Tolvaptan nei pazienti affetti da malattia del rene policistico autosomico dominante: l’esperienza di Vicenza, dalle linee guida alla pratica clinica

Abstract

La malattia del rene policistico autosomico dominante (ADPKD) è una patologia renale ereditaria e rappresenta il 10% delle cause di insufficienza renale terminale. Fino ad alcuni anni fa non erano disponibili terapie specifiche e il trattamento si avvaleva soltanto di misure preventive, utili a rallentare lo sviluppo dell’uremia. Nel 2012 è stato pubblicato lo studio TEMPO 3:4 che ha portato all’approvazione del tolvaptan per “rallentare la progressione dell’insufficienza renale nei pazienti adulti affetti da ADPKD, con insufficienza renale cronica stadio 1-3 ed evidenza di malattia rapidamente progressiva”.

In Italia il tolvaptan è prescrivibile dal 2016 e rimborsabile dal 2017. Ad aprile 2020 la rimborsabilità è stata estesa anche all’ insufficienza renale cronica stadio 4 iniziale (GFR >25 ml/min), in accordo con le raccomandazioni europee.

L’introduzione del farmaco ha reso necessaria una riorganizzazione degli ambulatori nefrologici, essendo diventato fondamentale garantire un ambulatorio dedicato ai pazienti affetti da ADPKD nel quale poter identificare i pazienti eleggibili al farmaco e monitorarli frequentemente, come raccomandato.

In questo elaborato presentiamo la nostra esperienza con il tolvaptan degli ultimi tre anni, ponendo attenzione non solo al profilo di sicurezza e tollerabilità del farmaco, ma anche all’impatto che la terapia ha avuto sulla riorganizzazione dell’attività assistenziale.

L’impiego della telemedicina potrebbe essere utile, da un lato a ridurre i costi dell’assistenza, dall’altro a diminuire la percezione di malattia nei pazienti in stadio iniziale di CKD.

Parole chiave: ADPKD, tolvaptan, telemedicina, costi dell’assistenza

Introduzione

La malattia del rene policistico autosomica dominante (ADPKD) è la più comune malattia ereditaria renale, ed è presente in circa il 10% dei pazienti in terapia sostitutiva renale [1]. È una patologia che esordisce tipicamente in età adulta e all’incirca il 70% dei pazienti raggiunge lo stadio terminale dell’insufficienza renale all’età di 58 anni [2]. La malattia presenta tuttavia un’estrema variabilità fenotipica sia inter che intra familiare, legata alla complessità genetica, motivo per cui alcuni pazienti hanno un decorso della malattia più aggressivo con necessità di trattamento sostitutivo anche prima dei 40 anni, mentre altri presentano un decorso più lento, e non raggiungono mai lo stadio terminale dell’insufficienza renale cronica (IRC), neanche in età avanzata [3].

Nella maggioranza dei casi, la malattia è causata da mutazioni nei geni PKD1 e PKD2, che codificano rispettivamente per la policistina 1 e 2. Queste proteine di membrana sono localizzate nel ciglio primario ed interagiscono tra loro formando un canale per il calcio. La loro interazione è cruciale per il corretto funzionamento del canale per cui, anche se la mutazione interessa una sola delle due proteine, il canale risulta disfunzionante. Le mutazioni in PKD1, riguardanti il 75-78% dei casi, sembrano correlate a fenotipi clinici più gravi, con manifestazioni precoci che portano all’IRC terminale mediamente 20 anni prima rispetto alle forme con mutazioni in PKD2, responsabili del 15% circa dei casi. Nei rimanenti 7-10% dei casi, non vengono identificate mutazioni né in PKD1 né in PKD2. Si tratta di casi definiti geneticamente irrisolti (GUR), nei quali non è possibile identificare la mutazione perché localizzata all’interno di regioni del gene non valutabili. In alcuni di questi casi GUR sono state identificate mutazioni in altri geni (PKHD1, GANAB, DNAJ11) [4,5].

Fino alla scorsa decade, il trattamento dell’ADPKD non prevedeva una terapia specifica, ma solo misure generali di prevenzione finalizzate a rallentare la progressione dell’IRC. Alcuni farmaci modificanti il decorso della malattia (disease-modifying drugs), come ad esempio gli inibitori di mTOR, hanno mostrato risultati promettenti in studi preclinici, ma i successivi trial clinici non ne hanno confermato l’efficacia [68]. La prima vera svolta si è avuta nel 2012, con lo studio TEMPO 3:4. In questo studio è stato valutato l’effetto del tolvaptan in pazienti affetti da ADPKD con GFR >60 mL/min e volume renale totale (TKV) >750 mL. Il tolvaptan è un antagonista del recettore V2 della vasopressina e agisce bloccando i recettori a livello renale e il successivo segnale mediato da cAMP, il quale è coinvolto nella crescita delle cisti. Nello studio TEMPO 3:4, il tolvaptan si è dimostrato efficace nel rallentare la crescita renale e la perdita di eGFR rispettivamente del 49% e del 26% annuo (TKV da 5.5% al 2.8%, eGFR da 3.70 a 2.72 mL/min/1.73m2) durante un periodo di osservazione di 3 anni [9].

Sulla base di questi risultati, nel 2015 la European Medicine Agency (EMA) ha approvato l’uso del tolvaptan per rallentare la progressione dello sviluppo delle cisti e dell’insufficienza renale nei pazienti adulti con ADPKD ed IRC stadio 1-3, con evidenza di malattia rapidamente progressiva, definita sulla base delle raccomandazioni ERA-EDTA [10]. Tra i criteri da soddisfare, secondo le raccomandazioni, deve essere presente almeno uno tra: la perdita del filtrato glomerulare, nella misura di 2.5 mL/min/1.73 m2 per anno in 5 anni, o la riduzione di 5 mL/min/1.73 m2 in un anno; l’aumento del volume totale renale del 5% per anno su almeno 3 misurazioni, eseguite a distanza minima di 6 mesi; la possibilità di definire la patologia nelle classi 1C-1E secondo la classificazione della Mayo Clinic; un PRO-PKD score >6. Mentre la Mayo Clinic ADPKD Classification tiene conto di età, altezza e altri parametri morfologici (volumi totali renali), il PRO-PKD score assegna dei punti in base al sesso (il sesso maschile peggiora la prognosi), alla clinica (nello specifico la comparsa di ipertensione o problematiche urologiche prima dei 35 anni di età) e al tipo di mutazione genetica (mutazioni troncanti o non-troncanti sul gene PKD1 sono associate ad un peggior andamento), un punteggio complessivo superiore a 6 è maggiormente correlato ad una rapida progressione di malattia.

Nel 2017, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), ha approvato la rimborsabilità per il tolvaptan nei pazienti ADPKD “rapidi progressori” con IRC stadio 1-3. Nello stesso anno, sono stati pubblicati i risultati dello studio Reprise, che hanno confermato l’efficacia del tolvaptan nel rallentare il declino del eGFR anche negli stadi più avanzati di IRC (GFR 25-65 mL/min) [11]. In accordo con questi risultati, EMA ed FDA hanno esteso le indicazioni d’uso all’IRC 4 stadio. Nel 2020 anche l’AIFA ha recepito l’estensione dell’indicazione ed il farmaco al momento è prescrivibile e rimborsale nei pazienti con eGFR fino a 25 mL/min.

Il tolvaptan è nella maggior parte dei casi ben tollerato tuttavia, a causa dell’effetto acquaretico e del rischio di epatotossicità, è necessario uno stretto monitoraggio per valutare la tollerabilità clinica, lo stato volemico, un eventuale rapido incremento della sodiemia e degli enzimi epatici. Sul foglietto illustrativo è raccomandato il controllo degli esami ematici mensile durante i primi 18 mesi di terapia e successivamente ogni 3 mesi.

D’altra parte il beneficio atteso è stimato in un ritardo di inizio della terapia sostitutiva di circa 1 anno ogni 4 anni di terapia [10], motivo per cui le Unità di Nefrologia hanno dovuto riorganizzare l’assistenza ai pazienti con ADPKD al fine di poter garantire la prescrizione del farmaco e soprattutto il follow-up. Laddove non fosse già presente, è stato necessario identificare personale dedicato che potesse valutare l’eleggibilità al tolvaptan ed al contempo garantire il monitoraggio frequente.

D’altra parte, i frequenti accessi in ospedale per prelievi e visite di controllo rappresentano non solo un aumento del carico per il medico, ma anche e soprattutto un incremento della percezione della malattia per il paziente. Questo è ancor più rilevante se consideriamo che nella maggior parte dei casi i pazienti sono in una fase iniziale di IRC, nella quale, in assenza della terapia, farebbero controlli annualmente o semestralmente.

In questo studio, presentiamo la nostra esperienza triennale nell’uso del tolvaptan in pazienti affetti da ADPKD.

 

Materiali e metodi

Lo studio è stato condotto presso l’ospedale San Bortolo di Vicenza, nel quale l’ambulatorio dedicato alle malattie genetiche esiste dal 2007 e garantisce la presa in carico dei pazienti affetti da malattie genetiche nefrologiche. L’ambulatorio è supportato da un laboratorio di Genetica nel quale collaborano due genetiste biologhe. Dal 2018, ovvero da quando abbiamo iniziato a prescrivere il tolvaptan, complessivamente tre medici nefrologi sono stati dedicati all’ambulatorio delle malattie genetiche.

Nel periodo compreso tra aprile 2018 e giugno 2021, abbiamo trattato complessivamente 25 pazienti.

Sono state seguite le indicazioni al trattamento riportate sul “position statement sull’impiego del tolvaptan nei pazienti affetti da rene policistico” della Società Italiana di Nefrologia (SIN), pubblicato nel 2017, subito dopo l’approvazione dell’AIFA. I criteri prescrittivi sono riassunti nella Tabella I.

All’avvio del trattamento sono stati raccolti dati demografici e clinici. Il dosaggio di partenza del tolvaptan è stato di 45 mg al mattino e 15 mg al pomeriggio, assunto quotidianamente. La dose è stata titolata mensilmente, monitorando tolleranza ed esami ematici, fino al dosaggio massimo di 90/30 mg.

L’analisi genetica è stata condotta nei pazienti senza storia familiare di malattia per ottenere diagnosi di certezza, o in quelli in cui la malattia rapidamente progressiva doveva essere valutata attraverso il PROPKD score. È stata inoltre proposta a tutti i pazienti in età fertile in prospettiva di una gravidanza o in quelli con figli, con l’intenzione di dare a questi ultimi l’opportunità, al raggiungimento della maggiore età e qualora lo volessero, di avere una diagnosi precoce.

L’analisi dei geni PKD1, PKD2 e PKHD1 è stata condotta mediante Next Generation Sequencing con tecnologia a cattura e arricchimento dei target (NGS, NES-v3, Sophia genetics by MISeqDx, Illumina). Le varianti identificate sono state validate con analisi di sequenziamento Sanger (3500 Genetic Analyzer Applied Biosystem).

Tutti i pazienti hanno firmato un consenso informato e lo studio è stato approvato dal comitato etico locale.

Età

>18 anni e <55 anni

IRC

GFR compreso tra 89-25 mL/min/1.73m2, valutato con l’equazione CKD-EPI

Diagnosi certa per la forma tipica di ADPKD

1)    Storia familiare positiva con criteri Pei aggiustati per età

2)    Test genetico positivo

Nefromegalia

1)    RM/TC: TKV >750 mL o htTKV >600 mL o diametro bipolare renale >16.7 cm

2)    Ecografia: diametro bipolare >16.8 cm

Malattia rapidamente progressiva

1)    Perdita di GFR >5 mL/min/1.73m2 all’anno negli ultimi 12 mesi

2)    Perdita di GFR >2.5 mL/min/1.73m2 all’anno negli ultimi 5 anni

3)    Aumento di TKV >5% all’anno, valutato con RM o TC

4)    Stadio 1C-1E della Mayo Clinic

5)    PROPKD score >6

Legenda: IRC, insufficienza renale cronica; GFR, velocità di filtrazione glomerulare valutata con CKD-EPI; ADPKD, sindrome del rene policistico autosomico dominante; RM, risonanza magnetica; TC, tomografia computerizzata; TKV, volume totale renale; htTKV, volume totale renale aggiustato per altezza
Tabella I: indicazioni italiane per la prescrizione del tolvaptan secondo AIFA

 

Risultati

Nella Tabella I sono riassunti i criteri diagnostici utilizzati per reclutare i pazienti al trattamento con tolvaptan. Tutti i pazienti hanno ricevuto informazioni complete riguardo l’efficacia del trattamento e i possibili effetti collaterali. In particolare, sono stati illustrati il rischio di tossicità epatica, di disidratazione, poliuria e polidipsia, concentrando l’attenzione sulla necessità di avere accesso libero all’acqua.

Sono stati anche informati della necessità di frequenti prelievi ematici e visite mediche, mensili per i primi 18 mesi e successivamente trimestrali. Sono state date informazioni circa le interazioni del farmaco e la necessità per le donne di prevenire gravidanze durante il trattamento. Le caratteristiche dei pazienti sono riassunte nella Tabella II.

La mediana dell’età di inizio del trattamento è stata di 45 anni (range interquartile 39-48). Il GFR è stato stimato mediante l’equazione CKD-EPI in tutti i pazienti tranne uno, per il quale, a causa delle caratteristiche antropometriche (superficie corporea di 2.3 m2) il GFR è stato misurato con scintigrafia renale con cromo-51 marcato con acido etilendiamminotetracetico (51Cr-EDTA). Il valore di GFR mediano è stato di 51 mL/min/1.73 m2 (IQ 45-63).

Quattro pazienti non avevano una storia familiare positiva per ADPKD, per cui la diagnosi di certezza è stata ottenuta con il test genetico. In tutti i pazienti con storia familiare positiva la diagnosi di certezza è stata fatta con l’ecografia usando i Criteri Unificati di Pei [12]. Una mutazione patogenetica o verosimilmente patogenetica è stata identificata in 20 pazienti, dei quali 17 avevano una mutazione in PKD1, 14 troncanti e 3 non troncanti, e 3 pazienti avevano una mutazione in PKD2. In quattro pazienti sono state riscontrate mutazioni di incerto significato in PKD1. Interessante è la condizione di un paziente che presenta una mutazione in PKD1, di significato incerto, in associazione ad una mutazione patogenetica in PKHD1.

La nefromegalia è stata indentificata in tutti i pazienti tramite indagine ultrasonografica. In 6 pazienti (24%), per i quali né la clinica (perdita di GFR), né il PROPKD score sono stati sufficienti per definire i criteri di malattia rapidamente progressiva, sono state eseguite anche Risonanza Magnetica o Tomografia Computerizzata, per poter utilizzare la classificazione della Mayo Clinic.

La malattia rapidamente progressiva è stata identificata in 18/25 (72%) usando il criterio della perdita di GFR, in 1/25 (4%) utilizzando il PROPKD score e in 6/25 (24%) con la classificazione della Mayo-Clinic (classe 1C-1E) (Tabella II).

Due pazienti hanno interrotto il trattamento a causa di poliuria e polidipsia incompatibili con il loro stile di vita. Le interruzioni sono state registrate rispettivamente dopo il primo e il sesto mese di terapia. Una paziente affetta anche da policistosi epatica è stata arruolata nonostante valori basali di gamma-glutamil transferasi (γGT) di 1.5 volte oltre il limite. La dose del tolvaptan, tuttavia, non è stata massimizzata, perché quando la dose è stata aumentata a 90/30 mg si è verificato un rialzo di γGT di 3 volte e un leggero incremento della aspartato transaminasi (AST), che è regredito dopo la riduzione della dose.

Una paziente ha invece manifestato un importante rialzo dei valori delle transaminasi 4 mesi dopo l’inizio del farmaco (AST x 14: 502 U/L, ALT X 28: 997 U/L), in assenza di concomitante aumento della bilirubina, senza quindi rientrare nei criteri di Hy’s. L’aumento delle transaminasi si è verificato alla dose intermedia 60/30 mg ed è lentamente regredito a distanza di 4 mesi dalla sospensione.

Non si segnalano rialzi significativi dei valori di acido urico agli esami di controllo, e il monitoraggio clinico non ha fatto emergere episodi riferibili ad attacchi acuti di gotta. Molti dei pazienti erano tuttavia già in terapia con farmaci uricosurici, dei quali comunque non è stato necessario aumentare la dose.

Abbiamo eseguito un totale di 365 visite mediche per i 25 pazienti arruolati, ovvero un numero 5 volte superiore a quello previsto per pazienti con lo stesso grado di IRC, secondo quanto raccomandato dalle linee guida KGIDO [13]. I pazienti sono stati quindi sottoposti a frequenti prelievi per esami ematici e quelli non in possesso di un’esenzione completa hanno dovuto pagare le analisi, dal momento che la sola esenzione per la malattia genetica copre solo alcuni degli esami richiesti per il monitoraggio.

Pz Genere (M/F) Età (anni) GFR (mL/min/1.73m2) Storia familiare Progres-sione Mutazione genetica Significato clinico
1 M 36 46 Positiva Perdita GFR PKD1: missenso c.8264T>C VoUS, non troncante
2 M 45 47 Positiva PROPKD >6 PKD1: frameshift c.2711_2712delAG Patogenetica, troncante
3 M 48 45 Positiva Perdita GFR PKD2: nonsenso c.2533C>T Patogenetica, troncante
4 F 39 80 Positiva Perdita GFR PKD2:deletion c.1_2907del Patogenetica, troncante
5 F 45 68 Positiva Perdita GFR PKD1: frameshift c.6135_6147 delinsTTCAACGCCTTC Verosimilmente patogenetica, troncante
6 M 44 45 Positiva Perdita GFR PKD1: frameshift c.7168dupG Patogenetica, troncante
7 M 45 51 Positiva Perdita GFR PKD1: splice c.9397+1G>A Patogenetica, troncante
8 M 37 69 Negativa 1E Mayo Clinic PKD1:non senso c.6406C>T Patogenetica, troncante
9 F 27 47 Positiva 1E Mayo Clinic PKD1: frameshift c.5014_5015delAG Patogenetica, troncante
10 M 50 63 Positiva 1C Mayo Clinic PKD1:splice c.12004-6_12026del Verosimilmente patogenetica, troncante
11 M 43 51 Positiva Perdita GFR PKD1:missenso c.896G>C VoUS, non troncante
12 M 44 55 Positiva Perdita GFR PKD1: splice c.6916-9G>A Verosimilmente patogenetica, troncante
13 F 46 53 Positiva 1C Mayo Clinic PKD1: in frame c.223_228del

PKHD1:missenso c.2279G>A

PKD1: VoUS, non troncante. PKHD1:

verosimilmente patogenetica, non troncante

14 F 50 45 Positiva Perdita GFR PKD1:deletion 5976_5978delCAC

Verosimilmente patogenetica,

non troncante

15 M 39 64 Positiva Perdita GFR PKD1:missenso c.1259A>G

Verosimilmente patogenetica,

non troncante

16 F 43 54 Negativa 1C Mayo clinic PKD1:non senso c.10423C>T Patogenetica, troncante
17 M 33 72 Positiva Perdita GFR PKD1:deletion c.6632_6638delTGAGCCG Patogenetica, troncante
18 M 55 31 Positiva Perdita GFR PKD1:frameshift c.11334_11343dupCAGCGATTAC Patogenetica, troncante
19 M 49 27 Negativa Perdita GFR PKD1: missenso c.9146 C>T VoUS, non troncante
20 F 45 52 Positiva Perdita GFR PKD1: nonsenso c.1102C>T

Missenso c.6749C>T

PKD1: patogenetica, troncante nell’esone 5; VoUS, non troncante nell’esone 15
21 M 53 27 Positiva Perdita GFR Non eseguita
22 F 45 42 Positiva Perdita GFR PKD1:missenso c.6560G>T

PKHD1: missenso c.10592T>C

PKD1: verosimilmente patogenetica, non troncante. PKHD1: verosimilmente benigna, non troncante
23 F 41 39 Positiva Perdita GFR PKD1:frameshift c.11511dupG PKD1: patogenetica, troncante
24 M 46 62 Negativa Perdita GFR PKD1:nonsenso c.12031C>T

 

PKD1: patogenetica, troncante
25 F 37 64 Positiva 1 D Mayo Clinic PKD2: frameshift 2159delA PKD2: patogenetica, troncante
Legenda: GFR, velocità di filtrazione glomerulare, VoUS, variante di incerto significato
Tabella II: caratteristiche dei pazienti

 

Discussione

L’approvazione del tolvaptan per il rallentamento della crescita delle cisti è stata una svolta terapeutica nell’ambito della terapia dell’APDKD, che finora si era avvalsa solo di misure preventive generiche. Il farmaco è però stato studiato ed ha dimostrato la sua efficacia solo in presenza di “malattia rapidamente progressiva”, motivo per cui l’indicazione terapeutica è limitata a questa categoria di pazienti.

Sebbene esistano diversi modi per valutare la “malattia rapidamente progressiva” il metodo più semplice, immediato ed economico è misurare la perdita di filtrato glomerulare che deve essere >di 2.5 mL/min/1.72 m2 all’anno negli ultimi 5 anni, o >5 ml/min/1.72 m2 nell’ultimo anno. Tuttavia, il GFR rimane per definizione stabile per molto tempo, pur in presenza di un processo patologico sottostante, cosicché il criterio della perdita di filtrato glomerulare può non essere da solo sufficiente ad identificare tutti i pazienti “rapidi progressori”, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia. Bisogna quindi essere in grado di garantire un approccio multidisciplinare per poter ricercare gli altri criteri di “malattia rapidamente progressiva”.

La terapia con tolvaptan richiede frequenti monitoraggi bioumorali ed accessi al centro per valutare gli effetti collaterali. L’inibizione del recettore della vasopressina causa infatti poliuria e polidipsia, che, sebbene siano la prova dell’efficacia del farmaco, rappresentano la principale cause di interruzione del trattamento. Nella nostra esperienza 3/25 (12%) pazienti hanno sospeso il farmaco, due per incompatibilità con lo stile di vita, ed uno per aumento degli enzimi epatici. Tali dati sono sovrapponibili a quanto riscontrato negli studi TEMPO 3:4 e 4:4 [9,11].

Il vero effetto collaterale del farmaco è l’epatotossicità descritta in circa il 4.4% dei pazienti trattati con tolvaptan e definita da un rialzo dell’alanina aminotransferasi (ALT) 3 volte oltre il limite e un aumento di bilirubina maggiore di 2 volte il limite. Tutti i casi si sono verificati durante i primi 18 mesi dall’inizio della terapia e si sono risolti con l’interruzione del trattamento. Anche se non frequente, il rischio di epatotossicità esiste, motivo per cui i pazienti necessitano di un monitoraggio mensile degli enzimi epatici. In letteratura è descritto un caso di epatotossicità grave che ha richiesto il trapianto epatico [14].

In conseguenza allo stretto monitoraggio imposto dalla terapia, i pazienti devono eseguire frequenti esami e visite di controllo, pur essendo in una fase iniziale di IRC, che secondo quanto raccomandato dalle linee guida, richiederebbe solo una o due valutazioni l’anno. Questo comporta la medicalizzazione di una condizione che di per sé ancora non lo richiede e anticipa la percezione del paziente di essere affetto da una patologia cronica. Per tutte queste ragioni, i pazienti che iniziano il tolvaptan, devono essere fortemente motivati. L’assunzione della terapia deve poi essere continuativa perché se assunto in maniera intermittente, l’effetto rebound della vasopressina potrebbe addirittura essere controproducente.

La gestione dei pazienti in terapia con tolvaptan è difficile anche dal punto di vista dell’organizzazione medica, e lo è stata ancora di più durante la pandemia. L’epatotossicità sebbene non frequente, è senza dubbio un effetto collaterale grave e temibile ed il monitoraggio laboratoristico è imprescindibile. Tuttavia la reale necessità di sottoporsi a visite in presenza può probabilmente essere ridimensionata, soprattutto dopo i primi 5-6 mesi di terapia, quando la poliuria si stabilizza ed il paziente diventa confidente con la terapia e la gestione dei liquidi. In questa fase potrebbe essere sufficiente garantire un monitoraggio da remoto degli esami di laboratorio ed un contatto telefonico, evitando l’accesso in centro del paziente. Questo approccio è stato utilizzato durante la pandemia ed in molti casi continuato anche dopo il lockdown, soprattutto per quei pazienti residenti fuori provincia ed afferenti ad altre Nefrologie.

Questo modello di implementazione della telemedicina non solo riduce il carico di lavoro per i medici che si occupano dei pazienti ADPKD in terapia con tolvaptan, ma soprattutto riduce la percezione di malattia, senza comunque modificare la qualità dell’assistenza offerta.

 

Conclusioni

Il tolvaptan è al momento l’unico farmaco disponibile per rallentare la progressione dell’IRC nei pazienti affetti da ADPKD. L’identificazione dei pazienti candidati al farmaco richiede un approccio multidisciplinare, con coinvolgimento di figure professionali diverse. La possibilità di eseguire esami strumentali per calcolare i volumi renali (TKV) e la classe Mayo Clinic, così come l’analisi genetica per poter calcolare il PROPKD score è fondamentale per identificare quei pazienti “rapid progressors” non altresì identificabili con il solo criterio di perdita di GFR.

L’intenso follow-up clinico dei pazienti in trattamento con tolvaptan potrebbe essere rimodulato, affiancando visite in presenza a visite eseguite in telemedicina, soprattutto dopo i primi 6 mesi di terapia, quando il volume urinario si è stabilizzato ed il paziente ha imparato la gestione dei bilanci. Questo approccio consentirebbe di ottimizzare tempo e risorse, senza rinunciare alla sicurezza ed alla qualità delle cure.

 

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Emodialisi e assistenza infermieristica: uno studio pilota sulla qualità percepita dal paziente

Abstract

Introduzione: La dialisi è una forma di terapia sostitutiva renale e impone diversi cambiamenti sul piano relazionale, emotivo, lavorativo, familiare e può essere responsabile di stress dovuto a vari fattori.

Obiettivo: Scopo del nostro studio è stato quello di valutare la percezione da parte dei pazienti dializzati dell’assistenza infermieristica ricevuta.

Metodo: Nel 2021 è stato condotto uno studio cross sectional all’interno dell’AO Perugia somministrando ai pazienti un questionario costruito sulla base della Newcastle satisfaction with nursing scale.

Risultati: 30 pazienti di età media 68,9 ±15,1 hanno partecipato allo studio. Di questi, 66,7% erano maschi, 50% avevano un diploma di scuola superiore, 86,7% erano pensionati, e 50% erano in dialisi da meno di 5 anni. Le percezioni negative relative all’assistenza ricevuta hanno riguardato prevalentemente le donne, i pazienti giovani, e i pazienti in terapia da pochi anni.

Discussione: Il nostro studio ha evidenziato diversi aspetti fondamentali per migliorare la qualità dell’assistenza infermieristica, nonché la necessità di una maggiore attenzione a certe tipologie di pazienti per migliore l’esperienza dell’assistito e di conseguenza la qualità della loro vita.

Parole chiave: assistenza infermieristica, qualità, dialisi, questionario, Newcastle satisfaction with nursing scale

Introduzione

L’insufficienza renale cronica (IRC) è una progressiva, e generalmente irreversibile, diminuzione della velocità della filtrazione glomerulare: si tratta di uno stato che alla fine richiede una terapia sostitutiva renale (dialisi o trapianto) [1,2, 3]. La dialisi è una forma di terapia sostitutiva renale. Il ruolo di filtrazione del sangue da parte del rene è integrato da apparecchiature artificiali per la rimozione di acqua, soluti e tossine in eccesso. La dialisi garantisce dunque il mantenimento dell’omeostasi [4]. L’emodialisi è il metodo attualmente più utilizzato.

Il tempo delle sedute emodialitiche varia dalle tre alle cinque ore e durante questo tempo il sangue viene prelevato dal corpo del paziente e restituito depurato (dializzato). Solitamente le sedute sono tre volte alla settimana, ma possono variare in base alle condizioni cliniche [5].

Il trattamento emodialitico impone diversi cambiamenti sul piano relazionale, emotivo, lavorativo e familiare e, di conseguenza, l’adattamento a questa nuova realtà diventa decisivo e può avere un impatto sulla qualità della vita (concetto utilizzato per indicare il benessere generale delle persone o delle società, inclusi gli elementi di ricchezza e occupazione, l’ambiente, la salute fisica e mentale, l’istruzione, la ricreazione e l’appartenenza a un gruppo sociale) [611].

Tra i diversi stress sopra ricordati, tra cui l’impegno stabile e continuativo in termini di tempo e le numerose difficoltà fisiche correlate al trattamento, come la puntura della fistola, i crampi muscolari, i dolori addominali e il prurito, si aggiungono il disagio causato dalle restrizioni alimentari, la difficoltà nel limitare l’assunzione di liquidi e, a livello psicologico, la perdita permanente della funzione renale, la dipendenza dalla macchina e dagli operatori e/o dai familiari, le frustrazioni istintuali, la paura della morte [5, 12].

Lo studio di Xhulia et al. [13] ha evidenziato i bisogni dei pazienti che devono fare emodialisi: il bisogno di supporto e guida, di essere informati dal personale medico e infermieristico, la necessità di essere in contatto con altri gruppi di pazienti e di comunicare con i parenti, la necessità di un trattamento individualizzato e il bisogno di fidarsi del personale infermieristico e medico. Per incoraggiare la partecipazione personale del paziente al suo trattamento, bisogna soddisfarne i bisogni emotivi (relativi ad ansia, paura, solitudine) e i bisogni fisici (relativi a rilassamento, sonno, migliori condizioni di trattamento). Occorre dedicare il tempo necessario, avere pazienza, considerare la cultura del paziente, affinché il paziente comprenda il perché della terapia, le cause, e venga ascoltato e accolto così da verificarne la reale comprensione [13, 14].

Scopo del nostro studio è stato quello di valutare, usando uno strumento validato quale la Newcastle satisfaction with nursing scale, come i pazienti dializzati valutino il livello di assistenza ricevuto, per individuare e approfondire eventuale criticità.

 

Metodi

Disegno dello studio e setting

Nel periodo 08/03/2021-13/03/2021 è stato condotto all’interno dell’ambulatorio emodialisi dell’Azienda Ospedaliera di Perugia uno studio cross sectional sugli assistiti che afferiscono ogni settimana all’ambulatorio. Lo studio è stato condotto usando un questionario basato sulla Newcastle satisfaction with nursing scale nella sua versione italiana [15], in maniera totalmente anonima e auto compilata.

Criteri di inclusione per lo studio sono stati la maggiore età e la insussistenza di cause di incapacità a partecipare allo studio (come demenza senile o malattie neurodegenerative)

Newcastle satisfaction with nursing scale

La Newcastle Satisfaction with Nursing Scale è una scala che è stata definita nel 1966 per indagare la qualità percepita dagli assistiti circa il personale infermieristico. Nel 2007 è stata realizzata anche la sua versione italiana, usata in questo studio [15].

È formato da 3 sezioni.

1. ESPERIENZE DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA: una serie di 26 affermazioni su aspetti dell’assistenza infermieristica, che gli intervistati devono valutate tramite la scala Likert (1=sono completamente in disaccordo; 7=sono completamente d’accordo). Le risposte ai vari item vengono sommate e trasformate per produrre un range sull’esperienza che va da 0 a 100, dove 100 rappresenta il massimo risultato raggiungibile.

2. OPINIONI SULL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA: gli intervistati valutano la loro soddisfazione riguardo vari aspetti dell’assistenza infermieristica; vi sono 5 possibili risposte utilizzando la scala Likert (1=per niente soddisfatto; 5=completamente soddisfatto). Questa sezione comprende 19 elementi. Le risposte ai vari item vengono sommate e trasformate per produrre un range sull’esperienza che va da 0 a 100, dove 100 rappresenta il massimo risultato raggiungibile.

3. INFORMAZIONI DEMOGRAFICHE: la terza sezione chiede informazioni di tipo demografico (età, sesso, anni di emodialisi) insieme alle domande “Nel complesso, come valuta l’assistenza infermieristica che ha ricevuto in questo reparto?” e “Nel complesso, come valuta tutto il suo ricovero in questo reparto?” (con punteggi da 1=pessimo a 7=ottimo) [15].

Statistica

I risultati ottenuti sono stati raccolti in un database ed esportati per l’analisi statistica. Sono stati poi valutati la mediana e il range interquartile, e indicato anche il range minimo/massimo.

Inoltre, sono stati fatti i Test U di Mann-Whitney per valutare la differenza dei punteggi tra 2 gruppi divisi per sesso, per età <65, e per anni di dialisi <5. Un p-value minore di 0,05 è stato considerato statisticamente significativo. Le analisi sono state ottenute con il software SPSS versione 27.

Nella Tabella I sono state rappresentate le caratteristiche socio demografiche dei partecipanti; in Tabella II i risultati ottenuti dal questionario; in Tabella III sono stati presentati i principali risultati del Test U di Mann-Whitney (in cui sono stati messi a confronto i risultati ottenuti rispetto a gruppi di pazienti suddivisi per età, genere e anni di dialisi). In Tabella IV i gruppi sono stati identificati in base alla risposta alla domanda “Nel complesso, come valuta l’assistenza infermieristica che ha ricevuto in questo reparto?”. In particolare, le risposte da “pessima” a “discreta” sono state raggruppate in “scarsa” (i.e. punteggi da 1 a 4) mentre le risposte da “buona” a “ottima” in “buona” (i.e. punteggi da 5 a 7).

 

Risultati

L’ambulatorio di emodialisi dell’AO Perugia accoglie 124 assistiti a settimana: 89 eseguono l’emodialisi 3 volte a settimana, 24 eseguono l’emodialisi 2 volte a settimana, 2 eseguono l’emodialisi 1 volta a settimana, 9 eseguono l’emodialisi tutti i giorni.

Sono stati esclusi 42 assistiti per evidente incapacità a partecipare allo studio (es. demenza senile e malattie neurodegenerative). Inoltre, 18 hanno rifiutato di partecipare. Dei 64 partecipanti candidati allo studio, solo 30 hanno completato il questionario distribuito.

La maggior parte dei pazienti erano maschi (66,7%), con un diploma di scuola superiore (50%), pensionati (86,7%), in dialisi da meno di 5 anni (50%); l’età media era 68,9 ±15,1 (si veda la Tabella I per ulteriori dettagli). I valori ottenuti dalle risposte al questionario sono riassunti in Tabella II.

  Frequenza (N) %
Sesso    
F 10 33,3
M 20 66,7
Titolo di Studio    
elementari 5 16,7
Laurea 3 10,0
Medie 7 23,3
superiori 15 50,0
elementari 5 16,7
Lavoro    
Dipendente 1 3,3
Libero professionista 2 6,7
Pensionato 26 86,7
Anni emodialisi    
<5 15 50,0
>25 1 3,3
10-15 6 20,0
20-25 1 3,3
5-10 7 23,3
Tabella I: Caratteristiche socio demografiche dei partecipanti
  Mediana IQR Minimo Massimo
(valore minimo 1=sono completamente in disaccordo; valore massimo 7=sono completamente d’accordo)
Gli infermieri mi mettevano facilmente di buon umore 6 1 1 7
Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri 2 4 1 7
Gli infermieri non mi hanno informato abbastanza sul mio trattamento 3 4 1 7
Gli infermieri prendevano le cose con troppa calma 3 4 1 6
Gli infermieri impiegavano molto tempo ad arrivare quando erano chiamati 2 4 1 7
Gli infermieri mi davano le informazioni di cui avevo bisogno proprio al momento giusto 6 1 1 7
Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando 4 2 1 7
Gli infermieri mi facevano fare alcune cose prima che io fossi pronto 2 3 1 7
Per quanto fossero occupati, gli infermieri trovavano sempre tempo per me 6 1 1 7
Vedevo gli infermieri come persone amiche 6 1 1 7
Gli infermieri dedicavano del tempo a confortare i pazienti che ne avevano bisogno 6 1 2 7
Gli infermieri controllavano regolarmente che non avessi bisogno di nulla 6 1 2 7
Gli infermieri non erano in grado di tenere sotto controllo alcune situazioni 2 3 1 6
Gli infermieri non si interessavano a me come persona 2 3 1 7
Gli infermieri mi informavano sui miei problemi di salute 6 2 1 7
Gli infermieri mi spiegavano cosa stavano per farmi 6 1 2 7
Gli infermieri sapevano cosa fare prima ancora di consultare i medici 6 2 1 7
A volte gli infermieri dimenticavano le richieste dei pazienti 3 3 1 6
Gli infermieri garantivano la riservatezza e il pudore dei pazienti 6 1 1 7
Gli infermieri avevano il tempo di fermarsi e parlare con me, quando ne avevo bisogno 6 2 1 7
Medici e infermieri lavoravano bene insieme, come una squadra 6 2 1 7
Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo 2 3 1 7
Gli infermieri sapevano sempre quale fosse la cosa migliore da fare 6 1 1 7
In reparto c’era un’atmosfera serena grazie agli infermieri 6 1 1 7
  Mediana IQR Minimo Massimo
(valore minimo 1= per niente soddisfatto; valore massimo 5=completamente soddisfatto)
La quantità di tempo che gli infermieri le hanno dedicato 4 1 1 5
La competenza degli infermieri nel loro lavoro 4 2 1 5
La presenza di un infermiere vicino quando ne aveva bisogno 4 1 1 5
Le conoscenze degli infermieri sul suo caso 4 0 2 5
La prontezza con cui gli infermieri sono arrivati quando li ha chiamati 4 1 1 5
Il modo in cui gli infermieri l’hanno fatta sentire a suo agio 4 1 1 5
La quantità di informazioni che gli infermieri le hanno dato sulle sue condizioni di salute e sulla terapia 4 1 1 5
La frequenza con cui gli infermieri controllavano che lei stesse bene 4 2 1 5
L’aiuto ricevuto dagli infermieri 4 1 2 5
Il modo in cui gli infermieri le hanno spiegato le cose 4 2 1 5
Il modo in cui gli infermieri hanno rassicurato parenti e amici 4 1 1 5
Il modo con cui gli infermieri svolgevano il loro lavoro 4 1 1 5
Il tipo di informazioni che gli infermieri le hanno fornito sulle sue condizioni di salute e sul suo trattamento 4 0 1 5
L’essere trattato come persona dagli infermieri 4 1 1 5
Come gli infermieri hanno ascoltato le sue preoccupazioni e ansie 4 1 1 5
La disponibilità degli infermieri a rispondere alle sue richieste 4 1 1 5
La riservatezza e il pudore che gli infermieri le hanno garantito 4 1 1 5
La consapevolezza dei suoi bisogni da parte degli infermieri 4 2 2 5
Tabella II: Valori ottenuti dalle risposte al questionario

I punteggi sono stati successivamente confrontati in base al sesso, all’età (<65 anni vs >=65) e agli anni di dialisi (<5 anni vs. >=5). In Tabella III sono riportati solamente i risultati significativi. Possiamo notare che la differenza di risposte tra uomini e donne riguarda la sfera informativa, in cui le donne riportano punteggi peggiori rispetto agli uomini. Il numero di anni di terapia invece evidenzia una maggior comprensione dei processi interni al day service. Mentre i pazienti con pochi anni di terapia evidenziano una disparità di trattamento o l’inesperienza degli infermieri, questo non è confermato da chi svolge dialisi da molti anni. Anche la differenza di età è risultata una variabile significativa per alcune risposte.

Sesso
F M p-value
Gli infermieri mi davano le informazioni di cui avevo bisogno proprio al momento giusto 6 (2)

1-7

6 (1)

1-7

0,049
Per quanto fossero occupati, gli infermieri trovavano sempre tempo per me 6 (2)

1-7

6 (1)

4-7

0,049
La quantità di informazioni che gli infermieri le hanno dato sulle sue condizioni di salute e sulla terapia 3 (2)

1-4

4 (0)

3-5

0,017
Il modo in cui gli infermieri le hanno spiegato le cose 3 (1)

1-4

4 (1)

3-5

0,005
Il tipo di informazioni che gli infermieri le hanno fornito sulle sue condizioni di salute e sul suo trattamento 4 (1)

1-4

4 (1)

3-5

0.031
Come gli infermieri hanno ascoltato le sue preoccupazioni e ansie 4 (1)

1-58

5 (1)

3-5

0,022
Età
<65 >=65 p-value
A volte gli infermieri dimenticavano le richieste dei pazienti 5 (3)

1-6

2 (4)

1-6

0,043
Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo 5 (3)

1-7

2 (3)

1-6

0,025
La quantità di tempo che gli infermieri le hanno dedicato 3 (1)

1-4

4 (2)

3-5

0,017
La competenza degli infermieri nel loro lavoro 4 (1)

1-5

4 (1)

2-5

0,022
Anni terapia
<5 >=5 p-value
Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri 6 (3)

1-7

6 (1)

1-7

0,019
Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando 4 (2)

1-7

2 (3)

1-5

0,009
Gli infermieri sapevano sempre quale fosse la cosa migliore da fare 6 (2)

1-7

7 (1)

4-7

0,009
Tabella III: Principali risultati del Test U di Mann-Whitney (In ciascuna casella: Mediana – IQR – Range Min – Max)

Dalla Tabella IV, invece, possiamo vedere quali sono i punti salienti che permettono di definire la qualità dell’assistenza infermieristica. Qui viene messo in evidenza che ci sono due aree principali che differenziano la qualità percepita dell’assistenza infermieristica: una è quella della sfera emotiva (“Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri”, “Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando”, “Vedevo gli infermieri come persone amiche”) e l’altra è la sfera organizzativa (“Gli infermieri impiegavano molto tempo ad arrivare quando erano chiamati”, “Gli infermieri non erano in grado di tenere sotto controllo alcune situazioni”, “Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo”).

  Buona Scarsa p-value
Gli infermieri mi mettevano facilmente di buon umore 6 (1)

1-7

5 (3)

1-6

0,050
Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri 1 (3)

1-7

5 (3)

2-6

0,021
Gli infermieri non mi hanno informato abbastanza sul mio trattamento 2 (4)

1-7

4 (1)

2-5

0,402
Gli infermieri prendevano le cose con troppa calma 2 (4)

1-6

5 (1)

2-6

0,015
Gli infermieri impiegavano molto tempo ad arrivare quando erano chiamati 2 (3)

1-6

4 (3)

2-7

0,038
Gli infermieri mi davano le informazioni di cui avevo bisogno proprio al momento giusto 6 (1)

1-7

6 (4)

1-7

0,174
Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando 3 (2)

1-6

5 (1)

2-7

0,029
Gli infermieri mi facevano fare alcune cose prima che io fossi pronto 2 (3)

1-7

5 (3)

1-5

0,082
Per quanto fossero occupati, gli infermieri trovavano sempre tempo per me 6 (1)

4-7

6 (2)

1-6

0,057
Vedevo gli infermieri come persone amiche 6 (1)

5-7

6 (2)

1-6

0,006
Gli infermieri dedicavano del tempo a confortare i pazienti che ne avevano bisogno 6 (1)

4-7

6 (3)

2-7

0,402
Gli infermieri controllavano regolarmente che non avessi bisogno di nulla 6 (1)

2-7

6 (0)

2-7

0,494
Gli infermieri non erano in grado di tenere sotto controllo alcune situazioni 2 (2)

1-6

5 (1)

2-6

0,006
Gli infermieri non si interessavano a me come persona 2 (3)

1-7

5 (2)

2-7

0,021
Gli infermieri mi informavano sui miei problemi di salute 7 (1)

1-7

5 (1)

1-6

0,009
Gli infermieri mi spiegavano cosa stavano per farmi 6 (1)

4-7

6 (2)

2-6

0,050
Gli infermieri sapevano cosa fare prima ancora di consultare i medici 6 (1)

1-7

6 (2)

2-6

0,082
A volte gli infermieri dimenticavano le richieste dei pazienti 2 (4)

1-6

5 (1)

2-6

0,158
Gli infermieri garantivano la riservatezza e il pudore dei pazienti 6 (1)

1-7

6 (4)

1-6

0,033
Gli infermieri avevano il tempo di fermarsi e parlare con me, quando ne avevo bisogno 6 (1)

2-7

6 (2)

1-6

0,065
Medici e infermieri lavoravano bene insieme, come una squadra 6 (1)

1-7

5 (3)

1-7

0,432
Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo 2 (3)

1-6

5 (2)

2-7

0,011
Gli infermieri sapevano sempre quale fosse la cosa migliore da fare 6 (1)

4-7

5 (4)

1-6

0,013
In reparto c’era un’atmosfera serena grazie agli infermieri 6 (1)

4-7

5 (4)

1-6

0,065
La quantità di tempo che gli infermieri le hanno dedicato 4 (2)

1-5

3 (1)

1-4

0,015
La competenza degli infermieri nel loro lavoro 4 (1)

3-5

3 (1)

1-4

0,001
La presenza di un infermiere vicino quando ne aveva bisogno 5 (1)

2-5

4 (2)

1-4

0,009
Le conoscenze degli infermieri sul suo caso 4 (0)

3-5

4 (2)

2-4

0,093
La prontezza con cui gli infermieri sono arrivati quando li ha chiamati 4 (1)

3-5

4 (1)

1-4

0,065
Il modo in cui gli infermieri l’hanno fatta sentire a suo agio 5 (1)

3-5

4 (2)

1-4

0,038
La quantità di informazioni che gli infermieri le hanno dato sulle sue condizioni di salute e sulla terapia 4 (0)

2-5

3 (1)

1-3

0,000
La frequenza con cui gli infermieri controllavano che lei stesse bene 4 (1)

3-5

3 (1)

1-5

0,044
L’aiuto ricevuto dagli infermieri 5 (1)

3-5

4 (1)

2-4

0,018
Il modo in cui gli infermieri le hanno spiegato le cose 4 (1)

3-5

4 (1)

2-4

0,093
Il modo in cui gli infermieri hanno rassicurato parenti e amici 4 (2)

1-5

3 (2)

1-4

0,025
Il modo con cui gli infermieri svolgevano il loro lavoro 5 (1)

4-5

4 (2)

1-4

0,003
Il tipo di informazioni che gli infermieri le hanno fornito sulle sue condizioni di salute e sul suo trattamento 4 (1)

2-5

3 (1)

1-4

0,015
L’essere trattato come persona dagli infermieri 5 (1)

4-5

4 (1)

1-4

0,002
Come gli infermieri hanno ascoltato le sue preoccupazioni e ansie 4 (1)

3-5

4 (1)

1-5

0,093
La disponibilità degli infermieri a rispondere alle sue richieste 5 (1)

3-5

4 (1)

1-4

0,006
La riservatezza e il pudore che gli infermieri le hanno garantito 4 (1)

3-5

3 (0)

2-4

0,025
La consapevolezza dei suoi bisogni da parte degli infermieri 4 (1)

3-5

3 (0)

2-4

0,004
Tabella IV: Assistenza infermieristica percepita (in ciascuna casella: Mediana – IQR – Range Min – Max). I gruppi sono stati identificati in base alla risposta sull’assistenza infermieristica ricevuta: è stata ritenuta buona l’assistenza per le risposte con valutazione ≥4 e scarsa per quelle <4

 

Discussione e conclusioni

La soddisfazione del paziente è definita come la percezione delle cure ricevute rispetto alle cure attese e rappresenta un equilibrio tra la percezione e le aspettative delle cure infermieristiche ricevute. I pazienti valutano così i servizi sanitari, così come i fornitori, dal loro punto di vista soggettivo [16, 17]. La soddisfazione del paziente è un indicatore importante della qualità dell’assistenza. Pertanto, la qualità del lavoro può essere valutata mappando la soddisfazione del paziente con l’assistenza infermieristica [18].

Nel nostro lavoro abbiamo usato la Newcastle satisfaction with nursing scale in un contesto diverso rispetto ad altri studi pubblicati in precedenza. Questo elemento può rappresentare sicuramente un aspetto innovativo dello studio, ma può rappresentare anche un bias legato alla difficoltà di confronto con altri dati nel medesimo contesto. Altro limite dello studio è rappresentato dall’esiguità del campione analizzato, che può non essere totalmente rappresentativo della popolazione che si sottopone a emodialisi; ad esso si associa anche un importante tasso di mancata adesione/drop out. Infine, è opportuno tener presente che questa valutazione è stata effettuata in un periodo storico particolare (marzo 2021), durante la pandemia da COVID-19, e non si può totalmente escludere che questo possa avere in parte impattato anche sulla qualità/modalità dell’assistenza infermieristica.

Dalle nostre analisi è emerso che nel complesso il livello di assistenza fornita è ritenuta abbastanza buona. Sicuramente vari fattori sono responsabili di differenze nella percezione della qualità da parte del paziente dializzato.

Ad esempio, le donne riportano punteggi peggiori rispetto agli uomini, evidenziando la necessità di fornire più attenzione a questo gruppo di pazienti. Pazienti in terapia da anni attribuiscono agli infermieri poca disparità di trattamento e poca inesperienza. Pazienti anagraficamente più giovani tendono invece ad avere percezioni più negative.

Alcuni di questi elementi influenzanti la qualità percepita dell’assistenza sono stati indagati anche in altri studi e in altri contesti. Uno studio precedente di Balouchi et al. è stato condotto con lo scopo di chiarire il concetto di qualità dell’assistenza infermieristica percepita dal paziente in emodialisi. In questo studio di meta-sintesi, i risultati hanno indicato una dimensione completa, profonda e interattiva sul concetto di qualità dell’assistenza infermieristica e hanno mostrato come la qualità percepita sia influenzata da una moltitudine di fattori (l’aspetto umano, le attrezzature, le condizioni ambientali, i monitoraggi continui, l’educazione del paziente e la comunicazione efficace) [19].

Lo studio condotto da Ahmed et al. ha mostrato come il livello complessivo di soddisfazione dei pazienti adulti è relativamente moderato nei confronti delle quattro dimensioni dell’assistenza infermieristica. La soddisfazione riguardo le informazioni fornite e l’ambiente di cura è inoltre inferiore rispetto alle altre dimensioni. Ciò dimostra che i pazienti sono meno informati sulla loro diagnosi, trattamento e prognosi da parte degli infermieri di quanto si aspettino, e ciò è essenziale per prendere decisioni relative alla loro cura. È anche evidente che i pazienti sono preoccupati per la pulizia della stanza e la privacy e libertà negli ospedali [20].

Nello studio pubblicato da Gutysz-Wojnicka et al. i livelli di istruzione non hanno influenzato le esperienze dei livelli di assistenza infermieristica (p = 0,2204) e la soddisfazione per l’assistenza ricevuta (p = 0,1075). L’età dei pazienti invece ha avuto un impatto statisticamente significativo sia sui risultati della scala “esperienze di assistenza infermieristica” (p = 0,0005) sia della scala “soddisfazione infermieristica” (p = 0,0194) [21].

Anche nello studio di Akin et al. i pazienti erano generalmente soddisfatti dell’assistenza infermieristica ricevuta. Gli elementi con la valutazione più positiva sono stati rispettivamente: la quantità di libertà che hanno ricevuto in reparto, la privacy che hanno ricevuto dagli infermieri e quanto velocemente gli infermieri hanno risposto alle loro richieste. Lo studio ha rilevato che le pazienti di sesso femminile, i pazienti più anziani e coloro che avevano un’assicurazione sanitaria erano i più soddisfatti [22].

Questi risultati confermano quanto abbiamo osservato nel nostro studio e quindi suggeriscono la necessità di una maggiore attenzione verso le pazienti femmine  fornendo loro informazioni più dettagliate e complete.

Occorre dedicare più tempo a chi è in dialisi da un minor numero di anni, rassicurandolo e fornendo tutte le informazioni necessarie anche quelle che a volte al personale sanitario risultano ridondanti o superflue. Sempre per quanto riguarda i pazienti maschi, essi rilevano un certo distacco nel rapporto con il personale infermieristico e, dal momento che questa sensazione potrebbe inficiare la fiducia verso i professionisti sanitari, si rende necessaria la riduzione della percezione di distanza tra le parti assumendo un comportamento più partecipativo. Gli stessi miglioramenti possono essere applicati a tutte le età, con un aumento di zelo nei riguardi dei pazienti più giovani che riferiscono più criticità nelle informazioni ricevute e nel rapporto con gli infermieri.

Per migliorare la percezione del livello di assistenza di alcuni, occorrerà che gli infermieri livellino il rapporto che hanno tra i vari assistiti, e che siano più solerti nell’ascoltare le varie necessità e rispondere alle informazioni richieste. Sarà utile essere maggiormente professionali e allo stesso tempo empatici. Bisognerà aumentare il livello e la quantità di informazioni date.

Non da meno, dal punto di visto lavorativo, è fondamentale assumere atteggiamenti più professionali che rendano, all’occhio di chi guarda, il modello di lavoro più omogeneo e lo standard perseguito più alto, evitando principalmente di mostrare ritrosie e perplessità sull’operato degli altri membri dell’equipe assistenziale.

Sicuramente il nostro studio ha evidenziato che esistono spazi per migliorare l’esperienza dell’assistito. Sapendo che l’assistenza infermieristica ha costantemente bisogno di cambiamenti per soddisfare le esigenze individuali, è necessario, ed estremamente importante, avanzare nel campo di ricerca per migliorare la qualità dell’assistenza infermieristica e, di conseguenza, la qualità della vita individuale [9, 23, 24].

 

Bibliografia

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Danno renale acuto e somministrazione di una singola dose di aminoglicoside nel Dipartimento d’Emergenza: un confronto tramite propensity score

Abstract

Scopo: secondo la Surviving Sepsis Campaign, gli antibiotici aminoglicosidici (AG) possono essere somministrati insieme a un β-lattamico ai pazienti in shock settico. Alcuni autori propongono la somministrazione di una singola dose di un AG in combinazione con un antibiotico β-lattamico nei pazienti settici per estendere lo spettro della terapia antibiotica. Lo scopo di questo studio è stato indagare se una singola dose di AG alla presentazione di pazienti settici al Pronto Soccorso (DE) sia associato a danno renale acuto (AKI).

Metodi: Si tratta di un registro retrospettivo di coorte triennale di pazienti settici visitati nel Pronto Soccorso dell’Ospedale di Pordenone. Per verificare l’incidenza di AKI è stato applicato un confronto tra pazienti trattati con una singola dose di gentamicina (oltre al β-lattamico) e quelli non trattati.

Risultati: Sono stati arruolati 355 pazienti. L’età media è stata di 71 anni (IQR 60-78). Meno dell’1% dei pazienti aveva una malattia renale cronica. La fonte di infezione più frequente è stato il tratto urinario (31%), seguito dalle infezioni dell’apparato digestivo e del tratto respiratorio inferiore (15% per entrambi). 131 pazienti hanno ricevuto una singola dose di gentamicina. Il danno renale acuto si è verificato nel 51% dei casi. La consulenza dell’Infettivologo (59% vs 41,5%, p=0,002) e il danno renale acuto (60% vs 45,5%, p=0,010) sembrano significativamente aumentati nel gruppo trattato, ma confrontando i due gruppi tramite propensity score matching, nessuna variabile è risultata statisticamente significativa.

Conclusione: La nostra esperienza mostra che una singola somministrazione di gentamicina al momento della valutazione in DEA non determina un’aumentata incidenza di AKI nei pazienti settici.

Parole chiave: aminoglicoside, danno renale acuto, gentamicina, sicurezza, sepsi

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in inglese.

Introduction

Historically, sepsis has a high mortality, up to 50-75% [1]. The development of new antibiotic molecules has led to a significant reduction, but it still ranges from 30-50% even if treated according to recent guidelines [2]. Furthermore, pathogenic microorganisms have continued to develop resistance under selective antibiotic pressure, making the therapies increasingly complex, particularly in empirical approaches.

The choice of appropriate antibiotic treatment can reduce mortality [3]. For this reason, the real benefit of empirical combination therapy was assessed, particularly in critically ill patients. According to the Surviving Sepsis campaign [4], aminoglycosides (AG) can be administered together with a β-lactam in patients with septic shock (defined by the Sepsis-3 criteria). The spectrum of antibiotics is broadened in particular towards Enterobacteriaceae ESBL and Pseudomonas aeruginosa; the bacteria are attacked in two different ways, thus accelerating the elimination of pathogens [4, 5] in a possible synergistic effect. For patients presenting symptoms compatible with sepsis, some authors propose a single dose or short course (48-72 hours) of an AG in combination with a β-lactam antibiotic (that instead is taken for several days) on admission to the Emergency Department (ED), immediately after blood cultures are taken [6]. The AG dosage is based on body weight (5 to 7 mg/kg for gentamicin), and it is administered together with the first dose of β-lactam, regardless of renal function.

A study by David et al. showed that the risk of AKI following a single dose or a short course of AG in the empirical treatment of bacteremia increases compared to a regimen without AG [7]. The aim of this study has been to investigate whether a single shot of AG in the ED is associated with AKI in sepsis patients.

 

Materials and methods

Population and data collection

Septic patients were retrospectively enrolled at the ED of the Hospital of Pordenone by consecutive sampling, from 1st January 2017 to 31st December 2019, based on an internal registry of all patients admitted to the ED. Each patient gave informed consent for data acquisition, and the European Privacy Regulation 2016/679 for General Data Protection Regulation (GDPR) was respected. Patients were eligible if they met the third international consensus definition of sepsis. Exclusion criteria were age below 18, pregnancy, major trauma, cardiac arrest.

The primary aim was to determine whether a single initial dose of aminoglycoside (gentamicin) could lead to acute renal injury in a group of septic patients. Furthermore, we investigated which variables were correlated to the development of AKI.

We looked at demographic characteristics (age and sex), source of infection, immunodepression condition, the presence of a chronic kidney disease (defined as a decreased glomerular filtration rate of less than 60 mL/min/1.73 m2 for at least 3 months, according to the definition by KIDGO CKD Work Group [8]) or acute kidney injury (defined as an increase in serum creatinine by ≥0.3 mg/dL within 48 hours or an increase in serum creatinine to ≥1.5 times the baseline or a urine volume <0.5 mL/Kg/hour for six hours, according to the KDIGO definition), collection of at least one blood culture sample, length of stay in the hospital, the outcome of hospitalization (recovery, death, admission in ICU or a non-intensive care ward). It was also recorded whether a single dose of gentamicin was administered at the time of hospital admission, at the usual doses reported in the literature (5-7 mg/kg/dose IV).

Figure 1: Flowchart of the cohort-registry enrollment.
Figure 1: Flowchart of the cohort-registry enrollment. Septic patients were retrospectively enrolled at the ED of the Hospital of Pordenone by consecutive sampling, from 1st January 2017 to 31st December 2019, based on an internal registry of all patients admitted to the ED

Statistical analysis

Discrete variables were expressed as absolute value and percentage (%), while continuous variables were expressed as the median and interquartile range (IQR) for a non-parametric distribution. In the comparison between the groups, the distribution of the variables was verified using the Shapiro-Wilks test. The groups’ differences were calculated through the Kruskal-Wallis test for continuous variables if not normally distributed (or Student’s T-test if normally distributed); chi-square or exact Fisher’s test was used for discrete variables. A p-value ≤of 0.05 was considered statistically significant. Corrections for pairwise comparisons were applied using the Benjamini and Hochberg method. A propensity score match based on the “nearest neighbor match” method was applied to compare the two study groups for baseline characteristics. A general linear multivariate regression was performed to verify the correlation between predictive variables and AKI using propensity score weighting.

The statistical analysis was performed using the R environment (version 4.0.3, R Foundation for Statistical Computing. Vienna, Austria) with the following packages: “mice”, “MatchIt”, “compareGroups”.

 

Results

During the 3 years, 355 patients were enrolled (Figure 1). The median age was 71 years (IQR 60-78), 56% was male, 1% had chronic kidney disease, 5% was considered immunosuppressed (a transplant patient, a patient on immunosuppressive therapy, a neoplastic patient in non-palliative treatment, a patient with rheumatological disorders). In 48% of cases, an infectious diseases consultant was involved. The most frequent infection source was the urinary tract (31%), followed by intra-abdominal and lower respiratory tract infections (15% for both). In 17% of cases, the source of the infection was not determined. The median length of stay was 4 days; 69% was in a low-intensity care ward. In-hospital mortality was around 5%. 131 patients were treated with a single dose of gentamicin. Acute renal injury occurred in 51% of cases (Table 1).

Unmatched data showed a significant difference between the treated and non-treated groups as far as AKI (79/131, 60.3% versus 102/224, 45.5%; p=0.010) and the consultation of infectious disease specialists (77/131, 59% versus 93/224, 41.5%; p=0.002) were concerned. However, after propensity score matching, no significant difference was found.

No variables were significantly correlated with AKI in a general linear regression model.

 

ALL

Unmatched Matched
Control Group Gentamicine Group P-value Control Group Gentamicine Group P-value
N = 355 N = 224 N = 131 N = 131 N = 131
Age (Years)   71
(60-78)
71
(61-78)
70
(59-78)
.536 71
(61-77)
70
(59-78)
.671
Sex (male)   199
(56.1%)
129
(57.6%)
70
(53.4%)
.516 71
(54.2%)
70
(53.4%)
1
Blood cultures taken   334
(94.1%)
207
(92.4%)
127
(96.9%)
.130 127
(96.9%)
127
(96.9%)
1
Source of infection   . .
  Abdominal 52
(14.6%)
37
(16.5%)
15
(11.5%)
23
(17.6%)
15
(11.5%)
  Bone 12
(3.4%)
6
(2.7%)
6
(4.6%)
5
(3.8%)
6
(4.6%)
  Device 7
(2.0%)
4
(1.8%)
3
(2.3%)
3
(2.3%)
3
(2.3%)
  Endocarditis 11
(3.1%)
8
(3.6%)
3
(2.3%)
5
(3.8%)
3
(2.3%)
  Lung 53
(14.9%)
51
(22.8%)
2
(1.5%)
23
(17.6%)
2
(1.5%)
  Neurological 7
(2.0%)
6
(2.7%)
1
(0.8%)
4
(3.1%)
1
(0.8%)
  Skin 43
(12.1%)
32
(14.3%)
11
(8.4%)
19
(14.5%)
11
(8.4%)
  UTI 109
(30.7%)
49
(31.9%)
60
(45.8%)
27
(20.6%)
60
(45.8%)
  n.d. 61
(17.2%)
31
(13.8%)
30
(22.9%)
22
(16.8%)
30
(22.9%)
Immunocompromised   18
(5.1%)
10
(4.5%)
8
(6.1%)
.667 6
(4.6%)
8
(6.1%)
.784
ID consultation   170
(47.9%)
93
(41.5%)
77
(58.8%)
.002 74
(56.5%)
77
(58.8%)
.803
CKD   3
(0.9%)
3
(1.3%)
0 .299 . . .
AKI   181
(51.0%)
102
(45.5%)
79
(60.3%)
.010 78
(59.5%)
79
(60.3%)
1
LOS (days)   4
(3-6)
5
(3-7)
4
(2-6)
.100 4
(3-6)
4
(2-6)
.384
Outcome   .597 .816
  Discharge 59
(16.6%)
37
(16.5%)
22
(16.8%)
25
(19.1%)
22
(16.8%)
  Ward 245
(69.0%)
159
(71.0%)
86
(65.6%)
88
(67.2%)
86
(65.6%)
  ICU 31
(9.0%)
18
(8.0%)
14
(10.7%)
10
(7.6%)
14
(10.7%)
  Decease 19
(5.4%)
10
(4.5%)
9
(6.9%)
8
(6.1%)
9
(6.9%)
Table I: Characteristics of the general population and crude and matched comparison by propensity score matching between groups of patients treated with aminoglycoside and not treated. ID = infectious diseases; CKD = chronic kidney disease; AKI = acute kidney injury; LOS = length of stay; ICU = intensive care unit

 

Discussion

Antibiotic therapy is the cornerstone of the treatment of critically ill patients with sepsis in ED. Combination therapy is widely used in the empirical approach to broaden the spectrum, particularly in the first few days, to increase the probability of appropriate initial treatment [9]. Although this is debated, AG in this setting seems to help broaden the gram-negative and gram-positive spectrum of coverage of empirical antimicrobial therapy. Furthermore, this therapy should provide rapid clearance of pathogens, especially from blood and urine.

Combined antibiotic therapy should be based on local resistance epidemiology and individual risk factors for resistance, including recent antibiotic use, length of hospitalization, and previously known colonization. In our Hospital, ESBL-producing Enterobacteriaceae are 11% of total isolates, much lower than the Italian and European average [10, 11].

In our study, presenting a 3-year series of consecutive septic patients enrolled in the context of an ED, we found an increase in AKI cases in subjects treated with AG in the raw comparison between the two groups. However, this difference was not replicated after applying a propensity score match analysis. This result leads to a multifactorial explanation of the development of AKI in septic patients, not related to AG exposure.

This result confirms what has been reported in the literature [1215]. A short course or a single dose of AG does not seem to be associated with AKI, even in high-risk septic patients. Although older studies have obtained different results, they were likely influenced by a different pharmacokinetic pattern (longer cycles of multiple doses of AG per day) or by different bacterial strains, including nosocomial infections, being responsible for the sepsis. In 2015, Cobussen et al. found results similar to ours in patients developing AKI with or without AG administration, but an excess in mortality in the AG group was registered [12]. The mortality excess could be related to the worse presentation of patients treated with AG, and this can be deducted directly from the comparison between the SOFA scores, which is higher in the AG group. Moreover, patients in this group were more frequently in septic shock. The increased request for advice from the infectious disease specialist in our study indirectly reveals that patients in the AG group were more severe than the control group. Cobussen et al. obtained the same results in a large retrospective multicenter study [13], finding a similar pattern in both previously nephropathic and not nephropathic patients who had taken AG or just β-lactam. Regardless of the presence of AKI at hospital admission, AG did not worsen the renal function, and there was no delay in recovering a normal renal function (two weeks). In this study, patients in the AG group were more severely ill than the group that did not receive AG, as illustrated by the higher incidence of AKI at admission, qSOFA score, shock, ICU admissions, and 30-day mortality. Despite the difference in disease severity at admission, no significant differences were seen in AKI incidence during the first week of admission between groups.

Liljedahl Prytz et al. came to the same conclusions as us, hypothesizing that a single dose of AG is safer in avoiding chemical stress on an already saturated renal tubule [14]. Previous work by Carlsen et al. [15] showed no significant increase in AKI even using, as we did, a very sensitive staging method (KDIGO) to assess mild renal insufficiency and found an annual trend of AKI in a comparable percentage (80%) in both the AG and the monotherapy groups [15].

Our series notes that patients in the AG group more frequently presented abdominal or urinary infections rather than pulmonary infections. In these patients, septic syndrome likely evolved from complicated gram-negative bacterial infections. In 23% of cases, the infectious source was not detected.

Consultation with an infectious disease specialist most often suggests combination therapy with AG. This consultation has been associated with improved quality of care and better outcomes for several infectious diseases, including S. aureus bacteremia and invasive candidiasis [16]. Many studies argue that specialist consultation is associated with lower mortality in patients with bloodstream infections due to the standardization of the sepsis approach with effective timing and tailored therapy [1719]. Otherwise, the creation of a “ready-to-use” therapeutic protocol that takes into account the suspected site of infection, the patient’s previous colonization, and risk factors for exposure (such as hemodialysis for S. aureus) could be a reasonable alternative in a context of resource optimization and good therapeutic management even in “hub-and-spoke” hospital organization [20].

Our study demonstrates the safety of a class of drugs that is too often seen as a “kidney killer” and therefore avoided or underdosed in patients considered at risk (severe septic patients for whom intense antibiotic therapy could be a lifesaver in the early hours). At the same time, there is no reason to administer a low dose when given as a loading dose. Cobussen et al. found that 20% of septic patients in a Dutch ED received an aminoglycoside underdose (equivalent to <5 mg/kg) [21]. These patients required intensive care admission more frequently. Interestingly, patients who received the smaller AG dose also had higher creatinine levels. Therefore, the single-dose AG not only does not cause an excess of AKI cases compared to controls but could also have a nephroprotective effect by counteracting the haemodynamic and direct mechanisms induced by the bacterial spread in the organism.

On the other hand, the high potential benefit of the β-lactam/AG combination is relevant in carbapenem sparing strategies when considering the increasing carbapenem resistance of gram-negative species even outside the hospital.

Our study, being retrospective, is subject to some limitations. For example, data on the microorganisms that supported infections were not reported, in particular, whether sensitive or resistant to AGs. Moreover, the β-lactam therapy was not standardized in both groups (mono and combination). Furthermore, we could not stratify the patients’ initial conditions, for example, using the Charlson Score Index, due to the lack of the necessary variables. In any case, for the primary outcome we evaluated, the use of a propensity score match allowed us to eliminate the most relevant confounding factors associated with the development of AKI in septic patients in the ED.

 

Conclusion

According to the data we obtained, a single administration of gentamicin at the arrival time in the ED does not lead to an increased risk of AKI in septic patients.

 

Acknowledgements

The authors wish to thank all the Emergency Department staff and the Infectious Diseases Department of the ASFO hospital of Pordenone for their active collaboration in collecting the data.

 

Declarations

  1. Funding: No funds were provided to conduct this study.
  2. Conflicts of interest/Competing interests: No conflict of interest for any author.
  3. Availability of data and material: Data available by reasoned request.
  4. Code availability: Not applicable.
  5. Ethics approval: Retrospective cohort register exempted from ethics committee approval.
  6. Consent to participate: Each patient gave informed consent for data acquisition, and the European Privacy Regulation 2016/679 for General Data Protection Regulation (GDPR) was respected.
  7. Consent for publication: Each patient gave informed consent for data acquisition, and the European Privacy Regulation 2016/679 for General Data Protection Regulation (GDPR) was respected.
  8. Authors’ contributions: SV designed the study, collected the data, drafted the first draft and supervised the final draft; FC drafted the first draft and supervised the final draft; DO drafted the first draft and supervised the final draft, performed the statistical analysis; MC designed the study, collected the data; SF collected the data; AC collected the data; EP collected the data; LDS collected the data; DA collected the data; ML, LV and TB supervised the final draft.

 

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Glomerulonefriti da tossici e farmaci

Introduzione

Le sostanze tossiche e i farmaci rappresentano una causa sicuramente nota di danno tubulo-interstiziale. Non altrettanto popolare è il danno glomerulare indotto dalle stesse. Inoltre, una singola sostanza può estrinsecare il suo effetto iatrogeno a più livelli, intaccando contemporaneamente la funzionalità di più parti del nefrone. Il primo passo per indagare l’associazione tra nefropatia e danno da tossici/farmaci consiste notoriamente nello stabilire la relazione temporale tra l’esposizione alla sostanza e l’effetto iatrogeno. Tuttavia, due elementi complicano il quadro quando si tratta di danno glomerulare: in primo luogo, la diagnosi differenziale con le forme primitive può non essere agevole, altresì, il link temporale può non essere immediato, poichè, frequentemente, l’effetto iatrogeno si palesa dopo esposizione prolungata (settimane, mesi).

In questo articolo si affronterà l’argomento a partire dal meccanismo eziopatogenetico alla base del danno glomerulare, che si estrinseca in quadri anatomopatologici diversi e quindi, sovente, in presentazioni cliniche diverse; da qui, per risalire poi alle categorie di tossici/farmaci che ne sono responsabili. Non verranno affrontate singolarmente le categorie di farmaci già oggetto di relazioni specifiche nell’ambito del congresso.

 

Meccanismo di danno glomerulare

L’insulto glomerulare associato all’esposizione ad un agente tossico si può manifestare in due forme:  per tossicità cellulare diretta o tramite meccanismo immunomediato. La tossicità cellulare diretta può essere ulteriormente suddivisa in sottogruppi, in base all’elemento cellulare maggiormente interessato dal danno, siano i podociti, le cellule mesangiali o le cellule endoteliali. Per quanto riguarda la seconda categoria, il danno immunomediato, questo può estrinsecarsi in forma di nefropatia membranosa, vasculiti ANCA associate e glomerulonefriti simil lupiche (Figura 1) [1]. Non sempre, vedremo, la separazione tra le due categorie è così netta. Inoltre, approfondire il meccanismo che induce le glomerulonefriti secondarie, può essere di aiuto per approfondire l’eziologia delle nefropatie primitive.

Meccanismi alla base del danno glomerulare indotto da tossi e farmaci.
Figura 1. Meccanismi alla base del danno glomerulare indotto da tossi e farmaci. Radhakrishnan J, Perazella M. Drug-Induced Glomerular Disease: Attention Required! Clin J Am Soc Nephrol 10: 1287–1290, 2015.

Tossicità cellulare diretta

I. Il danno podocitario

In Tabella 1 vengono riportate le sostanze più frequentemente associate allo sviluppo di danno podocitario. Alla luce vasto utilizzo dei bifosfonati all’interno della popolazione generale e del peculiare meccanismo eziopatogenetico di danno, questa classe di farmaci verrà  più approfonditamente trattata.

MCD GSFS non altrimenti specificata GSFS collassante
IFN-α /-β

Pamidronato

Litio

FANS, inibitori COX2

 

 

Anti-VEGF

IFN-α /-γ

Pamidronato

Litio

Anabolizzanti

Sirolimus

Inibitori delle tirosin chinasi

Anti CTLA-4

Anti-VEGF

IFN-α /-β /-γ

Pamidronato (raramente zoledronato o alendronato)

Anabolizzanti

 

Tabella 1. Farmaci associati allo sviluppo di danno podocitario.

I Bifosfonati

I bifosfonati sono agenti preziosi per il trattamento dell’ osteoporosi post-menopausale, dell’ipercalcemia secondaria a malignità e delle metastasi ossee osteolitiche. I bisfosfonati più frequentemente implicati nel danno renale presentano catene laterali contenenti azoto (pamidronato, zoledronato e ibandronato). Questi ultimi hanno una potenza antiresorbente dimostrata in studi in vitro di circa 10.000 volte maggiore rispetto ai bisfosfonati non contenenti azoto (etidronato, clodronato). La nefrotossicità si associa più frequentemente alla somministrazione endovenosa [2] ed è dose e tempo dipendente, intendendo per tempo dipendente, in prima istanza, la frequenza delle somministrazioni. La nefrotossicità può essere ampiamente evitata rispettando le linee guida, ossia adeguando la dose e la frequenza delle somministrazioni in pazienti che presentano insufficienza renale [3]. Chi per primo riportò l’associazione tra bisfosfonato e GSFS fu Markovitz, nel 2001 [4]. L’anatomopatologo notò che 7 pazienti, anziani, caucasici, HIV negativi, sviluppavano GSFS collassante durante il trattamento attivo di malignità (mieloma multiplo in 6 casi e carcinoma mammario metastatico in uno). Nessun paziente presentava danno renale secondario a mieloma (es. amiloidosi, malattia da deposizione di catene leggere), microangiopatia trombotica associata a radioterapia o chemioterapia o nefropatia da urato (sindrome da lisi tumorale). Un solo paziente era stato trattato con interferone. Tutti i pazienti presentavano una normale funzionalità renale prima della somministrazione di pamidronato e non presentavano proteinuria significativa. Il trattamento con pamidronato veniva proseguito da 15 a 48 mesi prima dell’insorgenza di insufficienza renale (creatinina media sierica, 3.6 mg/dl) e sindrome nefrosica (proteinuria media di 12.4 g/die). Dopo l’interruzione del trattamento con pamidronato, la funzionalità renale migliorava  in due su 7 pazienti. Successivamente, numerosi studi hanno riportato l’associazione tra sindrome nefrosica e bifosfonati, e non solo con la forma collassante di GSFS [5-12]. La prognosi è favorevole con la sospensione del farmaco e l’utilizo di ACEi, a meno delle forme collassanti. Il potenziale meccanismo di tossicità epiteliale renale potrebbe derivare da effetti cellulari simili a quelli documentati negli osteoclasti. I bifosfonati contenenti azoto, come il pamidronato, possono inibire la via intracellulare del mevalonato, necessaria per la prenilazione delle GTPasi [13], come il proto-oncogene H-Ras e il regolatore citoscheletrico Rho A. Senza la coda prenilica, le GTPasi non possono ancorarsi alla membrana cellulare per stimolare le chinasi attivate dai mitogeni (Mitogen-Activated protein Kinases; MAPKs). Tutto ciò interferisce nella trasmissione dei segnali cellulari richiesti per la proliferazione, comportando alterazioni morfologiche fino alla morte per apoptosi. I bifosfonati che non contengono azoto vengono metabolizzati, a livello cellulare, in un composto in grado di competere con l’adenosina trifosfato (ATP), presentandosi come analoghi non idrolizzabili (pseudo-pirofosfati) [14]. A seguito di ciò, l’assemblaggio delle componenti del citoscheletro osteoclastico viene interrotto, con conseguente perdita del bordo arruffato degli osteoclasti. La peculiare citoarchitettura di osteoclasti e podociti, abbinata agli alti livelli di farmaco raggiunto nelle ossa e nei reni, può spiegare la specifica tossicità cellulare osservata.

 

II. Il danno mesangiale

La glomerulosclerosi nodulare (GSN) è una lesione in cui la sclerosi mesangiale si compatta in noduli e la lobularità glomerulare viene accentuata. Tipicamente la GSN è associata a: glomerulosclerosi diabetica, glomerulonefriti membranoproliferative croniche primitive o secondarie, nefropatie correlate a disprotidemie e/o a depositi glomerulari organizzati, patologie che comportano una condizione di ipossia cronica (Tabella 2).

Glomeruslosclerosi diabetic

 

Disprotidemie

Amiloidosi

Malattia da deposizione di immunoglobuline monoclonali

 

Glomerulonefrtie fibrillare e immunotattoide

 

Glomerulonefriti membranoproliferative croniche

 

Malattie associate a ipossiemia cronica

 

Glomerulosclerosi nodulare idiopatica

 

Tabella  2. Diagnosi differenziali di glomerulosclerosi nodulare.

Se invece il paziente non dovesse rispondere a nessuna di queste caratteristiche? Tale condizione è stata inizialmente segnalata come glomerulosclerosi diabetica senza diabete [15-16] e successivamente rinominata glomerulosclerosi nodulare idiopatica (GNI) [17]. Tuttavia, l’analisi delle case series pubblicate sull’argomento, faceva emergere un sostanziale collegamento tra questa entità e il fumo di sigaretta, nonchè l’ipertensione arteriosa [18]. Il gruppo della Columbia University descrisse una prevalenza di diagnosi di GNI dello 0.45% sul totale delle biopsie su rene nativo condotte dal 1996 al 2001. La casistica era composta di 23 pazienti, prevalentemente maschi (78%), caucasici (74%), con un’età media di 68 anni. La prevalenza di ipertensione (96%, durata media di 15.1 anni) e di forti tabagisti (91%, intake medio cumulativo di 52.9 pacchetti-anno) all’interno della studio in esame era estremamente elevata. Tra i fumatori, il 57% era attivo al momento dello studio, mentre il 43% era compost da ex tabagisti. Il 90% dei pazienti era affetto da iperoclesterolemia e il 44% da vasculopatia periferica. La maggioranza dei pazienti presentava insufficienza renale (83%; creatinina sierica media di 2.4 mg/dl) e proteinuria (3 g/die nel 70%; proteinuria 24 ore media 4.7 g). Franca sindrome nefrosica era presente nel 22% dei pazienti [19]. L’eziopatologia della nefropatia diabetica e quindi il meccanismo alla base della formazione dei noduli di kimmelstein wilson è stato precedentemente indagato: il ruolo principe è rivestito dai prodotti di glicosilazione avanzata, che alterano l’architettura e la funzione della matrice extracellulare (ECM) interagendo con i loro recettori specifici AGE (RAGE). Il legame del ligando con RAGE attiva molteplici cascate che promuovono la sintesi cellulare mesangiale di citochine fibrogeniche, quali PDGF e TGF-b [20].  L’esposizione delle cellule mesangiali agl AGE stimola la produzione di componenti dell’ECM tra cui collagene di tipo IV, laminina, eparan solfato e fibronectina. L’immunoistochimica rileva gli AGE nei noduli mesangiali e nelle zone di fibrosi interstiziale nei pazienti con glomerusloslcerosi nodulare, sia diabetici che non. Nei vasi sanguigni dei fumatori di sigarette sono stati rilevati livelli aumentati di AGE [21]. Oltre a quanto già implicato nella formazione dei noduli nella glomerulosclerosi diabetica, il fumo agisce tramite diversi altri meccanismi. Il fumo di sigaretta contiene radicali liberi in grado di indurre direttamente lo stress ossidativo, il quale aumenta la produzione di ECM. Inoltre, il fumo esercita effetti sull’emodinamica intrarenale, principalmente attraverso l’attivazione simpatica, inducendo vasocostrizione renale e conseguente riduzione del GFR [22]. La nicotina stimola l’ angiogenesi attraverso il legame con i recettori della nicotina acetilcolina sulle cellule endoteliali [23]. In modo speculativo, si potrebbe ipotizzare che i fattori angiogenici siano alla base della particolare neovascolarizzazione che si osserva nei noduli glomerulari.

Meccanismi fisiopatologici di danno glomerulare
Figura 2. Meccanismi fisiopatologici di danno glomerulare nella glomeruslosclerosi nodulare associata al fumo di sigaretta. Nasr SH, D’Agati VD. Nodular glomerulosclerosis in the nondiabetic smoker. J Am Soc Nephrol 18: 2032–2036, 2007

 

III. Il danno endoteliale

La definizione di microangiopatia trombotica (TMA) viene comunemente applicata a più condizioni che condividono le medesime caratteristiche cliniche e istologiche. I farmaci rivestono un ruolo fondamentale nell’eziopatogenesi della TMA, costituendo una delle cause principali di TMA acquisita. La tossicità renale indotta dai farmaci antineoplastici, tra cui gli anti-VEGF, dagli antimicrobici/antivirali, nonchè dai FANS è stata ampiamente discussa nelle sessioni dedicate. Analizzeremo, quindi, il ruolo dei farmaci antiaggreganti nell’indurre il danno endoteliale.

 

Antiaggreganti piastrinici

Paradossalmente, questa classe di farmaci originariamente nata per prevenire o trattare gli eventi arteriosi,  è una delle più discusse in merito al coinvolgimento nel danno endoteliale acquisito. Le tienopiridine (ticlopidina, clopidogrel e prasugrel) sono antagonisti del recettore ADP P2Y12 e sono indicate nella prevenzione/trattamento di eventi cerebrovascolari o coronarici, inclusa la trombosi intra-stent [24-25]. Il lavoro che più approfonditamente ha indagato la relazione tra microangiopatia trombotica e utilizzo di farmaci anti-aggreganti è stato lo studio SONAR. In questa analisi sono stati revisionati tutti gli articoli e le segnalazioni di eventi avversi relativi all’utilizzo delle tienopiridine, dal 1991 al 2011. La ticlopidina venne approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 1991. L’incidenza di TMA è di circa lo 0.02%. Il clopidogrel entrò nella pratica clinica nel 1998, in seguito alla pubblicazione di trial clinici che mostravano un profilo di sicurezza maggiore rispetto alla ticlopidina. Attualmente però, alla luce del volume di utilizzo del farmaco, il clopidogrel risulta essere il farmaco maggiormente implicato nella TMA indotta da farmaci. Dal 1998 al 2011, la FDA ricevette 197 segnalazioni di TMA associata a clopidogrel, con un’incidenza vicina allo  0,012% [24]. Il prasugrel venne approvato nel 2009 per la prevenzione della trombosi su stent coronarico e, nell’arco di 24 mesi, vennero segnalati meno di 20 casi di TMA. In particolare, non sono stati descritti casi di TMA in studi clinici contenenti 1769 pazienti trattati con prasugrel [24]. Spostandoci dal volume epidemiologico del problema, il dato particolarmente interessante era costituito dal fatto che farmaci con un meccanismo d’azione molto simile, potessero estrinsecare il danno endoteliale con mccanismi diversi. La ticlopidina sembra ridurre l’attività di ADAMTS-13 tramite la produzione di un autoanticorpo. Non è del tutto chiaro come la ticlopidina induca questo effetto; è verosimile che uno dei meccanismi coinvolti sia il mimetismo molecolare. A ciò si aggiunge la scoperta che in alcuni pazienti siano state descritte concomitanti mutazioni del fattore H del complemento, suggerendo che possano essere richiesti due colpi [26]. Per quanto riguarda il Clopidogrel, invece, non si sono rilevati autoanticorpi e quindi la maggior parte dei casi non è spiegata dal deficit di ADAMTS-13. Il meccanismo eziopatogenetico è sconosciuto, ma è stato documentato un ingente rilascio del fattore di von Willebrand, a prova del danno endoteliale indotto dal farmaco [24-25]. Il fatto che il meccanismo di danno possa essere diverso nel caso di ticlopidina o clopidogrel è supportato anche dalla diversa tempistica con cui si manifesta clinicamente il danno: tra le 2 e le 12 settimane dopo l’esposizione alla ticlopidina, entro le 2 settimane per clopidogrel e prasugrel. Dal punto di vista clinico le complicanze neurologiche sono state documentate più frequentemente con la ticlopidina (72%), e l’insufficienza renale acuta è risultata meno frequente di quanto non si verifichi con il clopidogrel (29 contro il 55%) [24-25]. In merito al trattamento, è raccomandata la sospensione del farmaco per tutte le tienopiridine. Nei casi associati a ticlopidina le tecniche plasmaferetiche hanno fornito un vantaggio: i pazienti trattati recuperano più frequentemente e presentano tassi di mortalità più bassi (0% -40%), rispetto a coloro a cui viene indicata la sola sospensione del farmaco (50% -67%) [24-25]. L’insufficienza renale cronica è una complicanza non infrequente del danno indotto dalle tienopiridine [24-25] (Tabella 3).

Abbiamo visto come la ticlopdina possa indurre danno endoteliale anche mediante la produzione di un autoanticorpo. Questo ci permette di introdurre la seconda categoria di danno glomerulare indotto da tossici e farmaci: il danno immunomediato.

Ticlopidina Clopidogrel Prasugrel
Incidenza di TMA (%) 0.02 0.012
Esordio Tra le 2-12 settimane Entro 2 settimane Entro 2 settimane
Meccanismo Ab anti ADAMTS-13 Danno endoteliale diretto? Danno endoteliale diretto?
Clinica Anemia emolitica microangiopatica Anemia emolitica microangiopatica (lieve)
Manifestazioni Complicanze neurologiche (72%)

Insufficenza renale acuta (29%)

Insufficenza renale acuta (55%)
Management Sospensione del trattamento

Tecniche plasmaferetiche

Sospensione del trattamento

Tecniche plasmaferetiche (?)

Sospensione del trattamento

Tecniche plasmaferetiche (?)

Outcome CKD: infrequente CKD: frequente
Tabella 3. Riassunto delle caratteristiche di danno endoteliale indotto dalle tienopiridine

Il danno secondario a meccanismo immunomediato

L’esposizione a determinati farmaci può suscitare una risposta immunitaria che non dipende dal meccanismo di azione del farmaco. Gli autoanticorpi che ne derivano possono essere responsabili di franche manifestazioni cliniche autoimmuni, che includono le glomerulonefriti ANCA correlate e le glomerulonefriti da immunocomplessi.

 

I. Vasculiti ANCA-associate

Negli ultimi anni, un numero sempre maggiore di farmaci è stato correlato all’induzione di vasculiti ANCA-associate (AAV). Sebbene diverse categorie di farmaci vengano citate in letteratura, quelli più frequentementi implicati in tale manifestazione sono i farmaci anti-tiroidei e, recentemente, i farmaci biologici [27-28] (Tabella 4). Secondo gli studi prospettici e trasversali disponibili, Balavoine et al [29] hanno riportato che la prevalenza di AAV indotte da propiltiouracile (PTU) variava dal 4% al 64%, con una prevalenza mediana del 30%, mentre la prevalenza di AAV indotte dal metimazolo variava dallo 0 al 16%, con una prevalenza mediana del 6%. È difficile distinguere le AAV indotte da farmaci da quelle primitive in base alle manifestazioni cliniche. Inoltre, non ci sono marcatori clinicopatologici o di laboratorio specifici, in grado di distinguerle [30]. Possiamo estrapolare alcuni elementi utili alla diagnosi differenziale dallo studio retrospettivo di Choi [31] e dai numerosi studi retrospettivi che analizzano le caratteristiche dei pazienti con diagnosi di AAV correlata all’assunzione di farmaci anti-tiroidei [32-34]. Le AAV indotte da farmaci anti-tiroidei si verificano principalmente nelle giovani donne, mentre le AAV primitive colpiscono solitamente negli anziani, con una incidenza simile tra uomini e donne. Questa differenza è attribuibile in prima istanza alla diversa epidemiologia delle malattie tiroidee che inducono all’utilizzo dei farmaci sopracitati. Le AAV indotte da farmaci e tossici si presentano più frequentemente con coinvolgimento cutaneo, meno frequentemente con grave sintomatologia sitemica (temperatura corporea > 38,5 ° C, perdita di peso > 2 kg al mese) o con coinvolgimento polmonare e neurologico. Coerentemente con quanto riscontrato a livello clinico, nelle AAV indotte da farmaci i livelli medi di creatinina e proteina C reattiva risultavano inferiori. Nello studio retrospettivo di Choi su 250 pazienti con vascultie AAV indotta da farmaci, così come in diversi studi condotti su pazienti con AAV indotta da propiltiouracile, emergeva una netta prevalenza per positività degli ANCA anti-MPO [31-35]. Inoltre, la positività per ANA risultava significativamente superiore rispetto a quanto riscontrato nei pazienti con AAV primitiva, così come la presenza di anticorpi contro la β2-glicoproteina 1 e gli istoni. Infine, nelle AAV indotte da farmaci o agenti tossici gli ANCA riconoscono tipicamente diversi antigeni bersaglio, tra cui la lattoferrina, la catepsina G, la azurocidina e l’elastasi neutrofila. Al contrario, nelle AAV primitive gli ANCA generalmente riconoscono solo un antigene bersaglio, MPO o PR3. Sulla base di questi reports, l’AAV associata a farmaci deve essere presa in considerazione nei pazienti con una storia di esposizione al farmaco, anticorpi anti-MPO e presenza di altri autoanticorpi. Ad oggi non sono stati condotti trial per il trattamento dell’AAV associata a farmaci. Nei pazienti che si presentino con clinica modesta, l’interruzione del farmaco incriminato può dimostrarsi sufficiente a controllare la patologia. Tuttavia, nei casi con grave coinvolgimento renale o polmonare, deve essere preso in considerazione un trattamento immunosoppressivo alla stregua di quello utilizzato nelle AAV primitive, sebbene la durata e l’eventuale necessità di una terapia di mantenimento, vadanovalutati caso per caso [36]. La prognosi dell’AAV indotta da farmaci è generalmente migliore di quella dell’AAV primitiva [31-35].

 

Farmaci anti-tiroidei            Metimazolo, Propiltiouracile, Carbimazolo
Farmaci biologici                  Adalimumab, Etanercept, Infliximab, Golimumab
Antibiotici                              Minociclina, Nitrofurantoina, Trimetoprim-Sulfametossazolo,Vancomicina
Anti-tubercolari                    Isoniazide, Rifampicina
DMARDs*                              Sulfasalazina, D-Penicillamina
Agenti Psicotropi                  Clozapina
Altri                                         Cocaina/Levamisolo
Tabella 4. Farmaci e tossici associati a vasculitis-ANCA farmaco-indotte (*disease-modifying anti-rheumatic drugs)

II. Malattie da immunocomplessi

Il lupus eritematoso e la nefropatia membranosa indotti da farmaci sono entità note dal secolo scorso [37-38], ma risentono di rinnovato interesse poichè farmaci di utlizzo relativamente recente possono esacerbare tali problematiche [39-40]. I farmaci che più comunemente sono stati associati al lupus (drug-induced lupus erythematosus: DILE) sono l’idralazina, la procainamide, l’isoniazide e la minociclina. Più recentemente, l’attenzione è stata catalizzata da farmaci  inibitori del fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α) [41-43]. Una review condotta nel 2018 ha riportato come dal gennaio 2016 al maggio 2018, i casi segnalati in letteratura di DILE sistemico fossero 12: nove pazienti di sesso femminile (75%) e tre pazienti di sesso maschile (25%), con un’età media di 44 anni (range 9-91). I farmaci anti-TNF-α risultavano i maggiormente implicati nell’indurre la manifestazione sitemica (cinque casi; quattro erano associati a infliximab e uno ad adalimumab). Due casi sistemici di DILE associati rispettivamente a infliximab e carbamazepina, si sono verificati nella popolazione pediatrica. Ciò implica che DILE dovrebbe essere sospettato anche nei pazienti più giovani con trattamento a lungo termine con i farmaci sopracitati. In un precedente studio di coorte, i farmaci biologici, inclusi gli anti-TNF-α, venivano associati a malattia renale autoimmune in 26 pazienti [44]. Sulla base delle manifestazioni cliniche e dell’istologia renale, i pazienti venivano classificati in glomeruloefrite associata a vasculite sistemica (GNSV), glomerulonefrite in lupus-like syndrome, e malattia renale autoimmune isolata. Gli inibitori del TNF-α includevano etanercept (15 pazienti; 52%), adalimumab (9 pazienti; 31%) e infliximab (3 pazienti; 10%). Altri farmaci associati a DILE includevano tocilizumab e abatacept (un paziente ciascuno; 3%); il 14% dei pazienti sono stati classificati come glomerulonefrite in lupus-like syndrome. La prognosi peggiore era associata a GNSV e all’uso continuativo dei farmaci biologici.  Diverse teorie sono state proposte per spiegare il DILE associato a inibitori del TNF-α. Il blocco del TNF-α riduce significativamente la produzione di citochine Th1, guidando la risposta immunitaria verso la produzione di citochine Th2, IL-10 e IFN-α. Il risultante squilibrio citochinico provoca la produzione di autoanticorpi e manifestazioni lupus-like [44-46]. Inoltre, i farmaci anti-TNF-α possono indurre l’apoptosi nelle cellule infiammatorie, rilasciando autoantigeni che stimolano la formazione di autoanticorpi [47]. Il miglioramento clinico dopo l’interruzione del farmaco anti-TNF-α è l’unico modo per determinarne il coinvolgimento nella genesi del DILE.

 

Conclusioni

I farmaci e le sostanze tossiche sono cause ben note di danno renale tubulo-interstiziale; tuttavia, è fondamentale che il nefrologo abbia familiarità con le glomerulonefriti secondarie all’esposizione a determinati farmaci o che, perlomeno, si ponga il quesito di un’eventuale diagnosi differenziale.

Il volume sempre crescente di pazienti in terapia con i farmaci sopracitati, rende l’argomento sempre più quotidiano e attuale. Riconoscere il problema e sospendere, di conseguenza, l’agente incriminato costituiscono il modo migliore per garantire il recupero della funzione renale. Per la maggior parte dei farmaci, è impossibile prevedere l’andamento del recupero renale. Di conseguenza, il medico dovrà monitorare da vicino il paziente e personalizzarne la gestione.

 

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Calcolosi renale e nefrocalcinosi da farmaci e tossici

Abstract

Diverse terapie farmacologiche, pur correttamente condotte, possono favorire sia la comparsa di precipitati cristallini a livello dei tubuli e dell’interstizio renale, con aspetti morfologici di nefrocalcinosi e quadri clinici di insufficienza renale acuta, sia la formazione di veri e propri calcoli, con possibili fenomeni di uropatia ostruttiva.

I cristalli e i calcoli possono essere costituiti dal farmaco somministrato, oppure dai componenti litogeni urinari di più comune riscontro (sali di calcio o acido urico), precipitati in conseguenza di alterazioni metaboliche indotte dalla terapia farmacologica. In quest’ultimo caso, la corretta diagnosi causale può talora sfuggire, giacché la composizione chimica dei calcoli è identica a quella osservabile in caso di litiasi idiopatica.

In questo articolo sono illustrate le caratteristiche cliniche e metaboliche essenziali delle tipologie più significative di nefrolitiasi farmaco-correlata, con alcuni riferimenti anche ai rari casi riportati di nefrolitiasi riconducibile a sostanze tossiche.

I calcoli contenenti i farmaci sono per lo più radiotrasparenti e rilevabili mediante ecografia oppure TC con mezzo di contrasto. La metodica più idonea a definirne la composizione chimica è la spettrofotometria a raggi infrarossi, applicabile sia sui calcoli espulsi, sia su depositi cristallini eventualmente riscontrabili in campioni bioptici renali.

Dal punto di vista terapeutico, la sospensione del farmaco e/o la sua sostituzione con altra molecola più solubile in ambiente urinario sono generalmente risolutive. Le misure di profilassi generale della calcolosi urinaria (idratazione e manipolazione del pH urine ove possibile), oltre a prevenire l’insorgenza della malattia nei casi a rischio, quando sia sospesa la terapia farmacologica possono contribuire alla progressiva dissoluzione dei cristalli presenti nel rene.

In alcuni casi, i precipitati cristallini possono indurre reazioni infiammatorie con reliquati fibrotici permanenti a livello del parenchima renale.

Parole chiave: nefrolitiasi, urolitiasi, nefrocalcinosi, farmaci.

Introduzione

Il riscontro di farmaci all’interno di uroliti è un evento raro, osservato in circa l’1% dei calcoli sottoposti ad analisi [1]. E’ verosimile che la reale prevalenza del fenomeno sia superiore, considerando che non sempre i calcoli vengono espulsi o analizzati e che il riconoscimento di costituenti chimici inusuali richiede procedimenti analitici particolari, non disponibili in tutti i laboratori.

Le prime segnalazioni di calcolosi indotta da farmaci risalgono agli anni ’40, quando furono descritti casi di urolitiasi insorta in corso di terapia con sulfamidici [2]. Dagli anni ’80 in poi, la calcolosi renale da farmaci divenne un’entità più nota e riconosciuta, anche grazie alla diffusione di altri preparati in grado di favorirne l’insorgenza, fra i quali uno dei più noti è il Triamterene [3].

Nelle ultime due decadi del secolo scorso, le nuove terapie dell’infezione da HIV con farmaci antiretrovirali ebbero un evidente impatto anche sull’epidemiologia della calcolosi da farmaci [4].

Peculiari realtà socio-economiche possono influire sull’incidenza di particolari tipologie di calcolosi. Ne è un esempio la litiasi di efedrina, osservata negli USA grazie all’ampia diffusione locale di questo farmaco come droga da abuso, ma pressoché sconosciuta in Europa [5].

 

Eziologia e patogenesi

 Nell’urina sono presenti numerosi composti organici e inorganici, la cui solubilità dipende sia dalla loro peculiare struttura chimica, sia da alcune caratteristiche del microambiente urinario, quali ad esempio la forza ionica, la presenza di inibitori della cristallizzazione e il pH.

La precipitazione di cristalli a livello del rene e delle vie urinarie e la formazione di uroliti indotte da farmaci possono essere ricomprese nell’ambito di due quadri fisiopatologici fondamentali:

a) Nefrolitiasi e nefrocalcinosi costituite da farmaci: il farmaco stesso, scarsamente solubile nell’urina, precipita sotto forma di calcolo in forma pura o mista con altre componenti, per lo più proteine o comuni sali litogeni. Questo tipo di litiasi, che potremmo definire “di farmaci”, è tipicamente riscontrabile in corso di terapie con farmaci antiretrovirali (Indinavir, Atazanavir).

b) Nefrolitiasi e nefrocalcinosi metaboliche, indotte da farmaci: il farmaco induce uno squilibrio tra i promotori e gli inibitori della cristallizzazione dei comuni sali litogeni urinari, i quali precipitano sotto forma di cristalli e calcoli che hanno una composizione identica a quella della calcolosi idiopatica (sali di calcio o acido urico). Un esempio di questo meccanismo patogenetico è quello della nefrolitiasi di calcio fosfato indotta da farmaci che inibiscono i meccanismi fisiologici di acidificazione urinaria, come il Topiramato.

Nel caso di precipitazione di micro-cristalli a livello tubulo-interstiziale renale, la sintomatologia può essere quella di un’insufficienza renale acuta di variabile entità, con aspetti morfologici di nefrocalcinosi, micro- o macroscopica [6].

Nel caso di formazione di calcoli, si osserva il quadro clinico caratteristico, conseguente al transito dei calcoli lungo le vie urinarie.

 

Fattori di rischio

Poiché la nefrolitiasi “di farmaci” colpisce soltanto alcuni dei pazienti in trattamento farmacologico, è verosimile che esistano fattori predisponenti individuali.

Ad esempio, un’anamnesi positiva per nefrolitiasi in senso lato aumenta il rischio di litiasi da Triamterene, per la quale è stata riportata un’incidenza del 35% in soggetti con precedenti di calcolosi idiopatica, a fronte di un 4% in pazienti con anamnesi litiasica negativa [3]. E’ probabile che ciò accada anche nel caso di altri tipi di calcolosi da farmaci, considerando che cristalli e uroliti di qualsiasi natura possono costituire un background per la deposizione e la crescita anche dei cristalli di farmaco, come documentato dal riscontro di calcoli misti di farmaci e sali di calcio.

Analogamente, fattori di rischio generici per urolitiasi, quali condizioni di scarsa idratazione e ridotto volume urinario, aumentano anche il rischio di calcolosi correlata ai farmaci.

Per quanto riguarda il pH urinario, i suoi effetti sulla litiasi “di farmaci” non sono univoci: bassi valori di pH facilitano la cristallizzazione dei sulfamidici e del metotrexate, mentre un pH alcalino aumenta il rischio di precipitazione dei più comuni farmaci antiretrovirali [7].

Infine, il rischio litogeno può variare anche in funzione delle dosi del farmaco, della sua cinetica (es: rapidità di assorbimento e picchi di escrezione urinaria), della durata del trattamento, delle dimensioni dei cristalli e della loro interazione con l’urotelio.

 

Diagnosi

Analisi del calcolo

Le metodiche più adeguate a definire la composizione chimica dei calcoli renali sono la spettrometria a infrarossi o FTIR (Fourier-Transform Infrared Spectroscopy), la diffrattometria a raggi X e la spettrometria di massa.

Nelle forme di calcolosi “di farmaci”, il riscontro delle specifiche molecole all’interno del calcolo è dirimente sull’eziologia della litiasi.

Nel caso delle calcolosi “indotte da farmaci”, poiché la composizione dei calcoli è indistinguibile da quella della litiasi idiopatica, il nesso causale fra terapia farmacologica e nefrolitiasi spesso costituisce soltanto un sospetto diagnostico, formulato sulla base dell’anamnesi clinico-farmacologica.

Esame del sedimento urinario

La valutazione della cristalluria può essere di aiuto nell’individuare condizioni di rischio litogeno, sia in termini di precipitazione cristallina tubulo-interstiziale, sia di formazione di calcoli [8]. Peraltro, così come accade per la nefrolitiasi idiopatica, anche nel caso della calcolosi da farmaci la cristalluria può rimanere a lungo un riscontro isolato scarsamente evolutivo verso forme sintomatiche.

Morfologia radiologica

Nella maggioranza dei casi, i calcoli compostiiti da farmaci allo stato puro sono radiotrasparenti ai radiogrammi diretti dell’addome e sono individuabili soltanto con TC o ecografia. Fanno eccezione i calcoli costituiti da silicati e da triamterene, debolmente radiopachi [9].

I calcoli di Mesalazina, un farmaco impiegato nella terapia delle malattie infiammatorie intestinali, per la loro scarsa densità e consistenza possono essere reperibili, talora anche con qualche difficoltà, soltanto mediante TC con mezzo di contrasto. La diagnostica è resa ulteriormente difficoltosa dal fatto che, per la loro debole consistenza, raramente inducono dilatazione delle vie urinarie anche in corso di colica [10].

Biopsia renale

In pazienti con insufficienza renale acuta sottoposti a biopsia renale, può essere osservabile una precipitazione di cristalli a livello tubulo-interstiziale. Oltre alla microscopia ottica, non sempre sufficiente a definire con certezza la natura dei cristalli, sono disponibili metodiche che, associando alla microscopia tradizionale la spettrofotometria a infrarossi, consentono di determinare con accuratezza la composizione dei depositi cristallini tessutali [11].

 

Nefrolitiasi e nefrocalcinosi costituite da farmaci

Ad oggi, sono stati descritti numerosi farmaci in grado di precipitare in forma cristallina nelle urine [8]. Pur nella rarità degli eventi, considerati in senso assoluto, i farmaci oggi più frequentemente riscontrabili nei calcoli renali sono riportati nella Tabella 1. Le loro caratteristiche salienti saranno qui di seguito sinteticamente illustrate.

Antibatterici Sulfamidici (Sulfametossazolo*, Sulfadiazina, Sulfasalazina)

Penicilline (Ampicillina*, Amoxicillina*)

Cefalosporine (Ceftriaxone)

Chinolonici (Ciprofloxacina*, Norfloxacina*)

Antivirali Inibitori delle proteasi (Indinavir, Atazanavir, Nelfinavir)

Inibitori della transcrittasi inversa (Efavirenz)

Foscarnet *, Aciclovir *.

Vari Triamterene

Silicati

Metotrexate *

Efedrina

Mesalazina

Oxipurinolo

Melamina

(*Per lo più cristalli).
Tabella 1.  Principali farmaci riscontrati in cristalli e/o calcoli urinari.

Sulfamidici

Le prime osservazioni di danno renale da sulfamidici risalgono a circa ottant’anni or sono, quando questi erano gli unici antibatterici disponibili. Successivamente, con la scoperta di altri farmaci, l’uso dei sulfamidici divenne più raro, così come l’incidenza di patologie dovute ai loro effetti collaterali.

In tempi più recenti, l’efficacia della Sulfadiazina nella toxoplasmosi encefalica in soggetti con AIDS ha riportato in evidenza il problema, essendo segnalata un’incidenza di coinvolgimento renale (precipitazione tubulo-interstiziale o nefrolitiasi) fino al 7.5% [12].

In soggetti curati per malattie infiammatorie croniche dell’intestino, la Sulfasalazina può aumentare il rischio di insufficienza renale acuta e nefrolitiasi, già presente in questi pazienti a causa della frequente concomitanza di ipoidratazione, iperossaluria enterica, ipocitraturia e iperacidità urinaria [13].

La Mesalazina, un FANS talora impiegato in alternativa alla sulfasalazina, possiede anch’essa una potenzialità litogena [14].

Il Sulfametossazolo, comunemente utilizzato in associazione con Trimetoprim, può indurre una cristalluria di Nacetil-sulfametossazolo idrocloruro (il cui aspetto microscopico lo rende talora confondibile con l’acido urico), ma il rischio di nefrolitiasi e uropatia ostruttiva è scarso [15].

In tutti i casi di impiego di sulfonamidi, un’abbondante idratazione e un’alcalinizzazione urinaria costituiscono le misure profilattiche principali rispetto al rischio litogeno.

Antibiotici

Sono segnalati casi di insufficienza renale acuta da precipitazione intratubulare di Ampicillina e Amoxicillina, a seguito di somministrazione di dosi molto elevate di questi antibiotici [16]; non sono stati invece riportati episodi certi di nefrolitiasi.

La formazione di calcoli di Ceftriaxone è stata ripetutamente segnalata, quasi esclusivamente in età pediatrica [17]. Nel medesimo contesto, è stata riportata anche una significativa incidenza di colelitiasi da ceftriaxone, con prevalenze variabili dal 15 al 40% [18].

La Ciprofloxacina e fluorochinolonici sono poco solubili a pH alcalino, una condizione facilmente riscontrabile in urine infette da germi ureasi produttori. Mentre espulsioni di calcoli di ciprofloxacina sono aneddotiche, meno rari sono i casi di insufficienza renale da nefrotossicità tubulo-interstiziale, con o senza evidente precipitazione cristallina [19].

Antivirali

Tra i farmaci antivirali a rischio litogeno, giocano un ruolo clinicamente più significativo quelli impiegati nella terapia anti HIV.

L’Indinavir, uno dei primi ad essere utilizzato per questo scopo, ha una consistente potenzialità litogena, con un’incidenza di nefrolitiasi variabile tra il 7 e il 40% [20]. I calcoli sono radiotrasparenti e, per la loro bassissima densità, talora mal evidenziabili anche in ecografia. Per visualizzarli adeguatamente è dunque spesso necessaria la TC con mezzo di contrasto. Le medesime caratteristiche di morfologia radiologica sono condivise anche da altri farmaci anti-proteasi, quali ad es. atazanavir, nelfinavir, darunavir.

Peraltro, proprio grazie alla loro debole consistenza, i calcoli di Indinavir transitano abbastanza agevolmente lungo le vie urinarie e possono essere espulsi spontaneamente.

Oltre alla calcolosi renale, sono descritti quadri di insufficienza renale acuta da precipitazione intraparenchimale di cristalli di Indinavir, la cui solubilità urinaria è massima a pH 5, mentre a pH 7 è di circa quindici volte inferiore [21].

Rispetto all’Indinavir, con l’Atazanavir è stato segnalato un rischio di nefrolitiasi assai minore, con un’incidenza inferiore all’1%.  Tuttavia, trattandosi di calcoli più consistenti rispetto a quelli di Indinavir, questi sono meno suscettibili di espulsione spontanea ed è più spesso necessario ricorrere a procedure urologiche disostruttive [22].

Farmaci vari

Triamterene

La nefrolitiasi da Triamterene è uno dei casi più paradigmatici di nefrolitiasi da farmaci [3]. In passato questo farmaco fu usato come antiipertensivo, o come diuretico risparmiatore di potassio in associazione ai tiazidici. Ad oggi il suo uso è stato quasi abbandonato per la disponibilità di farmaci alternativi.

Silicati

La prevalenza di calcoli contenenti silicati è intorno allo 0.1% dei calcoli analizzati. I primi riscontri si riferiscono ad individui consumatori di silicato di magnesio come antiacido gastrico. In seguito, la litiasi di silicati fu osservata anche in pazienti che apparentemente non avevano mai assunto questi preparati [23]. Dunque, la patogenesi di questo genere di calcolosi non è ancora ben chiara.

Molte preparazioni farmaceutiche di uso comune contengono silicati quali eccipienti necessari per il confezionamento delle compresse. Considerando che le politerapie farmacologiche sono oggi molto frequenti, la possibilità che un paziente ingerisca silicati in quantità litogenetica merita di essere presa in considerazione.

In attesa di più chiare evidenze in merito, pare comunque ragionevole, nel caso di pazienti affetti da litiasi di silicati, compiere un’accurata indagine sui preparati farmaceutici da loro assunti ed eventualmente procedere ad adeguate sostituzioni.

Metotrexate

In conseguenza di una bassa solubilità in urine acide, il Metotrexate somministrato ad alte dosi per via endovenosa può causare insufficienza renale acuta da precipitazione intratubulare [24].  L’alcalinizzazione delle urine è protettiva, aumentando di dieci volte la solubilità del farmaco. Ad oggi non sono noti casi di nefrolitiasi di Metotrexate.

Efedrina

Sono stati osservati negli USA numerosi casi di nefrolitiasi di efedrina, assunta in modo non controllato per scopo dimagrante o per uso voluttuario [25].

Oxipurinolo

Casi sporadici di calcoli contenenti Oxipurinolo, per lo più commisto a purine, sono stati descritti in pazienti assumenti dosi esuberanti di Allopurinolo (600-900 mg) per gravi iperuricemie (S. di Lesch-Nyhan, emopatie) [26]. 

Melamina

Nel 2008, in Cina vi fu un’epidemia di nefrolitiasi infantile causata dalla contaminazione del latte in polvere con melamina. Circa 300.000 soggetti ne furono affetti, spesso in modo asintomatico, ma talora con uropatie ostruttive gravi o nefropatie tubulo-interstiziali [27]. I calcoli erano costituiti da una miscela di melamina e acido urico.

Ad oggi, la melamina è utilizzata, con specifica regolamentazione, per preparazione di contenitori alimentari e il rischio di contaminazione umana dovrebbe essere sotto controllo.

Eroina

Così come per altre sostanze stupefacenti, anche nel caso dell’eroina è possibile che gli effetti nefrotossici osservati siano riconducibili, almeno in parte, alle numerose sostanze da taglio ad essa associate. Tuttavia, vi sono segnalazioni di cristallopatia renale verosimilmente dovuta all’eroina in quanto tale [28].

 

Nefrolitiasi e nefrocalcinosi metaboliche, indotte da farmaci

Alcuni tipi di farmaci causano alterazioni metaboliche in grado di aumentare lo stato di saturazione urinaria rispetto ai comuni composti litogeni, principalmente ossalato di calcio, fosfato di calcio e acido urico.

Considerando che l’analisi del calcolo non è sempre disponibile, come primo orientamento diagnostico può essere utile valutare il grado di radio-opacità e densità dei calcoli osservabili “in vivo” nel singolo paziente, suggestiva rispettivamente di una loro natura calcica (qualora siano visibili ai radiogrammi diretti dell’addome, o dimostrino alta densità in TC) oppure purinica (se non visibili ai radiogrammi diretti e a bassa densità in TC) [29].

Nella tabella 2 sono riportati i principali farmaci potenzialmente in grado di indurre alterazione metaboliche pro-litogene. I casi di maggior interesse clinico saranno qui di seguito illustrati.

Farmaci          Effetto metabolico Effetto metabolico
Supplementi di Calcio Ipercalciuria CaOx, CaP
Vitamina D Ipercalciuria, iperfosfaturia CaOx, CaP
Induttori di acidosi metabolica Ipercalciuria, ipocitraturia CaP, (CaOx)
Diuretici dell’ansa complesso (v.testo) CaOx
Lassativi con fosfato Iperfosfaturia CaP
Lassativi senza fosfato complesso (v.testo) A.Urico, NH4-Urato
Vitamina C Iperossaluria CaOx
Uricosurici Iperuricuria A.Urico
(CaOx: ossalato di calcio; CaP: fosfato di calcio)
Tabella 2.   Principali categorie di farmaci in grado di favorire l’insorgenza di nefrolitiasi calcica o urica.

Vitamina D e supplementi di Calcio

In pazienti con calcolosi calcica, alcuni Autori riportarono una correlazione positiva tra livelli sierici di 25(OH) vitamina D e calciuria [30], non confermata da altri [31]. Vi è maggior accordo sul fatto che aumentati livelli ematici di 1,25(OH)2 vitamina D possano indurre ipercalciuria e favorire la litogenesi urinaria [32,33].

In Letteratura vi sono poche informazioni sugli effetti metabolici di una terapia con colecalciferolo o ergocalciferolo in pazienti con calcolosi renale. In teoria, è possibile che la vitamina D nativa, impiegata per correggere uno stato carenziale, dopo la sua trasformazione in calcitriolo possa attivare l’assorbimento intestinale del calcio e aumentare la calciuria e il rischio di nefrolitiasi. Questa tesi è sostenuta da alcuni Autori [34,35] e confutata da altri [36,37].

Alcune segnalazioni suggeriscono che un’assunzione combinata di Vitamina D e supplementi di calcio, ampiamente prescritta nel trattamento dell’osteoporosi, possa aumentare il rischio litogeno urinario. Un RCT condotto su 2.300 donne trattate con 2.000 UI di Vitamina D + 1.5 g/die di calcio vs placebo ha riscontrato un’incidenza di calcolosi leggermente maggiore nel gruppo trattato (1.4% vs 0.9%), sebbene la differenza non fosse significativa [38].  Più recentemente, in uno studio condotto su oltre 36.000 donne in età menopausale, la somministrazione giornaliera di 1 g di calcio + 400 UI di Vitamina D si è associata ad un Hazard Ratio per calcolosi significativamente aumentato nel gruppo in trattamento, rispetto ai controlli (1.17; CI: 1.02-1.17) [39].

Complessivamente, i dati ad oggi disponibili suggeriscono che un trattamento con vitamina D nativa possa aumentare il rischio di nefrolitiasi soprattutto quando contestualmente siano prescritti anche supplementi di calcio.

Farmaci induttori di acidosi metabolica

L’acidosi metabolica cronica si accompagna ad un’aumentata escrezione urinaria di calcio e fosfato e ad un’ipocitraturia, tutti effetti potenzialmente favorenti la calcolosi calcica [40,41].

Numerosi farmaci possono interferire con l’equilibrio acido-base e indurre acidosi metabolica, con differenti meccanismi (Tabella 3).

Acidosi metabolica da farmaci
Tabella 3. Acidosi metabolica da farmaci. Principi attivi e meccanismi patogenetici.

Nella pratica clinica, gli esempi più significativi di litiasi secondaria ad acidosi metabolica riguardano pazienti in terapia prolungata con farmaci inibitori dell’anidrasi carbonica. In alcuni casi, questo meccanismo d’azione costituisce l’effetto terapeutico del farmaco (es: acetazolamide); in altri ne è un effetto collaterale indesiderato (es: topiramato).

L’acetazolamide è tutt’oggi impiegata, anche per via sistemica, nel trattamento del glaucoma, dove l’inibizione dell’anidrasi carbonica è il meccanismo che riduce la secrezione di umore acqueo e la pressione intraoculare. Poiché l’anidrasi carbonica del tubulo renale è altrettanto sensibile al farmaco quanto quella del tessuto oculare, nei pazienti trattati con acetazolamide si possono osservare una bicarbonaturia e un’acidificazione sistemica di variabile entità. L’ipercalciuria, ipocitraturia e scarsa acidificazione urinaria che a ciò fanno seguito favoriscono l’insorgenza di nefrolitiasi o di nefrocalcinosi, tipicamente costituite da fosfato di calcio [42, 43].

L’inibizione dell’anidrasi carbonica è invece un effetto indesiderato di alcuni farmaci anti-epilettici e anti-emicranici, quali il Topiramato e la Zonisamide.

Nei pazienti che assumono Topiramato, è stata stimata una prevalenza di nefrolitiasi mediamente intorno al 2%, ma le casistiche sono molto eterogenee e, considerando anche i casi asintomatici, sono state riportate prevalenze fino al 20% [44]. Il disturbo metabolico urinario più rilevante e costante è l’ipocitraturia, con formazione di calcoli generalmente costituiti da fosfato di calcio.

Fra i pazienti trattati con Zonisamide, l’incidenza di nefrolitiasi parrebbe essere notevolmente inferiore, con valori tra lo zero e l’1.4% [45].

Lassativi

Le formulazioni a base di sali di fosforo, generalmente prescritte come preparazione preliminare a procedure endoscopiche, costituiscono un carico orale di fosfati di circa dieci volte superiore al normale intake dietetico quotidiano. La cospicua escrezione renale di fosforo che ne consegue, soprattutto se il volume urinario è ridotto per la concomitante diarrea acquosa, può causare un’insufficienza renale acuta da precipitazione tubulo-interstiziale di fosfato di calcio, descritta nell’1-4% dei casi [46,47]. Nelle forme più severe, può residuare un danno renale cronico.

Come profilassi è consigliabile, ove questi lassativi siano insostituibili, evitarne più somministrazioni ravvicinate, oppure utilizzare per la dose successiva alla prima un preparato non contenente fosfato.

I lassativi non contenenti fosfato, comunemente utilizzati con modalità auto-prescrittive, sono generalmente farmaci dagli effetti più blandi e il loro impiego estemporaneo non implica significativi rischi di litogenesi urinaria. Diversamente, in caso di uso incongruo e continuativo, ad esempio da parte di pazienti affette da anoressia mentale (spesso con concomitante abuso di diuretici) ne derivano una dispersione di acqua e alcali e un’acidosi metabolica cronica, cui si associa una ridotta escrezione urinaria di calcio e fosforo, secondaria tanto ad un ridotto intake quanto al malassorbimento intestinale. Se l’ipocalciuria potrebbe di per sé essere addirittura protettiva nei confronti della litiasi calcica, la scarsa disponibilità di tampone fosfato urinario fa sì che l’eliminazione del carico acido metabolico avvenga soprattutto mediante un’elevata ammoniuria. In urine di questo tipo, molto acide e concentrate, è aumentato il rischio di formazione di calcoli di acido urico e/o urato d’ammonio [48].

Diuretici

A differenza dai tiazidici, ampiamente utilizzati come profilassi della nefrolitiasi calcica per il loro effetto anticalciurico, i diuretici dell’ansa inducono ipercalciuria. Tuttavia, dall’ampia letteratura che si riferisce a pazienti in trattamento diuretico con furosemide per ipertensione, scompenso cardiaco e altre condizioni, non risultano segnalazioni di aumentata incidenza di calcolosi renale.

Sono invece riportati casi di nefrolitiasi e nefrocalcinosi insorte in individui sani, dediti all’abuso di furosemide ad alte dosi per motivi estetici [49]. In questi casi, clinicamente simili alla Sindrome di Bartter, la litogenesi è verosimilmente dovuta a più fattori di rischio oltre all’ipercalciuria, quali la disidratazione, l’aumento del pH urinario da alcalosi metabolica e l’ipocitraturia da deplezione potassica [50].

Infine, è stato evidenziato come la furosemide sia un fattore di rischio per nefrolitiasi di calcio ossalato e fosfato e per nefrocalcinosi in soggetti pediatrici in terapia continuativa per insufficienza cardiaca [51] e nei neonati pretermine [52].

Vitamina C

La quantità di Vitamina C escreta con le urine aumenta proporzionalmente alla quota introdotta (soprattutto quando questa eccede il fabbisogno quotidiano di 70-90 mg), sebbene in modo non identico in tutti i soggetti [53].

Il catabolismo dell’acido ascorbico conduce alla formazione di ossalato. L’aumentata quantità di ossalato riscontrabile nelle urine dopo assunzione di Vitamina C ad alte dosi è stata considerata suggestiva dell’aumentato rischio litogeno connesso a terapie di questo tipo.

Tuttavia, l’acido ascorbico può andare incontro a degradazione spontanea in ossalato, anche nelle urine raccolte dopo minzione [53]. Ne consegue che il reale significato clinico di elevati livelli di ossalato riscontrati in campioni urinari dove sia presente anche un significativo quantitativo di acido ascorbico è di difficile interpretazione.

Nel complesso, dai dati della letteratura si può concludere che un intake quotidiano di Vitamina C maggiore di 1 grammo, in individui metabolicamente predisposti, possa indurre un aumento del rischio litogeno urinario [54,55].

Glicole etilenico

E’ un composto utilizzato come anticongelante, del quale sono riportati casi di ingestione a scopo anticonservativo. Oltre ad indurre quadri potenzialmente fatali di severa acidosi metabolica e depressione respiratoria, poiché il glicole etilenico viene metabolizzato ad ossalato, a seguito di intossicazione si possono verificare massive precipitazioni intrarenali di ossalato di calcio, con insufficienza funzionale di grado variabile [56].

Ipouricemizzanti  uricosurici

La soprassaturazione urinaria per l’acido urico, predisponente alla nefrolitiasi, riconosce tre cause fondamentali: il ridotto volume urinario, l’iperacidità urinaria e l’iperuricuria [57]. Non è sempre necessaria la coesistenza dei tre fattori predisponenti, essendo frequente il riscontro di litiasi urica anche in soggetti senza iperuricuria.

In un paziente allo steady state metabolico, l’escrezione urinaria di acido urico è funzione della sua produzione metabolica (al netto di una eventuale concomitante precipitazione tessutale). Un farmaco uricosurico induce acutamente un picco di uricuria (per ridotto riassorbimento tubulare del carico filtrato), che tende poi a diminuire quando, proporzionalmente al ridursi dell’uricemia, diminuisce anche il carico di acido urico ultrafiltrabile al glomerulo. Di conseguenza, l’effetto pro-litogeno attribuibile al farmaco uricosurico di per sé è legato al transitorio picco di uricuria che esso induce.

In passato, al fine di trattare le sindromi iperuricemiche, sono stati utilizzati diversi farmaci uricosurici, quali ad esempio Probenecid, Sulfinpirazone, Benzbromarone. Il loro uso è stato in seguito abbandonato quando si è reso disponibile l’Allopurinolo, più efficace e con meno effetti collaterali, inclusa l’iperuricuria.

Recentemente è stato reso disponibile un nuovo farmaco ipouricemizzante uricosurico, il Lesinurad, da impiegare esclusivamente in associazione ad un inibitore della Xantina Ossidasi, proprio per limitare i picchi di uricuria [58]. E’ consigliato assumere il farmaco al mattino, in modo che il picco di uricuria sia concomitante con il fisiologico aumento di flusso e pH urinario che segue le ore del risveglio, così da limitare il rischio litogeno. Ad oggi, dopo un periodo d’uso ancora limitato, non vi sono segnalazioni di un’aumentata incidenza di nefrolitiasi nei pazienti in terapia con Lesinurad.

 

Considerazioni conclusive

La nefrolitiasi da farmaci rappresenta un evento raro, che può manifestarsi sia con quadri di insufficienza renale acuta e oligoanuria, in caso di massive precipitazioni cristalline nel parenchima renale, sia con episodi di uropatia ostruttiva da calcoli.

La conoscenza di questa patologia e dei suoi principali fattori di rischio è importante in termini di prevenzione, diagnostica differenziale e cura.

Poiché le terapie farmacologiche sono una realtà in continuo divenire, anche la nefrolitiasi farmaco-indotta, con particolare riferimento alla calcolosi “di farmaci”, costituisce un contesto intrinsecamente mutevole. Sarà quindi importante disporre di metodiche e procedure diagnostiche sempre aggiornate, che consentano di riconoscere nei diversi campioni biologici (calcoli, urine, preparati istologici renali) l’eventuale presenza dei nuovi farmaci che si rendono disponibili.

 

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Immunosoppressivi alternativi ai CNI: Schemi terapeutici e tossicità

Abstract

In un’ottica di preservazione del danno acuto e cronico del graft, negli ultimi anni sta emergendo una nuova filosofia terapeutica per i pazienti affetti da trapianto renale che contempli l’utilizzo combinato di tutti i farmaci immunosoppressivi disponibili in commercio e la minimizzazione/sospensione degli inibitori della calcineurina. Lo scopo di questa nuova visione (immunosoppressione sostenibile) è quello di contrastare lo sviluppo di comorbidità ed evitare un drammatico impatto negativo sulla sopravvivenza dei pazienti nefro-trapiantati. L’utilizzo degli inibitori di mTOR e di nuovi agenti biologici (come Belatacept e il nuovissimo Iscalimab) potrebbe aiutarci a raggiungere questo obiettivo e superare il classico approccio alle cure “organo-centrico” verso quello “paziente-centrico”.

Introduzione

Negli ultimi anni, l’aggiornamento degli schemi immunosoppressivi e la concomitante ottimizzazione delle procedure chirurgiche e di preservazione dell’organo da trapiantare hanno significativamente ridotto l’incidenza delle problematiche cliniche dell’immediato post-trapianto (incluso il danno da ritardata ripresa funzionale e il rigetto acuto), ma hanno inciso poco nella minimizzazione/rallentamento della evoluzione del danno cronico e sulla sopravvivenza a lungo termine del graft. Al momento, infatti, circa il 40-50% dei reni trapiantati sono persi dopo 10-15 anni dal trapianto [1].

E’ emerso, poi, un nuovo concetto di cronicità d’organo. Anche le aree di fibrosi, un tempo considerate semplici e “passive aree di cicatrizzazione parenchimale”, hanno assunto un ruolo fisio-patogenetico più importante ed è stato rivalutato il ruolo e l’impatto sulla sopravvivenza dell’organo dell’infiltrato immuno-infiammatorio localizzato specificatamente in queste aree.

Tutto questo si accompagna alle già consolidate evidenze circa la relazione tra insorgenza di rigetto cronico anticorpo mediato (CAMR) e perdita precoce del graft [2].

In aggiunta, la letteratura internazionale continua a sottolineare l’importanza della corretta gestione delle tante comorbidità associate al trapianto (cardiologiche, infettivologiche, oncologiche) che incidono drammaticamente sulla qualità della vita dei pazienti. Basti pensare alle innumerevoli visite ambulatoriali e controlli strumentali a cui sono sottoposti dopo la diagnosi di tali condizioni [3,4].

Pertanto, la nuova filosofia immunosoppressiva, non più propensa a facili minimizzazioni, deve prendere in considerazione tutte queste osservazioni e pensare ad una gestione farmacologica sempre più personalizzata che contempli, anche, protocolli immunosoppressivi privi degli inibitori della calcineurina (CNI).

In quest’ottica, in una serie di protocolli immunosoppressori, è stato recentemente proposto l’uso degli inibitori di mTOR (mTOR-I) in associazione ai CNI (a basso dosaggio). Questa combinazione terapeutica è efficace nell’indurre un adeguato grado di immunosoppressione accanto ad una minore nefrotossicità [5,6].

 

Inibitori di mtor: un valido ausilio terapeutico per la minimizzazione/sospensione del trattamento con CNI

Caratteristiche biologiche e farmacologiche degli mTOR-I

L’azione farmacologica del sirolimus (SRL) e dell’everolimus (EVE) si espica principalmente attraverso l’inibizione del mammalian target of rapamycin (mTOR), una protein-chinasi citoplasmatica che regola la crescita, la proliferazione, la motilità e la sopravvivenza delle cellule, la sintesi proteica e la trascrizione [7] con effetti considerevoli sulla risposta immunitaria, sui processi di rigenerazione muscolare e neuronale, e sulla crescita tumorale [8-10].

Strutturalmente, mTOR contiene 20 sequenze HEAT (necessarie per l’interazione con altre proteine) nella porzione ammino-terminale e il dominio chinasico e quello di legame del complesso FKBP-rapamicina (FRB) nella porzione carbossi-terminale. Insieme ad altre proteine, è parte integrante di 2 complessi intracitoplasmatici distinti: mTORC1 e mTORC2 [11].

mTORC1 è costituito da mTOR, mammalian lethal with Sec13 protein 8 (mLST8), proline-rich Akt substrate of 40 kDa (PRAS40) e da una proteina regolatoria chiamata  regulatory-associated protein of mTOR (RAPTOR). I substrati di mTORC1 sono S6 chinasi (S6K) e eukaryotic translational initiation factor 4E (eIF4E)-binding protein 1 (4EBP1). mTORC1 attiva S6K e inibisce 4EBP1 per promuovere la traduzione e la crescita cellulare. Questo complesso è sensibile alla inibizione da parte della rapamicina, la quale si lega alla immunofillina FKBP12 e il complesso FKBP12-rapamicina si lega, a sua volta, al dominio FRB su mTOR. Poiché questo dominio è situato in prossimità del sito catalitico, il complesso FKBP12-rapamicina inibisce allostericamente l’attività chinasica di mTORC1.

mTORC2, invece, è un complesso costituito da mTOR, mLST8, proline-rich protein 5 (PRR5), mitogen-activated protein kinase-associated protein 1 (SIN1) e rapamycin-insensitive companion of mTOR (RICTOR). La sua sensibilità alla rapamicina è influenzata dalla cronica esposizione al farmaco e dal livello di espressione di diverse forme di FKBP [12].

Questi due complessi regolano risposte cellulari diverse. mTORC1 attiva la sintesi proteica, la biogenesi dei ribosomi, il trasporto dei nutrienti, la sintesi lipidica e altri processi in risposta a nutrienti, fattori di crescita e disponibilità energetica della cellula. mTORC2 regola l’organizzazione del citoscheletro [13] e ha una notevole importanza nella biologia dei tumori, in quanto è implicato nella motilità e invasività delle cellule tumorali e nello sviluppo di metastasi tumorali [14]. Inoltre, mTORC2 attiva diverse chinasi della famiglia delle AGC chinasi, tra le quali AKT [15], serum/glucocorticoid-regulated kinase 1 (SGK1) [16] e varie protein chinasi C (PKC) [17]. AKT è una importante oncoproteina che induce programmi anti-apoptotici per la sopravvivenza cellulare; SGK1 regola il metabolismo energetico e dipendente dal segnale insulinico.

La regolazione di mTOR è complessa e avviene attraverso una serie di feedback loop e sfruttando molteplici sistemi di regolazione intracellulare basati sulla fosforilazione/defosforilazione proteica [19]. Questo fine processo di regolazione mantiene attive le diverse funzioni dei complessi mTORC1 e mTORC2 e permette il mantenimento di un corretto bilancio tra crescita e divisione cellulare.

mTOR è, poi, coinvolto nella transizione epitelio-mesenchimale (EMT) [20], un processo attraverso il quale le cellule epiteliali del tubulo renale, se adeguatamente stimolate, iperesprimono una serie di marker mesenchimali (come la vimentina, la fibronectina e l’actina muscolare liscia-α) [21] e, acquisendo un fenotipo fibroblastico o miofibroblastico, sono in grado di migrare nell’interstizio dove svolgono un ruolo chiave nel processo patogenetico che porta al danno renale cronico [22].

 

Utilizzo degli mTOR-I nella pratica clinica

Numerosi studi clinici randomizzati hanno valutato gli effetti della conversione dal trattamento con CNI a quello con mTOR-I nel post-trapianto [23-26]. Watson e coll., hanno dimostrato che in pazienti portatori di trapianto renale con funzione renale non ottimale, la conversione dal CNI al SRL era associata ad un significativo miglioramento della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) a 3 e 12 mesi dopo la conversione farmacologica [27].

Altri autori hanno osservato che nei riceventi affetti da nefropatia cronica del trapianto, la conversione da CNI a SRL comportava un miglioramento della sopravvivenza del trapianto [28]. Le biopsie eseguite 2 anni post-conversione rivelavano lesioni croniche più lievi e una minore espressione intra-parenchimale di actina muscolare liscia-α che suggeriva un effetto protettivo anti-fibrotico degli mTOR-I [28]. In aggiunta, i risultati del trial CONVERT hanno mostrato che questa conversione farmacologica era particolarmente efficace nei pazienti con GFR ≥ 40 ml/min e rapporto urinario proteine/creatinina ≥ 0.1179 [23]. Comunque, nonostante questi incoraggianti risultati, lo studio  CONCEPT, pubblicato nello stesso anno, mostrava una maggiore incidenza di rigetti acuti nei pazienti convertiti al SRL [25]. Questa condizione è stata confermata da studi successivi [29,30].

In aggiunta, è da sottolineare che, la terapia di mantenimento con gli mTOR-I è associata ad una ridotta incidenza di tumori post-trapianto rispetto alle altre terapie immunosoppressive [31,32] rappresentando uno strumento utile nella minimizzazione delle comorbidità neoplastiche nei pazienti nefro-trapiantati. E’ noto, infatti, che questi pazienti presentano un rischio di sviluppare una neoplasia da 3 a 5 volte maggiore rispetto alla popolazione generale e che questa complicanza rappresenta la prima causa di morbidità/mortalità post-trapianto [33,34].

Inoltre, è largamente descritto che, rispetto ai CNI, l’utilizzo di SRL o EVE determina un minor rischio di insorgenza di infezioni virali (principalmente citomegalovirus e BK virus) [35-37] poichè inibiscono la sintesi proteica e le vie metaboliche utilizzate da questi virus per replicarsi nelle cellule ospiti [38-40].

Diversi studi hanno anche dimostrato che questa categoria farmacologica, se somministrata correttamente, svolgendo un effetto anti-ipertensivo ed antagonizzando i meccamismo fisio-patologici responabili dell’ipertrofia ventricolare sinistra, è in grado di svolgere significativi effetti  cardioprotettivi [41,42].

 

Eventi avversi degli mTOR-I

Sebbene l’uso di questa categoria farmacologica abbia dimostrato analoghe potenzialità immunosoppressive rispetto alla standard care (MPA+CNI+steroidi) [37], il suo impiego clinico è ancora limitato da alcune esperienze cliniche che evidenziano una maggiore insorgenza di effetti avversi, spesso associati alle alte dosi [43,44].

Le più frequenti reazioni avverse indotte dagli mTOR-I sono:

Tossicità renale: E’ stato osservato che gli mTOR-I sono in grado di incrementare la nefrotossicità da CNI nell’immediato post-trapianto aggravando il danno da ischemia-riperfusione e ritardando la risposta adattativa/riparativa parenchimale al danno post-ischemico [45]. Inoltre, come dimostrato da Stallone e coll., [46], possono causare una desertificazione dose-correlata di alcuni elementi strutturali chiave dello slit diaphragm della barriera di filtrazione glomerulare (come nefrina, podocina) con genesi di proteinuria [47]. In aggiunta, soprattutto se somministrati in associazione con i CNI, possono attivare la cascata coagulativa e l’aggregazione piastrinica nel graft con sviluppo di microangiopatia trombotica [48].

Tossicità ematologica: Sono state descritte neutropenia e trombocitopenia da soppressione midollare (con una frequenza, rispettivamente, di circa il 20% e il 40% dei pazienti trattati). Tale effetto mielosoppressivo è più evidente se tali farmaci sono associati a citostatici come Micofenolato Mofetile (MMF) e acido micofenolico  [49]. Inoltre, è stata riportata anemia microcitica nel 30-40% dei pazienti trattati con EVE. Il meccanismo sembra essere legato all’effetto antiproliferativo sulle cellule progenitrici del midollo osseo e ad un diretto effetto sull’omeostasi del ferro. In aggiunta, sembra esserci una forte correlazione tra lo stato di infiammazione cronica e l’anemia correlata agli mTOR-I [50].

Tossicità muco-cutanea: L’incidenza di eruzioni acneiformi e follicoliti nei pazienti con trapianto renale in trattamento con mTOR-I varia dal 13 al 46% [51-53]. Tali effetti avversi sembrano maggiormente prevalenti nel sesso maschile. In una percentuale estremamente variabile (dal 3 al 68%) sono stati descritti esantemi transitori [53]. Inoltre, in pazienti trattati cronicamente con questa categoria di farmaci è stata descritta una dermatite esfoliativa dose-indipendente che richiede l’interruzione rapida del trattamento [54]. Dal 30% al 60% dei pazienti trattati con alte dosi di mTOR-I, utilizzati da soli o in associazione con citostatici, è stata riportata l’insorgenza di stomatite aftosa della durata di qualche settimana. Tali effetti possono essere modulati attraverso la modifica dello schema terapeutico o con l’utilizzo di terapia steroidea topica. Raramente sono state descritte vasculiti leucocitoclastiche SRL-associate.

Disordini metabolici: Sono di comune riscontro in corso di terapia con mTOR-I un lieve innalzamento della glicemia ed un’alterazione dell’assetto lipidico ematico [6]. In particolare la dislipidemia, ampiamente associata all’utilizzo di mTOR-I, costituisce il maggior fattore di rischio per eventi cardiovascolari post-trapianto [55,56]. In una percentuale variabile tra il 40 e il 75% dei pazienti trattati con questa categoria farmacologica si registra un aumento delle lipoproteine ad alta densità (HDL), lipoproteine a bassa densità (LDL), colesterolo e trigliceridi [57,58]. Morrisett e coll. hanno registrato l’aumento dei livelli di colesterolo e trigliceridi dopo 2-4 settimane dall’inizio della terapia e un ritorno ai livelli di normalità entro 8 settimane dall’interruzione del trattamento [59]. Gli inibitori della 3-idrossi-3-metilglutaril Coenzima A (HMG-CoA) reduttasi (statine) da sole o in combinazione con un farmaco di seconda linea resta la principale opzione terapeutica per l’iperlipidemia indotta dal trattamento con mTOR-I [60].

Infertilità: L’utilizzo di mTOR-I è stato associato allo sviluppo di infertilità e sterilità primariamente dovuta al loro effetto antiproliferativo. Inoltre, nei pazienti trattati con SRL sono stati rilevati ridotti livelli di testosterone e un aumento degli ormoni gonadotropici (FSH e LH) [61-63].

Ritardata guarigione delle ferite: Nei pazienti trattati con mTOR-I è stata riscontrata una ridotta attività dei fibroblasti e un’alterazione nelle concentrazioni ed efficacia di alcune citochine [64], meccanismi che potrebbero spiegare una ritardata guarigione delle lesioni in questi pazienti [65,66]. Tali fenomeni sono dipendenti dall’interferenza che gli mTOR-I hanno su molteplici vie di trasduzione del segnale.

Tossicità polmonare: Si tratta di una frequente reazione avversa che si manifesta con una incidenza compresa tra il 5 e l’11%, con un esordio dei sintomi tra 1 e 51 mesi dopo l’inizio della terapia [67-70]. Tale condizione ha manifestazioni cliniche eterogenee e la diagnosi all’esordio può risultare difficile a causa della non specificità dei segni e sintomi iniziali. Il paziente, infatti, può presentare febbre, affaticabilità, tosse e dispnea. Dal punto di vista istologico sono state descritte varie forme di danno polmonare, tra cui la pneumopatia interstiziale linfocitaria, l’alveolite linfocitaria, la bronchiolite obliterante in corso di pneumopatia organizzativa e la fibrosi polmonare focale [71,72]. Queste tre entità possono sovrapporsi e presentarsi simultaneamente. Sono stati, inoltre, riportati episodi di emorragia alveolare diffusa in seguito all’utilizzo di questi farmaci [73,74]. Generalmente, la biopsia polmonare è in grado di discriminare i vari aspetti istologici tipici come granulomi epiteliodi intralveolari non necrotizzanti, infiltrazione linfocitica dell’interstizio ed un pattern focale di polmonite organizzata [75]. Il meccanismo patogenetico della tossicità polmonare associata all’utilizzo di mTOR-I non è ancora stato pienamente compreso. È  stata suggerita sia una tossicità diretta, dose dipendente, che una tossicità secondaria ad una risposta autoimmunitaria o ad una reazione da ipersensibilità di tipo ritardato scatenata dall’esposizione agli mTOR-I in presenza o meno di antigeni polmonari criptici [68,76]. Infine, alte dosi di mTOR-I inducono EMT delle cellule epiteliali bronchiali verso un fenotipo simil-fibroblastico [77,78]. Il trattamento di queste affezioni polmonari è complesso e richiede un approccio multidisciplinare (pneumologi, infettivologi, nefrologi). Generalmente questo tipo di pneumopatia regredisce dopo la sospensione o riduzione del farmaco.

 

Nuovi agenti terapeutici

Negli ultimi anni sono stati introdotti nuovi farmaci immunosoppressori tra cui sembrano essere promettenti quelli che  agiscono sulle molecole di costimolazione.

In particolare, la ricerca clinica trapiantologica si è soffermata sul ruolo del belatacept, una proteina di fusione solubile ricombinante costituita dall’associazione della porzione extra-cellulare della molecola recettoriale CTLA-4 con la componente Fc di una IgG1 modificata in modo tale da non fissare il complemento. Questo farmaco agisce bloccando la costimolazione del segnale necessaria per completare l’attivazione antigene-specifica del linfocita T naive [79].

Il belatacept ha mostrato, in una serie di trial clinici (in particolare, BENEFIT, BENEFIT-EXT) [80,81], un miglior impatto sul graft e sul profilo cardiovascolare (pressione arteriosa, diabete e dislipidemia) rispetto alla standard care con i CNI. Si evidenziava, però, una maggiore incidenza di rigetti acuti che hanno richiesto adeguato trattamento e una maggiore incidenza di PTLD nel primo anno dopo il trapianto, soprattutto in riceventi Epstein–Barr virus (EBV) neg e/o trattati con timoglobuline (ATG) [79]. Lo stato sieronegativo di EBV era il più forte fattore di rischio associato alla PTLD (aumento di nove volte del rischio). Pertanto, la Food and Drug Administration (FDA) aveva rapidamente emanato un warning contro l’uso del belatacept nei pazienti sieronegativi per l’EBV (controindicato) e sottolineava che, nei primi anni, questo farmaco può aumentare il rischio di malattie infettive tra cui la TBC e il CMV. Inoltre, vari studi avevano osservato un rischio maggiore di trombosi del graft. Tuttavia, nel follow-up di sette anni, era stato osservato solo un caso di PTLD dopo i primi 24 mesi di terapia nel gruppo Belatacept [80].

Pertanto, in USA, dopo i risultati del BENEFIT, il belatacept è stato utilizzato (e raccomandato) solo nei pazienti trapiantati a basso rischio immunologico (e non come prima scelta) [81].

A mio avviso, il belatacept dovrebbe essere introdotto nei pazienti a rischio basso/standard con sierologia EBV positiva attivando, se possibile, un programma di valutazione bioptica protocollare e con una attenta misurazione dei livelli di anticorpi anti-HLA donatore-specifici (DSA) e un adeguto follow-up laboratoristico-strumentale atto a misurare il rischio infettivologico.

Un’altra novità della terapia immunosoppressiva è l’Iscalimab (CFZ533-Novartis), un nuovo anticorpo monoclonale completamente umano che si lega con altissima affinità al CD40 e impedisce il signaling/attivazione della pathway (CD40-CD40L) attivata da questa proteina di costimolazione espressa sulle cellule presentanti l’antigene con conseguente impatto sull’immunita innata (e successivamente su quella adattativa) [82,83].

Sia su modelli animali sia in pazienti portatori di trapianto renale, l’iscalimab ha mostrato importanti effetti positivi sulla funzione renale e una inibizione dello sviluppo della nefropatia cronica del trapianto e il profilo degli eventi avversi (sicurezza) dei pazienti in trattamento con iscalimab era simile a quello del gruppo di pazienti trattati con TAC+MMF [84,85].

Inoltre, l’iscalimab, come il belatacept, essendo somministrato in vena, rappresenta una importante arma contro la mancanza di aderenza terapeutica.

In futuro potrebbero essere disponibili nuovi agenti immunosoppressori (tra cui IdeS, Alefacept, Efalizumab) altamente efficaci nel prevenire il danno acuto immuno-mediato e lo sviluppo di alterazioni croniche indotte dalla infiammazione tissutale.

 

Conclusione

Al momento, vista la carenza di ricerca farmacologica e di trial clinici (soprattutto in Italia), non possiamo ritenere superata l’era CNI [86] nel trapianto renale, ma appare chiara la necessità, in un’ottica terapeutica moderna e paziente-centrica, di ridurne le dosi per minimizzare il rischio di tossicità e sviluppo di comorbidità. Per ottenere questo obiettivo è opportuno combinare questi farmaci con gli altri agenti terapeutici presenti in commercio (primi fra tutti gli mTOR-I).

 

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Inibitori della calcineurina e trapianto renale

Abstract

Gli inibitori della calcineurina (CNI) hanno rivoluzionato i risultati del trapianto d’organo e sono tuttora i farmaci immunosoppressori più usati nel trapianto. I CNI inibiscono un sistema di fosfatasi necessario per consentire la translocazione  nel nucleo di un fattore di trascrizione da cui dipende la sintesi di interleuchina-2. Questo passaggio è fondamentale per la successiva proliferazione e differenziazione delle cellule T. In questo articolo vengono brevemente riassunte le caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche di CNI, i loro  potenziali effetti collaterali renali ed extra-renali ed i risultati ottenuti con CNI nel trapianto renale. Per prevenire eventi avversi  le dosi di CNI  dovrebbero essere ridotte  in presenza di insufficienza renale o ipertensione severa, l’uso di farmaci nefrotossici dovrebbe essere evitato quando possibile, molta attenzione dovrebbe essere posta nell’usare   farmaci che interferiscono con l’attività del citocromo P450 o della glicoproteina P. Inoltre, non va fatto troppo affidamento ai livelli ematici di CNI, che non riflettono la concentrazione intracellulare, che è molto superiore e molto più importante  di quella plasmatica.

I due inibitori della calcineurina (CNI) attualmente in commercio sono ciclosporina (CsA) e tacrolimus (TAC). CsA è un polipeptide ciclico composto da circa 11 aminoacidi derivato dal fungo Tolypocladium inflatum gums. TAC è un antibiotico macrolide derivato dal fungo Streptomyces tsukubaensis. I due CNI hanno una struttura molecolare diversa, ma entrambi hanno simili caratteristiche farmacologiche ed un simile meccanismo d’azione consistente nell’inibizione della calcineurina intra-cellulare.

I due CNI originali sono stati sostituiti rispettivamente da una nuova microemulsione per la CsA  (Neoral) e da una formulazione che consente una mono-somministrazione giornaliera per il TAC (Adavagraf). Sono anche disponibili formulazioni generiche.

Farmacocinetica

Dopo somministrazione orale e riassorbimento nel piccolo intestino, il 60% dei CNI  si lega nel sangue agli eritrociti,  il 33% a lipoproteine ed una minima frazione circola libera. CNI sono  metabolizzati nel fegato e nell’intestino da isoenzimi del citocromo P-450 (CYP450). Fattori che inibiscono l’attività dl CYP450  aumentano la biodisponibilità di CNI, mentre induttori di CYP450 diminuiscono la biodisponibilità di CNI (1). I metaboliti sono eliminati principalmente con la bile ed in piccola parte con le urine. Rispetto alla formulazione originale la microemulsione di CsA (Neoral) ha un assorbimento più completo e rapido. Numerose variabili possono influenzare la biodisponibilità e la farmacocinetica di CNI (Tab 1).

Fattori che inibiscono o attivano gli isoenzimi del citocromo P450 (CYP450)
Tabella 1. Fattori che inibiscono o attivano gli isoenzimi del citocromo P450 (CYP450) aumentando o riducendo la biodisponibilità dei CNI

Farmacodinamica

I CNI sono farmaci lipofilici  e penetrano facilmente attraverso le membrane cellulari. La loro azione si esercita all’interno delle cellule. La concentrazione intracellulare è regolata  dalla glicoproteina-P (o ATP-binding cassette ABC B1 o multi-drug resistence protein). Questa proteina limita una eccessiva  concentrazione intracellulare di tossine e farmaci, inclusi CNI, favorendo l’ efflusso dalle cellule e aumentando la concentrazione ematica. Oltre a possibili mutazioni genetiche, numerosi fattori possono inibire o stimolare l’attività della glicoproteina P (Tab 2).

Fattori che possono alterare l’attività della glicoproteina P (Pgp)
Tabella 2. Fattori che possono alterare l’attività della glicoproteina P (Pgp) ed influenzare la farmacodinamica di CNI

Limiti del monitoraggio dei CNI

Attualmente il dosaggio di CNI viene regolato sulla base dei livelli ematici, il cosiddetto therapeutic drug monitoring (TDM). Tuttavia, vi è una notevole variabilità  non solo  tra soggetto e soggetto ma anche nel singolo individuo in diverse situazioni fisiologiche o patologiche. Inoltre, entrambi i CNI sono sotto l’influenza di polimorfismi genetici. Pertanto, è difficile stabilire una correlazione tra dosi ematiche e rigetto o tossicità. Nell’esperienza quotidiana si possono osservare rigetti acuti in pazienti con elevati livelli ematici di CNI o viceversa, dimostrando che i livelli ematici di CNI non correlano con l’effetto farmacologico [2]. Di fatto, il livello ematico  non riflette  la concentrazione di CNI nei linfociti, dalla quale dipende l’attività immunosoppressiva. Vi sono pochi dati sulla concentrazione intracellulare di CNI, generalmente focalizzati sul ruolo di  polimorfismi genetici [3,4]. Uno studio  sulla farmacocinetica di TAC nei pazienti con trapianto renale  ha dimostrato che i) esisteva una correlazione relativamente lineare  tra TAC ematico ed intracellulare se la funzione del trapianto era stabile; ii) il sesso, l’ematocrito, e la durata del trapianto avevano una influenza importante   sul rapporto  ematico-intracellulare, che risultava più elevato nel sesso femminile, nei pazienti con basso ematocrito e nei pazienti con breve durata del trapianto ; iii) non vi era correlazione tra rapporto ematico-intracellulare e andamento clinico o polimorfismo genetico [5]. Al momento, non è prudente confidare nei livelli ematici di CNI per prendere decisioni cliniche. Sono necessari nuovi  studi sono per valutare l’importanza delle concentrazioni intracellulari di CNI in diverse circostanze cliniche, quali rigetto, infezioni e tossicità da CNI.

 

Meccanismi d’azione

CNI sono farmaci lipofilici e possono agevolmente penetrare nelle cellule. All’interno della cellula il CNI si lega al suo recettore specifico, ciclofilina per CsA e FKBP-12 per TAC. Il complesso farmaco-recettore inibisce l’attività fosfatasica della calcineurina, un complesso proteico appartenente alla superfamiglia di serin-treonina fosfatasi, che esplica un ruolo chiave nella risposta cellulo-mediata. Quando il linfocita è attivato dal contatto tra i fattori di costimolazione della cellula presentante l’antigene  (CD 80-86 e CD40) e  i fattori di costimolazione del linfocita(CD28 e CD154 ), si ha una forte produzione intracellulare di ioni calcio. Questi attivano la calcineurina, una protein-fosfatasi-3 calcio- e calmodulina-dipendente che defosforila una famiglia di fattori di trascrizione, chiamata nuclear factor of activated T cells (NFAT), consentendone la translocazione nel nucleo. I membri di NFAT hanno una regione omologa che media il contatto con DNA. NFAT1, NFAT2, e NFAT4  partecipano all’attivazione trascrizionale di geni e partecipano quindi alla codificazione e alla sintesi di alcune citochine,  tra cui interleuchina-2 (IL-2), che dopo essersi legata al  suo recettore stimola, insieme a IL-15,  una cascata di chinasi governata dalla  PI3K (fosfatidilinositolo chinasi 3) con la mediazione di mTORc1(mammalian target-of-rapamycin complex 1). Queste chinasi propagano i segnali necessari per la proliferazione e differenziazione dei linfociti T in Th1 e Th17. Inibendo la produzione di IL-2, CNI non solo prevengono la differenziazione delle cellule T, ma possono  anche inibire l’attivazione delle cellule B, interferendo sulla cooperazione T-B [6]. Possono, inoltre,  modulare alcune molecole di superficie delle cellule dendritiche e alterare quindi la presentazione dell’antigene alle cellule T [7]. Infine,  inibiscono  la sintesi del macrophage-activating factor, prevenendo la sintesi di macrofagi e monociti. Questi effetti intervengono rapidamente, sono dose-dipendenti e receversibili [8]. Oltre alla loro  attività immunosoppressiva  CNI  possono anche  prevenire danni podocitari,  bloccando la defosforilazione da parte della calcineurina della sinaptopodina, una proteina fondamentale per la sintesi e la regolazione dei filamenti actinici che compongono il  citoscheletro podocitario. Questo meccanismo è stato  dimostrato per la  CsA [9] ma è verosimile che sia operante anche col TAC.

 

Effetti collaterali

Il limite maggiore di CNI  è rappresentato dal loro basso indice terapeutico (rapporto tra dose tossica e dose efficace). Ne consegue una frequente incidenza di effetti collaterali, generalmente correlati al dosaggio o all’interferenza con altri farmaci  che possono alterare la funzione del CYP 450 o della glicoproteina P. Molti di questi effetti collaterali sono comuni ai due farmaci, ma la loro incidenza e gravità può essere diversa.

Alcune importanti complicazioni, come infezioni e neoplasia, sono riferibili all’immunosoppressione e non sono specifiche. Altri effetti collaterali sono invece riferibili all’azione selettiva dei farmaci. Tra questi i più frequenti sono nefrotossicità, ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete, neurotossicità, difetti estetici.

Nefrotossicità. Dal punto di vista fisiopatologico e clinico è possibile riconosce due tipi di nefrotossicità: acuta e cronica.

La nefrotossicità acuta è caratterizzata clinicamente da riduzione della filtrazione glomerulare (GFR), aumento di creatininemia, azotemia ed uricemia. Istologicamente, possono essere presenti sia  lesioni tubulari che arteriolari. Nelle fasi iniziali, la ridotta GFR non è associata ad alcuna alterazione istologica, ma è legata alla vasocostrizione renale indotta da CNI. Questi farmaci   favoriscono una ridotta attività di molecole vasodilatatrici, come ossido nitrico, prostaciclina , prostaglandina E2 ed una aumentata espressione di agenti vasocostrittori, come angiotensina II, endotelina 1, trombossani e leucotrieni [10].  Le lesioni tubulari consistono in vacuolizzazione isometrica, microcalcificazioni e mitocondri giganti. Sono più frequenti con CsA che con TAC, ma non sono patognomoniche e sono reversibili se il dosaggio di CNI  viene ridotto. Le lesioni arteriolari sono caratterizzate da necrosi focale dei miociti nella media delle arteriole [11]. Anche le lesioni arteriolari   sono potenzialmente reversibili, se le dosi di  CNI vengono diminuite, ma, in presenza di reni con  precedenti alterazioni parenchimali o sottoposti al danno da ischemia-riperfusione, CNI possono  favorire lo sviluppo di nefropatia tubulare con  insufficienza renale acuta o anche microangiopatia trombotica [12].

La nefrotossicità cronica è caratterizzata  da riduzione  progressiva di GFR causata da lesioni tubulo-interstiziali, glomerulosclerosi e vasculopatia obliterante. La fibrosi interstiziale è l’alterazione istologica dominante. E’ causata  da produzione eccessiva di matrice extra-cellulare nell’interstizio con  accumulo  di collagene e altre molecole correlate ed è sempre associata ad atrofia tubulare, da qui l’acronimo IFTA (Interstitial Fibrosis Tubular Atrophy). Diverse cellule e mediatori sono coinvolti nella patogenesi di IFTA. Le cellule includono fibroblasti, fibrociti, miofibroblasti e monociti/macrofagi. I mediatori molecolari sono bone morphogenic protein (BMP), platelet-derived growth factor (PDGF),  hepatocyte growth factor (HGF) e transforming growth factor beta 1 (TGF-β1), che è considerato il mediatore chiave [13], favorendo lo sviluppo di fibrosi interstiziale attraverso  la transdifferenziazione di cellule endoteliali ed epiteliali a cellule mesenchimali e la produzione di matrice extracellulare  [14]. Nella sua forma latente il TGF-β fa parte  di un macro-complesso con altri polipeptidi. L’arteriolopatia da CNI aggravata dalla vasocostrizione produce ipossia, uno stimolo importante per l’attivazione di fattori che   slatentizzano  TGF-β dal suo grande complesso intracellulare. Sotto l’effetto di   trombospondina 1,  TGF-β si lega al suo recettore II che  subisce una rotazione ed un riarrangiamento delle chinasi citoplasmatiche favorendo l’attivazione del recettore I di TFG-β [15]. Questi propaga il segnale a piccole proteine (SMAD), che regolano la crescita , la differenziazione e l’apoptosi cellulare [16]. SMAD 1,2,3,5,8 sono chiamate regolatrici (R-SMAD), SMAD 4 (co-SMAD) collabora con R-SMAD mentre SMAD 6 e 7 inibiscono il segnale di attivazione [17]. R-SMAD si legano a co-SMAD ed entrano nel nucleo dove attivano promotori e cofattori di trascrizione causando la trascrizione di DNA. Aumentati livelli di angiotensina II possono contribuire allo sviluppo di IFTA, sia interferendo direttamente sulla matrice extra-cellulare che aumentando l’espressione di TGF-β,PDGF, tumor necrosis factor, plasminogen activator inhibitor (PAI) e osteopontina [18].

CNI possono produrre IFTA con diversi meccanismi. L’ipossia, indotta dall’ischemia renale, sopprime la crescita  delle cellule epiteliali tubulari e  favorisce la loro apoptosi ed  atrofia aumentando l’espressione di TGF-β1 e altri fattori profibrotici [19]. CNI  aumentano l’espressione del PAI che favorisce il reclutamento di cellule interstiziali e di microRNA TGF-β1 nelle cellule tubulari [20]. L’angiotensina II, attivata da CNI ,  favorisce il rilascio di aldosterone, stimola il trasporto tubulare di molecole infiammatorie e profibrotiche e l’ulteriore produzione di TGF-β1 [21]. CNI possono produrre necrosi della muscolatura liscia che viene rimpiazzata da  depositi ialini nodulari nella parete di arteriole afferenti (ialinosi  nodulare) con ostruzione del lume vascolare [22]. Il danno vascolare contribuisce con la fibrosi interstiziale e l’atrofia tubulare nel determinare lesioni istologiche irreversibili. Oltre al danno endoteliale  CNI favoriscono l’aggregazione piastrinica e l’attivazione del PAI, esercitando così un’attività protrombotica [23].

Ipertensione arteriosa. La vasocostrizione renale indotta da CNI  sulle arteriole afferenti preglomerulari produce una riduzione di GFR e natriuresi,  con ritenzione di acqua e sodio. Questa  è aggravata dall’ inibita secrezione di ormone natriuretico da parte dell’angiotensina II e dall’attivazione dei co-trasportatori Na-K-2Cl nell’ansa ascendente e    Na-Cl nel tubulo distale da parte di CNI [24]. Ne consegue un’espansione dei liquidi extracellulari con aumento della gettata cardiaca. Anche valori di renina-angiotensina apparentemente normali risultano essere elevati in presenza di ipervolemia e contribuiscono  ad un aumento delle resistenze vascolari e allo sviluppo d ipertensione arteriosa [25]. L’impressione clinica è che l’ipertensione sia meno grave con TAC rispetto a CsA, forse per la minore interferenza del TAC con la reattività delle cellule muscolari lisce  [26].

Dislipidemia. Elevati livelli serici di LDL-colesterolo e VLDL-trigliceridi sono frequenti in pazienti trattati con CsA. La patogenesi di queste alterazioni è probabilmente multifattoriale. CsA inibisce la 26-idrossilasi riducendo la sintesi di acidi biliari da parte del colesterolo [27] e inibendo  l’escrezione intestinale di colesterolo [28]. Inoltre, CsA può  aumentare i  livelli di proproteina convertasi subtilisina/kexina tipo 9 (PCSK9), un enzima che  degrada il recettore LDL, favorendo una ridotta presenza di questi recettori  sulla membrana della cellula epatica [29]. Una ridotta attività della lipoproteinlipasi può poi favorire un aumento delle VLDL circolanti. La dislipidemia è meno frequente e meno grave con TAC che con CsA.

Diabete. CNI possono   produrre intolleranza al glucosio attraverso diversi meccanismi, come ridotta secrezione insulinica [30] ed aumentata resistenza all’insulina [31]. Il diabete è molto più frequente con TAC, che  aumenta il riassorbimento di glucosio a livello del digiuno  [32] e potenzia la glicolipotossicità delle cellule beta, riducendone la proliferazione [33]. Nei ratti Zucker TAC riduce la proliferazione di cellule beta  e l’espressione del gene  Ins2  [34]. L’infezione  da HCV, la predisposizione familiare, il genere maschile, e l’obesità possono significativafmente aumentare il rischio di diabete. TAC non dovrebbe essere usato in queste circostanze.

Neurossicità. Tremori, parestesie e cefalea sono dose-dipendenti e molto più frequenti con TAC. Nei casi più gravi, si possono sviluppare  allucinazioni, convulsioni, atassia cerebellare e leucoencefalopatia posteriore, forse dovuta all’ alterata attività della barriera emato-encefalica con passaggio di CNI  nell’interstizio cerebrale, dsfunzione dei mitocondri e alterazioni elettrofisologiche dei neuroni [35]. Sono stati segnalati rari casi di sordità o otalgia.

Alterazioni dermatologiche. CsA può causare ipertricosi, lesioni pilosebacee e ipertrofia gengivale. L’ipertricosi, molto disturbante nei bambini e nelle giovani donne, è dose-dipendente ed è più frequente in soggetti con capelli scuri. E’ probabilmente correlata  ad una aumentata attività dell’alfa-reduttasi che trasforma gli androgeni in deidrotestosterore nei tessuti periferici [36]. Non vi sono alterazioni dermatologiche specifiche prodotte da TAC.

 

CNI e Trapianto Renale

Prima dell’avvento della CsA la terapia immunosoppressiva del trapianto di rene era basata sull’associazione  tra corticosteroidi ed azatioprina. Le forti dosi di questi farmaci non potevano impedire il  frequente sviluppo di rigetto acuto, ma causavano anche una elevata mortalità precoce da infezioni ed una cattiva qualità di vita nei  pazienti con rene ancora funzionante ad un anno dal trapianto.

Le prime sperimentazioni cliniche con  CsA  condotte da  sir Roy Calne in  pazienti con trapianto renale  da donatore deceduto, dimostrarono la possibilità di ridurre considerevolmente il rischio di rigetto acuto e di ridurre o sospendere i cortcosteroidi in alcuni casi [37].  Numerosi altri studi, inclusi tre studi randomizzati [38, 40] dimostrarono una sopravvivenza del paziente e del trapianto significativamente migliore nei soggetti trattati con  CsA rispetto a quelli  trattati con  steroidi ed azatioprina. In breve tempo, CsA divenne il farmaco di elezione per la terapia immunosoppressiva del trapianto. Tuttavia, le dosi usate nelle prime esperienze erano eccessivamente elevate, tra i 15 e i 17 mg/Kg/d nel primo periodo post-operatorio con lenta graduale riduzione a un mantenimento tra i 5 e 7 mg/Kg/d. Queste elevate posologie amplificarono la potenziale tossicità della CsA, soprattutto a livello renale. Biopsie precoci in trapiantati renali trattati con CsA mostravano spesso strisce di fibrosi interstiziale che progressivamente conducevano ad  una fibrosi interstiziale diffusa ed atrofia tubulare associate ad insufficienza renale. Dopo oltre un decennio dall’avvento della CsA venne reso disponibile l’uso di TAC. A differenza di CsA i dosaggi erano considerevolmente inferiori (0.2 mg/kg/die per l’induzione, 0.05-0.1 mg/kg/die per il mantenimento). Anche TAC è potenzialmente nefrotossico ed il suo uso prolungato era frequentemente associato a fibrosi interstiziale ed atrofia tubulare. Però la  fibrosi interstiziale non è un segno patognomonico di nefrotossicità da CNI; rappresenta infatti lo stadio finale di un complesso processo patologico, comune ad ogni insulto renale cronico. Può essere indotta  dal danno da ischemia-riperfusione, da  altri farmaci nefrotossici (antibiotici, antivirali, antiinfiammatori  etc), da rigetto acuto o cronico, da cattiva qualità del rene donato, da stimoli ipossici, da infezioni batteriche o virali o altri eventi di qualsiasi natura che possono danneggiare il rene [41]. Questi eventi possono  produrre transizione epitelio-mesenchimale, arresto del ciclo cellulare, alterato metabolismo cellulare e progressivo deposito  di matrice extracellulare con fibrosi renale. Inoltre le cellule tubulari. che sono particolarmente vulnerabili a stimoli tossici, possono attivare i fibroblasti e produrre grandi quantità di matrice extracellulare [42].

Tuttavia, il frequente riscontro di fibrosi interstiziale in pazienti trapiantati in terapia con CNI veniva spesso attribuito alla nefrotossicità del farmaco. Tale convinzione venne apparentemente confermata da uno studio  australiano basato su biopsie protocollari in pazienti con trapianto di rene e pancreas trattati a lungo termine con CsA. A 10 anni dal trapianto  la  nefrotossicità da CsA  era presente in quasi tutti i reni, compresi quelli con un quadro istologico eccellente nel breve termine. Sempre a 10 anni, una grave nefropatia cronica documentata istologicamente era presente nel  58.4 % dei pazienti. Nonostante queste gravi lesioni istologiche la sopravvivenza del trapianto renale nella casistica descritta era del  95% a 10 anni [43]. Altri gruppi riportarono eccellente sopravvivenza renale dopo 10 anni o più con creatininemia stabile, anche se  superiore ai valori normali [44,45]. I pazienti oggetto di questi studi erano stati trapiantati  nei primi anni ’90, quando TAC non era disponibile e  le dosi di CsA erano molto superiori a quelle usate attualmente. Oggi, nonostante alcuni Autori insistano nel  ritenere che l’uso di  CNI  debba essere  limitato a causa della loro nefrotossicità [46], altri ricercatori sottolineano che la responsabilità di CNI nella insufficienza cronica del trapianto renale sia stata esagerata e sopravvalutata rispetto ad altri fattori di rischio, quali il rigetto anticorpo-mediato e la cattiva aderenza alle prescrizioni [47-50].

Le maggiori incertezze riguardano il lungo termine. Solo pochi studi hanno riportato  follow-ups di 10 anni [51-54]. Quattro studi  hanno studiato le caratteristiche di trapiantati renali seguiti fino a 20 anni, ma la maggior parte dei pazienti avevano ricevuto  terapie basate su  azatioprina e corticosteroidi [55-58]. Recentemente, Moroni et al [59] hanno studiato le condizioni cliniche di 173 pazienti con trapianto renale trattati per 20 anni con ciclosporina. All’ultima visita clinica, molti di questi pazienti avevano ipertensione (83%), neoplasie maligne (13%), diabete (9%) e/o malattie cardiovascolari (9%). Tuttavia, nei pazienti con trapianto renale funzionante  a 20 anni la creatinina serica mediana era 1,4 mg/dL ed era  stabile da anni. Analogamente la proteinuria era stabilizzata a 0.6 g/die.  Una chiara dimostrazione che un prolungata somministrazione di CsA non è necessariamente responsabile di in danno renale progressivo.

 

Conclusioni

CNI rimangono  un presidio terapeutico importante nel trapianto di rene. Il loro uso prolungato e ad alte dosi può però esporre a diverse complicazioni e  può contribuire alla disfunzione del rene trapiantato. Tuttavia, alcuni accorgimenti possono ridurre il rischio di eventi avversi. In pazienti, con inadeguata ripresa funzionale o ipertensione severa le dosi di CNI (soprattutto ciclosporina) dovrebberro essere minimizzate o il loro uso rimandato di qualche giorno utilizzando globuline anti-timociti per l’induzione. Per quanto riguarda il mantenimento. in pazienti con GFR < 50 ml/min o ipertensione severa le dosi di CNI dovrebbero essere minimizzate  associandole con inibitori di mTOR  o  inibitori della sintesi purinica. Va evitato, nei limiiti del possible,   l’uso di farmaci nefrotossici o di farmaci che interferendo con l’attività di CYP450 o glicoproteina P possono alterare la biodisponibilità o la farmacodinamica di CNI. Va ridotto il dosaggio di CNI se la creatinina serica aumenta > 25-30%, senza altre cause individuabili o se il paziente accusa segni di tossicità (tremori, ipertricosi, ipertensione). In caso di nefropatia da BK polyoma virus CNI vanno sospesi e sostituiti da mTOR inibibitori che possono esercitare attività sia immunosoppressiva che antivirale [60]. Soprattutto, non vanno interpretate fideisticamente le raccomandazioni riguardanti i livelli ematici. I livelli plasmatici non ci danno alcuna idea della concentrazione intracellulare, che è molto superiore e molto più importante  di quella plasmatica [61]. In caso di polimorfismo della glicoproteina P, che può essere presente in 1/3 della popolazione europea [62] o uso di sostanze che inibiscano la sua attività potremmo avere livelli ematici bassi  e concentrazioni intracellulari elevate! Vice versa in caso di iperattività della glicoproteina P. Inoltre non è ancora certo se l’azione immunosoppressiva  di CNI debba coprire uniformemente 24 ore o debba essere concentrata sulle ore diurne. La migrazione di linfociti dai linfonodi non è continua ma segue  un ritmo circadiano. I linfociti rimangono nei linfonodi durante la notte mentre circolano durante il giorno. Vi sono grandi oscilazioni che dipendono da fattori promigranti, come il numero di cellule dendritiche [63], stimoli adrenergici [64], chemochine, citochine e fattori di accrescimento che regolano l’organizzazione funzionale dei linfonodi e l’egresso dei linfociti [65].

Va comunque sottolineata la possibilità di poter usare I CNI  per decenni senza causare   un progressivo ed inesorabile peggioramento della funzione renale, alla condizione di ripettare alcune indicazioni:   le dosi di mantenimento non devono superare i 2- 3 mg/kg/die  con CsA e 0.05- 0.1 mg/kg/die con TAC;  i pazienti devono essere   monitorati frequentemente e non ogni 6-12mesi; va evitato un atteggiamento  fideistico nei confronti dei livelli ematici, che possono  condurre a gravi errori terapeutici.

Dopo molti anni di sterili discussioni sul rischio di insufficienza renale irreversibie causata da CNI, va ricordato che la causa più frequente di fallimento di un trapianto non è la nefrotossicità da CNI, ma è  il decesso del ricevente. Le cause maggiori di danno cronico renale sono oggi rappresentate dal rigetto cronico anticorpo-mediato, dalla recidiva di malattie renali o sistemiche, dalla cattiva aderenza alle prescrizioni e dalla cattiva qualità dell’organo trapiantato. CNI possono esercitare nefrotossicità, ma questo rischio può essere ridotto da un attento monitoraggio clinico.

 

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Steroidi tra necessità e tossicità

Abstract

La minimizzazione della terapia steroidea ha da sempre rappresentato uno degli obiettivi principali dei protocolli immunosoppressivi dopo trapianto di rene, e questo a causa dei suoi numerosi effetti collaterali. Oggi, l’impiego di una dose giornaliera di prednisone ulteriormente ridotta (5 mg) viene da molti considerato un giusto compromesso tra tossicità ed efficacia.  Purtroppo, la grande variabilità inter-individuale della farmacocinetica del prednisolone non impedisce la comparsa di effetti collaterali maggiori in una percentuale variabile di pazienti anche a fronte della bassa dose utilizzata. Anche una interazione farmacologica tra prednisolone e farmaci utilizzati dopo trapianto può concorrere ad aumentare l’esposizione giornaliera al farmaco. La sospensione dello steroide rappresenta ancora l’unica procedura in grado raggiungere l’obiettivo desiderato. Oggi sappiamo che questa procedura si associa ad un maggior rischio di rigetto acuto, senza però ridurre la sopravvivenza del trapianto. Deve essere proposta a pazienti a basso rischio immunologico e senza malattia renale a rischio di recidiva. La sospensione precoce, durante la prima settimana di trapianto, rappresenta la modalità suggerita anche da alcune linee guida, sebbene anche una sospensione più tardiva (3° mese) offre ottimi risultati anche grazie alla possibilità di selezionare i pazienti a cui applicare la procedura. La terapia di induzione viene sempre consigliata nel caso di una sospensione precoce. L’uso di Tacrolimus offre migliori garanzie rispetto al Ciclosporina nella prevenzione del rigetto acuto. Da tempo, il farmaco di associazione più utilizzato è l’acido micofenolico.

Introduzione

I glucocorticoidi di sintesi, introdotti alla fine degli ’50 insieme alla Azatioprina, sono i farmaci utilizzati da più tempo dopo trapianto di rene. Insieme, questi due farmaci resero il trapianto di rene una procedura terapeutica e non più sperimentale. All’inizio il prednisone o i suoi equivalenti, furono somministrati una o due volte al giorno, alla dose di 15 mg [1]. I primi studi documentarono subito due aspetti importanti relativi al loro impiego clinico: il primo fu che gli steroidi risultavano efficaci nel prevenire il rigetto acuto solo se utilizzati in associazione con altri farmaci, e non quando utilizzati da soli. Il secondo riguardava la comparsa di gravi effetti collaterali quando utilizzati per più tempo. Quest’ultimo problema risultò talmente importante che divenne oggetto di molti studi, e presto vennero proposti nuovi schemi terapeutici (posologia singola o a giorni alterni) con lo scopo di contenere questa problematica che riduceva la qualità di vita dei pazienti [2]. Negli anni ‘70 lo steroide faceva parte integrante della terapia immunosoppressiva e la posologia “standard” era di 8-10 mg/die. Nel 1975 Tourcotte et al [3] segnalarono tre punti essenziali della terapia steroidea dopo trapianto di rene, punti che si confermano attuali anche ai giorni nostri: 1° non c’è consenso su quale debba essere la dose minima necessaria di steroide, 2° la dose minima necessaria può essere diversa da soggetto a soggetto, 3° la riduzione progressiva dello steroide comporta un aumento del rischio di rigetto acuto.

 

La sospensione dello steroide diventa una possibilità terapeutica

L’avvento della Ciclosporina diede inizio ad un nuovo filone di ricerca clinica basato sulla possibilità di attuare protocolli immunosoppressivi senza steroide [4]. Questo venne subito accolto con grande interesse da parte dei clinici perché permetteva di eliminare, o ridurre, i noti effetti collaterali legati all’uso protratto dello steroide [5]. Questa opportunità, che però risultò molto meno praticabile del previsto, aprì un ventaglio di proposte terapeutiche che ancora oggi sono oggetto di discussioni. Infatti, dopo 40 anni, esistono poche certezze e molti dubbi ancora. Sappiamo che protocolli senza steroide vengono utilizzati “solo” nel 20-30% dei pazienti, con grande differenza da centro a centro e da nazione a nazione. Non esistono dubbi sul fatto che i protocolli senza steroide aumentino il rischio di rigetto acuto, calcolato tra il 58%-77% [6], ma, nello stesso tempo, sappiamo che  non riducono la sopravvivenza del trapianto, almeno entro i primi 5 e 10 anni [6-7]. Purtroppo, non riducono neppure la mortalità del paziente, come invece atteso, vista la riduzione significativa di alcuni tra i principali fattori di rischio di malattia cardiovascolare (diabete, ipertensione, dislipidemia), sempre segnalata in questi casi [7]. Partendo da queste evidenze, ritengo che i protocolli senza steroide, oggi debbano porsi come unico obiettivo principale quello di evitare i noti effetti collaterali, al fine di migliorare la qualità di vita del paziente, migliorare la sua aderenza alla terapia e ridurre la morbilità cardiovascolare.

 

Basse dosi di steroide o sospensione dello steroide?

A questo punto si apre il problema di quale sia la reale incidenza e gravità di questi effetti collaterali ai giorni nostri.  Oggi, rispetto ai decenni scorsi, la posologia giornaliera del prednisone o dei suoi equivalenti si è ridotta progressivamente, fino a 5 o 4 mg die. Quindi, è lecito chiedersi se una dose così bassa sia comunque tossica per il paziente, oppure sia priva di effetti collaterali importanti, al punto da rendere la sospensione inutile, o perlomeno non vantaggiosa. In pratica si ritorna all’annoso quesito, mai risolto: esiste una dose minima di steroide che sia efficace ma non tossica? Cercare di dare una risposta a questa domanda è molto importante, oggi più di ieri, perché può giustificare o meno il ricorso a protocolli immunosoppressivi senza steroide in epoca di basse dosi.

 

Effetti collaterali e basse dosi di steroide

Nel 2015 Pirsch e coll, pubblicarono uno studio randomizzato che valutava il rischio di diabete dopo 5 anni dal trapianto in pazienti trattati con basse dosi di steroide (5 mg/die) oppure con sospensione dello steroide al 7° giorno di trapianto. Tutti i pazienti ricevevano Tacrolimus e Micofenolato Mofetile. Lo studio dimostrò che 5 mg di steroide al giorno, rispetto alla sospensione, non aumentavano  il rischio di diabete mellito [8]. Questa conclusione confermava uno studio precedente che aveva valutato l’effetto di dosi diverse di steroide sulla resistenza periferica all’insulina, sempre in pazienti con di trapianto renale. Lo studio dimostrò che la sensibilità all’insulina migliorava con il progressivo ridursi delle dosi, partendo da una dose di 30 mg die, ma una volta raggiunta la posologia di 5 mg, ulteriori riduzioni non comportavano alcun miglioramento del parametro misurato [9].  Questi lavori sembrerebbero confermare l’ipotesi che 5 mg di steroide non siano sufficienti ad aumentare il rischio di diabete, riducendo quindi i vantaggi di una eventuale sospensione. Questi risultati furono però contraddetti dallo studio Harmony, pubblicato nel 2016 [10]. Si tratta di un trial randomizzato, multicentrico (615 pazienti) il cui obiettivo secondario riguardava l’incidenza di diabete in un gruppo di pazienti (gruppo controllo) che utilizzava dosi di steroide molto basse (2,5-5.0 mg/die) rispetto a due gruppi che sospendevano lo steroide in 8a giornata, dopo una terapia di induzione con rATG  o con Basiliximab. Tutti i pazienti dello studio assumevano Tacrolimus + MMF, con le stesse modalità. L’induzione nel gruppo di controllo era stata effettuata con Basiliximab. Tutti i pazienti erano a basso rischio immunologico.  A 12 mesi, l’incidenza di diabete (diagnosticato secondo i criteri ADA) risultò significativamente superiore nel gruppo con basse dosi di steroide (39%) rispetto ai due gruppi con sospensione precoce (23% e 24% rispettivamente, p<0.0004). In precedenza, altri studi era giunti a questa stessa conclusione [11].  Quindi, anche dosi basse di steroide possano condizionare la comparsa di diabete, specie se assunto per un lungo periodo di tempo e se assunte in associazione con altri farmaci pro-diabetogeni come ad esempio il Tacrolimus.

Un altro effetto collaterale che potrebbe trarre giovamento dalla sospensione dello steroide riguarda la patologia ossea, in particolare l’osteoporosi, segnalata, dopo trapianto, anche in più del 50% dei pazienti. Com’è noto, questa patologia comporta un alto rischio di fratture spontanee vertebrali o periferiche, con gravi ripercussioni sulla qualità di vita del soggetto. C’è accordo nel sostenere che la perdita maggiore di densità ossea si verifichi durante i primi 6-12 mesi di trapianto, periodo in cui le dosi di steroide sono solitamente maggiori [12].  E’ stato calcolato che evitare lo steroide può ridurre significativamente il rischio di osteoporosi (HR 0.69; 95% CI 0.59-0.81), ma non di eliminarlo completamente, visto il ruolo patogenetico svolto anche da altri fattori come il sesso femminile, l’età anagrafica superiore a 50 anni, il diabete, la lunga durata della terapia dialitica, l’obesità [13]. Ma, a questo punto si ritorna la domanda iniziale: 5 mg di prednisone, o dosi equivalenti, sono comunque lesive al metabolismo osseo, oppure sono necessarie dosi maggiori, come quelle utilizzate in passato? La risposta ci può venire da uno studio inglese condotto su 244.235 pazienti con patologia di varia natura, prevalentemente polmonare cronica, e pubblicato nel 2000 [14]. I pazienti in studio assumevano regolarmente steroide e furono confrontati con 244.235 pazienti di controllo, che non assumevano steroide per bocca, selezionati in base all’età anagrafica e sesso. Lo scopo dello studio fu di verificare gli effetti della dose giornaliera di steroide sul rischio di fratture vertebrali e periferiche.  Lo studio documentò che ad una dose giornaliera compresa tra 2,5-7,5 mg corrispondeva un incremento di rischio del 18% (CI 95%, 1,11-1,26) per le fratture periferiche e del 54% (CI 95%, 1,29-1,84) per quelle vertebrali. Con dosi superiori, il rischio aumentava del 44% (CI 95%, 1.34-1,54) e del 235% (CI 95%, 2.35-3.40) rispettivamente.  Quindi, utilizzare basse dosi di steroide riduce il rischio di osteoporosi, ma non si può sostenere che equivalga a non utilizzarlo. Anzi, l’incremento del rischio si mantiene significativo anche a basse dosi, e probabilmente risulterà ancora maggiore nelle categorie di soggetti più esposti. Un altro dato emerso da questo studio, è che il rischio di fratture indotto dallo steroide non si incrementa nel corso della terapia, e si riduce rapidamente dopo la sua sospensione [15].

Un altro aspetto su cui soffermarci ci viene offerto dalla pratica clinica quotidiana. E’ esperienza comune che ad una stessa dose di steroide, anche se bassa, possono corrispondere effetti collaterali molto diversi da paziente a paziente. Questa evidenza dovrebbe suggerire la necessità di personalizzare la dose di steroide, esattamente come stiamo facendo con altri immunosoppressori. Purtroppo, chi si è occupato di questo aspetto ha documentato che il problema non è di facile soluzione.

 

Alcuni aspetti di farmacocinetica

Nel campo della trapiantologia i due glucocorticoidi di sintesi più utilizzati sono il prednisone ed il prednisolone. Quest’ultimo è il principale corticosteroide presente nel plasma, ed è l’unico in grado di attraversare la membrana cellulare e produrre gli effetti farmacologici attesi. Infine, il prednisolone è l’unico glucocorticoide di sintesi utilizzato per gli studi di farmacocinetica. Il prednisone ed il prednisolone hanno entrambi un assorbimento intestinale rapido (tmax=1-3 ore); entrambi hanno una alta biodisponibilità: prednisolone (86,1±9,1%), prednisone (93,6±9,2%); il cibo rallenta ma non riduce il loro assorbimento; il prednisone, nel fegato, viene convertito rapidamente a prednisolone; entrambi sono eliminati dal metabolismo epatico (t1/2= 2-4 ore). In questo processo risulta coinvolto anche il sistema del Citocromo P450 (CYP3A4 e CYP3A5). Dopo 24 dalla assunzione, l’esposizione al farmaco risulta quasi assente. Il prednisolone viene in parte eliminato anche dal rene (12-26%) e 5 ore di emodialisi eliminano 7-17,5% della dose assunta. Dopo trapianto, la eliminazione del prednisolone viene rallentata dall’uso concomitante di più farmaci, tra questi sicuramente la ciclosporina; una ridotta funzione renale  riduce la clearance del prednisolone  di circa il 26% con conseguente aumento del T1/2 (+53%), e dell’AUC  (+34%); nei giovani il T1/2  è più breve (esposizione minore); nel sesso femminile l’esposizione risulta  maggiore per una clearance del farmaco ridotta, condizione accentuata dall’uso  di contraccettivi. La eliminazione del farmaco non è costante, si riduce dopo il primo anno [16]. Queste note di farmacocinetica documentano la complessità del metabolismo steroideo a cui corrisponde una ampia variabilità inter-individuale, e di conseguenza  una tossicità diversa da soggetto a soggetto.

 

La personalizzazione della terapia steroidea, una esigenza mai soddisfatta

Molti studi, soprattutto in passato, hanno valutato se esistesse una correlazione tra grado di esposizione al prednisolone e comparsa di uno o più effetti collaterali. In questo ambito, una delle complicanze più indagate è stata la Sindrome di Cushing, molto presente in passato, talvolta con manifestazioni così severe da porre in discussione i vantaggi del trapianto. Oggi, nonostante le basse dosi di steroide, la possiamo ancora osservare seppure in una percentuale minore di pazienti, e con manifestazioni che possono ridurre il senso di benessere percepito dal paziente e la sua riabilitazione.  E’ stato ipotizzato che la comparsa di queste manifestazioni potrebbe dipendere da una maggiore esposizione al farmaco nonostante dosi giornaliere ugualmente basse. Questo dovrebbe significare che in alcuni pazienti sono sufficienti dosi minori per ottenere l’effetto farmacologico desiderato. In effetti, alcuni studi di farmacocinetica hanno confermato una correlazione tra alta esposizione al prednisolone (Cmax elevato, t½ prolungato, AUC maggiore) e comparsa di effetti collaterali “tipo Cushing” [17]. Questi riscontri, di sicura rilevanza clinica, hanno trovato conferme [18-20] ma anche smentite da parte di altri studi [21-23], e quindi il problema rimane aperto ad interpretazioni diverse.  Una maggiore esposizione allo steroide (AUC +23%) è stata segnalata anche nei soggetti che sviluppavano un diabete dopo trapianto [24]. Studi di farmacodinamica effettuati su colture di linfociti periferici hanno inoltre riscontrato una sensibilità all’azione dello steroide molto diversa da soggetto a soggetto. Di conseguenza, dovrebbero essere necessarie dosi diverse di farmaco per ottenere uno stesso effetto farmacologico [25]. Tutti questi aspetti ci dimostrano la complessità del problema e come la sola riduzione empirica della dose di prednisolone non possa garantire la stessa efficacia e sicurezza a tutti i pazienti.  A questo punto sorge spontanea una domanda: perché non dosare i livelli plasmatici di prednisolone libero per cercare di personalizzare la posologia dello steroide? Anche questo aspetto è già stato affrontato, ma con risultati poco incoraggianti. Il dosaggio plasmatico del prednisolone libero, teoricamente utile per dare una misura della sua esposizione, non ha dato risultati attesi, per diversi motivi, tra questi:  riscontro di un “indice terapeutico” molto ampio, un t1/2 biologico molto più lungo di quello plasmatico, assenza di  una correlazione lineare tra dose assunta e concentrazione plasmatica di farmaco libero [16].

A questo punto, sorge spontanea un’altra domanda: considerata la difficoltà a personalizzare la posologia dello steroide e visto che anche basse dosi possono essere causa di effetti collaterali non trascurabili, perché non cercare di evitare l’uso del farmaco, quando possibile?

 

Terapia immunosoppressivi senza steroide, come procedere

Il primo quesito da porsi, qualora si decida di applicare un protocollo senza o con sospensione dello steroide, riguarda a quale categoria di pazienti proporlo. Su questo aspetto esiste un “consensus” consolidato.  Infatti, tutti gli studi clinici che si sono occupati della sospensione dello steroide hanno sempre escluso pazienti ad alto rischio immunologico. Segnalo tuttavia una recente meta-analisi che ha riportato risultati a favore della sospensione dello steroide anche in soggetti considerati ad alto rischio immunologico [26].  Comunque, in attesa di ulteriori conferme, ancor’oggi vengono esclusi da questi protocolli pazienti con PRA > 30%-50%, con ritrapianto, se il primo risulta fallito per rigetto acuto nei primi 6-12 mesi, con malattia sistemica e con malattia di renale sostenuta da una Glomerulonefrite primitiva. Rispetto a quest’ultimo punto va ricordato che solo da pochi anni si è giunti ad una discreta condivisione nel considerare la GN-IgA una controindicazione alla sospensione dello steroide. Infatti, fu nel 2011 che venne segnalata un’associazione tra sospensione dello steroide ed aumentato rischio di recidiva di GN-IgA [27]. In seguito, molti altri studi hanno confermato questo riscontro [28-30], mentre pochi altri lo hanno escluso [31].  In attesa di ulteriori studi, oggi la maggioranza degli autori tende ad evitare la sospensione dello steroide in presenza di una GN primitiva, compresa la GN-IgA. Il trapianto da vivente AB0 incompatibile rappresenta una delle controindicazioni alla terapia senza steroide in quanto considerato a maggior rischio di rigetto acuto. Segnalo una esperienza retrospettiva danese in cui lo steroide venne sospeso al 3° mese in 50 pazienti selezionati per assenza di precedenti rigetti acuti. La sospensione fu ottenuta nell’86% dei pazienti con una incidenza di rigetto acuto del 19% [32].  Si tratta di una incidenza non trascurabile che dovrebbe suggerire molta cautela quando ci si trova in presenza di questo particolare tipo di trapianto.

 

Sospensione dello steroide precoce o tardiva

Un punto di grande discussione, riguarda quale sia il momento migliore per sospendere lo steroide: subito dopo il trapianto (avoidance/immediata), durante i primi 7-10 giorni (sospensione precoce), dopo 3 o 6 mesi (sospensione tardiva).  Negli ’80 e ’90 la sospensione tardiva era la modalità più diffusa, in seguito la sospensione precoce e quella immediata divennero sempre più frequenti. In questi ultimi 40 anni, molti studi randomizzati si sono dedicati a questo aspetto, ma non è stato possibile giungere ad una conclusione condivisa. Questo per le diverse sfaccettature del problema. Oggi sappiamo che la sospensione tardiva ha un indubbio vantaggio, quello di selezionare i pazienti ai quali sospendere lo steroide e questo si traduce in una minore incidenza di rigetto acuto rispetto alla sospensione precoce [33]. La selezione consiste nell’escludere dalla sospensione i pazienti con uno o più episodi di rigetto acuto o con funzione renale compromessa o instabile. In alcuni protocolli è prevista anche una biopsia renale di controllo prima di sospendere lo steroide [34]. Tuttavia, a fronte di questo vantaggio, altri aspetti ne possono limitare l’applicabilità: possibile comparsa di effetti collaterali da steroide durante i 3-6 mesi di terapia, necessità di riattivare una fase di controlli ambulatoriali molto ravvicinati durante il periodo di sospensione che solitamente richiede 2-3 mesi. Rischio, sempre per il paziente, di sviluppare sintomi riferibili ad un ipocorticosurrenalismo, possibilità di osservare un lieve peggioramento della funzione renale, difficile da interpretare, anche biopticamente. necessità di aumentare la dose di ICN per una riduzione dell’attività metabolica del sistema citocromo P450 (lo steroide, anche a basse dosi può comportarsi da induttore). Quindi, nella pratica clinica, la sospensione tardiva dello steroide si traduce in una maggiore difficoltà di gestione ambulatoriale del paziente, proprio in periodo in cui si dovrebbe invece iniziare a semplificare le procedure di monitoraggio. La sospensione precoce permette di evitare molti dei limiti sopra riportati e quindi finisce con semplificare la gestione clinica del paziente, a fronte, come già detto, di un maggior rischio di rigetto acuto. Segnalo tuttavia che nelle sospensioni precoci gli episodi di rigetto acuto si verificano soprattutto durante il primo mese, quando i controlli ambulatoriali sono frequenti e quindi senza ripercussioni sulle normali procedure.  Oggi, la sospensione precoce viene preferita alla sospensione immediata (avoidance) perché facilità la gestione clinica dell’immediato post trapianto e riduce il rischio di rigetto acuto [35]. Quest’ultimo punto è stato ulteriormente confermato da un recente studio randomizzato che ha confrontato le due diverse modalità di evitare lo steroide avendo come obiettivo primario l’incidenza di diabete, risultata sovrapponibile. In questo studio, l’incidenza di rigetto acuto biopticamente accertato è risultata significativamente superiore nel gruppo con sospensione immediata (13,6%) rispetto al gruppo con sospensione al 10° giorno (8,7%) (p=0.006) [36].

 

Sospensione dello steroide e terapia di induzione

Un ulteriore aspetto da considerare riguarda la necessità o meno di una terapia di induzione nei soggetti candidati a sospendere lo steroide dopo trapianto. Ricordo che questi pazienti rientrando nella categoria “a rischio immunologico standard” potrebbero anche non necessitare di una specifica induzione per la prevenzione del rigetto acuto. Tuttavia, una terapia di induzione viene fortemente consigliata dalle attuali linee guida nei casi in cui si preveda una sospensione precoce dello steroide [37] ed è sempre stata inclusa in tutti i protocolli proposti nel corso degli anni. Nei casi di una sospensione tardiva, la forza della raccomandazione viene meno, sebbene potrebbe rivelarsi utile ad aumentare la percentuale di soggetti eleggibili alla sospensione, grazie ad una probabile minore incidenza di rigetti acuti e ad una migliore funzione renale. Per quanto riguarda il tipo di induzione, un recente studio randomizzato, multicentrico, ha riconfermato che, in questo ambito, l’utilizzo dell’inibitore monoclonale del recettore dell’IL-2 (Basiliximab) offre gli stessi risultati di quelli ottenuti con le Timoglobuline (rATG) [10].

 

Sospensione dello steroide a terapia immunosoppressiva di mantenimento

L’ultimo aspetto da considerare riguarda la scelta dei farmaci immunosoppressori da utilizzare nei soggetti candidati alla sospensione dello steroide (sia immediata, precoce o tardiva). La Ciclosporina ha rappresentato il farmaco di riferimento per molti anni, a partire dal 1980. In seguito, con l’avvento del Tacrolimus, i vari protocolli immunosoppressivi senza steroide utilizzarono indifferentemente uno dei due immunosoppressori, senza specifiche raccomandazioni.  Negli ultimi anni, numerosi studi hanno riportato una incidenza significativamente minore di rigetti acuti, dopo sospensione dello steroide, con Tacrolimus rispetto che con la Ciclosporina [38].  Pertanto, il Tacrolimus è diventato il farmaco di prima scelta in questo specifico ambito. Per quanto riguarda i farmaci antiproliferativi di associazione, tutti i protocolli proposti hanno sempre utilizzato l’acido micofenolico, che rappresenta quindi il farmaco di riferimento. In alcuni studi, tra questi anche uno italiano [39], l’Azatioprina ha dato risultati equivalenti, ma è stata comunque progressivamente abbandonata dalla maggioranza degli autori. Ad oggi, non disponiamo di studi randomizzati che abbiano valutato l’efficacia degli mTOR-I in questo specifico ambito.

 

Conclusioni

Dopo 40 anni dai primi protocolli immunosoppressivi senza steroide, possiamo affermare che il mondo trapiantologico rimane diviso tra chi li supporta con grande convinzione e chi invece li rifiuta con altrettanta determinazione.  I risultati ottenuti non permettono di giungere ad una conclusione unica e definitiva, a cause dei molti aspetti coinvolti, ed ai quali può essere data più o meno rilevanza.  In sintesi possiamo comunque affermare che:

La tossicità dello steroide è un effetto complesso, difficile da misurare con un unico parametro. Può infatti interessare, in misura diversa, più sistemi biologici di uno stesso individuo

La elevata variabilità inter-individuale della farmacodinamica del prednisolone dovrebbe suggerire una personalizzazione della terapia. Purtroppo, il monitoraggio farmacologico «tradizionale» non è praticabile per specifiche caratteristiche di farmacocinetica

La riduzione  a 5 mg della dose giornaliera di prednisone o dei suoi equivalenti ha sicuramente ridotto il grado di tossicità del farmaco, ma non ha eliminato il problema degli effetti collaterali e del loro impatto sulla qualità di vita di molti pazienti e sul loro profilo di rischio cardio-vascolare

La soluzione migliore al problema potrebbe essere offerta dalla sospensione (meglio precoce?) del farmaco, possibile in molti pazienti classificabili “a basso rischio immunologico”. In questi pazienti, il maggior rischio di rigetto acuto potrà essere ampiamente compensato dai benefici derivanti dalla assenza della tossicità steroidea.

 

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Metodiche dialitiche in terapia intensiva: terapie tipiche, modalità somministrative, farmacocinetica e farmacodinamica

L’IRA complica circa 1/3 dei pazienti ricoverati in ICU e circa il 5% di questa popolazione necessita di RRT. Le metodiche sostitutive della funzione renale vengono usate, oltre che per correggere il sovraccarico idrico e le alterazioni metaboliche, anche nei casi di intossicazione e/o sovradosaggio di tossine e farmaci. Le RRT poi trovano applicazione anche per garantire l’adsorbimento delle citochine nelle tempeste da mediatori della flogosi sepsi-correlate.
Il paziente in ICU è generalmente comorbido, sedato, intubato e ventilato meccanicamente, la diuresi è monitorata costantemente, sovente è in overload di fluidi per discrasia secondaria allo stato di ipercatabolismo. Inoltre è portatore di uno o più cateteri venosi centrali per infusioni di liquidi, nutrienti, farmaci inotropi, vasocostrittori ed antimicrobici ad ampio spettro. Si può dire che l’insufficienza multiorgano del paziente in ICU sia evento frequente e questo sia ancora più evidente nei casi complicati da sepsi: il rene è certamente uno degli organi più coinvolti in corso di MOF e statisticamente viene messo sullo stesso livello del sistema cardiocircolatorio.
La gravità e l’estensione della polipatologia del paziente in ICU determina alta e continua variabilità funzionale e metabolica di organi ed apparati. La necessità di istituire una politerapia, soprattutto in copresenza di supporti esterni (ECMO, CRRT, decapneizzatori), comporta il rischio di alterazioni frequenti dei parametri di farmacocinetica e farmacodinamica per le continue modificazioni delle vie metaboliche ed enzimatiche (deficit della clearance epatica e renale). Sussistono poi anche alterazioni del legame farmaco-proteico (paziente ipercatabolico, discrasico, con terzo spazio): tutto ciò rende difficile, quando si prescrive la terapia, la rigida applicazione delle regole generali di farmacinetica e farmacodinamica. Consequenzialmente si eleva il rischio di sovradosaggio, o al contrario, di dosaggio inappropriato per difetto, dei farmaci somministrati.
La tipologia di RRT in Terapia Intensiva varia a seconda della stabilità emodinamica del paziente e degli obiettivi terapeutici che ci prefiggiamo di ottenere. Alle metodiche intermittenti vengono preferite le CRRT proprio per le caratteristiche dei malati che fin qui abbiamo descritto. Queste ultime, sulla base degli aspetti coagulativi del paziente, possono a loro volta essere condotte con eparina o citrato.
Come noto i principali parametri farmacocinetici sono inquadrati nell’acronimo ADME (Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo ed Eliminazione).
L’Assorbimento dipende dalla via di somministrazione (os, im, ev), il Volume di distribuzione, ovvero il rapporto fra dose e concentrazione, è a sua volta legato al peso e all’altezza del paziente, il metabolismo infine dall’efficienza espressa dalle vie di degradazione (epatiche e/o renale). Quando si associa una CRRT la clearance totale (Kct) di un farmaco deve tenere conto della somma delle clearance complessive (epatica, renale e CRRT). La clearance extracorporea di un farmaco è considerata significativa se è almeno il 25-30% della Kct e, in tal caso, il farmaco necessiterà di adeguamento posologico.
Spesso non sono disponibili dati sulla clearance renale ed epatica in corso di AKI in trattamento renale sostitutivo extracorporeo continuo.
La clearance sarà affidata in questo caso alla sola CRRT ed è importante, nel caso, tenere conto che se il legame proteico del farmaco è superiore all’80% difficilmente questo sarà rimosso dalla dialisi. Quanto più ampio sarà poi il volume di distribuzione (>0.7 l/kg), tanto maggiore sarà il legame del farmaco ai tessuti e ciò lo renderà altrettanto poco dializzabile. Molto dipenderà poi, in ordine alla clearance extracorporea, dalla potenza che daremo al trattamento potendo questa variare da 10-50 ml/minuto a seconda della metodica prescelta.
La prima dose di «carico» è strettamente legata al volume di distribuzione e come tale non richiede aggiustamento posologico anche in pazienti con insufficienza renale sottoposti a CRRT.
Le dosi successive che andranno somministrate in corso di CRRT devono tenere invece conto del livello plasmatico del farmaco che dovrà essere dosato di volta in volta per adeguare al meglio la dose efficace. Questa potrà essere ottenuta sulla base della differenza tra la concentrazione desiderata e la concentrazione riscontrata al prelievo di controllo.
I farmaci più usati in ICU sono quelli ad azione cardiovascolare (es. dobutamina, noradrenalina), sedativi ipnotici (es. midazolam), anestetici (es. propofol), oppioidi (es. remifentanil), miorilassnti (es. curari), steroidi, antibiotici ad ampio spettro, diuretici e fluidi.
La noradrenalina, a prescindere dalla concomitante CRRT, viene inizialmente somministrata al dosaggio di 0.1-0-2 γ/kg e successivamente adeguata sulla base della risposta clinica. Il midazolam, che ha metabolismo prevalentemente epatico e scarso impatto sull’emodinamica del paziente, non richiede particolari aggiustamenti in corso di terapia renale extracorporea. Il Midazolam richiede una dose iniziale di 0.02-0.1 γ/kg/h adeguandola anche in questo caso sulla base della risposta clinica.
Come i precedenti si comportano anche il Propofol (dose iniziale 0.3-3 mg/kg/h), il Remifentanil (0.5-15 γ/kg/h) ed i curarici.
Discorso a parte per i farmaci che non hanno metabolismo renale ed epatico come ad esempio il miorilassante curarico Cisatracurio che viene somministrato in infusione continua al dosaggio di 0.06-0.18 mg/kg/h venendo eliminato nell’ambito del reuptake della placca neuromotoria. Il Rocuronio ha invece metabolismo di eliminazione renale, viene somministrato in boli, ma un eventuale sovradosaggio viene bilanciato dall’impiego dell’antagonista Sugammadex.
Certamente la terapia antibiotica è quella più studiata per quanto concerne gli aspetti di farmacocinetica e farmacodinamica in ICU.
Gli antibiotici possiamo dividerli sulla base del meccanismo d’azione (tempo dipendente o concentrazione dipendente) e sulla solubilità (idro o liposolubili).
Gli antibiotici che presentano attività battericida dipendente dal tempo hanno necessità di mantenere il livello di concentrazione costantemente superiore a quello richiesto dalla MIC e questo effetto si ottiene soprattutto mantenendo l’antibiotico in infusione continua. Gli antibiotici che, al contrario, presentano attività battericida dipendente dalla concentrazione nel sito di infezione è essenziale raggiungano elevate concentrazioni (> 10 volte la MIC): questo effetto si ottiene somministrando il farmaco in soluzione unica essendo però sicuri che le determinanti di efficacia (Cmax/MIC e AUC/MIC) siano rispettate anche a costo di variare (allungando o accorciando) l’intervallo fra una somministrazione e l’altra.
Alla classe d’azione tempo dipendente appartengono per esempio gli antibiotici Azitromicina, Piperacillina/Tazobactam, Cefalosporine, Carbapenemi, Teicoplanina, Vancomicina, Linezolid, Tripetoprim/Sulfametossazolo. Alla classe concentrazione dipendente appartengono Amikacina, Gentamicina, Chinolonici, Colistina, Metronidazolo, Rifampicina, Daptomicina.
In corso di trattamento CRRT bisogna fare attenzione all’altro aspetto citato ovvero all’idro o liposolubilità dell’antibiotico usato. Quanto più idrosolubili sono, tanto più basso è il volume di distribuzione e, di conseguenza, gli antibiotici rischiano di essere rimossi facilmente dalle membrane ad elevata permeabilità. Quanto più sono invece legati ai lipidi, tanto maggiore è il loro volume di distribuzione con minor rischio di rimozione in corso di trattamento renale extracorporeo continuo.
Per fortuna sono a disposizione numerose tabelle che ci aiutano ad evitare complicati calcoli permettendoci, ogni qualvolta dobbiamo decidere la dose da somministrare, di tenere conto degli adeguamenti posologici da introdurre quando si utilizzano in concomitanza sul paziente anche metodiche dialitiche.
Nell’ambito delle CRRT utilizzate in ICU si sono ormai ritagliate un ruolo molto importante quelle in cui viene associata la metodica con adsorbimento (Cytosorb®, CPFA®).
La cartuccia Cytosorb®, inserita nel circuito CRRT, viene utilizzata per contrastare lo shock settico irreversibile da germi gram + e gram – , ovvero quello non responsivo alle espansioni di volume ed alla vasocostrizione indotta da amine per vasoplegia sostenuta da tempesta citochinica.
Nella nostra esperienza questa metodica si è rivelata efficace, nel quadrienno 2015-2019, nel trattamento di 61 pazienti complicati da shock settico refrattario. Il 60% di questa casistica risultava vivo ad un mese dalla dimissione dall’ICU.
La cartuccia Cytosorb® si dimostra efficace nella rimozione di Vancomicina, Disgossina, Amlodipina, Verapamil, Diazepam, Quetapina, Ticagrelor, Rivaroxaban e Dabigatran. Non rimuove invece i carbapenemi e la piperacillina/tazobactam.
Precedentemente alla terapia con Cytosorb®, il nostro centro ha eseguito, dal 2011 al 2018, 261 trattamanti in ICU con CPFA® (Coupled Plasmafiltration Adsorption) su 87 pazienti con shock settico refrattario sostenuto da germi Gram+ e Gram -.
La sopravvivenza è risultata essere del 50% ad un mese dalla dimissione dalla Terapia Intensiva.
Rispetto alla CPFA®, il trattamento con la cartuccia Cytosorb® ha il vantaggio di poter essere effettuato su sangue intero per la durata di 24 ore contro le 10 ore della CPFA®. Quest’ultima agisce invece sul plasma e richiede la presenza anche di un plasmafiltro posto in genere prima del filtro dialitico ad elevata permeabilità.
L’emoperfusione con filtro a base di Polymyxin B (Toraymyxin®) si è rivelata efficace nello shock settico sostenuto da germi gram negativi (soprattutto nei casi post-chirurgici).
Possiamo concludere che il paziente ricoverato in Terapia Intensiva che necessita di CRRT presenta alterazioni della farmacocinetica e della farmacodinamica legate alla gravità della condizione clinica che ne può alterare i parametri.
La somministrazione dei farmaci, in questo contesto, avviene principalmente per via endovenosa e, dopo la dose di carico, è consigliato proseguire la terapia tenendo conto dei livelli plasmatici raggiunti dal farmaco e ottimizzando i dosaggi orientandoci soprattutto con le tabelle disponibili in letteratura.
Nell’ambito delle terapie dialitiche continue in ICU vanno annoverate anche quelle per il trattamento dello shock settico irreversibile divenute ormai imprescindibili. Sempre più questo tipo di trattamento si dimostra efficace nella riduzione dei dosaggi di amine in infusione per il miglioramento dell’emodinamica consecutivo alla riduzione della tempesta citochinica.

Il paziente in dialisi peritoneale: terapie tipiche, modalità somministrative, farmacocinetica e farmacodinamica

Abstract

Le aree specifiche di trattamento farmacologico in dialisi peritoneale (DP) sono riassumibili in trattamento delle peritoniti e delle infezioni dell’exit-site e tunnel del catetere, la prevenzione del degrado sclerotico del peritoneo e la cura della peritonite sclerosante incapsulante.

La peritonite batterica è una comune complicanza della DP e il tasso di episodi viene considerato un indicatore di qualità. Tutti i programmi di DP hanno un protocollo terapeutico empirico che prevede gli antibiotici direttamente nel liquido peritoneale e l’utilizzo di almeno due antibiotici in associazione ad ampio spettro in attesa dei risultati delle colture. Vengono indicati: vancomicina o cefalosporine di prima generazione per i germi Gram positivi associate a cefalosporine di terza generazione o aminoglicosidi per i germi Gram negativi. Successivamente all’isolamento si procede con terapia mirata.

Le infezioni legate all’exit-site e al tunnel sottocutaneo del catetere peritoneale costituiscono un fattore di rischio di peritonite. La ricerca microbiologica tramite tampone e coltura deve essere mirata agli episodi di infezione con evidenza di secrezione. La terapia antibiotica empirica utilizza cefalosporine di prima generazione o penicilline protette per via orale. Il trattamento successivo è mirato. L’isolamento di stafilococco aureo e di pseudomonas aeruginosa richiede due antibiotici mirati in associazione e un trattamento di almeno tre settimane.

La sclerosi peritoneale semplice è un processo di fibrosi diffusa della membrana legato alla DP nel tempo. La prevenzione prevede l’utilizzo di soluzioni per DP biocompatibili, la riduzione dell’esposizione a elevate concentrazioni di glucosio e l’eliminazione dei betabloccanti, infine è opportuno valutare attentamente i pazienti con peritoniti ripetute e quelli con un tempo in DP lungo. Risulta dimostrato che inibire il SRAA contrasta la sclerosi per cui ACEI e ARB sono i farmaci antipertensivi di prima scelta nei pazienti in DP.

La peritonite sclerosante incapsulante (EPS) è una complicanza della DP molto rara ma temibile. Gli aspetti infiammatori e immunologici delle biopsie peritoneali supportano l’approccio immunosoppressivo con steroidi, ciclofosfamide e/o micofenolato. Importanti evidenze mostrano che il trattamento tamoxifene riserva una maggiore sopravvivenza indipendentemente da altri farmaci associati. Per l’EPS post-trapianto nei pazienti in DP vi sono evidenze che gli inibitori della calcineurina (ciclosporina e tacrolimus), svolgano un ruolo pro-fibrotico, per cui potrebbe essere indicato un protocollo immunosoppressivo personalizzato per il trapianto nei pazienti in DP basato su mTOR-I, steroidi e micofenolato.

Parole chiave: Dialisi peritoneale, trattamenti farmacologici, peritonite, infezione dell’exit-site, antibioticoterapia, sclerosi peritoneale semplice, peritonite sclerosante incapsulante.

Introduzione

In dialisi peritoneale (DP), escludendo la prescrizione della terapia depurativa, le terapie farmacologiche dedicate al controllo dell’anemia, dell’ipertensione arteriosa e dell’iperparatiroidismo secondario sono in generale analoghe alle terapie prescritte nei pazienti in emodialisi e con insufficienza renale cronica avanzata. Esistono però delle aree di terapia specifiche della metodica che sono oggetto della seguente revisione.

Le aree specifiche della DP sono principalmente il trattamento degli episodi di peritonite con analisi dei protocolli terapeutici e della farmacocinetica e farmacodinamica dei principali antibiotici utilizzati. In seconda istanza anche le infezioni relative dell’exit-site e del tunnel del catetere sono importanti per i protocolli terapeutici. Da non dimenticare infine la profilassi antibiotica delle principali manovre diagnostiche invasive cui i pazienti in DP sono sottoposti.

Un’altra rilevante complicanza della DP, per fortuna rara, è la peritonite sclerosante comunemente associata ma sostanzialmente diversa dalla sclerosi peritoneale semplice. La sclerosi peritoneale semplice si giova di alcune misure preventive in cui vi sono anche possibili terapie farmacologiche. Per la più temibile peritonite sclerosante, in quanto processo severo e talvolta di rapida insorgenza, richiede invece un trattamento pronto ed energico con farmaci specifici.

Per ciascuna delle situazioni patologiche descritte le fonti primarie di schemi terapeutici, dati informativi, protocolli sono ricavate dalle linee guida internazionali integrate dall’analisi di alcuni articoli recenti per nuove opzioni terapeutiche.

 

Terapia della peritonite in DP

La peritonite batterica è la più comune complicanza della DP, la sua evenienza viene messa in relazione a contaminazioni esterne o endogene e il tasso di episodi di un centro viene spesso considerato un indicatore di qualità. Il suo valore attuale nei centri italiani viene mediamente riportato come un episodio ogni 30-40 mesi di trattamento per paziente. Oltre al tasso sono consigliati la valutazione della percentuale di pazienti liberi da peritoniti, la tipologia dei germi isolati e le loro resistenze antibiotiche e la percentuale di colture negative [1].

Tutti i programmi di DP hanno comunemente un protocollo dedicato alla peritonite a garanzia della accuratezza e uniformità delle più importanti procedure diagnostiche e terapeutiche sin dall’esordio della complicanza [1].

In prima istanza vengono indicati generalmente i criteri diagnostici: dolore addominale, spontaneo o indotto dalla palpazione, corredato spesso da resistenza di parete e segno di Blumberg; liquido di dialisi macroscopicamente torbido e conta dei globuli bianchi nel liquido di dialisi peritoneale superiore a 100 per mmc dopo almeno 2 ore di stasi; coltura del liquido positiva per isolamento di patogeni. A corredo, non sempre presenti ma indicatori di un interessamento sistemico la febbre, la nausea e il vomito.

Poiché il dolore addominale risulta spesso sfumato e le colture del liquido impiegano alcuni giorni per dare un referto, la conta dei globuli bianchi diventa il criterio diagnostico principale e quindi richiede un approfondimento. Il valore soglia di 100 cellule deve essere riferito a un liquido che ha stazionato in addome almeno 2 ore, devono essere valutati solamente ai globuli bianchi con una percentuale di neutrofili superiore al 50%, questi criteri quindi implicano un sistema di conteggio adeguatamente accurato [1].

Analogamente alla conta cellulare anche i liquidi raccolti per l’esame colturale devono provenire da uno stazionamento in addome di almeno 2 ore.

Successivamente alla conta cellulare e all’esecuzione delle colture deve iniziare il trattamento dell’episodio infettivo con antibiotici. Il protocollo terapeutico generale indicato dalle linee guida internazionali prevede l’introduzione degli antibiotici direttamente nel liquido peritoneale, la continuazione della DP e l’utilizzo di almeno due antibiotici in associazione per assicurare una copertura ad ampio spettro in attesa dei risultati delle colture.

La terapia antibiotica intraperitoneale (che deve essere iniziata al più presto possibile) assicura elevate concentrazioni nella sede dell’infezione e registra un elevato assorbimento sistemico tramite i capillari e i linfatici addominali. Lo schema terapeutico prevede generalmente una dose di carico con una stasi almeno 6 ore e successivamente dosi frazionate secondo le caratteristiche della molecola e lo schema dialitico.

La scelta delle molecole deve innanzitutto tenere conto delle caratteristiche della flora patogena locale considerando le resistenze ma viene generalizzata nelle linee guida internazionali come: vancomicina o cefalosporine di prima generazione per i germi Gram positivi associate a cefalosporine di terza generazione o aminoglicosidi per i germi Gram negativi. La disponibilità del dosaggio ematico degli aminoglicosidi e della vancomicina consente di adeguare le dosi e i tempi seguendo il livello ematico “trough” e il livello di funzione renale residua [1].

Gli antibiotici summenzionati, e molti altri, risultano compatibili (cioè efficaci) anche con l’icodestrina. Infine associata alla terapia antibiotica ad ampio spettro viene sempre consigliata una profilassi antifungina.

Viene infine consigliata la profilassi antibiotica generalmente con cefalosporine di prima generazione per tutte le manovre invasive diagnostiche quali colonscopia, cistoscopia, gastroscopia e manovre ginecologiche eseguire nei pazienti in DP.

Nelle linee guida internazionali si trovano tabelle e indicazioni praticamente per tutti gli antibiotici utilizzabili per via intraperitoneale con dosaggio e modalità di somministrazione [1].

La terapia antibiotica della dialisi peritoneale automatizzata (APD) può essere affrontata efficacemente inserendo gli antibiotici in una stasi lunga diurna senza modificare sostanzialmente la prescrizione [1].

Una recente review [2] mette a punto l’utilizzo dei principali antibiotici presenti nei protocolli per il trattamento delle peritoniti in APD. Il problema dei dosaggi degli antibiotici in APD in corso di peritonite è ancora aperto e gli studi disponibili sono limitati. Risulta molto importante evitare il sottodosaggio in queste situazioni e bisogna sempre tenere conto della funzione renale residua per gli antibiotici escreti per via renale. Di seguito sono schematicamente riassunte le indicazioni:

  • cefazolina: 4 studi disponibili, 78% di risoluzione delle peritoniti, dose 15-20 mg/kg intra peritoneale, dosaggio plasmatico ottimale > 8 mg/L, stasi lunghe diurne o tutti gli scambi APD;
  • vancomicina: 6 studi disponibili, dose 15-30 mg/kg intraperitoneale, aumento dose 25% se con diuresi, “trough” plasma a 5 giorni con dosaggio non inferiore a 12 mg/L.;
  • ceftazidima: 4 studi disponibili, in APD “dry day” 20 mg/kg per ogni ciclo adeguati, 15 mg/kg non adeguati, livello plasma adeguato 6 mg/L;
  • gentamicina e tobramicina: 3 studi disponibili, in associazione con cefazolina a 0.6 mg/kg/die sia IP che EV, 78% risoluzione.

I dati sulla farmacocinetica dei principali antibiotici per via intraperitoneale, sulla terapia continua e intermittente e sulle dosi non sono molti. Il trasporto peritoneale e lo stato infiammatorio della membrana possono influenzare l’assorbimento e di conseguenza vanno attentamente monitorati i livelli degli antibiotici ove possibile. In alcuni casi convertire la terapia da APD a CAPD per assicurare una maggiore continuità di copertura antibiotica può essere un’alternativa.

Per alcuni antibiotici la via intraperitoneale non è praticabile e quindi per via sistemica dosi e prescrizioni possono essere diverse da quelle intraperitoneali e comunque va posta attenzione alle quantità di principio attivo realmente presente in peritoneo. Per uno schema accurato si consiglia di fare riferimento alle linee guida internazionali [1]. Nell’elenco troviamo: ciprofloxacina, levofloxacina, moxifloxacina, colistina, ertapenem, linezolid, rifampicina, cotrimossazolo e tutti gli antifungini.

Nel caso di utilizzo della ciprofloxacina per via orale le dosi indicate dalla letteratura sono 750 mg due volte al giorno per raggiungere concentrazioni efficaci in APD [3].

La vancomicina per via endovenosa anche a dosi elevate (1-2 grammi/24-48 ore) con concentrazioni ematiche trough medie >20 mg/L, non ha mai raggiunto concentrazioni efficaci nella cavità peritoneale, quindi la vancomicina endovenosa è una buona opzione per infezioni sistemiche ma non per la cura della peritonite in DP [4].

Nel caso si utilizzi la colistina per via sistemica, antibiotico non di utilizzo comune e riservato alle infezioni severe da Gram negativi multi resistenti,  si deve considerare che la sua clearance in DP è modesta mentre la funzione renale residua è un fattore dal considerare. Di conseguenza schemi nei pazienti in DP con prima dose di 300 mg e dosi giornaliere successive di 150 mg possono essere efficaci ma non sono un trattamento da considerare per le peritoniti in DP [5].

Con la colorazione di Gram, se disponibile, o successivamente all’isolamento dei germi e alla valutazione delle resistenze, delle MIC e dei breakpoint viene naturalmente consigliato di restringere e mirare la terapia antibiotica.

Se vengono isolati patogeni Gram positivi, tra i quali consideriamo in generale stafilococchi coagulasi-negativi, stafilococco aureo, enterococchi e streptococchi, la terapia con cefalosporine di prima generazione o con vancomicina generalmente dovrebbe essere efficace e proseguita per due o tre settimane.

Per la terapia mirata allo stafilococco aureo e agli enterococchi resistenti alla vancomicina si può considerare l’utilizzo della daptomicina, la letteratura indica che la via intraperitoneale alla dose di 300 mg al giorno risulta efficace e sicura sia per le peritoniti che per altre infezioni sistemiche [6].

Per i germi Gram negativi, tra i quali possiamo considerare la famiglia delle psedomonadacee e i bacilli Gram negativi, la terapia con cefalosporine di terza generazione o con aminoglicosidi dovrebbe essere efficace e proseguita fino a tre settimane.

Per le peritoniti polimicrobiche oltre alla terapia ad ampio spettro bisogna considerare l’aggiunta del metronidazolo per un periodo minimo di tre settimane. Le peritoniti polimicrobiche possono essere legate a diverticolosi intestinale ed essere di difficile trattamento. Può essere considerato il trattamento intraperitoneale con meropenem 125 mg/L in CAPD in tutte le sacche con terapia prolungata fino a 3 settimane. Anche in APD si ottengono concentrazioni efficaci con 500 mg/die in singola dose intraperitoneale mentre con terapia endovenosa non si raggiungono mai concentrazioni efficaci in peritoneo [7, 8].

Le peritoniti fungine secondo le linee guida internazionali richiedono l’immediata rimozione del catetere e in trattamento antifungino deve essere di almeno 2 settimane. Da considerare questa evenienza soprattutto in caso di peritoniti polimicrobiche e trattamenti antibiotici prolungati [1].

Per le peritoniti con colture negative se tendono clinicamente a migliorare entro 3 giorni si consiglia di proseguire solo con copertura dei germi Gram positivi. Se invece la clinica non mostra miglioramento è necessario ripetere le colture con tecniche dedicate alla ricerca di germi inusuali. Le peritoniti refrattarie o ricorrenti con colture negative vanno anche considerate per l’eziologia tubercolare e adeguatamente indagate preferibilmente con metodi rapidi di identificazione (DNA PCR). Il trattamento si basa sui comuni protocolli antitubercolari e la rimozione del catetere è indicata secondo l’andamento clinico [1].

 

Terapia delle infezioni dell’exit-site e tunnel del catetere

Le infezioni legate all’exit-site e al tunnel sottocutaneo del catetere peritoneale costituiscono un importante fattore di rischio di peritonite. La sua definizione è: presenza di secrezione purulenta con o senza arrossamento cutaneo e l’interessamento del tunnel viene testimoniato dai segni dell’infiammazione locale o dall’evidenza ecografica di film o raccolte liquide. È opportuno monitorare l’evenienza degli episodi in un programma di DP con il metodo del tasso, cioè il numero di episodi per paziente per anno [9].

La prevenzione degli episodi secondo le linee guida internazionali è legata innanzitutto alla profilassi antibiotica prima dell’intervento di inserimento, utilizzando vari antibiotici di prima linea per via parenterale: cefazolina, gentamicina o vancomicina. Diversi contributi scientifici hanno indagato questo specifico aspetto preventivo e l’insieme mostra un effetto positivo sulle infezioni precoci del catetere e del peritoneo. Nessun tipo di catetere o di tecnica di inserimento si è dimostrata migliore. La profilassi del carriage nasale dello stafilococco aureo, raccomandata per la riduzione delle peritoniti, viene indicata anche per la prevenzione delle infezioni legate al catetere. Le linee guida internazionali consigliano poi l’utilizzo profilattico nelle medicazioni di pomate antibiotiche sull’exit-site mentre nessun agente detergente o disinfettante ha mostrato evidenza di superiorità. Le medicazioni sono indicate almeno due volte la settimana e ogni volta che si fa la doccia [9].

La ricerca microbiologica tramite tampone e coltura deve essere mirata agli episodi di infezione con evidenza di secrezione. Infatti, eseguire tamponi su exit-site sani evidenzierà senz’altro una crescita microbica legata a saprofiti cutanei che non significano alcuna patologia dell’exit-site.

I germi più pericolosi sono lo stafilococco aureo e la pseudomonas aeruginosa ma sono molti i germi che possono provocare infezioni dell’exit-site. Per prima cosa la frequenza delle medicazioni deve essere intensificata, anche se non è efficacemente terapeutica da sola. La terapia antibiotica in attesa delle colture è empirica utilizzando cefalosporine di prima generazione o penicilline protette principalmente per via orale.  Nelle linee guida internazionali si possono trovare tabelle sinottiche per vie e modalità di somministrazione e dosi di vari antibiotici per il trattamento mirato successivo [9]. L’isolamento di stafilococco aureo e di pseudomonas aeruginosa richiede generalmente due antibiotici mirati in associazione e un trattamento di almeno 3 settimane.

La persistenza oltre le 3 settimane o la ricaduta dell’infezione dell’exit-site e l’associazione di peritonite richiede la rimozione e il reinserimento di un nuovo catetere. Sono riportate alcune tecniche alternative di salvataggio del catetere con la rasatura della cuffia esterna, l’apertura e la pulizia del tunnel, la sostituzione di una porzione del catetere e la diversione dell’exit-site ma nessuna di queste ha un supporto di evidenza tale da essere consigliata [9].

 

Terapia preventiva della sclerosi peritoneale semplice

La sclerosi peritoneale semplice è un processo di ispessimento diffuso della membrana legato alla DP nel tempo in cui il peritoneo viene utilizzato. La sua esistenza, pur non essendo pericolosa per la vita, può essere legata all’attivazione della fibrosi e della neoangiogenesi (TGFbeta e VEGF) e messa in relazione alle modificazioni del trasporto peritoneale nel tempo in termini di deficit di depurazione e ultrafiltrazione nonché al deficit specifico della funzione dell’acquaporina [10, 11].

Dal punto di vista preventivo oltre all’utilizzo di soluzioni per DP biocompatibili, alla riduzione l’esposizione a elevate concentrazioni di glucosio e all’eliminazione dei betabloccanti, è opportuno valutare attentamente i pazienti con peritoniti ripetute e quelli con un tempo in DP lungo [12].

Da tempo e da molti studi si conosce l’importanza fondamentale di inibire l’asse renina-angiotensina-aldosterone per inibire i processi fibrotici della membrana peritoneale. La riduzione della sclerosi semplice è importante per la patogenesi dell’EPS. Quindi ACEI e ARB sono i farmaci antipertensivi di prima scelta nei pazienti in DP [10, 13-19].

 

Terapia della peritonite sclerosante incapsulante

La peritonite sclerosante incapsulante (EPS) è una complicanza della dialisi peritoneale molto nota e discussa. È molto rara ma temibile perché presenta un elevato tasso di complicanze e mortalità. Vi sono incertezze sulla diagnosi, sui meccanismi che ne governano l’inizio e lo sviluppo, sulla terapia e sull’opportunità di sospendere la DP, e non sono disponibili profili di rischio individuali [12].

La sua prevalenza varia secondo i report dallo 0.4 sino all’8.9% dei pazienti in DP, la sua incidenza varia dallo 0.7 al 13.6 per mille pazienti-anno. Sono stati imputati fattori genetici, esposizione al glucosio, fluidi dialitici non biocompatibili, peritoniti pregresse e tempo in DP. In generale sembra che sia in riduzione in tutto il mondo [12].

La diagnosi si basa su esame TC con evidenza di ispessimento delle pareti intestinali, impacchettamento delle anse, livelli idroaerei, dilatazioni, calcificazioni. Clinicamente si presenta con episodi di ostruzione intestinale intermittente, anoressia, nausea e vomito, ascite ematica, malnutrizione e dolore addominale. Spesso ma non sempre, viene osservato un cambiamento delle caratteristiche di trasporto peritoneale e la perdita dell’ultrafiltrazione [12].

L’ipotesi patogenetica più accreditata è la “two-hit hypothesis” che prevede lo sviluppo prima della sclerosi peritoneale semplice collegata alla bioincompatibilità generale della DP e in un secondo tempo, in una piccola percentuale di pazienti, della EPS sulla base di un secondo stimolo spesso indipendente dalla DP e necessario per il suo sviluppo [10].

Dal punto di vista preventivo oltre all’utilizzo di soluzioni per DP biocompatibili, all’inibizione dell’asse RAA, alla riduzione l’esposizione a elevate concentrazioni di glucosio e l’abolizione dei betabloccanti, è opportuno valutare attentamente i pazienti con peritoniti ripetute e quelli con un tempo in DP lungo [12-21].

L’osservazione di aspetti infiammatori importanti nelle biopsie peritoneali di pazienti con EPS unita al sospetto di un coinvolgimento immunologico nella patogenesi dell’EPS forniscono un supporto razionale all’approccio immunosoppressivo con steroidi e ciclofosfamide o azatioprina [10].

Sulla base delle evidenze disponibili, gli schemi che hanno dimostrato una reale efficacia risultano l’impiego di steroidi da soli ad alte dosi oppure l’impiego di steroidi associati. In queste esperienze gli steroidi vengono generalmente impiegati ad alto dosaggio: boli di metilprednisolone 500 mg oppure prednisone 0.5-1 mg/kg/die orale con lunghezza del trattamento decisa caso per caso sulla base della risposta clinica e laboratoristica. Generalmente i migliori risultati sono stati ottenuti con un inizio precoce della terapia steroidea.

Buoni risultati sono riportati anche per quanto riguarda l’impiego associato di steroidi e ciclofosfamide oppure steroidi e azatioprina Generalmente in questi casi gli schemi impiegati più comunemente sono stati prednisone 0.5 mg/kg orale associato a ciclofosfamide 1 mg/kg orale oppure prednisone 0.5 mg/kg associato ad azatioprina 1 mg/kg, sempre con durata della terapia personalizzata sulla risposta clinica e laboratoristica. Esiste anche un report sulla utilità di associare prednisone 50 mg/die e micofenolato mofetile 500 mg x 2/die. In tutti questi casi il giudizio sulla reale efficacia della terapia per quanto riguarda ciclofosfamide, azatioprina e micofenolato è condizionato anche dal fatto che questi farmaci sono stati sempre utilizzati in associazione allo steroide. Esiste inoltre il fatto che nei modelli animali di fibrosi peritoneale indotta da clorexidina l’azatioprina non ha dimostrato un effetto protettivo [10].

Il trattamento con tamoxifene risulta molto importante per l’EPS. Le evidenze mostrano che questo trattamento riserva una maggiore sopravvivenza indipendentemente da altri farmaci associati. Il trattamento è proposto alla dose giornaliera di 10-20 mg orale: a tali dosaggi le complicanze di ordine trombotico o neoplastico a carico dell’endometrio risultano praticamente assenti, anche se viene comunque raccomandato un controllo dell’assetto coagulativo in tutti i pazienti e una valutazione dello striscio ginecologico nelle pazienti di sesso femminile. La terapia con tamoxifene è associabile a terapia medica con steroidi e/o immunosoppressori. Un trattamento a basso dosaggio con tamoxifene è stato proposto anche come possibile trattamento profilattico contro lo sviluppo di EPS in pazienti a rischio, per esempio soggetti in DP da più di 5 anni o che sviluppano deficit di ultrafiltrazione [10, 22-31].

L’EPS post-trapianto nei pazienti in DP che è divenuta una patologia meno rara da quando la terapia immunosoppressiva è stata basata sugli inibitori della calcineurina (CNI: ciclosporina e tacrolimus), associati a dosi sempre più ridotte di cortisonici. La maggiore responsabilità sembra legata al ruolo pro-fibrotico dei CNI. Le evidenze in questo senso sono molto significative. In tutti i casi in cui viene riportata la terapia immunosoppressiva effettuata in pazienti con EPS post-trapianto questa risulta invariabilmente basata sui CNI. Inoltre la progressiva riduzione dei cortisonici può costituire un ulteriore fattore di rischio per EPS post-trapianto [32-36]. Sulla base di queste evidenze sul legame tra immunosoppressione e sviluppo di EPS post-trapianto, nel 2009 Garosi e Oreopoulos hanno proposto di valutare un protocollo immunosoppressivo personalizzato per i pazienti in DP che ricevono trapianto di rene basato su mTOR-I, steroidi e micofenolato mofetile, con minimizzazione o abolizione dei CNI [10, 20]. Sulla scorta di quanto esposto si propone l’utilizzo degli mTOR-I nella terapia della EPS anche in pazienti non sottoposti a trapianto [22].

La terapia chirurgica rappresenta infine un’arma importante nel management dell’EPS anche in casi non marcatamente occlusivi così come la nutrizione parenterale per combattere la malnutrizione e preparare un eventuale intervento chirurgico. Le esperienze giapponesi, inglesi e tedesche indicano preferibilmente di creare un centro di riferimento nazionale [10, 37].

 

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