteriosclerosi ialina. Tutt’altro che indenne la componente endoteliale, laddove si rileva fusione dei pedicelli e progressiva riduzione del numero dei podociti. Sul piano clinico è descritta la comparsa di microalbuminuria prima e macroalbuminuria dopo, in presenza di GFR normale o aumentato. Più tardi, al danno glomerulare si aggiungono le alterazioni tubulo-interstiziali da tossicità tubulare da glucosio e proteine. Si osserva atrofia tubulare ed espansione interstiziale, stavolta inizialmente dovuta soprattutto ad aumento della componente cellulare, con evoluzione verso la sclerosi globale e segmentale e declino del GFR [2].

Negli ultimi anni è apparso sempre più evidente che la storia naturale della nefropatia diabetica così come precedentemente descritta è un archetipo molto lontano dalla realtà ed in continua evoluzione, soprattutto per quanto riguarda il DM2. In particolare, è chiaro che l’iperfiltrazione glomerulare non sempre rappresenta il meccanismo fisiopatologico primario e più importante nell’instaurarsi del danno renale [27]. Pertanto, anche il ruolo diagnostico e prognostico della proteinuria, che ne è il corrispettivo clinico, è stato rimesso in discussione. Lo studio UKPDS ha rivelato che una percentuale significativa di soggetti affetti da DM2 presentava un declino della funzione renale prima o senza che mai si evidenziasse proteinuria patologica. In particolare, il raddoppio della creatinina o la riduzione del GFR sotto la soglia di 60 mL/min/1.73m2 sono stati registrati nel 30% della popolazione diabetica, in un tempo mediano di 15 anni dalla diagnosi. Ebbene, solo nel 40% di questi soggetti il peggioramento della funzione renale era preceduto dall’evidenza di proteinuria e nella stessa percentuale la proteinuria non veniva documentata mai [28]. Ulteriori recenti evidenze indicano che i casi di nefropatia diabetica in assenza di proteinuria patologica sono in progressivo aumento: dal confronto tra i periodi 1988-1994 e 2009-2014 è emerso che negli USA la prevalenza del fenotipo albuminurico si è ridotta dal 21 al 16 % [29]. È stato ipotizzato che questo trend possa trovare spiegazione negli interventi di prevenzione primaria e secondaria posti in essere negli ultimi decenni al fine di prevenire e trattare tempestivamente le complicanze cardiovascolari e renali del diabete, quale l’impiego dei bloccanti del RAS. Limitate evidenze suggeriscono che i diabetici normoalbuminurici con GFR ridotto presentino un danno vascolare e tubulo-interstiziale più marcato rispetto al fenotipo proteinurico [30, 31]. Tuttavia, ad oggi non sono disponibili studi bioptici mirati alla valutazione della correlazione tra rilievi istologici e fenotipo della nefropatia diabetica.

Klessens et al., hanno condotto un interessante studio autoptico che ha rivelato come sia la proteinuria che il GFR ridotto falliscono nella diagnosi del 19% dei casi di nefropatia diabetica [32]. In sostanza, le manifestazioni cliniche possono comparire tardivamente rispetto al danno istologico già consolidato e l’albuminuria, cui originariamente è stato attribuito il ruolo di marcatore precoce di nefropatia diabetica, risulta piuttosto debole a tale scopo. Sarebbe auspicabile, pertanto, disporre di marcatori più sensibili e precoci di coinvolgimento renale nel soggetto diabetico.

 

SGLT2 inibitori e rene

Il razionale con il quale sono stati sviluppati gli inibitori dei cotrasportatori SGLT è di ridurre il riassorbimento tubulare di glucosio, ottenere glicosuria e migliorare il compenso glicometabolico dei soggetti diabetici. In realtà i primi farmaci, non selettivi per SGLT2, erano gravati da importanti effetti collaterali secondari all’inibizione di SGLT1 a livello intestinale, quali diarrea e sindrome da malassorbimento [33, 34]. Più tardi sono stati introdotti inibitori dotati di selettività sempre maggiore per SGLT2, risultati via via meglio tollerati. Gli SGTL2 inibitori finora studiati sono numerosi. Nell’Unione Europea sono attualmente in commercio quattro differenti molecole, disponibili in formulazioni orali per monosomministrazione giornaliera, da sole o in combinazione con metformina o inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4) (Tabella 1).

 

Principio attivo Associazione Denominazione Dose
Empaglifozin / Jardiance© 10 mg
25 mg
metformina Synjardy© 5 mg + 850 mg
12,5 + 850 mg
5 + 1000 mg
12,5 + 850 mg
linagliptin Glyxambi© 10 mg + 5 mg
25 mg + 5 mg
Canaglifozin / Invokana© 100 mg
metformina Vokanamet© 50 + 850 mg
150 + 1000 mg
50 + 1000 mg
150 + 850 mg
Dapaglifozin / Forxiga© 10 mg
metformina Xigduo© 5 + 850 mg
5 + 1000 mg
saxagliptin Qtern© 5 mg + 10 mg
Ertugliflozin / Steglatro© 5 mg
15 mg
metformina Segluromet© 2,5 mg + 850 mg
2,5 mg + 1000 mg
7,5 mg + 850 mg
7,5 mg + 1000 mg
sitagliptin Steglujan© 5 mg + 100 mg
15 mg + 100 mg
Tabella 1: SGLT2 inibitori in commercio nell’Unione Europea

 

Inizialmente gli SGLT2 inibitori sono stati approvati per il trattamento di soggetti diabetici con HbA1c non a target, nonostante gli interventi sul regime dietetico, le modifiche dello stile di vita e già in terapia con metformina. Erano esclusi i soggetti con GFR < 60 mL/min/1.73m2, poiché atteso che al ridursi del GFR diminuisce l’effetto glicosurico e così il potere ipoglicemizzante [35]. Gli studi di registrazione condotti per valutare la sicurezza CV di queste molecole hanno prodotto risultati sorprendenti. Non solo gli SGLT2 si sono confermati sicuri, ma addirittura hanno dimostrato di ridurre significativamente gli eventi CV maggiori, l’ospedalizzazione per scompenso cardiaco e l’exitus. Ciò era vero nei soggetti con malattia CV conclamata come anche in coloro che avevano solo fattori di rischio, dunque sia in prevenzione secondaria che primaria. I tre principali trial (EMPA-REG OUTCOME, CANVAS e DECLARE TIMI-58), poiché disegnati per la valutazione della sicurezza CV e a motivo dell’atteso limitato effetto ipoglicemizzante per GFR ridotto, hanno reclutato diabetici con GFR > 30 mL/min/1.73m2 [36, 37, 38]. Una recente metanalisi dei citati trial ha evidenziato che i benefici CV erano mantenuti anche nei soggetti con GFR 60-30 mL/min/1.73m2, che pur rappresentavano solo il 14,2% della popolazione complessiva [39].

Inoltre, da analisi secondarie sono emersi possibili effetti favorevoli degli SGLT2 inibitori sul rene. I pazienti in trattamento con glifozine rispetto al gruppo placebo presentavano un rischio significativamente ridotto di raggiungimento dell’endpoint renale composito, rispettivamente del 44% in presenza di malattia CV conclamata e del 46% nel gruppo con fattori di rischio CV. La paucità di soggetti con GFR < 60 mL/min/1.73m2 e degli eventi renali osservati (n° 776) hanno rappresentato chiari limiti alla disamina di tali risultati. Inoltre, i suddetti studi erano stati progettati non per valutare gli outcome renali ma la sicurezza CV, in un disegno di non inferiorità rispetto al placebo [39].

Nondimeno, questi risultati hanno rappresentato una forte spinta da un lato ad effettuare studi retrospettivi che confermassero tali dati, dall’altro, di maggiore rilevanza, alla progettazione di studi mirati alla valutazione dell’effetto nefroprotettivo delle glifozine. Toyama et al., hanno condotto una metanalisi che ha incluso 27 studi per un totale di 7363 soggetti diabetici con GFR < 60 mL/min/1.73m2. Nonostante il limitato effetto ipoglicemizzante (HbA1c -0,29%; IC 95%, -0.39 ─ -0.19), il lavoro concludeva per l’efficacia degli SGLT2 inibitori su più fronti: miglioramento del controllo della pressione arteriosa sistemica, riduzione del peso corporeo e dell’albuminuria, rallentamento del declino del GFR, riduzione del rischio di scompenso cardiaco, infarto miocardico acuto, ictus cerebri, morte CV, endpoint renale composito (raddoppio creatinina o ESRD o morte renale). Non meno importante, gli SGLT2 inibitori apparivano ben tollerati nella popolazione in studio costituita da diabetici nefropatici [40].

Lo Studio CREDENCE (Canagliflozin and Renal Endpoints in Diabetes with Established Nephropathy Clinical Evaluation) è il primo trial randomizzato a doppio cieco realizzato al fine di valutare gli effetti delle glifozine sulla prognosi renale [41]. Ha reclutato diabetici macroalbuminurici e con GFR 30-90 mL/min/1.73m2, già in terapia con inibitori dal RAS alla massima dose tollerata. I pazienti sono stati randomizzati a canaglifozin 100 mg/die rispetto a placebo ed il tempo di follow-up mediano è stato di 2,62 anni per sospensione anticipata dello studio ad ottobre 2018 per efficacia del trattamento sperimentale. Canaglifozin ha dimostrato un’azione antiproteinurica ottenendo una riduzione dell’albuminuria di circa il 31%. Tale effetto si manteneva anche alla sospensione del farmaco, così suggerendo che siano state indotte modificazioni strutturali. Il GFR nel primo mese di trattamento ha subito una riduzione di circa 5 mL/min/1.73m2. La rapidità dell’effetto e la reversibilità alla sospensione del farmaco suggeriscono quale fenomeno sottostante modificazioni dell’emodinamica renale che probabilmente rappresentano il meccanismo d’azione principale degli SGLT2 inibitori almeno nelle prime fasi. Più tardi si è osservato un rallentamento nel declino del GFR con un vantaggio significativo pari a 1,52 mL/min/1.73m2 per anno, protrattosi per tutto il follow-up. Rispetto al placebo, canaglifozin ha ridotto del 34% [hazard ratio 0,66 (IC 95% 0,53-0,81] il rischio di endpoint renale composito (raddoppio della creatinina, eGFR < 15 mL/min/1.73m2 o dialisi per almeno 30 giorni, trapianto o morte renale) nella popolazione in studio complessivamente considerata. Altresì, è di notevole rilevanza che il vantaggio di canaglifozin si sia mantenuto in tutti i sottogruppi divisi per GFR con abbattimento del rischio di endpoint renale composito anche nei soggetti con GFR 30-44 mL/min/1.73m2, pari al 29% [hazard ratio 0,71 (IC 95%, 0,53–0,94)]. Lo studio CREDENCE ha corroborato le precedenti evidenze in ordine all’efficacia protettiva non solo sul rene ma anche sul sistema CV: si è ridotto il tasso di ospedalizzazione per scompenso cardiaco, gli eventi CV maggiori e la morte CV. È interessante notare che, relativamente ai soggetti ad alto rischio o con vasculopatia aterosclerotica conclamata, i risultati di questo studio sono concordi con i dati del CANVAS, che invece non erano confermati nei trial EMPA-REG OUTCOME e DECLARE TIMI-58 [36, 37, 38]. Pertanto, non è del tutto chiarito se gli effetti favorevoli sull’aterosclerosi siano specifici di canaglifozin piuttosto che della classe farmacologica, aspetto dagli importanti risvolti sulle indicazioni degli SGLT2 inibitori.

Dekkers et al. hanno analizzato gli outcome CV e renali nei trial EMPA-REG OUTCOME, CANVAS, DECLARE TIMI-58 e CREDENCE, dividendo i soggetti in quattro sottogruppi per GFR al basale: <45, 45-60, 60-90 e >90 mL/min/1.73m2. I benefici CV e renali erano mantenuti per tutte le classi di GFR, pur con delle interessanti differenze. I soggetti con funzione renale più compromessa facevano registrare il maggior vantaggio CV. È noto che il rischio CV dei nefropatici correla con la severità della MRC. Pertanto, come già per altri farmaci, non stupisce che i risultati migliori si osservino nei soggetti con MRC più avanzata, ovvero quelli a maggior rischio CV. Viceversa, i maggiori benefici in termini di nefroprotezione venivano osservati nei soggetti con GFR meglio conservato. Tale evidenza collima con il presupposto che i soggetti con migliore funzione renale abbiano delle alterazioni strutturali di minore entità e dunque ancora la possibilità di intervenire efficacemente nel limitare l’aggravarsi del danno e il declino del GFR. Infine, considerando cumulativamente gli outcome CV e renali, i sottogruppi con GFR più basso, quelli originariamente esclusi dalla terapia con SGLT2 inibitori, avevano maggior beneficio rispetto ai soggetti con funzione renale normale o lievemente ridotta [42].

 

SGLT2 inibitori – i meccanismi della nefroprotezione

Le attuali evidenze suggeriscono che i meccanismi alla base della nefroprotezione sono multipli, diretti e indiretti, locali e sistemici. In prima battuta si potrebbe ipotizzare che gli effetti favorevoli sul rene siano da attribuire al controllo dell’iperglicemia. In effetti, gli SGLT2 inibitori agiscono favorevolmente sul compenso glicemico, aumentando l’escrezione urinaria di glucosio, ma anche migliorando l’utilizzazione epatica del glucosio e riducendo l’insulino-resistenza a livello muscolare [43]. Similmente ad altri autori, Vasilakou et al., hanno riscontrato che nei diabetici con funzione renale conservata gli SGLT2 inibitori hanno ottenuto una riduzione dell’HbA1c pari a 0,66% [44]. In presenza di MRC, insieme al GFR si riduce l’effetto glicosurico e quindi il potere ipoglicemizzante con diminuzione in HbA1c nello stadio 3A NKF-KDOQI compresa tra 0,33 e 0,37%, mentre nessuna variazione significativa veniva osservata negli stadi 3B e 4 NKF-KDOQI [45]. Nel CREDENCE la differenza nell’emoglobina glicata tra il gruppo canaglifozin e quello placebo è stata solo dello 0,11 % alla fine dello studio, in forte contrapposizione con gli ottimi risultati per quanto concerne gli endpoint renali [41]. Heerspink et al., hanno riportato che il rallentamento del declino del GFR e la riduzione della proteinuria da SGLT2 inibitori sono indipendenti dal controllo glicemico [46]. Nell’insieme, questi dati suggeriscono che il migliorato compenso glicemico certamente concorre ma non può spiegare da solo l’efficacia degli SGLT2 inibitori nella protezione renale. Ciò da un lato supporta la natura multifattoriale della nefroprotezione da SGLT2 inibitori, dall’altra apre nuovi orizzonti sulla possibile efficacia di queste molecole nella patologia renale non diabetica. Nella Tabella 2 riportiamo i principali studi clinici condotti con gli SGLT2 inibitori, da cui sono emersi effetti pleiotropici di grande interesse in termini di protezione renale. A ragione della limitata correlazione tra vantaggi clinici da SGLT2 inibitori e controllo glicemico, i lavori più recenti mostrano una crescente attenzione per gli effetti favorevoli delle glifozine anche in assenza di DM.

 

Studio [rif.] Disegno Popolazione Glifozina Principali risultati
EMPAREG OUTCOME [36] trial 7020 pz con DM2 Empaglifozin ↓ morte CV

↓ ospedalizzazione per SC

↓ morte per tutte le cause

CANVAS [37] trial 10142 pz con DM2 e alto rischio CV Canaglifozin ↓ endpoint composito di morte CV, IMA e stroke non fatali
DECLARE TIMI-58 [38] trial 17160 pz con DM2, ad alto rischio o con vasculopatia aterosclerotica Dapagliflozin ↓ endpoint composito di morte CV e ospedalizzazione per SC

↓ ospedalizzazione per SC

CREDENCE [41] trial 4401 pz con DM2, MRC e macroalbuminuria Canaglifozin ↓ endpoint renale composito (raddoppio creatinina, eGFR <15 mL/min/1.73m2 o dialisi per almeno 30 giorni, trapianto o morte renale)

↓ ESRD, declino del GFR, albuminuria,

↓ ospedalizzazione per SC

↓ endpoint composito di morte CV, IMA e stroke.

Yagi et al [57] osservazionale 13 pz con DM2 Canaglifozin ↓ grasso epicardico
Sato et al [59] osservazionale 40 pz con DM2 e coronaropatia Dapagliflozin ↓ grasso epicardico, peso corporeo, fattore di necrosi tumorale-alfa (TNF-α), inibitore dell’attivatore del plasminogeno di tipo 1 (PAI-1)
Bouchi et al [56] pilota 19 pz con DM2 Luseogliflozin ↓ grasso epicardico, peso corporeo, BMI, pressione arteriosa,

trigliceridemia, PCR

Heerspink et al [46] Blonde et al [47] trial 1450 pz con DM2 Canaglifozin ↓declino del GFR,

↓albuminuria nei pz con micro- o macro- albuminuria,

↓ BMI, peso corporeo e circonferenza vita

McGurnaghan et al [62] osservazionale 8566 pz con DM2 Dapagliflozin ↓ peso corporeo, BMI, pressione arteriosa
Kario et al [63] trial 132 pz con DM2 e ipertensione arteriosa notturna non controllata Empaglifozin ↓ pressione arteriosa, peso corporeo
Solini et al [66] randomizzato 40 pz con DM2 Dapagliflozin ↓ rigidità della parete dei vasi arteriosi
DAPA-HF [88] trial 4744 pz con SC classe NYHA da II a IV e FE ≤ 40 %, con e senza DM2 Dapagliflozin ↓ peggioramento SC o morte CV (indipendentemente dalla presenza di DM2)
*DAPA-CKD [100] trial 4245 pz con MRC e macroalbuminuria, con e senza DM2 Dapagliflozin ↓ endpoint composito di declino dell’eGFR ≥50%, ESRD e morte CV o renale.

 

SC = scompenso cardiaco PCR = proteina C reattiva; FE = frazione di eiezione.
*Recentemente annunciata interruzione anticipata dello studio per efficacia del trattamento sperimentale.
Tabella 2: SGLT2 inibitori – Studi clinici ed effetti pleiotropici di interesse nel setting nefrologico

 

Diversi autori hanno vagliato numerosi effetti sistemici non glicemici degli SGLT2 inibitori, potenziali mediatori dei benefici renali. A differenza di altre classi di ipoglicemizzanti, favorevolmente gli SGLT2 inibitori riducono il peso corporeo, il BMI (indice di massa corporea) e la circonferenza vita [47, 48]. Tale effetto si osserva sin dai primissimi giorni di trattamento e prosegue nel tempo. Le evidenze disponibili suggeriscono che in una prima fase il calo ponderale è da ricondurre alla perdita di acqua corporea [49]. Ciò non sorprende se si considera che, essendo il bersaglio dell’inibizione un cotrasportatore sodio/glucosio, gli SGLT2 inibitori determinano un’aumentata escrezione urinaria di sodio e diuresi osmotica, correlata anche alla glicosuria. L’aumento dell’ematocrito, dell’albuminemia e dei livelli ematici e urinari degli ormoni del RAS sono segno della contrazione del volume ematico [49, 50, 51]. L’azione diuretica e natriuretica si attenuano in 3-4 giorni, rendendo conto del 30-40% della riduzione del peso corporeo nel lungo termine [47]. Altresì, l’incrementata eliminazione di acqua e sodio agisce favorevolmente sul controllo della pressione arteriosa sistemica e nel contrastare eventuali condizioni di sovraccarico di volume con aumentato precarico cardiaco, condizioni tutt’altro che rare in soggetti con MRC e/o cardiopatia [52]. Lavori che hanno analizzato la composizione corporea hanno mostrato che la restante quota di calo ponderale consiste in perdita di massa grassa [49].

In linea con queste evidenze, gli SGLT2 inibitori hanno mostrato favorevoli effetti metabolici non-glicemici mediati, almeno in parte, dal glucagone. Si è visto che SGLT2 sono presenti nelle alfa cellule del pancreas.  L’azione diretta degli SGLT2 inibitori a questo livello determina un aumentato rilascio di glucagone. A sua volta il glucagone attiva la lipolisi e la mobilizzazione degli acidi grassi dal tessuto adiposo, come anche la chetogenesi epatica [53]. L’inibizione degli SGLT2 pancreatici mima una condizione di ipoglicemia con attivazione delle vie metaboliche che favoriscono l’utilizzo di nuovi substrati (acidi grassi e chetoni) e il consumo delle riserve adipose (tessuto adiposo e fegato) con effetti positivi in termini di perdita di peso, sulla steatosi epatica e sull’infiammazione [49, 54]. Inoltre, la maggiore disponibilità di substrati energetici potrebbe avere un impatto favorevole sulla salute del miocardio [55]; non da meno la recente evidenza della riduzione di tessuto adiposo anche a livello del pericardio [56, 57, 58, 59] che correla con il rischio di scompenso cardiaco [60].

La terapia con SGLT2 inibitori riduce la pressione arteriosa sistemica, sia diurna che notturna ed indipendentemente dalla funzione renale [61]. L’effetto antipertensivo è modesto ma clinicamente rilevante [62, 63]. I meccanismi che sembrano sottendere la riduzione della pressione arteriosa sistemica comprendono l’azione diuretica [64], la diminuzione del peso e del sodio corporeo totale [65] e la riduzione della rigidità della parete dei vasi arteriosi [66], effetto quest’ultimo meritevole di ulteriori valutazioni, essendo i dati disponibili non univoci. Di interesse, la possibilità che gli SGLT2 inibitori consentano di ridurre l’impiego di farmaci antiipertensivi e diuretici, per di più senza incorrere in turbe elettrolitiche [40].

Alcuni studi suggeriscono che gli SGLT2 inibitori abbiano proprietà antinfiammatorie. Nel modello animale murino le glifozine hanno ridotto l’espressione renale di attori chiave del processo flogistico quali fattori di trascrizione, chemochine e citochine [67]. In un recente studio in vitro canaglifozin ha ridotto i livelli del recettore 1 del TNF (fattore di necrosi tumorale), interleuchina 6, metalloproteinasi della matrice 7 e fibronectina 1 [68]. Altri autori hanno riportato che gli SGLT2 inibitori riducono la presenza di radicali liberi dell’ossigeno ed ormoni del RAS nel parenchima renale [69, 70]. Nell’insieme, i risultati degli studi sperimentali suscitano grande interesse per i possibili effetti favorevoli degli SGLT2 inibitori sullo stato infiammatorio cronico sia generalizzato che locale, intraparenchimale renale, propri del soggetto diabetico. È indubbio che ulteriori studi sono necessari per esaminare in vivo l’effetto delle glifozine sulla flogosi.

In sintesi, gli SGLT2 inibitori sembrano agire su più aspetti di ordine sistemico, noti fattori di rischio CV e per lo sviluppo e la progressione della MRC. Similmente, anche i meccanismi locali alla base della nefroprotezione appaiono molteplici. De Nicola et al. hanno suggerito che gli SGLT2 inibitori possono contrastare l’iperfiltrazione glomerulare, indipendentemente dall’effetto ipoglicemizzante, mentre addurre benefici relativi ad albuminuria, infiammazione e nefromegalia secondariamente al miglioramento del controllo glicemico [17].  Una maggiore disponibilità di sodio a livello della macula densa, conseguenza del ridotto riassorbimento nel tubulo prossimale da inibizione SGLT2 inibitori-mediata, conduce a ripristino del feedback tubulare-glomerulare: la vasocostrizione dell’arteriola afferente e la vasodilazione dell’arteriola efferente contrastano l’ipertensione e l’iperfiltrazione glomerulare, che classicamente svolgono un ruolo chiave nella patogenesi del danno renale nel soggetto diabetico [21, 71, 72]. Questo effetto emodinamico spiega la perdita di GFR osservata nel primo mese di trattamento con Canaglifozin nello studio CREDENCE. La natura funzionale del peggioramento della funzione renale è altresì suggerita dalla reversibilità dello stesso alla sospensione del farmaco [41]. Sperimentalmente, il coinvolgimento del feedback tubulo-glomerulare è sostenuto da evidenze in vivo con la microscopia multifotonica, l’aumento dell’escrezione urinaria di agenti vasodilatatori quali adenosina e metaboliti dell’ossido nitrico in risposta ad empaglifozin, la scomparsa degli effetti su pressione e filtrazione glomerulare quando somministrati antagonisti del recettore A1 dell’adenosina [73]. L’azione favorevole sull’emodinamica renale sembra essere il principale meccanismo alla base dell’effetto antiproteinurico ampiamente riconosciuto agli SGLT2 inibitori [40, 41]. Peraltro, nel soggetto diabetico spesso coesistono obesità ed ipertensione arteriosa, condizioni che possono aggravare l’iperfiltrazione glomerulare, attraverso diversi meccanismi quale la trasmissione dell’elevata pressione arteriosa al glomerulo [74].

Inoltre, la riduzione della pressione intraglomerulare mediata dal ripristino del feedback tubulo-glomerulare, attenuando lo stress di parete, può contribuire ai citati effetti antinfiammatori degli SGLT2 inibitori [75]. Ulteriore azione antinfiammatoria è il contrasto alla glucotossicità locale attraverso l’inibizione del riassorbimento massivo di glucosio a livello tubulare. Le glifozine scongiurando l’eccessivo consumo di energia e ossigeno a tal livello, possono combattere l’instaurarsi di una condizione di ipossia, stress ossidativo, flogosi e fibrosi tubulo-interstiziale [76, 77]. Gli effetti favorevoli sul compartimento tubulo-interstiziale possono essere le fondamenta dell’efficacia nefroprotettiva nei diabetici nefropatici con fenotipo non albuminurico [78]. Altresì, preservare un’adeguata ossigenazione del parenchima renale garantisce la differenziazione dei fibroblasti della corteccia renale nelle cellule produttrici di eritropoietina. In linea, il trattamento con SGLT2 inibitori è risultato associato ad aumento della sintesi di eritropoietina [79].

I podociti sono stati investigati quale ulteriore possibile bersaglio degli SGLT2 inibitori. È ampiamente riconosciuto che la podocitopatia correla con la comparsa di proteinuria e la progressione del danno renale [80]. Nel modello murino e in vitro, SGLT2 era espresso nei podociti e sovraespresso in presenza di proteinuria. Di grande interesse, dapaglifozin è risultata associata a riduzione del danno e della perdita podocitaria [81].

 

SGLT2 inibitori – gli effetti collaterali

Per quanto riguarda la sicurezza, gli SGLT2 inibitori sono risultati generalmente ben tollerati [39]. La Tabella 3 riassume la tollerabilità nei 4 principali trial. Presentano un basso rischio di ipoglicemia, evento avverso alquanto temibile e non infrequente con alcune classi di ipoglicemizzanti, specie nei diabetici con MRC [82]. Ciò trova spiegazione nel fatto che la riduzione dei livelli ematici di glucosio ad opera degli SGLT2 inibitori è strettamente legata alla quantità di glucosio filtrata. Il carico di glucosio che a livello glomerulare passa nella pre-urina dipende sia dalla glicemia che dal GFR. Così, è attesa una glicosuria modesta e, dunque, un’azione ipoglicemizzante più blanda nei soggetti con miglior compenso glicemico e con funzione renale compromessa.

EMPAREG OUTCOME CANVAS DECLARE TIMI-58 CREDENCE
Ipoglicemia
Infezioni vie urinarie
Infezioni genitali + + + +
Amputazioni +
Fratture +
Chetoacidosi diabetica + + +
AKI
+ = Rischio aumentato con SGLT2 inibitore vs placebo.
– = Rischio paragonabile o ridotto di SGLT2 inibitore vs placebo.
Tabella 3: SGLT2 inibitori – Effetti collaterali nei principali trial clinici

 

Le infezioni delle vie urinarie (IVU) sono un effetto collaterale plausibile, comunemente osservato con altri glicosurici [83]. Nel 2015 l’US Food and Drug Administration (FDA) ha pubblicato un avviso sulla scorta della segnalazione di 19 casi di IVU e pielonefriti [84]. Similmente l’EMA, in seguito ad eventi segnalati dopo l’immissione in commercio di empaglifozin e canaglifozin, ha indicato le IVU quale effetto avverso comune. In realtà, i trial clinici hanno riportato dati contrastanti: EMPA-REG OUTCOME, CANVAS e DECLARE TIMI-58 non hanno evidenziato una significativa differenza nel rischio di IVU rispetto al placebo, mentre nello studio CREDENCE canaglifozin è risultata associata ad un aumento del rischio di circa 3 volte [36, 37, 38, 41]. Ancora, in una recente metanalisi che ha incluso 86 studi clinici randomizzati e oltre 50000 soggetti, è emerso che gli SGLT2 inibitori, relativamente al rischio di IVU, sono paragonabili ad altri ipoglicemizzanti (agonisti di GLP-1 e inibitori di DDP-4). Rispetto al placebo, canaglifozin ed empaglifozin non erano associate ad un aumentato rischio, mentre dapaglifozin ha mostrato un rischio relativo di 1,23 (IC 95%, 1,03–1,46). Analisi secondarie hanno rivelato che dapaglifozin aumentava il rischio di IVU solo al dosaggio di 10 mg/die, così delineando un effetto collaterale dose-dipendente [85]. Alla luce delle attuali evidenze il problema delle IVU risulta notevolmente ridimensionato rispetto a quanto temuto inizialmente. Ciò ha importanti risvolti nella pratica clinica: poiché il DM è di per sé fattore di rischio per IVU e la loro evoluzione è più frequentemente sfavorevole che nei non diabetici [86], il timore di incorrere in tali eventi avversi ed eventuali complicanze potrebbe indurre il clinico a limitare significativamente la prescrizione degli SGLT2 inibitori. In questo scenario, molti diabetici non godrebbero dei citati benefici cardiovascolari e renali. Realisticamente, ulteriori studi su popolazioni con fattori di rischio indipendenti per IVU, quali l’età avanzata e la MRC, potranno meglio chiarire il profilo di sicurezza di queste molecole. D’altra parte, educare i pazienti a curare l’igiene personale e riconoscere tempestivamente la sintomatologia suggestiva di IVU possono rappresentare interventi molto utili ai fini della prevenzione e della prognosi.

L’aumentata escrezione urinaria di glucosio è il meccanismo patogenetico chiamato in causa anche per le infezioni genitali [83]. I trial EMPAREG OUTCOME, CANVAS, DECLARE TIMI-58 e CREDENCE sono concordi sull’aumento del rischio da glifozine rispetto al placebo: le infezioni genitali sono risultate tra 4 e 9 volte più frequenti, sebbene il numero di eventi registrato sia stato limitato [36, 37, 38, 41]. La gangrena di Fournier è una grave infezione necrotizzante dei genitali esterni e del perineo che spesso necessita di un approccio chirurgico complesso e si rivela fatale nel 7,5% dei pazienti. Dall’immissione in commercio, diversi autori hanno segnalato casi di gangrena di Fournier nei soggetti in trattamento con SGLT2 inibitori [87]. In realtà, il DECLARE TIMI-58, il più recente tra i quattro trial precedentemente citati e l’unico disegnato per valutare l’impatto di questo possibile evento avverso, ha mostrato un rischio ridotto con dapaglifozin rispetto al placebo [38]. In attesa di dati ulteriori, anche in considerazione della severità della prognosi, è unanimemente condivisa l’opportunità di mantenere alto il livello di attenzione nella pratica clinica, specie in presenza di fattori di rischio quali il sesso maschile, l’età avanzata, l’obesità, l’abuso di alcol, stati di immunodepressione e scarsa igiene personale [87].

Inaspettatamente, nello studio CANVAS canaglifozin è risultata associata a raddoppio del rischio di amputazioni del piede e della gamba [37]. Quali principali meccanismi patogenetici sono stati ipotizzati la deplezione di volume e l’aumento della viscosità ematica. I fattori di rischio erano la pregressa storia di amputazioni, la malattia vascolare periferica e la neuropatia. Su raccomandazione dell’EMA, lo studio DECLARE TIMI-58 ha dovuto raccogliere in maniera sistematica i dati relativi alle amputazioni ed ha concluso per l’assenza di una differenza statisticamente significativa di dapaglifozin rispetto al placebo [38]. L’aumentato rischio non è stato confermato neppure negli studi CREDENCE, DAPA-HF e OBSERVE-4D, studio osservazionale che ha riguardato oltre 700000 pazienti in trattamento con i diversi SGLT2 inibitori [41, 88, 89]. A riprova sono attesi i dati dei trial in corso, cui le agenzie regolatorie hanno chiesto di prestare la dovuta attenzione a tale evento avverso ed ai fattori di rischio connessi.

Un aumento del rischio di fratture non vertebrali, prevalentemente degli arti, è emerso con canaglifozin sempre nello studio CANVAS, già dopo tre mesi di trattamento [37]. Questo risultato non è stato confermato nel CANVAS-R, né nel DECLARE TIMI-58 [90, 38]. Studi retrospettivi successivi hanno riportato un rischio di fratture molto basso o assente, paragonabile ad altri ipoglicemizzanti come i GLP-1 agonisti e i DDP-4 inibitori, in popolazioni a basso rischio. Rimane da chiarire l’impatto degli SGLT2 inibitori nei soggetti ad alto rischio di fratture: anziani, storia di pregressa frattura, bassa densità minerale ossea, presenza di fattori di rischio di caduta. A tal riguardo, è stato ipotizzato che proprio l’aumento del rischio di caduta, conseguente ad uno stato di disidratazione, possa avere un ruolo fondamentale nel determinare il rischio di frattura da SGLT2 inibitori [91].

La letteratura scientifica è sostanzialmente concorde riguardo all’incremento del rischio di chetoacidosi diabetica associato a trattamento con SGLT2 inibitori, soprattutto nei diabetici di tipo 1 e pur con un numero totale di eventi basso. Nondimeno, trattandosi di un effetto avverso temibile, l’individuazione e l’intervento sui fattori di rischio indipendenti (infezioni, chirurgia, ridotto apporto calorico) e la diagnosi tempestiva sono fortemente raccomandati. A tal proposito va considerato che, a differenza della chetoacidosi diabetica tipica del DM1, le forme associate a terapia con SGLT2 inibitori sono euglicemiche [92]. I meccanismi ipotizzati per spiegare questo evento avverso sono multipli: ridotta secrezione di insulina in relazione alla “perdita” di glucosio nelle urine; iperglucagonemia SGLT2 inibitori-indotta con attivazione della chetogenesi [93]; iperproduzione degli ormoni da stress (cortisolo, catecolamine, glucagone) in risposta all’ipovolemia, con aumento dell’insulino-resistenza, della lipolisi e della chetogenesi [92]. Alla luce di quanto detto, pur in presenza di normoglicemia, appare opportuno ricercare la presenza di chetoni nelle urine nei soggetti in terapia con SGLT2 inibitori che presentino sintomi compatibili con uno stato di acidosi, quali inappetenza, nausea, vomito, tachipnea e confusione mentale [94].

L’AKI (acute kidney injury) è un evento avverso paventato, ma i dati degli studi finora condotti non risultano concludenti. In particolare, gli studi EMPA-REG OUTCOME, CANVAS, DECLARE TIMI-58 e CREDENCE hanno riportato pochi casi e non sono stati ben specificati i criteri diagnostici [36, 37, 38, 41].  L’aspetto fisiopatologico chiave potrebbe essere la deplezione di volume, causa di rapido declino della funzione renale nella forma pre-renale [49, 52]. Altro possibile meccanismo è il danno parenchimale da precipitazione di cristalli di acido urico [95]. Infatti, è noto l’effetto uricosurico degli SGLT2 inibitori conseguente allo scambio glucosio/acido urico nel tubulo prossimale [96]. Infine, diversi studi sperimentali hanno dimostrato lo shift di ossigenazione dalla midollare alla corticale ad opera degli SGLT2 inibitori [79]. Ciò potrebbe rendere il rene particolarmente suscettibile all’azione di diversi agenti nefrotossici e a rischio di danno parenchimale acuto [94].

Per quanto di nostra conoscenza non sono disponibili dati circa eventuali differenze in termini di sicurezza degli SGLT2 inibitori nelle diverse classi di GFR.

Pur con i limiti di una metanalisi, Toyama et al., hanno indicato empaglifozin quale molecola meglio tollerata tra gli SGLT inibitori [40].

Concludendo, ad oggi le glifozine hanno mostrato un buon profilo di sicurezza. Certamente la conoscenza dei possibili eventi avversi deve guidare il clinico nell’individuare i soggetti di per sé a rischio aumentato e laddove possibile intervenire sui fattori di rischio modificabili, educare il paziente per attuare un’efficace prevenzione, garantire un adeguato follow up per l’identificazione precoce degli effetti indesiderati.

 

Discussione

Alla luce delle crescenti evidenze a favore degli SGLT2 inibitori, negli ultimi anni le società scientifiche hanno via via aggiornato linee guida e atti di indirizzo, di fatto ampliando progressivamente le indicazioni all’utilizzo di queste molecole. Secondo i nuovi Standards of Medical Care in Diabetes 2020 dell’American Diabetes Association (ADA), la metformina rimane la terapia di prima linea nel soggetto diabetico, anche nefropatico, fatte salve condizioni di intolleranza o reazioni avverse e per GFR > 30 mL/min/1.73m2. A differenza che in passato, gli SGLT2 inibitori sono indicati anche nei soggetti in cui la metformina è valsa ad ottenere un buon compenso glicometabolico, quindi anche quando HbA1c è a target. Inoltre, mentre in precedenza l’impiego di queste molecole era raccomandato in presenza di scompenso cardiaco, malattia renale cronica e/o vasculopatia aterosclerotica, adesso è sufficiente l’esistenza di fattori di rischio CV che configurino un rischio elevato. Nei diabetici con MRC gli SGLT2 inibitori sono da preferire agli agonisti di GLP-1 in considerazione delle più forti evidenze in termini di rallentamento del declino del GFR. Infatti, gli agonisti di GLP-1 hanno ridotto l’albuminuria e il rischio di endpoint renale composito, mentre gli effetti sul GFR risultano controversi [97, 98].

Poiché il vantaggio CV e renale da SGLT2 inibitori è solo in minima parte attribuibile al miglioramento del controllo glicemico, è stato ipotizzato che anche soggetti non diabetici con patologia CV e/o MRC possano beneficiare di questa terapia [42]. A sostegno di tale ipotesi, nella metanalisi di Mosenzon et al., non è stata osservata una differenza significativa negli effetti favorevoli degli SGLT2 inibitori suddividendo la popolazione in due sottogruppi per valore di HbA1c al basale superiore o inferiore al 8% [99]. In questa direzione, ha avuto inizio la sperimentazione clinica delle glifozine in setting diversi dalla cura del DM. Il DAPA-HF, primo trial con SGLT2 inibitori ad aver reclutato anche soggetti non diabetici, ha valutato l’efficacia di dapaglifozin nel trattamento dello scompenso cardiaco, in aggiunta allo standard di cura. I risultati sono stati accolti con grande entusiasmo per diverse ragioni: dapaglifozin è emersa quale potente arma terapeutica per una patologia molto diffusa e gravata da elevata morbilità e mortalità; la glifozina ha confermato il già noto ottimo profilo di sicurezza e, non ultimo, ha provato la sino ad allora solo supposta efficacia in soggetti senza DM. I risultati dettagliati dello studio hanno mostrato che, in soggetti con scompenso cardiaco in classe NYHA dalla II alla IV e ridotta frazione di eiezione, dapaglifozin ha ridotto significativamente il rischio di endpoint CV composito (ospedalizzazione o visita urgente per scompenso cardiaco e morte CV). Inoltre, l’analisi per sottogruppi ha indicato che il beneficio era indipendente dalla condizione di DM (per l’outcome primario Hazard ratio 0,75 [IC  95%; 0,63–0,90] nei diabetici e Hazard ratio 0,73 [IC 95%; 0,60–0,88] nei non diabetici). Nello studio non è stata raggiunta significatività statistica per l’endpoint renale composito, verosimilmente a causa del modesto numero di eventi renali osservati. Tuttavia, l’incidenza di eventi avversi renali era più bassa nei pazienti in dapaglifozin (1.6%) rispetto al gruppo placebo (2.7%) [88].

Parallelamente al DAPA-HF, nel febbraio 2017 è stato avviato il DAPA-CKD, un trial randomizzato, a doppio cieco, placebo-controllato, che parimenti ha reclutato sia diabetici che non diabetici. È il primo studio clinico dedicato ad esplorare l’efficacia nefroprotettiva di dapaglifozin in nefropatici anche senza DM. Inoltre, il DAPA-CKD ha arruolato individui anche con grave compromissione della funzione renale finora esclusi dagli studi (GFR 75-20 mL/min/1,73m2), in forza delle evidenze suggestive della persistenza dei benefici da SGLT2 inibitori sino agli stadi avanzati della MRC. L’endpoint primario dello studio è un composito di declino del GFR ≥50%, ESRD e morte CV o renale. Ebbene, lo sponsor ha recentemente annunciato l’interruzione anticipata del trial per manifesta superiorità del trattamento sperimentale [100]. In altre parole, un’analisi ad interim ha evidenziato la sicurezza di dapaglifozin e l’efficacia conclamata nel migliorare l’outcome renale in soggetti nefropatici anche in assenza di DM, peraltro precocemente rispetto al completamento dello studio. Gli auspicabili rilevanti risvolti nella pratica clinica nefrologica certamente giustificano il grande interesse per i risultati dettagliati, ad oggi non ancora disponibili.

Per quanto riguarda l’uso delle glifozine in nefropatici non diabetici, a nostra conoscenza, ulteriori esperienze sono attualmente limitate e su piccola scala. Pochi dati sono disponibili sul possibile impiego di SGLT2 inibitori nella glomerulosclerosi focale e segmentale (GSFS). 10 soggetti con GSFS e già in terapia massimale con inibitori del RAS sono stati trattati con dapaglifozin 10 mg/die per otto settimane. Il farmaco non ha fatto registrare variazioni significative del GFR, mentre ha ridotto significativamente l’escrezione urinaria di proteine solo nel gruppo con proteinuria basale < 1,4 g/die [101].

La MRC obesità indotta, che riconosce nell’iperfiltrazione glomerulare uno dei principali fattori patogenetici, potrebbe giovarsi dell’impiego degli SGLT2 inibitori [42, 102]. L’acetazolamide è un diuretico che agisce nel tubulo prossimale ed aumenta la natriuresi. Zingerman et al hanno suggerito che l’acetazolamide riduce l’iperfiltrazione glomerulare attivando il feedback tubulo-glomerulare, effetto condiviso con gli SGLT2 inibitori [103]. In aggiunta, come precedentemente discusso, le glifozine hanno dimostrato diversi effetti metabolici non glicemici certamente favorevoli nel soggetto obeso.

Gli SGLT2 inibitori emergono quale terapia molto promettente per l’efficacia protettiva sul rene e sul sistema cardiovascolare anche in soggetti non diabetici. A sostegno di un loro ampio utilizzo è la confermata buona tollerabilità anche nella popolazione non diabetica. Di rilievo, neppure nei normoglicemici risulta aumentato il rischio di ipoglicemia [104]. Infatti, da un lato la glicosuria è proporzionale al carico di glucosio filtrato e dunque alla glicemia, dall’altro nei non diabetici la perdita di glucosio con le urine indotta dagli SGLT2 inibitori è efficacemente compensata dalla gluconeogenesi epatica.

Oltre ché per il discusso DAPA-CKD, c’é grande attesa per i risultati degli studi in corso, che hanno reclutato non diabetici, soggetti con GFR <30 mL/min/1.73m2 e non proteinurici: DIAMOND (Effects of Dapagliflozin in Non-diabetic Patients With Proteinuria), DAPASALT (The Study Will Evaluate Average 24-hr Sodium Excretion During Dapagliflozin Treatment in Patients With Type 2 Diabetes Mellitus With Preserved or Impaired Renal Function or Non-diabetics With Impaired Renal Function), e EMPA-KIDNEY (The Study of Heart and Kidney Protection With Empagliflozin). In linea con DAPA-CKD, EMPA-KIDNEY è stato disegnato per valutare la nefroprotezione da empaglifozin, in individui diabetici e non, con GFR 45-20 mL/min/1.73m2 o GFR ≥ 45-90 mL/min/1.73m2 e UACR ≥ 200 mg/g. Questo trial randomizzato, a doppio cieco, placebo-controllato, a differenza del DAPA-CKD ha incluso anche DM1. Come già accennato, allo scopo di dirimere le questioni relative alla sicurezza, su richiesta delle agenzie regolatorie, i trial in corso sono stati disegnati per valutare gli eventi avversi e relativi fattori di rischio, di cui ad oggi sono disponibili soprattutto dati post-marketing.

Sulla scorta dei dati attualmente disponibili emerge un vantaggio degli SGLT2 inibitori non solo sul piano socio-sanitario ma anche farmacoeconomico. Se paragonato agli altri ipoglicemizzanti, il costo unitario delle glifozine è il più alto. Tuttavia, Torre ha stimato un costo diretto totale annuo di € 310 per dapaglifozin + metformina, il più vantaggioso dopo il pioglitazone rispetto agli altri antidiabetici [105, 106]. A ciò va aggiunto che il maggiore utilizzo degli SGLT2 inibitori, stando alle evidenze scientifiche, porterebbe ad un notevole risparmio della spesa sanitaria legato alla minore incidenza di ipoglicemie e morbilità CV e renale che pesantemente incidono sui costi della spesa sanitaria. In ambito nefrologico, secondo i dati di un decennio del Registro Italiano di Dialisi e Trapianto è stato stimato che in Italia tra 9500 e 10000 individui/anno iniziano il trattamento dialitico e tra 45000 e 49000 soggetti sono sottoposti regolarmente a dialisi [107]. Secondo il report ERAEDTA il 16% dei casi prevalenti è da nefropatia diabetica [9], ovvero 7840 soggetti. Nello studio CREDENCE il numero di soggetti da trattare (NNT) per evitare un evento ESRD in 2,5 anni era 43 [41]. In Italia Cicchetti et al. hanno stimato un costo medio diretto annuo/paziente della dialisi di circa € 41.000, considerando i costi dell’emodialisi (€ 43.800) e della dialisi peritoneale (€ 29.800), con una percentuale di utilizzo rispettivamente dell’80% e del 20%. Al costo diretto andrebbe aggiunto il costo indiretto. Per il trapianto renale è stato stimato un costo di € 52.000 per il primo anno e € 15000 per ogni anno successivo al primo. Sulla scorta di tali dati è stato calcolato che rallentare il peggioramento della funzione renale dallo stadio III al IV NKF-KDOQI per il 10% dei soggetti per almeno 5 anni e ritardare per un tempo analogo l’inizio della terapia sostitutiva permetterebbe un risparmio per il SSN di 2,5 miliardi di euro [108].

Nell’insieme, le attuali conoscenze suggeriscono l’opportunità di un largo impiego delle glifozine nei soggetti diabetici. Essendo ad oggi la prescrizione riservata agli specialisti diabetologi, al fine di evitare che soggetti meritevoli possano non accedere a queste terapie o farlo tardivamente, da più parti è stato richiesto di rivedere le modalità prescrittive estendendo la rimborsabilità a medici di Medicina Generale, specialisti cardiologi e nefrologici, cui quotidianamente afferiscono pazienti con DM. Tale richiesta si fa sempre più stringente alla luce dei risultati decisamente promettenti emersi dai primi trial che hanno sperimentato dapaglifozin in soggetti senza diabete e afferenti al setting assistenziale cardiologico e nefrologico. Dagli studi in corso si attende la conferma della sicurezza di queste molecole e l’ampliamento della platea dei possibili fruitori dei benefici CV e renali finora dimostrati da questi farmaci, mediante l’estensione delle indicazioni terapeutiche nel futuro più prossimo.

 

Conclusioni

Nonostante le attuali misure contro il DM, il rischio residuo di ESRD, la morbilità e la mortalità CV rimangono alti. Gli SGLT2 inibitori hanno mostrato risultati molto promettenti sugli outcome CV e renali, cui si aggiunge un buon profilo di sicurezza. L’efficacia terapeutica, la tollerabilità e i costi, assolutamente sostenibili specie se si guarda alla spesa sanitaria complessiva, supportano un ampio utilizzo di questi farmaci nella popolazione diabetica. Altresì, gli SGLT2 inibitori si candidano ad un esteso impiego anche nei non diabetici, con fattori di rischio e/o malattia CV, nefropatia a diversa eziopatogenesi e fino agli stadi più avanzati della MRC. I trial dedicati già in corso e futuri potranno chiarire se gli SGLT2 inibitori possono trovare spazio quali standard di terapia in questi soggetti, similmente ai bloccanti del RAS. Ulteriori studi sono necessari per chiarire eventuali differenze tra le molecole della classe e, nell’ambito della MRC nel DM, tra i diversi fenotipi (albuminurico e non). Gli SGLT2 inibitori costituiscono l’ennesima sfida per i clinici per la realizzazione del modello di gestione integrata e l’applicazione di percorsi diagnostici terapeutici assistenziali che conducano alla presa in carico dei pazienti con una piena integrazione tra le figure professionali, al fine di garantire l’ottimizzazione del trattamento e della gestione del follow-up.

 

 

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