Maggio Giugno 2017 - Specialità e professioni a colloquio

Paesaggi del limite nell’era della tecnicalità

Abstract

Nell’era della tecnicalità l’uomo sembra aver perso il senso e la vera dimensione del limite: esso è così divenuto un qualcosa da annientare ed un punto che bisogna spostare sempre più in avanti non solo per la curiosità umana ma anche a causa del profitto economico che regola il progresso globalizzato. In questo scenario l’Autore riflette sul senso più autentico del limite e prova a difenderlo perché la nostra identità di genere è pur fatta di limiti.

PAROLE CHIAVE: limite, umanizzazione del care, tecnicalità

Introduzione

1. Il limite

Penso spesso al limite, al suo significato ed alla sua dimensione pratica: a quante imprese l’uomo, nella sua storia millenaria, è riuscito a realizzare per il superamento dei limiti (non solo di quelli geografici); alle vite ed alle risorse impegnate in queste straordinarie imprese; a come il limite abbia stimolato l’ingegno e pungolato la curiosità umana; ai tanti insuccessi; a quale sia il suo valore o disvalore, se il limite è la conferma della finitezza umana o qualcos’altro da cui non ci possiamo liberare a patto di non riprendere la strada della metafisica o di traghettare nel post-umano viste le nuove e rischiose libertà dischiuse dal progresso delle conoscenze e dalle possibilità della tecnica (1). Se esso sia una realtà da difendere essendo parte costitutiva della nostra stessa umanità o una pericolosa zavorra da cui occorre liberarci rapidamente per non precipitare nel buio degli abissi, se il limite radicalizzi la debolezza dell’arte della cura o se esso, al contrario, conferisca al care un nuovo e più autentico orizzonte di senso. Mi chiedo, così, se il limite è una regola dal valore ampio ed incondizionato o se esso è un principio finito. Se esso è, cioè, un qualcosa il cui carattere è refrattario a qualsivoglia criterio regolativo dell’azione o, al contrario, se il limite pretenda, nella sua declinazione pratica, il rispetto di ciò che è delimitato dal principio medesimo: in altre parole, se il limite condizioni o meno la responsabilità umana posizionandosi davanti ad essa o se, invece, la pretenda, appellandola ed irrobustendola (2).

Ci ho pensato molte volte e ci penso sempre più spesso quando i Colleghi mi interpellano per trovare una risposta alle tante criticità incontrate nella pratica clinica (in quelle situazioni in cui il potere pervasivo della tecnica non corre parallelo alla dimensione dell’umano) osservando con grande preoccupazione la perdita di valori della postmodernità e le derive disumanizzanti di quella tecnicalità senza confini che ci ha oramai trasportati nell’artificialità del posthuman. Perdita e derive che, molto spesso, viaggiano assieme influenzandosi reciprocamente rafforzando la drammatica crisi che non è solo economica, avendo coinvolto anche l’etica pubblica. La cui debolezza è sotto gli occhi di tutti, non avendo la morale saputo interrogare le coscienze sul significato pratico del limite quando il processo di secolarizzazione lo ha progressivamente ed inesorabilmente delegittimato costringendolo alla clandestinità e confondendolo con i pregiudizi da abbattere (3) in una corsa sfrenata il cui dominus sembra essere oggi rappresentato dalla trasgressione.

A questo processo non si è purtroppo sottratto nemmeno il care che, almeno in Italia, ha anche risentito di alcune scelte politiche che hanno trasformato le logiche di fondo del Servizio Sanitario Nazionale, impoverendolo gradualmente. Da ciò gli inviti rivolti ai professionisti di ridurre i costi della catena produttiva, contenere gli sprechi e risanare così l’enorme deficit pubblico (che non accenna a ridursi nonostante i tagli, più o meno lineari, di ogni Legge di stabilità) contratto da una classe politica particolarmente attenta a soddisfare gli interessi degli elettori e delle lobbies degli investitori. E che ci appellano a far ripartire l’economia di un Paese che sembra aver perduto la sua tradizionale attrattività, considerato che gli interessi degli investitori guardano verso altri lidi e ad affrontare le sfide non che ci attendono ma con le quali ci stiamo già purtroppo confrontando per la transizione epidemiologica che non parte certo dall’oggi (già negli anni ’80 del secolo scorso il CENSIS aveva annunciato l’affacciarsi sul palcoscenico italiano dell’“emergenza grigia”) e per il graduale impoverimento di larghe fasce della popolazione (è di queste settimane la notizia che un italiano su quattro è a rischio di povertà e di emarginazione sociale).

A fronte di questi più o meno garbati inviti, resto però colpito dal come le molte questioni sociali di questa nostra confusa postmodernità sono affrontate con la politica degli annunci e della narrazione, venendo molto spesso banalizzate se non addirittura strumentalizzate per ragioni non sempre accessibili a chi è estraneo agli strani equilibri su cui si regge oggi, purtroppo, la nostra sempre più astenica democrazia. Quando sarebbe necessario affrontarle con rigore, sana onestà ed umano coraggio, mettendole al primo posto dell’agenda politica che non ha certo bisogno di riforme inutili e davvero poco strutturali come quella costituzionale che ha finito con il dividere il Paese, anche a rischio di perdere il consenso di qualche più o meno larga fascia dell’elettorato. Se, almeno, si vuole davvero invertire la rotta di tendenza del pensiero negativo di quegli improvvisati savant, che considerano la fragilità un lusso borghese che non ci possiamo più permettere e la sanità un carrozzone di sprechi o un luogo in cui regna sovrana l’infiltrazione mafiosa e l’organizzazione malavitosa (così il Presidente dell’Autorità anticorruzione nella Relazione in Commissione igiene e sanità del Senato). Affermazioni dure, non smentite, che provocano disgusto ed amarezza. Che giungono al loro massimo espressivo quando si deve prendere atto della colpevole latitanza dal dibattito dei professionisti i quali si posizionano, spesso, ai suoi lati con una marginalità disarmante interrotta dai rarissimi interventi pubblici dei pochi di noi che hanno ancora il coraggio di denunciare le molte violazioni, i tanti diritti annunciati e spesso negati, le vere e proprie emergenze sociali che attendono una risposta concreta, le insufficienze, i conflitti di interesse che pur esistono al nostro interno e di indicare la strada che dobbiamo seguire senza perdere altro tempo prezioso per uscire da quelle empasses che hanno trasformato la crisi economica in una vera e propria emergenza sociale.

Questo è lo scenario generale che ci stimola ad un confronto serio con il limite per provare a dare ad esso un volto espressivo ed un significato pratico. Che mi propongo qui di affrontare con l’avvertenza che ciò richiederà di esplorare alcuni altri luoghi prima di indicare quali sono i criteri che possono contribuire a dare ad esso una dimensione nuova, positiva e dal carattere sostanzialmente umano.

 

2. Primo luogo: il care

Senza ricorrere al lessico giuridico e alle non sempre esplicite obbligazioni sottese al contratto, a me pare che la mètafora che meglio è in grado di rappresentare la relazione di cura è quella di un trafficatissimo crocevia di una grande città metropolitana in cui la circolazione veicolare non è guidata né dalle convenzioni sociali, né dalla simbologia della segnaletica stradale, né dalle lanterne semaforiche.

L’ingorgo è amplificato dal fatto che i veicoli che si immettono in questo più o meno ampio spazio portano targhe identificative tra loro molto diverse: non solo quella degli attori principali (la persona ed il medico) ma anche la targa del team di cura, delle diverse categorie professionali in esso rappresentate, dei familiari della persona, della rete amicale, delle diverse organizzazioni di rappresentanza dei cittadini, delle organizzazioni sanitarie e, più in generale, della società civile vista la posizione di garanzia che l’ordinamento affida ancora al medico. Si tratta, quindi, di un crocevia molto trafficato in cui non si relazionano due soli principali protagonisti come si continua a credere quando si discute di alleanza terapeutica, visto che il traffico veicolare è sostenuto con la conseguenza che molti sono gli ingorghi, le barriere e le intersezioni, dirette ed indirette, personali e mediate, reali e simboliche, organizzative e soggettive; mai statiche, ma sempre dinamiche, i cui salti, discontinuità ed interruzioni non dipendono certo dal solo grado delle conoscenze e dalle abilità del professionista ma dall’avvenuta costituzionalizzazione ed internazionalizzazione dei diritti inviolabili della persona sanciti dai multilevel dell’ordinamento e da molti altri interessi legittimi. Richiamo chi può esprimere il suo scetticismo sul ruolo assunto, ad es., dall’efficientamento della nostra sanità che ha gradualmente spinto il pedale dell’acceleratore sulla standardizzazione di ogni processo di cura per migliorare, a parità di costi, la performance dei servizi e sui perversi meccanismi premianti esistenti dentro il sistema per sottolineare il loro ruolo non certo secondario in quell’ingorgo metropolitano.

Tornerò tra un attimo su questo aspetto.

Per ora mi limito a sottolineare la complessità, la fluidità ed il dinamismo del care: un trafficato, complesso, non disciplinato e pericoloso crocevia in cui si devono pur incontrare autonomie, istanze e responsabilità provenienti da luoghi e protagonisti diversi, portatori di interessi davvero ampi, eterogenei, non sempre sovrapponibili, spesso antitetici nonostante la loro legittimità. Al di là delle mètafore, il care è così un luogo ed un tempo non certo virtuale in cui si incontrano libertà diverse oltre a diritti e doveri altrettanto diversi, scossi e messi in tensione dai suoi paradigmi fondanti, la cui crisi è indiscutibile e sotto gli occhi di tutti.

 

3. Secondo luogo: la crisi dei suoi paradigmi fondanti

Sarebbe un gravissimo ed imperdonabile errore non ammettere che abbiamo un reale problema interno al mondo professionale, in cui convivono modelli antropologici tra loro molto diversi e dei quali non abbiamo saputo o voluto riconoscere i pregi ed i difetti, l’arretratezza, le possibilità e le tante insufficienze.

Abbiamo molto criticato il paternalismo medico e molti di noi hanno puntato sull’autonomia della persona che è oggi l’antropologia dominante, essendo stata calata in tempi recenti nella nostra tradizione millenaria dalla cultura giuridica che ha voluto dare un giusto peso ai diritti inviolabili della persona umana. E’ così che il consenso libero ed informato è diventato il dominus o la trave portante del care al punto tale che la sua violazione, indipendentemente dall’esito della condotta, è considerata dalla giurisprudenza di legittimità una condotta antigiuridica, sempre e comunque sanzionabile sul piano civilistico. Il paternalismo medico è così divenuto il nostro peccato originale che ha aperto la porta alla nostra condanna eterna, anche se questa idea non spiega perché questo modello antropologico ha condizionato positivamente la nostra tradizione per un periodo di tempo certo non breve. Di essa ne sono stati ripetutamente enfatizzati i soli difetti, quando mi ostino a ricordare che il caring del paternalismo era molto potente e che era proprio grazie ad esso che il medico veniva ad assumere su di sé il ruolo di quella sostituzione vicaria grazie al quale il figlio minore non ancora emancipato veniva preso e portato amorevolmente sulle spalle.

Per non correre il rischio di essere frainteso, devo riconoscere che la mia intenzione non è certo quella di risuscitare dal sonno eterno il paternalismo medico, essendo convinto che questo modello antropologico non è più nelle condizioni di reggere il passo con i tempi di una modernità sempre più liquida, informatizzata, veloce e globalizzata. Anche se devo evidenziare i limiti e le altrettante insufficienza dell’autonomia che, se pur riconosce il libero arbitrio della persona come il baricentro della relazione di cura, altro non fa che spostare l’asse delle solitudini e le asimmetrie relazionali: che nel paternalismo erano concentrate sul medico quando l’autonomia le sposta, invece, sulla persona, sia pur dopo la sua previa informazione. Perché se è pur vero che il paternalismo spostava sempre l’ago della bilancia nella direzione del professionista pur nobilitato dalle esigenze connaturate al buon padre di famiglia, vero è altrettanto che l’autonomia assolutizza il ruolo della persona al punto tale da trasformare il professionista in una più o meno neutrale emittente di informazioni ed in un mero realizzatore di scelte altrui, maturate dalla persona in completa indipendenza ed in piena solitudine. Con la conseguenza che le simbologie che dovrebbero in qualche modo disciplinare il nostro ingresso nel trafficatissimo crocevia del care dimostrano i loro grossolani limiti, perché se è vero che il paternalismo funzionava da vero e proprio timer della lanterna semaforica vero è, altrettanto, che l’autonomia ne ha solo spostato la tempistica dell’alternanza dei colori senza però risolvere la questione di fondo: che resta quella di dare al care un significato genuino provando a risolvere le asimmetrie e a comporle in forma coerente proprio a partire dalla questione dei suoi limiti. Che dobbiamo rappresentare non già negli insuccessi o nelle ancora tante insufficienze della cura, ma nei luoghi e negli spazi che essa non può e non deve responsabilmente valicare a patto di voler continuare a conferire ad essa uno statuto umano senza cedere alle lusinghe ed alla pervasività della tecnicalità.

 

4. Terzo luogo: l’umanizzazione del care

Parto da una considerazione probabilmente banale perché l’esigenza avvertita da tanti di (ri)umanizzare la cura sembra ammettere l’esistenza del suo contrario: cioè che la sua disumanizzazione non sia un fantasma, ma una realtà concreta anche se non è agevole individuarne le cause e, soprattutto, se essa sia un derivato della tecnica, il prodotto dell’attuale organizzazione sanitaria o la conferma più o meno esplicita della deriva del sapere scientifico.

La tecnica ed il progresso delle conoscenze hanno sicuramente modificato l’esercizio dell’arte della cura divenuto prevalentemente tecnologico, essendo sempre più affidato a strumenti diagnostici e a tecnologie intelligenti che hanno messo in secondo piano il tradizionale modello scientifico basato sui segni, sui sintomi e sui dati che potevamo apprendere dall’esame diretto della persona. Che si è gradualmente ridotto nei tempi dedicati all’osservazione essendosi parallelamente dilatati quelli della fredda tecnica diagnostica affidata ai dispositivi medicali sempre più sofisticati al punto tale che l’overdiagnosis e l’overtreatment sono divenuti gli snodi più critici della medicina moderna. Le straordinarie potenzialità della tecnica si sono così sostituite all’ingegno, alla sensibilità e all’esperienza clinica che viveva sulla raccolta anamnestica, sull’osservazione diretta del malato, sulla raccolta semeiologica e sulla diagnosi differenziale. La TAC, la RMN, la fMRI e la PET sono così divenute in pochi decenni misure diagnostiche ordinarie capaci di risolvere, fin da subito, quei conflitti diagnostici che richiedevano fino a non molti decenni fa di essere confutati per poter poi giungere alla diagnosi clinica: queste opzioni diagnostiche hanno così sostituito le nostre capacità sensoriali (vista, udito, tatto ed olfatto) che si sono gradualmente avvizzite anche a causa della super-specializzazione medica che porta il professionista a guardare all’organo malato dimenticando che questo qualcosa è sempre parte di qualcuno.

Oltre alla tecnica è però anche radicalmente mutato l’assetto organizzativo della sanità pubblica in cui hanno messo radici le logiche economico-produttive dell’industria manifatturiera che hanno trasformato il medico in un funzionario cui si chiede di garantire l’efficienza dei processi e la performance numerica. Anche a causa di quei perversi meccanismi premianti particolarmente attenti ai costi di produzione ed alla quantità dei pezzi prodotti spesso selezionando i DRG economicamente più favorevoli come avviene nella sanità privata, dimenticando che tutti gli attori della relazione non sono macchine ma persone in senso pieno. E che l’umanità del care non può essere condizionata dai soli tempi dell’efficienza produttiva inseguita da quei management che compongono gli agguerriti Centri di controllo e gestione aziendali presidiati da personaggi senza nessuna competenza clinica: perché essa richiede tempi dedicati non sempre standardizzabili, luoghi adeguati che non abbiamo quasi mai a disposizione e professionisti motivati a vivere la vita professionale come una straordinaria opportunità di crescita anche umana. Continuando a credere che vita personale e vita lavorativa non corrono mai su due piani distinti e che essere un buon professionista richiede sempre una forte solidità umana.

Dobbiamo peraltro riconoscere che sono molte le fonti da cui ci vengono rivolte le critiche sferzanti e gli inviti pressanti. Per lo più esse giungono dalle Organizzazioni di rappresentanza dei cittadini, dai management aziendali e dai rappresentanti delle istituzioni che si stanno facendo promotori delle istanze della persona che vive le sempre più complesse esperienze di cura; molto più raramente esse sono però un’esigenza espressa al nostro interno a dimostrazione degli ampi biases che esistono tra le dinamiche politico-sociali e quelle professionali. Esse sono da noi spesso affrontate con sufficienza, pigrizia ed indolenza, provocando, in qualche caso, un sussulto di incredulità, di imbarazzo, di frustrazione se non addirittura di risentimento. Ritenendo di non meritarci le critiche di chi ci richiama all’ordine chiedendoci di correggere le tante forme di disumanità della tecnica; di non essere noi i colpevoli delle perverse dinamiche performanti della sanità pubblica italiana che – nostro malgrado – hanno alla fine disumanizzato la cura e che ogni possibile intervento correttivo non è una priorità che merita un nostro particolare impegno, vista la sempre più profonda crisi del Servizio sanitario nazionale e dei suoi stessi principi informatori (l’uguaglianza e l’universalità). E’ come se, messi di fronte ad una critica che non riguarda certo la competenza tecnica, la nostra reazione è quella di ripiegarci, di richiuderci su noi stessi e di appallottolarci seguendo il rito di sopravvivenza dell’istrice, senza sforzarci di capire quali sono le sue ragioni profonde, i suoi perché ed il suo obiettivo generale: che, correggendo l’impostazione originale che si coglie nell’attuale confuso dibattito, è quello di riprendere la strada perduta dell’umanesimo (senza però confondere quest’esigenza con quella di migliorare il confort alberghiero, l’accessibilità ai servizi, la trasparenza e la semplificazione amministrativa). Continuando a credere che l’umanità di cui stiamo parlando è la capacità di tessere relazioni personali solide, rispettose e mature che, a partire dal riconoscimento reciproco, devono produrre alleanze fondate sul rispetto reciproco e sulla dignità umana.

Senza cedere alle ipocrisie della retorica, dobbiamo tuttavia chiederci quale sia il reale obiettivo sotteso all’esigenza di (ri) umanizzare il care.

Dobbiamo chiedercelo al di là degli slogan che colorano quest’esigenza, spostando però la prua della discussione verso altri lidi: associandola (confondendola) con la presa in carico, con l’esigenza di mettere al centro dei processi la persona ed i suoi bisogni, con la loro multidimensionalità, con la persona prima di tutto, con l’idea dei Punti unici di accesso (PUA), delle Unità valutative multidisciplinari (UVM), dei Percorsi diagnostico-terapeutici (PDTA), con l’integrazione Ospedale-territorio, la centralità dell’assistenza primaria, i Piani e gli Obiettivi strategici… e chi più ne ha più ne metta in quel confuso e stucchevole ‘bla bla bla’ degli annunci poco produttivi agli effetti pratici. L’umanizzazione è così diventata uno stereotipo o un luogo comune anche se dal forte trasformismo assumendo forme e prospettive diverse delle quali, spesso, non riusciamo a comprendere le reali intenzioni: quasi una parola magica dotata di forte seduzione o il filo di Arianna capace di interconnettere quei linguaggi organizzativi degli improvvisati savant che, spesso, finiscono con il tradirla, burocratizzando ulteriormente la relazione di cura.

Ma cosa significa davvero umanizzare la cura?

Possiamo affrontare la questione da più punti di vista che aprono all’idea che la disumanizzazione ha molte cause non potendo essere imputata solo a noi.

Se ci concentriamo su quello normativo, occorre osservare che il tema dell’umanizzazione è recentissimo: esso è stato da poco inserito tra gli obiettivi del Servizio sanitario nazionale. La qual cosa è avvenuta nel Patto per la salute 2014-2016 in cui si afferma che “nel rispetto della centralità della persona nella sua interezza fisica, psicologica e sociale, le Regioni e le Province Autonome si impegnano ad attuare interventi di umanizzazione in ambito sanitario che coinvolgano aspetti strutturali, organizzativi e relazionali dell’assistenza” dovendo esse predisporre “un programma annuale di umanizzazione delle cure che comprenda la definizione di un’attività progettuale in tema di formazione del personale e un’attività progettuale in tema di cambiamento organizzativo” indirizzato soprattutto all’Area critica, alla Pediatria, alla Comunicazione, all’Oncologia e all’Assistenza domiciliare. Nel Patto si conferma così l’esigenza di riposizionare il malato al centro di ogni processo di cura, dovendolo considerare come persona in senso pieno senza mai trascurare i suoi vissuti interiori, i suoi sentimenti, le sue conoscenze, le sue credenze e la sua stessa idea di dignità.

In questa direzione l’Agenzia regionale per i Servizi sanitari regionali, con la collaborazione dell’Agenzia di valutazione civica di Cittadinanza attiva, ha anche pensato di dare all’umanizzazione una misura. L’indagine ha riguardato quattro aree: (1) i processi assistenziali e organizzativi orientati al rispetto ed alla specificità della persona; (2) l’accessibilità fisica, la vivibilità e il comfort dei luoghi di cura; (3) l’accesso alle informazioni, la semplificazione e la trasparenza; (4) la qualità della relazione con il paziente-cittadino.

I giudizi sono stati poi elaborati sulla base di 144 item inseriti nella check-list per la valutazione partecipata ed è stata utilizzata, come metro di valutazione, una scala di punteggio da 0 a 10.

Ecco alcuni valori medi emersi da questa indagine: 6,45 per i processi assistenziali e organizzativi orientati al rispetto e alla specificità della persona; 6,93 per l’accessibilità fisica dei disabili motori, la vivibilità ed il comfort dei luoghi di cura; 6,13 per l’accesso alle informazioni, per la semplificazione e la trasparenza; 6,36 per la cura della relazione.

Molte carenze sono state, invece, rilevate riguardo all’attivazione di corsi di formazione sulla comunicazione clinica e/o sulla relazione di aiuto per gli infermieri (3,18) e per i medici (2,75).

Pur senza mettere in discussione i meriti di quest’indagine, occorre chiedersi se l’umanizzazione della cura può essere misurata con questi indicatori o se era invece necessario esplorarne altri, più sensibili e più specifici. Mi chiedo, in altre parole, se l’umanizzazione è questa e se la questione della disumanizzazione riconosca i suoi determinanti nell’avvenuto efficientamento della sanità pubblica italiana o se essa sia invece da imputare ai sistemi professionali: in altre parole se essa sia il prodotto della trasformazione delle organizzazioni o se esso sia l’esito dell’entrata in crisi dei paradigmi di cura.

Sicuramente c’è un problema di assetto complessivo dei servizi sanitari pubblici che, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, sono andati incontro ad una rapida trasformazione delle loro dinamiche generali oggi affidate ai management aziendali ed alle logiche delle industrie manifatturiere che hanno provato a reggere il passo con la sostenibilità dei costi, che hanno privilegiato l’efficienza performante senza però intervenire sui bisogni di salute della popolazione e trasformato il medico in un funzionario rigoroso, molto concentrato sul rispetto della proceduralizzazione esasperata di ogni processo di cura definito con l’obiettivo di standardizzarne tempi e costi. Con la conseguenza che anche il nostro sapere scientifico è stato invaso pervasivamente da protocolli, standard, procedure, guidelines, bestpractice, PDTA e traghettato verso l’astrazione procedurale alla quale ci siamo pigramente o cinicamente adattati anche perché molti di noi sono montati in sella a questo sauro vincente, alle sue logiche di fondo ed ai suoi meccanismi premianti.

Ben sapendo che queste logiche non considerano la variabilità fenotipica di ogni malattia, che esse annullano le biografie ed i vissuti personali contenendoli in figure astratte e che i tempi ed i luoghi della cura sono ben altra cosa rispetto alla standardizzazione procedurale dell’efficientamento produttivo.

 

5. Il senso del limite

Se proviamo ora a dare un senso ed un volto espressivo al limite dobbiamo fin da subito segnalare il suo ampio spettro linguistico: il limite (dal latino limitem) esprime, infatti, l’idea di un punto, di un luogo, di un’area o di un qualcosa che non bisogna o che non è possibile superare. Esso esprime però anche altre (non sovrapponibili) idee: quella di un’imperfezione o di un difetto, il grado estremo, la quantità massima possibile consentita, un oggetto o un qualcosa che segna un confine o, in matematica, il valore a cui una funzione tende quando la variabile indipendente è un valore finito.

Per l’obiettivo che mi sono proposto, il limite è però la rappresentazione dei contenuti naturali della persona umana, delle nostre attività pratiche o di prospettive sulle quali la comunità è giunta ad un accordo di massima per garantire l’ordinato vivere collettivo e per la stessa tenuta della socialità: i divieti ed i doveri imposti dall’ordinamento giuridico rappresentano così un limite alla nostra libertà ma limite è anche un qualcosa che è umanamente arduo superare anche se la storia del progresso dimostra il loro graduale e progressivo spostamento in avanti a storicizzare altri limiti originariamente neppure immaginabili (non solo geografici se pensiamo, ad es., alla velocità con cui vengono abbattuti, ci si augura senza l’aiuto della chimica, i record dello sport agonistico).

Il limite non deve essere però confuso con il confine perché questi due termini esprimono idee non sovrapponibili: il limite è, infatti, il luogo che delimita positivamente una quantità (l’esempio è quello della superficie che, essendo limite di uno spazio fisico, è essa stessa uno spazio) mentre il confine è una limitazione in negativo di una grandezza, priva di effettiva completezza. Il limite divide, determina i due ambiti, ma ne è anche parte; il confine, invece, limita e circoscrive (4). Se il confine è una divisione di due o più elementi tra loro in relazione, il limite è ciò che non rimanda ad altro, è il determinato non ulteriormente incrementabile e assoluto, perché in sé non in relazione con altro. Se volessimo fare a meno dei confini, che individuano un certo oggetto, che lo determinano mettendolo però al contempo in dialogo con la realtà da cui si distingue, potremmo così pensare ai singoli oggetti della nostra conoscenza come definiti da limiti assoluti e non da confini, cioè in altre parole prendere in considerazione l’oggetto singolare senza alcun rimando ad altro, in senso assoluto. Questo modo di pensare, tuttavia, non è concreto perché l’imposizione forzata dei limiti a ciò che invece obbedisce alla sola regola dei confini ci porterebbe a far diventare astratto ciò che è invece reale e concreto: come è il care che ci interroga spesso sul senso e sul significato del limite e su quali sono i territori in cui la tecnicalità deve responsabilmente interrogarsi prima di proiettarsi in questi spazi.

A tradizione e tutta la nostra storia sono contraddistinte da confini e da limiti: i limiti ci circondano e ci condizionano sotto ogni aspetto anche se l’essere umano, rispetto all’animale, non è istintivamente condizionato dai soli bisogni fisiologici che pur continuano ad esistere perché le persone che nel mondo mancano di beni primari (acqua e cibo) hanno superato il miliardo di unità. Peraltro, se questi ultimi limiti hanno una loro intrinseca struttura costitutiva (che definisce la nostra stessa naturalità), tutti gli altri limiti sono invece fluidi e mobili come dimostra la storia dell’uomo. Quest’ultima testimonia come i limiti siano stati oggetti ad un graduale annientamento ed il loro progressivo spostamento in avanti verso orizzonti straordinari che sono arrivati ad occupare anche gli spazi infinitesimali dell’antimateria (o del non essere). È come se il limite ci avesse sfidati in una lunga ed estenuante lotta che ha portato il progresso ad ottenere straordinarie vittorie e ad un confronto aspro con i limiti successivi al punto tale che il posthuman non sembra più essere l’ultima spiaggia su cui può definitivamente infrangersi l’idea di limite. Ogni superamento di un qualche limite ha, infatti, spostato il nostro interesse verso altri limiti non solo per la curiosità dell’uomo ma anche per la spinta propulsiva esercitata dal profitto economico e commerciale. Senza dimenticare i condizionamenti a doppio binario esercitati da questi ultimi sui limiti perché se è vero che il mercato spinge di regola verso il loro superamento, vero è altrettanto l’influsso opposto che lo può sempre strumentalizzare per altri obiettivi (così, ad es., i Cartaginesi che facevano credere, con la forza del mito, che lo stretto di Gibilterra era la fine del mondo per mantenere saldo il loro monopolio commerciale con chi abitava al di là di esso ed il commercio del rame). Stranezze e bizzarrie che non hanno però perso la loro attualità se pensiamo a come gli interessi petroliferi stanno condizionando la progettazione di veicoli mossi dall’energia elettrica o da quella convertibile accessibili a tutti nel prezzo o al come quelli dell’industria farmaceutica abbiano focalizzato la ricerca sulla messa in commercio di farmaci antineoplastici, abbandonando però altri non più promettenti settori di ricerca divenuti così orfani. È così che molti dei limiti che pur continuano ad esistere sono stati spostati ai margini, se non addirittura collocati nella dimensione della clandestinità per ragioni di mero profitto e, accanto a quelli che compongono il nostro mondo professionale, chissà quanti altri ne esistono. Eppure non è questa la questione principale su cui occorre riflettere perchè a mio modo di vedere, servirebbe trovare un accordo di massima sulla scelta dei criteri sulla base dei quali considerare prioritario il rispetto del limite ed eticamente illegittimo il suo superamento. Il potere della tecnica ha infatti aperto la strada a nuove inquietanti opzioni e libertà: quella, ad es., di essere concepiti artificialmente attraverso più madri con le tecniche di procreazione medicalmente assistita; di intervenire sulle nostre caratteristiche genetiche; di cambiare sesso; di essere risuscitati; di sostituire organi o tessuti; di potenziare la nostra performance cognitiva e fisica; di essere prolungatamente mantenuti in vita con le misure di sostegno vitale anche quando le funzioni dell’encefalo sono state irreversibilmente compromesse e di essere addirittura crioconservati (5).

È così che la finitezza umana ha superato molti dei suoi limiti, anche se la morte resta ancora il limite estremo che la scienza non ha ancora sconfitto. Ciononostante, la domanda che ci dobbiamo porre è se queste opzioni siano un traguardo straordinario raggiunto dall’ingegno umano o se esse aprano invece inediti scenari di rischio (già si accenna all’idea di body shop in cui sarà possibile, naturalmente a chi di noi ne avrà la possibilità economica, di acquistare parti di ricambio del nostro corpo, se non di essere addirittura crioconservati in attesa che le cellule staminali totipotenti diano una soluzione alla finitezza umana) se non per la nostra futura sopravvivenza per la conservazione della nostra identità di genere.

Il limite è così diventato il punto centrale di ogni discorso che verte sul care, per coglierne le sue dinamiche attuali spesso banalizzate nell’esigenza di procedere alla sua riumanizzazione.

 

6. Il valore pratico dell’internet

Se il care è un trafficato e pericoloso crocevia in cui si incontrano istanze, autonomie e responsabilità tra loro molto diverse, dobbiamo ora chiederci quale è il faro segnaletico cui dobbiamo guardare con rinnovato coraggio e fiducia per governare in qualche maniera i nuovi rischiosi spazi di libertà aperti dalla tecnica. Lo individuo nel Codice di deontologia medica, non solo nel suo detto ma soprattutto nel suo non-detto riflessivo che ci invita a non assumere mai principi assoluti e a guardare prudentemente alle conseguenze dell’agire: è proprio guardando ad esse che si agisce in vista di un bene ritenuto maggiore o di un male minore, anche a costo di tradire l’ideale.

Diversamente dall’etica dei principi, l’etica della responsabilità non perde così mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze dell’agire: quest’etica si esprime, quindi, nella vita sociale, considerando sempre le possibili conseguenze delle nostre azioni sulla base del principio dell’agire razionale rispetto allo scopo. Preoccupandosi così sempre delle loro ricadute con un agire pratico che sa costantemente guardare all’impatto di ciò che si fa e prendendo in considerazione tutte le conseguenze, scegliendo in funzione di quelle migliori o ‘meno’ peggiori.

Senza banalizzare, indico in alcune coordinate-basi lo sviluppo pratico del rispetto del limite:

(a)  la capacità di saper pensare autonomamente e di mantenere quel dialogo tra sé e sé che sa sempre considerare gli altri nel nostro orizzonte di pensiero;

(b)  la sostituzione vicaria (quando ciò sia richiesto a tutela della dignità della persona umana nell’ipotesi in cui la stessa non è più nelle condizioni di poter esprimere la sua voce) con due limiti assoluti individuati dal Codice nell’accanimento e nell’eutanasia;

(c)   l’adeguatezza al piano di realtà (la storia in cui viviamo);

(d)  la disponibilità all’assunzione di una colpa;

(e)  l’attenzione costante agli interessi delle generazioni future (sostenibilità) disattendendo, se necessario, ogni disciplina tossica o inquinante.

La capacità di pensare prelude alla saggezza pratica che dobbiamo considerare come la nostra capacità di considerare preminente il rispetto dell’altro ed il suo riconoscimento. Riconoscere significa individuare, identificare, distinguere: significa, cioè, comprendere l’umanità di cui è portatrice la persona, la sua struttura biografica, i suoi valori, la sua storia, le sue promesse e riconoscere il suo volto che ci apre alla vera ed autentica responsabilità; significa, infine, dare storicità al limite inserendolo in un contesto concreto e reale che richiede di misurarsi con l’Altro.

La sostituzione vicaria si sviluppa pienamente nella dedizione che offriamo agli altri in termini gratuiti, generosi, misericordiosi. Senza dimenticare che possiamo tradirla in due modi: o affermando in maniera assoluta la nostra volontà di potenza, come fa il paternalismo medico e gli stili educativi basati sempre sul ‘no’ o, al contrario, dando enfasi agli altri al punto tale da annullare noi stessi, come potrebbe avvenire nelle ipotesi di provocare intenzionalmente la morte, sia pur su richiesta della persona. Nella prima ipotesi il rapporto della responsabilità porta alla violenza e alla tirannia, come accade in ogni forma di accanimento diagnostico o terapeutico; mentre nel secondo caso il trasformare come assoluto il bene dell’altro finisce con il disattendere ogni altra nostra responsabilità. Trasformandola in un idolo quand’essa deve continuare ad essere una prassi che si propone di realizzare qualcosa di relativamente migliore rispetto ad un qualcosa di relativamente peggiore.

Adeguarsi alla storia ed al piano di realtà significa riconoscere che il comportamento etico non è stabilito in partenza ed una volta per tutte, ma che nasce con la situazione data. Questo comporta una presa di coscienza della realtà concreta, delle sue laceranti contraddizioni, dei bisogni che la percorrono, dei diritti affermati ma spesso negati. Assumendoci le nostre personali responsabilità senza mai rinunciare a verificare i motivi, le intenzioni ed il senso del nostro agire, soprattutto quando quest’ultimo non sia predeterminato dalla legge scritta. Sarebbe, infatti, troppo facile se la scelta etica restasse condizionata dall’esterno e se il nostro comportamento fosse assunto solo per evitare le sanzioni dell’ordinamento; senza rischio non c’è nessuna autentica responsabilità, anche se la sua assunzione non deve essere mai agita in spregio dell’organizzazione e senza il rispetto di quelle regole cautelari che si impongono in ogni organizzazione complessa.

C’è, tuttavia, un’ulteriore dimensione dell’etica del limite che dobbiamo tenere in considerazione: quella della solidarietà tra le generazioni che anticipa la difesa della dignità umana. Sono, infatti, convinto, che ogni nostro gesto, ogni nostra azione ed ogni nostro contenuto debba saper guardare al futuro, ai nostri figli, ai nostri nipoti ed alle generazioni che verranno dopo di noi considerando il limite non già come un ostacolo ma come una straordinaria opportunità per salvaguardare la nostra stessa identità di genere. Che assume la finitezza come la strada che sa interpretare realmente in che cosa consista la dignità dell’essere umano che non un diritto che si affianca agli altri diritti o un super-diritto fungendo da centro regolatore di ciò che realmente siamo.

 

7. Una breve conclusione

Mi auguro non sia mal interpretata la mia difesa del limite, che non vuol dire né rinunciare, né tantomeno lavarsi le mani dalle inquietudini moderne ma provare a governare, con sana e prudente umanità, le nuove rischiose libertà che si dischiuderanno sempre di più in questa nostra epoca post-secolare. Riscoprire il senso del limite non è una questione banale su cui può essere fondata una morale più o meno sufficiente, né un disimpegno, perché è molto più semplice trasgredire il limite che rispettarlo. Rispettarlo significa, infatti, l’assunzione di una forte dose di responsabilità che richiede prudenza e mitezza che ci aprono non solo a noi stessi ma soprattutto al rispetto degli altri, alla tolleranza, alla generosità, alla beneficialità, alla reciprocità ed alla solidarietà umana. Essendo l’opposto dell’arroganza che dobbiamo rappresentare come quell’opinione esagerata che molti di noi hanno di loro stessi, che viene di regola usata per la sopraffazione degli altri e che non va confusa né con la pigrizia, né con l’arrendevolezza.

Essere miti, prudenti e rispettosi del limite non significa essere però rinunciatari e tenere le cose che non vanno dentro di noi perché il costume italico della lagnanza continua e la ruminazione mentale non serve a nessuno. Richiamandoci ad essere sempre coerenti con noi stessi, a non lanciare il sasso per poi nascondere la mano, a fermarci quando ciò è necessario, a segnalare pubblicamente le discriminazioni, le ingiustizie, le disequità, le molte forme di povertà e gli sfruttamenti che non possiamo più accettare passivamente ritenendoli sempre colpa di altri. Mai però per un nostro scopo o interesse personale, sapendo mettere da parte la superbia che è un segno esplicito della debolezza umana, l’egoismo e la voglia di emergere.

Non si è mai umani quando si vuole emergere, anche se una certa dose di cocciutaggine e la perseveranza non sono mai un disvalore ed un qualcosa cui guardare con disprezzo; lo si è, invece, quando la dignità dell’essere umano ed il buono sono le coordinate che sanno essere la guida alla nostra carta nautica.

Senza mai dimenticare che la misericordia è l’espressione pratica della giustizia (anche) umana e che il rispetto della dignità della persona è il perno che aziona a giusti giri il nostro motore; e che essa esprime il significato più autentico che ci è concesso per dare un senso compiuto alla nostra vita umana e professionale senza mai dimenticare, soprattutto nei momenti di scoramento (personalmente ne vivo molti), che solo chi è misericordioso sarà degno di misericordia.

Certo, il nostro è un tempo in cui non riusciamo più a percepire il senso e la funzione del limite annunciata da Nietzsche (6) o all’evaporazione del Padre di cui parla Lacan (7) che ha così sintetizzato la dissoluzione di tutte le figure autorevoli avvenuta con la modernità. Il limite è stato così estromesso dalla nostra vita ed è stato delegittimato, annientato e costretto ad entrare nella clandestinità sotto la spinta dell’allargamento del ventaglio delle tante trasgressioni modern che mirano al suo superamento ed al piacere senza alcuna apertura verso gli altri, senza avvertire il bisogno di un particolare investimento sul piano personale. Con una fugacità che è diventata paradossale in un tempo senza più limiti, globalizzato ed estremamente rapido, che sembra essere dominato dalla noia e dalla monotonia frustrante di non sentirci più parte di noi stessi. E dal non-impegno pubblico perché il superamento continuo del limite non ci fa certo riflettere sul senso e sul significato più autentico della vita che ci sprona a trovare un consenso di massima su quali sono i criteri che distinguono gli ostacoli che è lecito superare da quelli che fanno parte della nostra stessa natura umana.

Criteri che vanno condivisi anche relativamente al care proprio perché la tecnicalità rischia di trasformare la nostra stessa umanità trasferendola nel postumano, in un regno dominato da macchine performanti sufficienti a se stesse che hanno però il grande difetto del non-pensiero affettivo o emozionale: un rischio concreto, attuale, che sarebbe imperdonabile ed irresponsabile eludere a patto che si voglia ancora dare un destino sostenibile all’umanità che proclamiamo spesso a voce ma che poi tradiamo nei fatti. A fronte del quale i professionisti si devono interrogare non già per arrendersi al limite, quanto per riscoprirne il senso e la funzione. Perché è proprio il limite che dà un senso alla vita e che chiude le porte alle nuove e rischiose libertà che nulla hanno a che fare con lo stadio dell’umano e con la stessa dignità dell’uomo. Che dobbiamo difendere a tutti i costi difendendo l’idea che il limite “è il primo termine al di là del quale non è possibile cogliere nulla che appartenga a quella cosa, e il primo termine entro il quale sta tutto ciò che appartiene alla cosa in questione” (8).

 

Bibliografia

  1. Habermas J. (2002), Il futuro della natura umana. I rischi di un’eugenetica liberale, Torino.
  2. Weber M. (2001), La scienza come professione. La politica come professione, Torino.
  3. Bodei R. (2016), Limite, Bologna.
  4. Gentile A. (2004), Ai confini della ragione. La nozione di limite nella filosofia trascendentale di Kant,
  5. Dopo la sentenza dell’Alta Corte di Londra che ha autorizzato la criogenesi di una ragazza di 14 anni malata di tumore la quale, con il parere non convergente dei due genitori separati da tempo, aveva di suo pugno chiesto di avere una chances ulteriore, è notizia recente, ripresa dai media, che 377 corpi sono stati crioconservati da alcune Società che operano in tutto il mondo e che offrono  anche il servizio di trasporto con un costo complessivo di circa 200 mila dollari. Oltre ai pazienti già congelati, altre 2 mila persone (tra cui otto italiani) hanno però già stipulato un contratto per essere ibernate dopo la morte..
  6. Nietzssche F. (1999), La gaia scienza, Milano.
  7. Lacan J. (2005), I complessi familiari nella formazione dell’individuo. Saggio di analisi di una funzione in psicologia, Torino.
  8. Aristotele (2014), Metafisica, Milano