Cosa c’è di nuovo nella terapia della CKD-MBD?

Abstract

Gli importanti avanzamenti nelle conoscenze scientifiche hanno portato ad un notevole arricchimento delle offerte terapeutiche nel campo della CKD-MBD, che hanno permesso un miglior controllo dei parametri biochimici correlati, rispetto al passato. A questo non è però corrisposto un tangibile miglioramento degli esiti clinici, sia ossei che cardiovascolari, connessi alla CKD-MBD, né vi è stato un sensibile calo del numero di pillole che i pazienti nefropatici devono assumere, con l’obiettivo di mantenere controllati i parametri biochimici, con un costo terapeutico di questi interventi che rimane elevato. Tutti questi bisogni insoddisfatti continuano a stimolare la ricerca per cercare soluzioni nuove che possano migliorare uno o più di questi obiettivi non ancora raggiunti.

In questa revisione della letteratura più recente, abbiamo cercato di sintetizzare quanto di nuovo è stato recentemente proposto nel campo terapeutico della CKD-MBD, sottolineando gli eventuali vantaggi dei nuovi farmaci rispetto alle terapie già disponibili, con particolare attenzione ai bisogni non ancora soddisfatti.

Abbiamo inoltre rivisitato le recenti acquisizioni relativamente a farmaci, già da tempo in uso, riportando anche quelle che sono le più recenti evidenze raccolte che potrebbero modificare l’approccio al loro utilizzo.

Parole chiave: CKD-MBD, iperparatiroidismo secondario, fratture ossee, malattia cardiovascolare

Introduzione

Negli ultimi decenni, l’ambito delle conoscenze sulle alterazioni del metabolismo minerale e osseo associate ai vari stadi della malattia renale cronica (CKD-MBD, nell’acronimo anglosassone), si è arricchito di importanti novità sia nel campo fisiopatologico che in quello clinico.

Nelle prime stagioni della storia della nefrologia, si riteneva che tale condizione clinica, identificata come una problematica limitata alle manifestazioni ossee osservate nel paziente con malattia renale cronica (osteodistrofia uremica), fosse quasi esclusivamente conseguenza dell’eccessiva produzione di paratormone (PTH), a sua volta secondaria alla ridotta capacità di mantenere livelli calcemici nella norma a causa della ridotta sintesi del metabolita attivo della vitamina D (calcitriolo) e della ritenzione di fosfati, entrambe conseguenti al progressivo venir meno della funzione endocrina e depurativa renale [1].

Negli anni seguenti, le nuove acquisizione fisiopatologiche e cliniche, favorite da uno sviluppo esplosivo delle tecnologie di indagine, hanno evidenziato la maggiore complessità patogenetica della CKD-MBD che, in aggiunta agli storici protagonisti (PTH, ViTD, calcio, fosforo), ha visto comparire una serie di altri fattori di derivazione ossea, renale o sistemica (solo per citarne alcuni, FGF23, Klotho, sclerostina, activina, vitK, etc.) che, con ruoli non ancora del tutto definiti, potrebbero non solo contribuire alle variegate e variabili espressioni fenotipiche delle alterazioni funzionali e strutturali del metabolismo minerale e del sistema scheletrico, ma essere anche coinvolti in altre manifestazioni cliniche sistemiche che caratterizzano la malattia renale cronica (da qui in avanti CKD, secondo l’acronimo anglosassone più in uso), in particolare in quelle dell’apparato cardiovascolare, oltre a poter contribuire ad accelerare la progressione della CKD stessa [2].

Negli ultimi due decenni, abbiamo anche assistito ad un progressivo arricchimento dell’armamentario terapeutico nell’ambito della CKD-MBD, con farmaci indirizzati a correggere in modo sempre più efficace le alterazioni del metabolismo minerale, con l’obiettivo di ridurre anche gli esiti clinici ossei (fratture), sistemici (morbilità e mortalità CV) e renali (progressione della CKD).

La tabella 1 sintetizza gli indirizzi terapeutici più consolidati per il trattamento della CKD-MBD, basati fondamentalmente   sulle raccomandazioni contenute nelle ultime le linee guida pubblicate [3], in attesa dell’imminente pubblicazione della prossima versione.

Nonostante però gli indubitabili miglioramenti raggiunti nel controllo dei parametri biochimici (calcio, fosforo, PTH, vitD), che si rispecchiano anche nella riduzione della necessità di ricorso alla paratiroidectomia (PTX), mancano ad oggi chiare evidenze di un miglioramento anche degli esiti clinici sia ossei che sistemici. Rimangono inoltre insoddisfatte altre aspettative connesse alle terapie utilizzate nel controllo della CKD-MBD, come la necessità di ridurre l’elevato numero di pillole che i pazienti devono assumere quotidianamente, oltre al carico economico correlato a tali farmaci per la spesa sanitaria globale.

Nei prossimi paragrafi saranno brevemente descritte le novità terapeutiche, quelle che, a nostro parere, hanno un rilievo clinico di maggior interesse (anche se non tutte al momento disponibili nella pratica clinica), oltre a riportare quelle che sono alcune nuove evidenze su farmaci già da tempo in uso nel campo della CKD-MBD. Si è cercato anche di dare risalto agli eventuali vantaggi, quando presenti, delle nuove proposte terapeutiche rispetto alle terapie già disponibili, prestando particolare attenzione ai bisogni non ancora soddisfatti.

Argomento della raccomandazione Obiettivo Intervento Punti di attenzione Considerazioni e Limiti
 

 

 

 

 

 

 

 

Approccio generale

Il trattamento della

CKD-MBD si basa sul controllo seriale dei parametri biochimici: calcio, fosforo, PTH, 25-OH-vitD, FA

Controllo ripetuto dei parametri biochimici, con frequenza variabile e incrementale in funzione del grado di CKD

Valutare, oltre al valore assoluto del singolo parametro, anche la direzione e entità delle sue variazioni nel tempo

Attenzione da porre alle variazioni dei metodi di laboratorio utilizzati nel tempo

Mancanza di valori di riferimento di normalità, in particolare per PTH, negli stadi di CKD non in dialisi.

Non è definito se alla calcemia totale, influenzata dal livello di albumemia, vada preferito il calcio corretto per albumina o il calcio ionizzato.

Le  indicazioni all’uso di parametri strumentali (mineralometria, biopsia ossea, metodi per valutare le calcificazioni vascolari) sono poco definite

 

 

 

 

 

 

 

Controllo del fosforo

Mantenere i livelli di fosforemia nel range di normalità

Riduzione dell’apporto di fosforo con la dieta (con particolare attenzione alle sorgenti di fosfato facilmente assorbibile)

Eventuale aggiunta di chelanti intestinali del fosfato, privilegiando quelli non contenenti Al o Ca

Attenzione alle sorgenti nascoste di fosforo con la dieta (cibi e bevande processate o colorate; prodotti da forno; leggere le etichette di composizione di tutti gli alimenti confezionati)

Mancanza di evidenze che il mantenimento di livelli normali di fosforo si traduca in un miglioramento degli esiti ossei, cardiovascolari e renali.

Il solo livello ematico di fosforo non è un indicatore del suo bilancio  corporeo.

Restrizioni dietetiche troppo rigide potrebbero determinare una malnutrizione proteico-calorica, in particolare nel soggetto anziano

 

 

Controllo del calcio

Mantenere i livelli di calcemia entro i limiti della norma; particolare attenzione ad evitare l’ipercalcemia Evitare o ridurre l’uso di chelanti del fosforo a base di calcio; calcio nel liquido di dialisi tra 1.25 e 1.50 mmol/L In funzione del minore impatto clinico dell’ipocalcemia rispetto all’ipercalcemia, particolare attenzione andrà posta nell’uso di quantità elevate di calcitriolo e/o analoghi della vitamina D Limitazioni informative della calcemia totale (vedi sopra).
Controllo del PTH

Mantenere i livelli di PTH tra 2 e 9 volte il limite massimo di normalità nel paziente in dialisi.

Negli altri stadi di CKD, valutare la tendenza all’incremento dei valori più che ai valori assoluti

Possono essere utilizzate combinazioni variabili di calcitriolo, analoghi della vitamina D e calcimimetici (questi ultimi solo nei pazienti in dialisi o trapiantati), in funzione dei valori di calcio e fosforo ematici.

PTX nei casi non responsivi alla terapia medica

Attenzione ad un’eccessiva inibizione del PTH, per evitare il rischio della malattia adinamica dell’osso

Mancanza di una definizione dei valori desiderati per gli stadi di CKD non in dialisi.

Mancata valorizzazione della normalizzazione dei livelli di vitamina D nativa per il controllo del PTH.

Mancanza di chiare indicazioni alla PTX

Controllo dello stato vitaminico D Mantenere i livelli di 25-OH-vitD (calcidiolo) superiori al limite della sufficienza (30 ng/mL) Supplementazioni con varie forme di vitamina D nativa o 25-monoidrossilata (colecalciferolo, ergocalciferolo, calcidiolo) Attenzione ad alcune condizioni relativamente rare di mutazioni della 24-25- idrossilasi con sviluppo di ipercalcemia, anche severa, dopo somministrazione di vitamina D nativa

Non definiti i valori di normalità per i pazienti con CKD.

Non ben definiti i livelli di calcidiolo da non superare.

 

Tabella 1. Raccomandazioni secondo le KDIGO per il controllo della CKD-MBD [3] Note: FA: fosfatasi alcalina; PTH: paratormone; PTX: paratiroidectomia.

 

Farmaci che riducono il trasporto intestinale del fosfato

Il controllo dei livelli della fosforemia è da sempre indicato come uno dei principali obiettivi terapeutici nel trattamento della CKD-MBD. I suggerimenti dietetici e, nel paziente in dialisi, l’ottimizzazione del trattamento dialitico rappresentano i passaggi preliminari ineludibili, ma spesso non sufficienti, per il mantenimento dei livelli di fosforemia entro i limiti desiderati, con la conseguente necessità di ricorrere spesso all’uso di farmaci che, legando il fosfato contenuto negli alimenti, ne riducono l’assorbimento intestinale (chelanti del fosforo). Nonostante l’elevato numero di chelanti del fosfato disponibili [4], solo una minor parte dei pazienti riesce a mantenere livelli di fosforemia stabilmente entro i limiti della normalità, anche a causa di una ridotta aderenza terapeutica legata sia ad effetti di intolleranza gastroenterica al farmaco, ma non infrequentemente anche all’elevato numero di pillole da assumere per raggiungere il risultato terapeutico.

Nei prossimi paragrafi, riporteremo le note essenziali riguardo a due farmaci diretti al controllo dei valori fosforemici nel paziente con CKD che, a differenza di tutti i farmaci ipofosfatemici che agiscono con meccanismi di chelazione del fosfato contenuto nella dieta, hanno effetti inibitori diretti sul trasporto intestinale, attivo o passivo, di fosfato.

Nicotinamide

Oltre un decennio fa, era stato proposta come farmaco utile al controllo dell’iperfosforemia del paziente con CKD la Nicotinamide, derivato idrosolubile dell’acido nicotinico (Vitamina B3), la cui carenza è noto essere la causa della pellagra, per la sua azione inibitrice diretta del co-trasportatore attivo sodio/fosfato (NaPi2b), presente sul versante cellulare apicale degli enterociti [5]. Purtroppo, l’uso di questo farmaco si è dimostrato associato, nei primi studi, a numerosi effetti collaterali, anche gravi (4 casi di trombocitopenia e 2 decessi) [6]. Inoltre, un recente studio controllato nel quale è stata utilizzata in pazienti in trattamento dialitico una nuova formulazione di Nicotinamide a rilascio controllato, se pure confermando una certa efficacia nel controllo della fosforemia, ha anche evidenziato un’importante associazione con numerosi eventi avversi, in particolare gastroenterici, che hanno indotto una larga parte dei pazienti arruolati a sospendere il trattamento [7]. Per queste ragioni, la Nicotinamide non sembrerebbe avere al momento concrete prospettive di utilizzo in campo clinico.

Tenapanor

Recentemente, un altro farmaco che agisce sul trasporto intestinale di fosfato, il Tenapanor, è stato portato all’attenzione dei nefrologi come un nuovo possibile mezzo terapeutico indirizzato al controllo della fosforemia. Tenapanor, una piccola molecola con attività inibitrice sull’isoforma 3 dell’anti-trasportatore sodio/idrogeno (NHE3), espressa nelle cellule del tratto gastroenterico, è un farmaco già noto per i suoi effetti sodio-depletivi a livello intestinale, che ne aveva suggerito il possibile impiego nella correzione delle condizioni di idro/sodio ritenzione nei soggetti in dialisi, nei quali l’uso dei diuretici ha ovviamente uno spazio limitato se non nullo [8]. Tra gli effetti osservati con l’uso di tale farmaco, vi era quello di una riduzione dei valori della fosforemia, che successivi studi hanno dimostrato essere secondario ad una riduzione del trasporto paracellulare di fosfato nel tratto intestinale, conseguenza dell’inibizione di NHE3 [9]. A queste iniziali osservazioni, sono seguiti studi clinici che hanno confermato l’efficacia di questo farmaco nel controllo della fosforemia in pazienti in dialisi, peraltro associata ad una considerevole riduzione del numero di pillole necessarie al controllo di tale parametro, quando confrontato con la maggior parte dei chelanti del fosfato [10-13]. Il farmaco, approvato per l’uso del controllo della fosforemia dall’FDA, non è al momento approvato per tale applicazione in Italia. È comunque da segnalare che in tutti gli studi è stata riportata una frequente comparsa di eventi avversi gastroenterici, tra i quali, con particolare frequenza, la diarrea, talvolta di entità considerevole, che potrebbero limitarne un uso generalizzabile.

 

Calcifediolo a rilascio prolungato

L’uso del calcitriolo e degli altri analoghi della vitamina D è stato e continua a rimanere uno dei caposaldi della terapia della CKD-MBD, sulla base dei numerosi riconosciuti effetti diretti e indiretti della vitamina D sul controllo della produzione di PTH, sul metabolismo dell’apparato scheletrico, in aggiunta ai numerosi (presunti o reali) effetti pleiotropici. Le indicazioni specifiche al loro uso nei vari stadi della CKD hanno comunque subito ampie revisioni nelle linee guida che sono state prodotte negli ultimi 2 decenni [3, 14, 15]. È però altrettanto noto come l’efficacia dei metaboliti attivi della vitamina D sia spesso limitata dal loro effetto di incremento dei livelli sierici di calcio, di fosforo e, in una certa misura, anche di FGF23 associato al loro uso. Anche, ma non solo, sulla base di tutte queste considerazioni, negli ultimi due decenni si è andato sempre più consolidando l’interesse alla correzione del deficit di vitamina D nativa, di riscontro particolarmente elevato nella popolazione dei pazienti con CKD, preliminarmente o in contemporanea all’uso dei metaboliti attivi, al fine di rendere più efficace il controllo della CKD-MBD [3, 16]. In aggiunta però ai numerosi limiti nel definire quali siano i livelli di sufficienza di vitamina D nativa nei pazienti con varie forme di CKD [17], l’uso dei metaboliti della vitamina D nativa (colecalciferolo, ergocalciferolo, calcifediolo) si sono per il momento manifestati non particolarmente efficaci nella correzione dell’Iperparatiroidismo secondario (IPS) della CKD, forse anche a causa di un dosaggio non appropriato [18].

Calcifediolo a rilascio prolungato (ERC)

Recentemente, si è resa disponibile una nuova formulazione di calcifediolo, a rilascio prolungato nell’apparato gastrointestinale, che avrebbe dimostrato una maggiore efficacia nel controllo dei livelli di PTH, associandosi peraltro ad un miglior profilo nel controllo della calcemia, fosforemia e livelli di FGF23, quando confrontata non solo con altre formulazioni di vitamina D nativa, ma anche con analoghi della vitamina D attiva [19-21]. Sebbene questo farmaco si presenti come un mezzo terapeutico indubitabilmente efficace nel controllo quantomeno dell’IPS della CKD, rimangono da chiarire alcuni aspetti fisiopatologici e clinici che spieghino più approfonditamente le ragioni del differente profilo di efficacia e sicurezza rispetto agli altri preparati attualmente disponibili (migliore correzione dei livelli di 25-OH-VitD? Più elevati livelli di calcitriolemia? Etc.), oltre alla mancanza di dati su un confronto testa a testa con il già disponibile calcifediolo, possibilmente utilizzato allo stesso dosaggio, per poterne poi valutare il rapporto costo/efficacia. ERC rappresenta comunque una nuova opportunità terapeutica che certamente allargherà il paniere dei metaboliti della vitamina D utilizzabili in questo campo.

 

Nuovi calciomimetici

L’intensa ricerca che fece seguito alla identificazione, oltre 3 decenni fa, da parte di Edward E. Brown & Collaboratori di un recettore specifico per il calcio (CaSR), espresso sulle cellule paratiroidee e in grado di controllare la secrezione del PTH [22, 23], diede seguito alla produzione di una serie di molecole in grado di modulare tale recettore, controllando in senso inibitorio (calcimimetici) o stimolatorio (calcilitici) la produzione e secrezione del PTH [24]. Tra i calciomimetici, farmaci in grado di sopprimere la secrezione di PTH in condizioni ipersecretive, in particolare nell’IPS della CKD in fase avanzata, cinacalcet, un modulatore allosterico del CaSR, è stato il primo a entrare nell’uso clinico, sia nei pazienti in dialisi che dopo trapianto renale, dimostrandosi efficace nel controllo dei livelli di PTH, di calcio (con tendenza all’ipocalcemia) e del fosforo [25, 26]. Fu però chiaro, sin dagli inizi del suo uso, che una buona percentuale di pazienti si dimostrava intollerante al farmaco, in particolare a causa di effetti avversi gastroenterici (nausea, vomito, epigastralgie, diarrea); inoltre, l’efficacia di cinacalcet nel controllo dei livelli dei parametri biochimici non è stata accompagnata da un miglioramento significativo degli esiti clinici, ossei o sistemici [27, 28].

Per superare o quantomeno limitare i problemi legati alla gastro-tolleranza di cinacalcet, circa una decina di anni fa, è stato proposto l’uso di etelcalcetide, un altro calciomimetico utilizzabile per via endovenosa, con azione agonista diretta sul CaSR, che presenta una efficacia inibitoria sul PTH discretamente superiore a quella di cinacalcet, accompagnata comunque da effetti ipocalcemizzanti e ipotensivizzanti moderatamente più spiccati rispetto a cinacalcet [30].

Nel tentativo di migliorare la tollerabilità sia gastroenterica e/o di limitare l’effetto ipocalcemizzante, mantenendo sostanzialmente invariata l’efficacia nel controllo dei livelli di PTH, sono stati proposti alcuni nuovi calciomimetici che però, al momento, non sono disponibili per l’uso clinico in gran parte dei Paesi nel mondo, inclusa l’Italia.

Ci limiteremo a descrivere brevemente le caratteristiche principali di due tra questi nuovi calcimimetici, evocalcet e upacicalcet, visto che di essi vi sono già dati in letteratura relativi al loro utilizzo clinico.

Evocalcet

Evocalcet è un nuovo calcimimetico, sviluppato in Giappone, assumibile per via orale, che agisce in modo non dissimile da quello di cinacalcet (modulatore allosterico). Studi sperimentali avevano dimostrato che questo nuovo calcimimetico interferiva con lo svuotamento gastrico notevolmente meno rispetto a cinacalcet e inoltre, al contrario di quest’ultimo, non aveva nessuna interferenza metabolica con il CYP2D6 [31]. Un trial randomizzato, doppio cieco e doppio “dummy”, effettuato in Giappone, su pazienti in dialisi, ha dimostrato che l’efficacia di evocalcet  nel controllo dei livelli di PTH non è inferiore a quella di cinacalcet, ma l’incidenza di eventi avversi gastroenterici era significativamente inferiore con evocalcet, rispetto a cinacalcet (circa la metà) [32]. Risultati sostanzialmente confrontabili sono stati riportati anche  in un più recente studio randomizzato, in doppio cieco, effettuato in paesi dell’Asia orientale (Cina, Giappone, Corea, Taiwan), dove gli autori, oltre a confermare una frequenza decisamente inferiore nella comparsa di eventi  avversi gastroenterici nei pazienti in trattamento con evocalcet rispetto a quelli trattati con cinacalcet, sottolineano un sovrapponibile effetto ipocalcemizzante di evocalcet rispetto a cinacalcet [33].

Upacicalcet

Questo nuovo calcimimetico, anch’esso sviluppato in Giappone, è un farmaco somministrabile per via endovenosa come etelcalcetide e come quest’ultimo agisce legando i siti extracellulari del CaSR, che interagiscono con i vari agonisti, primo fra tutti il calcio [34, 35]. Il tipo di interazione è comunque differente tra i due calcimimetici, in quanto etelcalcetide agisce independentemente dalla concentrazione del calcio, mentre l’interazione tra upacicalcet è il CaSR è influenzata dal livello di questo catione, con l’effetto ipocalcemizzante che si attenua sino ad annullarsi per concentrazioni calcemiche al di sotto della norma [36]. Inoltre, sempre in studi sperimentali, questo nuovo calcimimetico sembrerebbe interferire con lo svuotamento gastrico in misura significativamente inferiore rispetto a cinacalcet [36]. Queste caratteristiche farebbero prevedere una maggiore maneggevolezza di upacicalcet rispetto sia ad etelcalcetide (per una possibile minore incidenza di episodi ipocalcemici severi) che a cinacalcet (per una migliore tolleranza gastroenterica). È necessario comunque precisare che, al momento, non sono disponibili dati prodotti su pazienti, con un confronto testa a testa di upacicalcet con gli altri calcimimetici già in uso. Gli studi disponibili, tutti di confronto con placebo, hanno comunque riportato un’incidenza relativamente bassa di eventi ipocalcemici, con una frequenza di disturbi gastroenterici nei pazienti trattati con upacicalcet sovrapponibile a quella dei gruppi trattati con placebo [37, 38].

Sebbene pertanto questi nuovi calcimimetici proposti  presentino prospettive di migliorare quantomeno alcuni dei limiti presentai nei farmaci dello stesso gruppo già entrati nell’uso clinico, è giusto sottolineare che gli studi al momento disponibili sono limitati sia dalla scarsa generalizzabilità, essendo stati effettuati solo in paesi dell’Asia orientali, che dalla mancanza di confronti diretti testa a testa con i calcimimetici già disponibili, rendendo difficile un’eventuale valutazione del costo efficacia comparativo. È inoltre ancora una volta necessario ricordare che anche per questi nuovi farmaci sarà auspicabile avere dati sulla loro ricaduta sugli esiti clinici ossei e sistemici.

 

Farmaci con azione ossea diretta

Come già accennato in precedenza, uno degli obiettivi principali della terapia della CKD-MBD è quello di ridurre il rischio di fratture, il principale evento clinico collegato alla patologia ossea, che nei pazienti con CKD è due-tre volte superiore a quello della popolazione generale di pari età, impattando inoltre in modo negativo anche sulla sopravvivenza, oltre che sulla qualità della vita, dei pazienti con insufficiente funzione renale [39]. È altrettanto noto che i farmaci sino ad oggi utilizzati per il controllo dei parametri biochimici nella CKD-MBD hanno avuto un limitato, se non nullo, impatto nel modificare il rischio di fratture. Per tale motivo è andato nel tempo crescendo l’interesse all’uso dei farmaci indirizzati alla prevenzione delle fratture, in uso nella popolazione generale.

Nei prossimi paragrafi saranno brevemente trattati le più importanti novità relative a questo gruppo di farmaci.

Difosfonati

I difosfonati rappresentano da decenni i farmaci maggiormente utilizzati per la prevenzione delle fratture ossee nella popolazione generale. Il loro uso è stato però fortemente limitato nel paziente nefropatico, in particolare quando il VFG è inferiore ai 30 mL/min, per un pericolo di accumulo nel tessuto osseo con conseguenze potenzialmente severe come la malattia adinamica dell’osso che può paradossalmente aumentare il rischio di fratture patologiche nei pazienti con CKD o come la necrosi a livello delle ossa mandibolari e mascellari, evento raro, ma di rilevante impatto clinico. Inoltre, il loro uso in presenza di una ridotta funzione renale può essere associato ad un maggiore sviluppo di ipocalcemia, con conseguente stimolazione paratiroidea, oltre a poter provocare un peggioramento della funzione renale e disturbi gastroenterici anche severi [40, 41]. Per tali motivi anche le ultime KDIGO pubblicate, se pure sulla base di evidenze di livello molto limitato (raccomandazione 2D), suggeriscono particolare cautela nell’uso dei difosfonati negli stadi di CKD superiori al 3a, comunque limitando questa scelta nei casi ad elevato rischio fratturante e considerando eventualmente l’esecuzione di una biopsia ossea, al fine di avere una diagnosi più precisa della patologia scheletrica sottostante [3].

Per completezza di informazione, è giusto però segnalare che da alcuni anni è in atto una tendenza a rivalutare l’uso dei difosfonati nei pazienti anche con stadi avanzati di CKD, con dati che in parte ridimensionano gli eventi avversi relativi allo sviluppo di nefrotossicità, di ipocalcemia o di sintomi gastroenterici, ascrivendo a questi farmaci anche un effetto protettivo a livello vascolare, relativamente in particolare alla progressione delle calcificazioni vascolari [42-44].

Denosumab

Risale a circa 20 anni fa la produzione di Denosumab, un anticorpo monoclonale completamente umanizzato (IgG2) diretto contro il ligando dell’attivatore recettoriale di NFkB (RANKL), proteina prodotta dagli osteoblasti. Denosumab, legandosi a RANKL, impedisce   l’interazione di quest’ultimo con il suo recettore specifico (RANK), espresso a livello della linea cellulare osteoclastica, bloccando la conseguente attivazione degli osteoclasti, con conseguente riduzione del riassorbimento osseo [46]. Tra le sue prime attese applicazioni vi è stato il suo utilizzo nei soggetti con osteoporosi nella popolazione generale [47], che, negli anni, ha consolidato i risultati di efficacia non solo nel migliorare alcuni parametri indicatori del metabolismo osseo (densitometria ossea, indicatori biochimici di riassorbimento osseo), ma anche e soprattutto nel ridurre in modo significativo il rischio di fratture ossee, con maggior efficacia rispetto ai difosfonati [48].

Viste le caratteristiche biologiche di questo nuovo farmaco, con mancanza dei problemi di accumulo presentati dai difosfonati, il suo utilizzo nei pazienti con CKD apparve sin da subito una nuova allettante opportunità [49]. Queste prospettive furono presto confermate da positivi risultati di efficacia nel suo utilizzo in pazienti con vario grado di riduzione della funzione renale, inclusi i pazienti portatori di trapianto renale [50-53].

Negli anni successivi, con l’uso sempre più diffuso e prolungato del farmaco, sono emersi alcuni problemi legati all’uso di Denosumab, non solo nella popolazione generale ma anche e soprattutto nei pazienti con CKD. Alcuni di questi problemi erano in comune con quelli descritti con l’uso dei difosfonati, come la possibilità di indurre una patologia ossea adinamica, oltre ad alcune segnalazioni di necrosi ossee mandibolari [54-57]. Tali eventi potrebbero comunque essere più gestibili nei pazienti trattati con Denosumab rispetto a quelli trattati con difosfonati, grazie alla mancanza dell’effetto di accumulo osseo che caratterizza questi ultimi farmaci, con possibilità pertanto di vedere ridurre l’effetto anti-riassorbitivo osseo in tempi relativamente brevi dopo la sospensione di Denosumab, ma non di un difosfonato.

I problemi invece di maggiore rilevanza clinica, in particolare nei pazienti con gradi avanzati di CKD o portatori di trapianto renale sono quelli che riguardano: a) una maggiore suscettibilità alle infezioni; b) episodi di ipocalcemia severa; c) rapida riduzione del contenuto minerale osseo, alla sospensione del Denosumab.

La possibilità che Denosumab possa aumentare il rischio di infezioni si basa sulla considerazione che il sistema RANKL-RANK è espresso a livello di gran parte delle cellule dell’apparato immunitario, coinvolte sia nella risposta immune innata che acquisita, concorrendo ad aumentarne l’efficacia anti-infettiva. Il blocco di RANKL con Denosumab potrebbe pertanto associarsi ad un maggior rischio di infezioni. Di fatto, i vari trial hanno in parte confermato un aumentato rischio infettivo, prevalentemente riguardo ad infezioni delle vie urinarie e sostanzialmente concentrato nelle fasi iniziali dell’uso del farmaco [58]. Questo problema potrebbe avere rilevanza clinica nei pazienti portatori di trapianto renale: nella nostra esperienza, abbiamo scelto di escludere da tale trattamento i pazienti trapiantati che avessero manifestato episodi infettivi urinari ripetuti nel periodo precedente all’indicazione all’uso di Denosumab, con il risultato di aver potuto osservare una bassa o nulla incidenza di eventi infettivi. Naturalmente, in assenza di esperienze più ampie e controllate, questo rimane un semplice suggerimento da utilizzare con atteggiamento critico e legato alla valutazione del singolo caso.

Di particolare rilievo clinico è invece il problema relativo agli eventi ipocalcemici gravi in corso di terapia con Denosumab, riportati con particolare maggiore frequenza nei pazienti in trattamento dialitico o in fasi avanzate di CKD. Un recente studio retrospettivo, condotto su un ampio numero di pazienti di genere femminile, con età uguale o superiore a 65 anni,  in trattamento dialitico cronico, delle quali 1523 erano in trattamento con Denosumab e 1281 con difosfonati per via orale,  ha riportato un’incidenza di ipocalcemia severa (< 7.5 mg/dL), richiedente in molti casi anche un ricovero, nel 41.1 % delle pazienti trattate con Denosumab, contro  il 2% di eventi simili osservati nel gruppo trattato con difosfonati per via orale [59]. Pertanto, è necessario valutare con particolare attenzione l’indicazione all’uso di Denosumab nei pazienti con CKD in fasi avanzate e in particolare nei soggetti di sesso femminile, età superiore ai 65 anni e in trattamento dialitico, evitando di trattare pazienti con livelli di calcemia e 25-OH-vitaminaD inferiori alla norma e comunque rinforzando la terapia con vitamina D e supplementazioni calciche sin dalle settimane precedenti l’inizio della terapia [60].

Il terzo altrettanto rilevante problema nell’uso di Denosumab è quello relativo all’ormai riconosciuto effetto rebound sullo stato mineralometrico osseo a seguito della sospensione del farmaco. Infatti, numerose evidenze indicano che, alla sospensione del farmaco, fa seguito una rapida demineralizzazione ossea associata ad un aumentato rischio di fratture già poche settimane dopo la sospensione [61, 62]. Questo problema rende particolarmente poco maneggevole e talvolta critico l’uso di Denosumab in pazienti con progressione del grado di malattia renale che induca, per qualsiasi motivo, a considerare la sospensione del trattamento. Al fine di quantomeno ridimensionare questo fenomeno, sono state recentemente proposte terapie sequenziali con l’uso di difosfonati, somministrati sia per via orale che endovenosa al momento  della sospensione del denosumab, che hanno ottenuto risultati parzialmente positivi [63-65].

In sintesi, sebbene Denosumab si presenti come un’ottima opportunità per ridurre il rischio di fratture scheletriche anche nei pazienti con CKD, l’indicazione all’uso deve essere valutata tenendo conto delle caratteristiche anagrafiche, biochimiche e cliniche del singolo paziente, mettendo in atto le misure precauzionali a cui si è accennato, per ridurre i rischi connessi all’uso e alla sospensione del farmaco.

Romosozumab

Sclerostina è una glicoproteina secreta dagli osteociti che, legandosi al Wnt espresso a livello della membrana degli osteoblasti, blocca le vie di segnale intracellulari secondarie all’attivazione di Wnt/BMP, inducendo una riduzione della proliferazione e dell’attività osteoblastica che si traducono in una ridotta neoformazione ossea [66]. Un decennio fa, si è reso disponibile un anticorpo monoclonale diretto contro la sclerostina, che pertanto presentava un profilo di azione molto favorevole alla stimolazione della formazione ossea, come dimostrato dai primi trial controllati [67]. L’entusiasmo per questa evidente efficacia venne però molto presto stemperata da numerose segnalazioni di eventi avversi cardiovascolari, alcuni anche mortali, che venivano riportati in particolare in soggetti con più elevato rischio di base per patologia cardiovascolare [68-70]. La considerazione che i pazienti con CKD presentano di base un rischio CV aumentato rispetto ai pari età della popolazione generale è stato certamente un fattore di freno nell’utilizzo di tale farmaco in questa tipologia di pazienti. Alcuni trial però, sebbene condotti in pazienti con una riduzione della funzione renale solo lieve o al più moderata, sembrerebbero rassicurare sia riguardo l’efficacia che la sicurezza nell’uso di Romosozumab nei pazienti con CKD [71, 72]. È comunque evidente che solo studi allargati nei pazienti con CKD in stadi più avanzati, incluso quello dialitico, potranno essere rassicuranti in termini di sicurezza. Sino a quel momento riteniamo ci si debba comportare con estrema cautela nell’uso di questo farmaco certamente promettente, riservandone l’uso a casi particolari in cui l’indicazione sia molto forte, come nel report riportato in bibliografia [73].

Teriparatide

Questo farmaco è una proteina, ottenuta con tecniche di ricombinazione genica, costituita dalla sequenza amino-acidica 1-34 del PTH, che rappresenta la porzione attiva di tale ormone, interagendo con i suoi principali recettori.  Teriparatide svolge pertanto le stesse attività del PTH, prima di tutto stimolando il riassorbimento osseo e, a seguire, la osteoformazione. Per tali caratteristiche ha trovato ampie applicazioni, oltre che nei casi di ipoparatiroidismo, anche e soprattutto nel campo dell’osteoporosi, in particolare in quelle forme con alta attività fratturante e segni biochimici di turnover osseo normale o basso [74, 75].

Sebbene il suo uso nei pazienti con CKD possa apparire contraddittorio, vista la prevalente presenza di un IPS di varia entità, è aumentata nel tempo la consapevolezza di una serie di condizioni nelle quali potrebbe esserci spazio per tale terapia. Giusto a titolo di esempio, ricordiamo che in pazienti sottoposti a paratiroidectomia totale è spesso presente un turnover osseo molto ridotto che potrebbe giovarsi di tale terapia [76]. Inoltre, un’altra possibile indicazione potrebbe essere quella presente in pazienti con CKD e livelli di PTH solo moderatamente elevati se non normali, che potrebbero non essere sufficienti a garantire un adeguato turnover osseo, determinando una condizione di basso turnover, che raggiunge talvolta il livello di una vera e propria forma adinamica dell’osso, fattore predisponente alle fratture [76]. Alcuni studi, sebbene molto limitati nel disegno e nella numerosità del campione, sembrerebbero comunque giustificare la possibilità dell’uso di Teriparatide in tali circostanze [77, 78]. Inoltre, un aumento del rischio di sviluppare fratture ossee, associato ad un turnover osseo normale o ridotto, è una condizione tutt’altro che rara nel paziente trapiantato renale, in particolare nelle prime fasi post-trapianto, quando l’esposizione ad elevate dosi di steroidi è evento frequente: alcune segnalazioni in letteratura sottolineano lo spazio terapeutico per Teriparatide in tali circostanze [79].

Per quanto riguarda un altro analogo del frammento 1-34 del PTH, Abaloparatide, accreditato di una maggiore affinità per il recettore del PTH rispetto a Teriparatide [80], i dati nel campo delle sue applicazioni nei pazienti con CKD sono molto limitati e non permettono al momento di esprimere un giudizio affidabile [81].

Globalmente parlando, è evidente che il supporto di evidenze sull’uso di questi analoghi del PTH nei pazienti con CKD è molto scarso, per cui non possono che valere le stesse raccomandazioni prudenziali nel loro uso in questi pazienti.

Vitamina K

La vitamina K svolge molteplici ruoli legati alla sua azione di cofattore nella carbossilazione dei residui di acido glutammico di numerose proteine, con la loro conseguente attivazione [82], tra le quali le più note sono quelle coinvolte nel complesso processo coagulativo ematico. Non di secondaria importanza è il ruolo svolto da una ampia serie di proteine γ-glutamil carbossilate (per citarne solo alcune, osteocalcina, MGP, GMP, etc.) che sono coinvolte sia nel mantenimento di una normale struttura e funzionalità del tessuto osseo, agendo sulle componenti cellulari (osteoblasti, osteoclasti) e matriciali, che all’inibizione del processo patologico della calcificazione vascolare [83, 84].

Il paziente con CKD si trova spesso in condizioni di deficit vitaminico K a causa di numerosi fattori: a) modificazioni della dieta, per la frequente e spesso poco giustificata riduzione dell’assunzione di alimenti vegetali, che rappresentano una delle sorgenti dietetiche principali di vitamina K1; b) modificazioni del microbiota intestinale,  che caratterizzano in particolare le fasi avanzate di CKD, con riduzione della produzione fermentativa di vitamina K2; c) il frequente uso dei dicumarolici, inibitori specifici dell’azione carbossilativa della vitamina K [85].

È lecito pertanto ipotizzare che il deficit vitaminico K possa concorrere alla patogenesi sia della patologia ossea che delle alterazioni vascolari che caratterizzano il quadro clinico della CKD-MBD [86]. Di fatto, una lunga serie di evidenze ha evidenziato una forte associazione tra deficit di vitamin K e aumento del rischio di frattura e di eventi CV nel paziente in CKD [87, 88].

Come spesso accade però, anche in questo campo, ai pur solidi presupposti fisiopatologici e ai numerosi risultati di studi di associazione, non si sono al momento affiancati risultati di studi di intervento che mostrino in modo inequivocabile un ruolo delle supplementazioni di vitamina K nella riduzione di esiti clinici relativi sia al sistema scheletrico che vascolare, vuoi nella popolazione generale e ancor meno in quella con CKD [89-91].

È pertanto improbabile che, al momento, possano essere fornite raccomandazioni basate su evidenze per suggerire una supplementazione con vitamina K e si dovrà rimanere in attesa di studi prospettici disegnati in modo tale da superare alcuni limiti metodologici, relativi al tipo e dosaggio delle supplementazioni di vitamina K, presenti nei pochi studi ad oggi disponibili, come sottolineato recentemente da alcuni autori [85].

In attesa, comunque, dei risultati di questi studi futuri, ci si potrebbe accontentare di provare a ridurre l’uso dei dicumarolici, quantomeno in alcune indicazioni che non trovano un chiaro consenso, o di un utilizzo più esteso dei nuovi anticoagulanti orali [92], che, per quanto ad oggi noto, sembrerebbero privi degli effetti negativi dei dicumarolici sia sullo scheletro che sull’apparato vascolare.

 

Conclusione

Il notevole sviluppo delle conoscenze scientifiche, anche nel campo della CKD-MBD, ha arricchito anche il paniere delle offerte terapeutiche in questo campo della Nefrologia, permettendo certamente di migliorare quantomeno il controllo dei parametri biochimici associati a tale specifica patologia. Rimangono, come già detto, numerosi aspetti e bisogni non soddisfatti, in particolare per quanto riguarda gli esiti clinici della CKD-MBD. Le ultime acquisizioni nel campo della terapia farmacologica ci forniscono qualche (modesto) avanzamento nel soddisfacimento di questi bisogni (come sintetizzato nella Figura 1).

Non dobbiamo però dimenticare che nel paziente con CKD molti fattori non direttamente connessi al metabolismo minerale sono coinvolti nel determinare l’aumentata incidenza degli esiti clinici negativi, sia ossei che cardiovascolari (la Tabella 2 raffigura alcuni di questi fattori coinvolti nella patogenesi delle problematiche ossee presenti nel paziente con CKD).

Non dobbiamo neppure sottovalutare quanto interventi non farmacologici, legati allo stile di vita, come l’abolizione del fumo, il consumo di una dieta che privilegi i cibi vegetali e, non ultima in importanza, una costante attività fisica [93], possano impattare in modo positivo sugli esiti clinici, forse anche in misura maggiore rispetto all’intervento farmacologico.

Fattori non direttamente legati al metabolismo minerale che possono influire sul rischio di frattura nel paziente con CKD
Figura 1. Fattori non direttamente legati al metabolismo minerale che possono influire sul rischio di frattura nel paziente con CKD. SNC: sistema nervoso centrale; SNP: sistema nervoso periferico
Valutazione qualitativa, basata sulle evidenze disponibili, del possibile soddisfacimento dei bisogni non soddisfatti dalla terapia
Tabella 2. Valutazione qualitativa, basata sulle evidenze disponibili, del possibile soddisfacimento dei bisogni non soddisfatti dalla terapia attualmente disponibile per la CKD-MBD da parte delle nuove proposte terapeutiche o con l’utilizzo di farmaci già da tempo in uso sulla base dei più recenti suggerimenti della letteratura. CV: cardiovascolare; EA: eventi avversi; n.a.: non applicabile + = effetto positivo; ++ = effetto molto positivo  – = effetto negativo; – – = effetto molto negativo ? = effetto non dimostrato

 

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Calcifediolo a rilascio prolungato e paracalcitolo nel trattamento dell’iperparatiroidismo secondario: una network metanalisi di comparazione indiretta

Abstract

Introduzione: L’iperparatiroidismo secondario (IPS) è una complicanza comune e importante della malattia renale cronica (MRC) tra i pazienti sia in fase conservativa che in dialisi. Il paracalcitolo (PCT), altri analoghi attivi della vitamina D e la vitamina D attiva (calcitriolo) sono comunemente utilizzati per il trattamento dell’IPS nella MRC stadio G3, G4 e G5-non dialitica (ND). Tuttavia, studi recenti indicano che queste terapie aumentano in modo significativo i livelli sierici di calcio, fosforo e fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF-23). Il calcifediolo a rilascio prolungato (ERC) è stato sviluppato come trattamento alternativo per l’IPS in MRC. La presente meta-analisi confronta l’effetto dell’ERC rispetto al PCT sui valori di paratormone (PTH) e di calcemia in studi randomizzati controllati.
Metodi: È stata condotta una revisione sistematica della letteratura, secondo le linee guida PRISMA (Preferred Reporting Items for Systematic review and Meta-Analyses) per identificare gli studi da includere nella Network Meta-Analysis (NMA).
Risultati: 18 pubblicazioni rispettavano i criteri d’inclusione nella NMA e 9 articoli sono stati inclusi nella NMA finale. La riduzione del PTH con PCT (-59,5 pg/ml) era maggiore della riduzione con ERC (-45,3 pg/ml), ma la differenza negli effetti del trattamento non ha mostrato significatività statistica. Il trattamento con PCT ha aumentato significativamente il calcio sierico rispetto al placebo (0,31 mg/dl), mentre l’aumento del calcio derivante dal trattamento con l’ERC (0,10 mg/dl) non ha mostrato significatività.
Conclusioni: L’evidenza suggerisce che sia il PCT che l’ERC sono efficaci nel ridurre il PTH, mentre i livelli di calcio tendono ad aumentare significativamente solo con il trattamento con PCT. Pertanto, l’ERC può essere un’alternativa terapeutica altrettanto efficace, ma più tollerabile rispetto al PCT.

Parole chiave: iperparatiroidismo secondario, PTH, calcio, vitamina D

Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (IPS) è una complicanza grave e comune della malattia renale cronica (MRC) tra i pazienti sia in fase conservativa che in dialisi. L’IPS è caratterizzato da alterazioni di parametri metabolici, fra i quali livelli sierici di fosforo (P), calcio (Ca), fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF-23), e insufficienza/carenza di vitamina D. La diminuzione della capacità dei reni di convertire la vitamina D [25(OH)D] nel suo metabolita attivo [1,25(OH)2D] determina una secrezione eccessiva di paratormone (PTH). Valori elevati di PTH, se non controllati, possono causare malattia ossea e calcificazione extra-scheletrica con aumento del rischio di insorgenza di malattie cardiovascolari legate all’incremento delle calcificazioni vascolari stesse. Inoltre l’IPS prolungato può evolvere nella sua forma terziaria, resistente alla terapia con vitamina D e calciomimetici, con la necessità di ricorrere alla paratiroidectomia nei casi più severi o in previsione del trapianto renale [1]. Pertanto, è essenziale controllare contemporaneamente vari biomarcatori, fra cui PTH, Ca e P, per poter attuare un trattamento efficace dei problemi correlati all’IPS in corso di MRC [2].

Gli attivatori del recettore della vitamina D (Vitamin D Receptor Activators: VDRA), come il calcitriolo, il paracalcitolo (PCT), il doxercalciferolo e l’alfacalcidolo, rappresentano da diversi anni il trattamento prevalente nei pazienti affetti da IPS in corso di MRC stadio G3-G5. Tuttavia, recenti studi indicano che i VDRA possono aumentare i livelli sierici di Ca e FGF-23 [3, 4]. Le più recenti linee guida Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) [2] hanno evidenziato l’accertato aumento del rischio di ipercalcemia nei pazienti in trattamento con PCT nei trial randomizzati controllati PRIMO e OPERA [3, 4], suggerendo di modificare le raccomandazioni terapeutiche per i pazienti con MRC in fase conservativa (ND-MRC). Nelle linee guida aggiornate non è infatti più raccomandato l’impiego routinario di PCT, calcitriolo e degli altri VDRA nella MRC negli stadi 3-5; questi agenti dovrebbero essere usati, invece, unicamente per l’IPS grave e progressivo nella MRC allo stadio 4-5 [2].

Recentemente, è stato sviluppato un calcifediolo a rilascio prolungato (Extended Release Calcifediol, ERC) come trattamento alternativo per la terapia dell’IPS e per la riduzione dei livelli di PTH in corso di ND-MRC [5]. La formulazione dell’ERC, oltre alla sua natura di vitamina D nutrizionale, ne contraddistingue le proprietà farmacocinetiche e l’azione terapeutica rispetto al PCT.

L’ERC è disponibile sotto forma di capsule a rilascio prolungato per uso orale, contenenti 30 μg di calcifediolo. Le capsule sono progettate per essere deglutite intere. Il rilascio prolungato del farmaco è garantito dall’involucro “ceroso” e lipofilo della capsula [6], tale da offrire il progressivo rilascio del principio attivo nell’arco di circa 12 ore [7], seguito dall’incremento dei livelli di 25(OH)D con steady state a 3 mesi [8]. Il materiale di riempimento della capsula è solido al di sotto dei 25°C. L’inizio di un’alta viscosità decrescente a partire da 35°C è il risultato di una transizione dallo stato ceroso solido a quello semisolido nell’intervallo di 35-50°C. Lo stato semisolido alla temperatura corporea di 37°C consente l’erosione e, poiché non ancora liquido, fornisce le condizioni affinché l’erosione costante rilasci il principio attivo.

Il PCT, o 19-nor-diidrossiergocalciferolo, è un analogo sintetico del 1,25-diidrossiergocalciferolo privo del gruppo metilene C-19 esociclico. Il PCT è disponibile in commercio in formulazione in fiale da 5 mcg (per l’utilizzo in dialisi) e in compresse da 1 mcg e 2 mcg (per l’utilizzo in MRC stadi 3-5D) [9]. Il PCT è altamente legato alle proteine plasmatiche (> 99,9%) e presenta un’escrezione principalmente per via epatobiliare, con una minima eliminazione per via renale (< 16%) e fecale (2%) [1013] e una biodisponibilità stimata intorno all’80% [14]. L’assorbimento intestinale non è alterato dalla contemporanea assunzione di cibo. La massima concentrazione di PCT viene raggiunta dopo 3 h dall’assunzione orale [10], con un tempo di eliminazione medio nei soggetti e sani e nei pazienti in dialisi pari a 5-7 e 13-30 ore rispettivamente [12]. Il PCT è metabolizzato in 3 cataboliti inattivi [24(R)-hydroxyparicalcitolo, 24,26, 24,28-dihyroxyparicalcitolo e glucuronidi] dal citocromo mitocondriale CYP24 e dagli enzimi epatici CYP3A4 e UGTIA4 [10].

L’obiettivo di questo studio di comparazione indiretta è confrontare l’efficacia di PCT e ERC rispetto al placebo nel controllo dei biomarcatori PTH e Ca in pazienti con ND-MRC.

 

Metodi

Strategia di ricerca e selezione degli studi

È stata effettuata una revisione sistematica della letteratura secondo le linee guida per il reporting di revisioni sistematiche e meta-analisi (Preferred Reporting Items for Systematic reviews and Meta-Analyses, PRISMA) [15] per individuare gli studi da inserire in questa analisi (Network Meta-Analysis, NMA). La metanalisi “a rete” o Network Meta-Analysis offre l’importante vantaggio di incorporare in un’unica analisi tutte le evidenze disponibili, consentendo quindi di gestire al meglio queste situazioni di confronto multiplo, divenute sempre più frequenti, anche in assenza di confronti diretti che renderebbero invece possibile il confronto tramite metanalisi classica.

Il database PubMed è stato consultato adottando una strategia di ricerca predefinita per MRC e esiti e opzioni terapeutiche nell’IPS. Non sono state imposte restrizioni in merito alla data di pubblicazione. Pubblicazioni non in lingua inglese nonché review, commentari o metanalisi sono stati escluse dalla ricerca. Sono stati consultati i riferimenti bibliografici di tutti gli studi conformi ai criteri di inclusione per rintracciare ulteriori pubblicazioni che non erano state individuate nella strategia di ricerca. Sono state ottenute le pubblicazioni integrali per i documenti conformi ai criteri di inclusione, così come nel caso in cui non fosse certo che i criteri di inclusione fossero soddisfatti. Due revisori hanno valutato indipendentemente l’elenco completo dei risultati emersi dalla ricerca per stabilirne l’eleggibilità.

Per poter essere incluso nella revisione della letteratura, l’articolo doveva includere una sperimentazione randomizzata e controllata, comprendente più di 20 pazienti adulti (18 anni+) con ND-MRC documentata. Almeno un gruppo di pazienti negli studi doveva aver ricevuto un trattamento con un agente terapeutico rilevante nel trattamento dell’IPS e i restanti gruppi dovevano aver ricevuto il trattamento con placebo, nessun trattamento o un trattamento con un altro agente terapeutico rilevante. Pertanto, sono state escluse le pubblicazioni che avevano confrontato differenti regimi posologici dello stesso farmaco. Se due o più pubblicazioni riportavano risultati ricavati dalla stessa sperimentazione e l’informazione dei risultati coincideva, è stata inclusa solo una delle pubblicazioni (senza alcuna perdita di dati).

Nella strategia di ricerca per la revisione della letteratura, sono state incluse tutte le opzioni terapeutiche rilevanti per il controllo dei biomarcatori correlati all’IPS (vitamina D alimentare, calcitriolo, VDRA selettivi e calciomimetici). Tuttavia, soltanto la documentazione raccolta in relazione a PCT ed ERC è stata ritenuta sufficientemente comparabile (in merito, ad esempio, ai disegni degli studi e ai regimi posologici) per poterla utilizzare in uno schema di network metanalisi.

Estrazione dei dati e valutazione della qualità

È stato creato e testato un modello standardizzato di estrazione dei dati usando un campione casuale delle pubblicazioni incluse. Due revisori hanno estratto indipendentemente tutti i dati utilizzando il modello dei dati prestabilito. Una volta estratti i dati, i due revisori hanno corretto eventuali differenze tramite il riesame congiunto della fonte. Eventuali discordanze non risolte, sono state giudicate da un revisore terzo.

Quando disponibili per l’estrazione, i parametri principali riportati erano le differenze medie o mediane (Mean or Median Difference, MD) dei valori assoluti dei biomarcatori PTH e Ca, rilevati dal basale fino alla fine dello studio, per tutti i gruppi di pazienti reclutati negli studi inclusi. L’effetto sul P, sebbene da una revisione della letteratura pubblicata non risulti altamente influenzato dalle molecole in esame, è stato valutato nell’analisi secondaria. È stata effettuata una revisione sistematica della letteratura per creare una raccolta completa delle sperimentazioni controllate randomizzate in cui sono stati valutati PCT ed ERC. Per studiare l’efficacia comparativa, i risultati di livello degli studi individuati nella revisione sistematica della letteratura sono stati sintetizzati usando metodi di network metanalisi.

Le MD e la deviazione standard delle MD, quando riportate, sono state estratte direttamente dagli studi. Quando erano indicati solo i valori dei biomarcatori registrati al basale e alla fine dello studio, la MD è stata calcolata sottraendo i valori al basale da quelli rilevati al termine del periodo di studio. In questi casi, la deviazione standard della MD è stata calcolata usando la formula riportata nel Cochrane Handbook for Systematic Reviews of Interventions, con il coefficiente di correlazione impostato sul valore conservativo 0,4 [16]. Se un valore di un biomarcatore era indicato con uno scarto interquartile (Interquartile Range, IQR) associato, la deviazione standard del valore è stata calcolata per approssimazione, dividendo l’intervallo dell’IQR per 1,35 [17]. Il numero dei pazienti in ciascun braccio della sperimentazione è stato valutato per calcolare gli errori standard in base alle deviazioni standard. Se una MD era indicata con un intervallo di confidenza, l’errore standard è stato calcolato in base all’intervallo di confidenza. I valori estratti per PTH sono stati convertiti nell’unità comune di picogrammi per millilitro (pg/ml) mentre i valori per il Ca sono stati convertiti in milligrammi per decilitro (mg/dl). I risultati illustrati graficamente non sono stati estratti. Quindi, per poter essere inclusi nelle analisi, i risultati relativi ai biomarcatori dovevano essere riportati numericamente.

Analisi statistica

L’associazione tra il trattamento e gli esiti su PTH, Ca e P è stata stimata usando le MD in tutte le analisi. È stata utilizzata una network metanalisi ad effetti random, con approccio frequentistico per sintetizzare le evidenze emerse da confronti indiretti in un singolo approccio analitico [18, 19]. Nella conduzione di una network metanalisi viene assunta la transitività, cioè si possono confrontare i trattamenti A e B usando l’evidenza indiretta se entrambi i trattamenti sono stati testati rispetto al trattamento C. Se dai confronti diretti e indiretti risulta un’evidenza, la validità dell’assunzione di transitività può essere testata valutando la consistenza dell’evidenza diretta e indiretta. Non essendo disponibili confronti diretti tra PCT ed ERC, i dati raccolti per questo studio non consentono di effettuate tali test di consistenza. Sono state utilizzate invece procedure meta-analitiche regolari per valutare l’eterogeneità dei risultati di livello degli studi usando la statistica comune.

Sono poi stati creati forest plot a partire da un modello di effetti casuali per valutare l’eterogeneità tra gli studi tramite la statistica. Sono stati utilizzati funnel plot per valutare il bias di pubblicazione e gli effetti di piccoli studi.

 

Risultati

Selezione degli studi

La strategia di ricerca ha prodotto, alla data del 31 maggio 2022, un totale di 1175 risultati. 88 studi erano eleggibili per l’inclusione nella revisione sistematica della letteratura (ossia, includevano tutte le potenziali opzioni terapeutiche per l’IPS nell’ND-MRC) e 56 studi, che avevano confrontato l’utilizzo del PCT o dell’ERC rispetto al placebo, erano eleggibili per l’inclusione nella network metanalisi. 10 studi sono stati esclusi dalle network metanalisi: 3 studi sono stati esclusi per aver un disegno di studio cross-over [2022], 1 pubblicazione è stata esclusa per non avere riportato i risultati per PTH e Ca, [23] mentre 6 pubblicazioni sono state escluse perché tutti i risultati rilevanti ricavati dalla corrispondente sperimentazione erano già riportati in altri articoli già inclusi nelle precedenti analisi [24]. Quindi le restanti 9 pubblicazioni sono state incluse nella network metanalisi. La Figura 1 mostra il diagramma PRISMA per la procedura di ricerca.

Caratteristiche degli studi e dei pazienti

La Tabella 1 riporta le informazioni sulle caratteristiche dei pazienti delle 9 pubblicazioni incluse nell’NMA. In totale 1443 pazienti sono stati randomizzati nelle 9 pubblicazioni incluse; 507 nelle pubblicazioni che hanno valutato l’ERC e 936 nelle pubblicazioni che hanno preso in esame il PCT. I livelli di PTH rilevati al basale erano più alti rispetto alla norma in tutte le pubblicazioni (media su tutti gli studi: 126,8 pg/ml).

Il peso stimato della numerosità dei pazienti negli studi è stato riportato come variazione media non aggiustata in quasi tutte le pubblicazioni e per tutti gli esiti, a eccezione di Wang [4] che ha indicato variazioni mediane di PTH e Thadhani [3] che, per tutti gli esiti, ha riportato variazioni medie dei minimi quadrati aggiustate tramite un modello comprendente trattamento, visita, interazione trattamento per visita, Paese e valore basale del biomarcatore. Una pubblicazione [25] non conteneva report numerici per il PTH, mentre un’altra pubblicazione [26] non riportava i risultati per il Ca. Unicamente 8 del totale delle pubblicazioni sono state utilizzate nelle analisi di ciascun esito.

Figura 1: Selezione degli studi.
Figura 1: Selezione degli studi.

Quattro pubblicazioni incluse (1 che ha valutato l’ERC e 3 che hanno esaminato il PCT) hanno riportato risultati ricavati da sperimentazioni a tre bracci, in cui ai pazienti in due bracci sono state somministrate differenti dosi del principio attivo (1 o 2 µg/giorno di PCT oppure 30 o 60 µg/giorno di ERC) [5, 2628]. Le 5 restanti pubblicazioni (4 che hanno valutato il PCT [3, 4, 25, 29] e 1 che ha esaminato l’ERC [8]) hanno riportato risultati ricavati da sperimentazioni a due bracci in cui era consentito titolare il dosaggio dell’agente terapeutico nel corso del periodo di studio. Lo studio di Sprague del 2014 [5] ha incluso due coorti di pazienti (studi a e b). Nello studio a 51 pazienti sono stati randomizzati in tre bracci di trattamento (placebo, ERC 60 µg/die, ERC 90 µg/die). Nello studio b 27 pazienti sono stati randomizzati in due bracci di trattamento (placebo, ERC 30 µg/die). Il lavoro originale ha riportato i dati relativi agli studi a e b relativi al gruppo placebo, mentre ha fornito i dati aggregati nei gruppi randomizzati a ERC (Tabella 1). La presente meta-analisi non ha incluso il gruppo di trattamento con ERC 90 µg/die, considerata la sua mancata applicazione nella pratica clinica. Lo studio di Sprague del 2016 [8] ha incluso due identici studi multicentrici (studio A e studio B). Nello studio A e nello studio B sono stati randomizzati 213 e 216 pazienti rispettivamente al placebo e all’ERC 30 µg/die (Tabella 1). In entrambi gli studi, a partire dalla 13° settimana di trattamento, la dose di ERC poteva essere titolata a 60 µg/die in base ai valori di PTH, 25(OH)D e Ca.


Autore (anno)
Bracci dello studio Dose Numero di pazienti Età % di donne eGFR basale (ml/min/1,73^2) PTH basale (pg/ml) Calcio basale (mg/dl) FGF-23 basale

(pg/ml)

Sprague (2014) [5] Calcifediolo ER 30 µg/giorno 13 58,2 53,8 36,7 156,3 9,3 37,5
Calcifediolo ER 60 µg/giorno 17 64,7 41,2 42,6 118,5 9,3 23,8
Placebo (studio a) NA 17 61,9 76,5 36,9 160,6 9,4 22,2
Placebo (studio b) NA 14 63,9 50,0 40,9 127,6 9,4 20,6
Placebo

(tot)

NA 31 62,8 64,5 38,7 145,7 9,4 21,5
Sprague (2016) [8] Calcifediolo ER

(studio A)

30 µg/giorno per le settimane 0-12 con possibile titolazione a 60 µg/giorno nelle settimane 13-26 in base ai livelli di PTH, 25(OH)D e calcio 141 65,1 50,4 30,3 146,8 9,2
Calcifediolo ER

(studio B)

30 µg/giorno per le settimane 0-12 con possibile titolazione a 60 µg/giorno nelle settimane 13-26 in base ai livelli di PTH, 25(OH)D e calcio 144 66,8 49,3 30,9 148,9 9,3
Calcifediolo ER 30 µg/giorno per le settimane 0-12 con possibile titolazione a 60 µg/giorno nelle settimane 13-26 in base ai livelli di PTH, 25(OH)D e calcio 285 66,0 49,8 30,6 147,2 9,2 41,3
Placebo

(studio A)

NA 72 64,4 45,8 32,3 142,2 9,2
Placebo

(studio B)

NA 72 65,3 54,2 31,8 155,6 9,3
Placebo NA 144 64,9 50,0 32,0 148,9 9,2 38,3
Riquadro riassuntivo A: 507 (somma) 63,7 (media) 52,0 (media) 36,3 (media) 144,0 (media) 9,3 (media)  
Alborzi (2008) [26] Paracalcitolo 1 µg/giorno 8 72,6 25,0 47,5 66,8 9,5
Paracalcitolo 2 µg/giorno 8 67,5 25,0 47,4 76,0 9,5
Placebo NA 8 68,4 0,0 44,0 124,9 9,3
Coyne (2006) [25] Paracalcitolo Dose iniziale 1 µg/giorno o 2 µg tre volte alla settimana se PTH <500 pg/ml oppure 2 µg/giorno o 4 µg tre volte alla settimana se PTH ≥500 pg/ml, con successiva titolazione della dose in base ai livelli di PTH, calcio (dose giornaliera media pari a 1,36 µg/giorno) 107 63,6 32,0 23,1 265,0 9,3
Placebo NA 113 61,8 33,0 23,0 280,0 9,4
Coyne (2013) [27] Paracalcitolo 1 µg/giorno 93 64,0 29,0 40,0 97,0 9,3
Paracalcitolo 2 µg/giorno 95 65,0 27,0 42,0 91,0 9,4
Placebo NA 93 65,0 35,0 39,0 105,0 9,3
Lundwall (2015) [28] Paracalcitolo 1 µg/giorno 12 66,1 8,0 38,9 68,8 9,1
Paracalcitolo 2 µg/giorno 12 70,8 33,0 42,1 66,0 9,1
Placebo NA 12 59,1 25,0 41,6 87,7 9,1
Thadhani (2012) [3] Paracalcitolo Dose iniziale 2 µg/giorno con possibile titolazione verso il basso a 1 µg/giorno in base ai livelli di calcio 115 64,0 31,3 36,0 100,0 9,6
Placebo NA 112 66,0 29,5 31,0 106,0 9,6
Wang (2014) [4] Paracalcitolo Dose iniziale 1 µg/giorno se PTH <500 pg/ml o 2 µg/giorno se PTH ≥500 pg/ml, con successiva titolazione della dose in base ai livelli di calcio 30 60,8 34,0 23,9 156,0 9,3
Placebo NA 30 62,2 53,0 19,7 158,0 9,4
Zoccali (2014) [29] Paracalcitolo Dose iniziale 2 µg/giorno con possibile titolazione verso il basso a 1 µg a giorni alterni in base ai livelli di PTH e calcio 44 60,8 41,0 34,0 102,0 9,0 64,7
Placebo NA 44 62,0 30,0 29,0 102,0 8,9 78,0
Riquadro riassuntivo B:     936 (somma) 64,7 (media) 28,9 (media) 35,4 (media) 120,7 (media) 9,3 (media)  
Riassunto di tutti gli studi:     1443 (somma) 64,4 (media) 34,9 (media) 35,7 (media) 126,8 (media) 9,3 (media)  
Tabella 1: Caratteristiche dei pazienti delle pubblicazioni incluse.

Qualità dell’evidenza

Il rischio valutato di bias delle pubblicazioni incluse era generalmente molto basso o basso, a eccezione delle due pubblicazioni di [26] e [28], ritenute rispettivamente a rischio di bias moderato ed alto. È stato riportato che tutti gli studi erano randomizzati e in doppio cieco. Nessuna sperimentazione è stata interrotta prematuramente. La procedura di randomizzazione era descritta più dettagliatamente in quattro pubblicazioni [4, 2527], mentre il metodo in cieco era definito più specificatamente in due pubblicazioni [25, 29]. La procedura di randomizzazione per lo studio condotto da Coyne (2013) [27] è descritta in de Zeeuw (2010) [24], che illustra in modo più approfondito il disegno dello studio della corrispondente sperimentazione. Il numero di abbandoni è risultato basso nelle pubblicazioni incluse e soltanto in due studi meno dell’80% dei partecipanti ha portato a termine le sperimentazioni [3, 27].

Benché sia stata riportata la sponsorizzazione da parte dell’industria farmaceutica in tutte le pubblicazioni, non sono state riscontrate asimmetrie o effetti di piccoli studi indicativi di bias di pubblicazione nei funnel plot per nessuno degli esiti. Il campione dei pazienti nelle pubblicazioni era generalmente di dimensioni da basse a moderate e il numero di pubblicazioni utilizzate nelle analisi era moderato (8 pubblicazioni, incluse nell’analisi). Nel complesso non sono stati riscontrati limiti abbastanza gravi da richiedere il declassamento delle evidenze nei domini GRADE per rischio di bias, imprecisione o bias di pubblicazione. Dunque, in generale, non è stato rilevato alcun bias di pubblicazione dalla comparazione indiretta utilizzando i 9 articoli indicati.

I forest plot delle dimensioni degli effetti di livello degli studi hanno indicato una probabile presenza di sostanziale eterogeneità (con statistiche comprese nell’intervallo dal 47,1% al 78,4%). Inoltre, la mancanza di qualsiasi confronto diretto tra PCT e ERC non ha consentito di valutare la consistenza della rete. Per tutti gli esiti, l’evidenza è stata quindi declassata da alta a bassa qualità, dati questi limiti nei domini GRADE di inconsistenza e indirectness.

 

Esiti del trattamento

Effetto sul PTH

La Figura 2 presenta il grafico di intervalli degli effetti di ERC e PCT sui livelli di PTH. Rispetto al placebo, il trattamento sia con PCT sia con ERC ha determinato diminuzioni statisticamente significative dei livelli di PTH. Il PCT ha ridotto i valori di PTH di 56,8 pg/ml (IC al 95%: da -77,9 a -35,67 pg/ml) e l’ERC ha ridotto i valori di PTH di 46,3 pg/ml (IC al 95%: da -75,1 a -17,5 pg/ml). La differenza delle MD non ha evidenziato alcuna differenza statistica nelle riduzioni dei livelli di PTH prodotte da PCT rispetto a ERC (differenza delle MD di 10,5 pg/ml, IC al 95%: da -25,3 a 46,3 pg/ml).

Effetti stimati su PTH (pg/ml) prodotti dal trattamento con PCT ed ERC
Figura 2: Effetti stimati su PTH (pg/ml) prodotti dal trattamento con PCT ed ERC, confrontati con il placebo o confrontati direttamente usando l’evidenza indiretta (ultima riga).

La Figura 3 mostra l’eterogeneità degli effetti sul PTH nei singoli studi condotti con ERC e con PCT.

Figura 3: Risultati della meta-analisi degli effetti sul PTH per studiare l’eterogeneità degli effetti.
Figura 3: Risultati della meta-analisi degli effetti sul PTH per studiare l’eterogeneità degli effetti.

Effetto sul calcio

La Figura 4 presenta il grafico di intervalli degli effetti di ERC e PCT sui livelli di Ca. Il trattamento con PCT ha aumentato significativamente i livelli di Ca rispetto al placebo (MD: 0,30 mg/dl, IC al 95%: da 0,21 a 0,40 mg/dl). L’effetto stimato del trattamento con ERC (MD: 0,10 mg/dl) non è risultato statisticamente significativo, benché di un margine piuttosto esiguo (IC al 95%: da -0,03 a 0,23 mg/dl). Stando alla differenza stimata delle MD, rispetto all’ERC, il PCT ha aumentato significativamente i livelli di Ca di 0,2 mg/dl (IC al 95%: da -0,37 a -0,04 mg/dl).

Figura 4: Effetti stimati sul Ca (mg/dl) prodotti dal trattamento con paracalcitolo (PCT) e ERC
Figura 4: Effetti stimati sul Ca (mg/dl) prodotti dal trattamento con paracalcitolo (PCT) e ERC, rispetto al placebo (prime due righe) e confrontati direttamente usando l’evidenza indiretta (ultima riga).

La Figura 5 mostra l’eterogeneità degli effetti sul Ca nei singoli studi condotti con ERC e con PCT.

Figura 5: Risultati della meta-analisi degli effetti sul Ca per studiare l’eterogeneità degli effetti.
Figura 5: Risultati della meta-analisi degli effetti sul Ca per studiare l’eterogeneità degli effetti.

Effetti sul fosforo

L’analisi secondaria ha mostrato un incremento della fosforemia statisticamente significativo, sebbene di minima rilevanza clinica, in corso di trattamento con PCT (MD 0,15 mg/dl, IC al 95%: da 0,05 a 0,25 mg/dl) (Figura 6). Al contrario, il trattamento con ERC non è risultato associato ad un incremento della fosforemia statisticamente significativo (MD 0,11 mg/dl, IC al 95%: da -0,04 a 0,26 mg/dl). L’impatto delle due molecole sui livelli di fosforemia non ha mostrato differenze statisticamente significative (MD – 0,04 mg/dl, IC al 95%: da -0,22 a 0,15 mg/dl).

Effetti stimati sul P (mg/dl) prodotti dal trattamento con PCT e ERC
Figura 6: Effetti stimati sul P (mg/dl) prodotti dal trattamento con PCT e ERC, rispetto al placebo (prime due righe) e confrontati direttamente usando l’evidenza indiretta (ultima riga).

 

Discussione

In questa network metanalisi abbiamo riscontrato riduzioni simili e non inferiori di PTH prodotte dal trattamento con ERC rispetto alla terapia con PCT, mentre il trattamento con PCT ha aumentato i livelli di Ca rispetto alla terapia con ERC. Pertanto, le riduzioni di PTH ottenute tramite il trattamento con PCT sono associate a un rischio di aumenti concomitanti dei livelli di calcemia. In una precedente metanalisi di articoli riguardanti pazienti con ND-MRC, Han et al. [30] hanno riscontrato aumenti simili dei valori di Ca e un rischio elevato di ipercalcemia in associazione al trattamento con PCT, che hanno indotto gli autori a consigliare di impiegare con cautela il PCT nella ND-MRC. La presente metanalisi ha altresì evidenziato un incremento della fosforemia statisticamente significativo, sebbene di minima rilevanza clinica, in corso di trattamento con PCT, dato non riscontrato con l’ERC. Tuttavia, l’andamento della fosforemia non è risultato significativamente diverso tra PCT ed ERC.

Non è stato possibile condurre una comparazione meta-analitica riguardo agli effetti del PCT e dell’ERC sui livelli di FGF-23 a causa della limitazione dei dati, disponibili solo nei lavori di Sprague S.M. [5, 8] e di Zoccali C. et al [29]. Il lavoro di Sprague S.M. et al del 2014 ha riscontrato un trend di FGF-23 in aumento nel braccio randomizzato a ERC (da 29,4 + 21,85 a 33,4 + 22,8 pg/ml) comparabile con il gruppo placebo (da 21,50 + 12,45 a 26,8 + 27,99 pg/ml, p = NS) [5]. L’effetto dell’ERC sui livelli di FGF-23 comparabile al placebo è stato confermato nel lavoro di Sprague S.M. et al del 2016 (da 41,4 (3,5) a 54,9 (5,2) ng/ml nel gruppo ERC aggregato, e da 38,3 (3,6) a 53,4 (7,1) ng/ ml nel gruppo placebo aggregato, p = NS) [8]. Di nota, i dati in merito all’effetto delle vitamine D nutrizionali sui livelli di FGF-23 sono a oggi contrastanti. Sebbene il trattamento con vitamina D nutrizionale con colecalciferolo ed ergocalciferolo non risulti associato ad una variazione significativa di FGF-23 in corso di MRC non-dialitica [31, 32], una recente metanalisi ha osservato un incremento significativo nei livelli di FGF-23 intatto nella popolazione generale sottoposta a supplementazione con vitamina D3 [33].

Al contrario l’incremento dei livelli di FGF-23 in corso di PCT è piuttosto consistente in letteratura. Nello studio PENNY la somministrazione di PCT è risultata associata ad un aumento significativo dei livelli di FGF-23 (+107 (44-170) pg/ml), dato non osservato nel gruppo placebo (-20 (-24 a + 24) pg/ml, p = 0,001) [29]. Tale effetto del PCT sui livelli di FGF-23 è consistente con quanto osservato in precedenza da deBoer I.H. et al in 22 pazienti con MRC stadio G3-G4, randomizzati a PCT 2 mcg/die vs placebo per 8 settimane (differenza di incremento tra PCT e placebo 73,7 %, IC al 95%: da 39,6 a 116,1 %; p < 0,001) [22] e da Larsen T. et al in 20 pazienti con MRC stadio 3-4 randomizzati a PCT 2 mcg/die vs placebo per 6 settimane (incremento dei livelli di FGF-23 nel gruppo PCT pari al 46%, IC al 95%: da 21% a 71%; p = 0,001) [21].

Il rischio di bias negli studi inclusi è stato giudicato basso, considerando i disegni degli studi di alta qualità e le popolazioni in studio relativamente grandi. I limiti principali del presente studio derivano essenzialmente dal numero ridotto di dati disponibili per l’inclusione nella network metanalisi. I dati relativi all’ERC, limitati a due pubblicazioni, appaiono più omogenei rispetto a quanto osservato nelle 7 pubblicazioni relative al PCT, il che può al momento attenuare la generalizzabilità dei risultati. Gli studi analizzati hanno principalmente incluso pazienti con MRC in stadio G3-G4. Pertanto i risultati richiedono ulteriore validazione nei pazienti con MRC stadio G5 in trattamento conservativo, che possono peraltro presentare forme più severe di IPS. È stato osservato uno sbilanciamento nella prevalenza del genere femminile nei lavori sul PCT (29%) rispetto agli studi sull’ERC (52%). Principalmente la mancanza di sperimentazioni, in cui PCT ed ERC sono stati confrontati direttamente, non consente di valutare la consistenza del network, il che determina il declassamento della qualità dell’evidenza usando l’approccio GRADE. Tuttavia, la comparabilità delle popolazioni studiate contribuisce ad attenuare i problemi posti dalla mancanza di confronti diretti.

Malgrado i limiti derivanti dal numero ristretto di dati, questa network metanalisi presenta una raccolta completa dell’evidenza riguardante l’efficacia di PCT e ERC nel controllo dei biomarcatori PTH e Ca nel trattamento del IPS in corso di MRC. Stando all’evidenza presentata, benché il PCT e l’ERC siano entrambi efficaci nel ridurre i livelli di PTH, i livelli di Ca tendevano ad aumentare in seguito al trattamento con PCT. Quindi, l’ERC può rappresentare un’opzione terapeutica altrettanto efficace, ma con un migliore profilo di sicurezza sul bilancio del Ca rispetto al PCT. Il minore impatto sui livelli di FGF-23 offerto dall’ERC rispetto al PCT, potrebbe offrirne un miglior profilo di sicurezza cardiovascolare; dato da confermare con ulteriori studi ad-hoc.

 

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Efficacia e tollerabilità nel lungo termine dell’etelcalcetide nel trattamento dell’iperparatiroidismo secondario grave del paziente in emodialisi

Abstract

Introduzione: L’etelcalcetide si è dimostrato efficace e ben tollerato nel trattamento dell’iperparatiroidismo secondario (IPS) del paziente in emodialisi (HD). Nel presente studio, della durata di 12 mesi, abbiamo valutato l’efficacia e la tollerabilità del trattamento con etelcalcetide in un gruppo si pazienti con IPS grave nonostante la concomitante terapia con cinacalcet e/o paracalcitolo. Pazienti e Metodi: Abbiamo selezionato 24 pazienti con livelli di PTH >500 pg/mL ( range 502-2148 pg/mL) nonostante la terapia con cinacalcet e/o analoghi della vitamina D. Il dosaggio iniziale dell’etelcalcetide è stato di 7.5 mg a settimana, quindi veniva titolato in base ai livelli della calcemia totale corretta per l’albumina (CaALb_c) e del PTH. Il trattamento veniva temporaneamente sospeso se i livelli della CaALb_c erano 30% rispetto ai valori basali. Risultati: Al F-U la riduzione dei livelli del PTH era > 30% nell’83% dei pazienti. I livelli del PTH si riducevano da 1169 ± 438 a 452±241 pg/mL al F-U (P < 0.001). La riduzione percentuale dei livelli di PTH al F-U era pari a -56 ± 25%. La CaALb_c e la fosforemia si riducevano da 9.8 ± 0.4 mg/dL a 9.0 ± 0.6 mg/dL (P < 0.001) e da 6.1 ± 1.3 mg/dL a 4.9 ± 1.3 mg/dL (P < 0.01), rispettivamente. L’ipocalcemia è stato il principale effetto collaterale, mai tale da richiedere la sospensione del trattamento, risultando più marcata nei pazienti con i livelli basali di PTH e t-ALP più elevati. Nel corso dello studio la percentuale dei pazienti trattati con calcio carbonato passava dal 33% al 54% e quella dei pazienti trattati con paracalcitolo passava dal 33% al 79%. Al F-U il dosaggio medio settimanale dell’etelcalcetide era di 21.0 ± 9.5 mg (range 7.5-37.5 mg/settimana). Conclusioni: Il trattamento dell’IPS grave con etelcalcetide si è dimostrato efficace e sicuro nel lungo termine. L’ipocalcemia, il più frequente effetto collaterale, è risultata più evidente nei pazienti con le forme più gravi di IPS e quindi verosimilmente da ricondurre ad una riduzione del turnover osseo piuttosto che ad un effetto intrinseco dell’etelcalcetide.

 

Parole chiave: etelcalcetide, emodialisi, iperparatiroidismo secondario, paracalcitolo, cinacalcet

Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (IPS) è una complicanza comune e clinicamente significativa della malattia renale cronica (CKD), soprattutto nei pazienti in trattamento emodialitico (HD) [14].

Gli elevati livelli di paratormone (PTH), insieme alle alterazioni del calcio e del fosforo, si associano a calcificazioni vascolari, fratture scheletriche, aumentata morbilità e mortalità cardiovascolare [58]. In particolare, studi epidemiologici condotti in pazienti in HD hanno fornito evidenze sostanziali che livelli di PTH elevati, in particolare modo quando >600 pg/mL, sono associati ad un aumentato rischio di eventi cardiovascolari e mortalità cardiovascolare [9, 10]. Fino a pochi anni fa il trattamento dell’IPS era principalmente basato sull’impiego degli analoghi della vitamina D, dei calciomimetici e della paratiroidectomia [1, 2, 5, 1113]. Tuttavia, l’impiego degli analoghi della vitamina D è spesso gravato da effetti collaterali quali ipercalcemia ed iperfosforemia, che ne possono limitare l’impiego [14, 15]. L’impiego del calciomimetico cinacalcet, seppur più efficace rispetto agli analoghi della vitamina D nel controllo delle varie componenti della CKD-MBD [1620], è spesso limitato dalla elevata frequenza di effetti collaterali e dalla scarsa aderenza terapeutica [21]. Al fine di migliorare il trattamento dell’IPS, è stato recentemente introdotto un nuovo calciomimetico, l’etelcalcetide (Parsabiv®, Amgen Inc.), somministrabile per via endovenosa (e.v.) al termine della seduta HD [22, 23]. La sicurezza e l’efficacia dell’etelcalcetide è stata dimostrata da diversi trials clinici [2427]. L’etelcalcetide è risultato, rispetto al cinacalcet, più efficace nel controllo dei principali parametri della CKD-MBD [32]. Nel presente studio, della durata di 12 mesi, abbiamo valutato retrospettivamente l’efficacia, intesa come riduzione dei livelli di PTH >30% rispetto ai valori basali, e la tollerabilità dell’etelcalcetide in un gruppo selezionato di pazienti in HD con IPS grave nonostante fossero in trattamento con le terapie tradizionali (cinacalcet e/o paracalcitolo) o non passibili di trattamento con questi farmaci per la comparsa di effetti collaterali.

 

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La supplementazione con colecalciferolo migliora il controllo dell’iperparatiroidismo secondario nel paziente con trapianto renale

Abstract

Introduzione: La deficienza di vitamina D (25OHD <30 ng/mL) nei pazienti con trapianto renale (RTRs) è un reperto frequente e rappresenta una importante componente della eziopatogenesi dell’iperparatiroidismo secondario (IPS), per cui se ne consiglia una sua più sistematica supplementazione. Abbiamo valutato l’impatto della supplementazione con colecalciferolo sui livelli di PTH e di 25(OH)D in un gruppo di RTRs con 25OHD <30 ng/mL ed IPS. Pazienti e Metodi: 52 RTRs venivano supplementati con colecalciferolo alla dose fissa di 25,000 UI p.o. a settimana per 12 mesi. 23 pazienti con SHPT e livelli di 25(OH)D <30 ng/mL che rifiutavano la supplementazione rappresentavano il gruppo di controllo. Ogni 6 settimane venivano valutati eGFR, Ca e PO4; PTH, 25(OH)D, FECa e TmPO4 veniva determinati ogni 6 mesi. Risultati: Al basale i due gruppi presentavano le principali caratteristiche cliniche e bioumorali sovrapponibili. Nel corso dello studio i livelli di PTH erano correlati negativamente con quelli del 25(OH)D (r=-0.250; P <0.0001) e con i valori del TmPO4 (r=-0.425; P<0.0001). Al F-U nel gruppo supplementato i livelli di PTH si riducevano da 131 ± 46 a 103 ± 42 pg/mL (P<0.001), mentre quelli del 25(OH)D, del TmPO4, del PO4 e della Ca aumentavano da 14.9 ± 6.5 a 37.9 ± 13.1 ng/mL (P<0.001), da 1.9 ± 0.7 a 2.6 ± 0.7 mg/dL (P<0.001), da 3.1 ± 0.5 a 3.5 ± 0.5 mg/dL (P<0.001) e da 9.3 ± 0.5 a 9.6 ± 0.4 (P<0.01), rispettivamente. Nel corso dello studio non si registravano episodi di ipercalcemia o di ipercalciuria, mentre i livelli di 25(OH)D si mantenevano sempre <100 ng/mL. Nel gruppo di controllo a 12 mesi i livelli di PTH aumentavano da 132 ± 49 a 169 ± 66 pg/mL (P <0.05) e quelli del 25(OH)D rimanevano stabilmente <30 ng/mL. Conclusioni: Nei pazienti trapiantati il deficit di vitamina D è quasi una costante. La supplementazione con colecalciferolo si associa ad un miglior controllo dell’IPS ed alla correzione del deficit di vitamina D nella maggior parte dei pazienti, rappresentando un approccio terapeutico all’IPS efficace, sicuro e poco costoso.

Parole chiave: vitamina D, colecalciferolo, trapianto renale, iperparatiroidismo secondario.

Introduzione

Il trapianto renale rappresenta il trattamento di scelta per molti pazienti con malattia renale cronica in stadio 5D (ESRD), in quanto ne migliora la sopravvivenza e la qualità di vita rispetto a coloro che rimangono in dialisi [1]. Tuttavia, i pazienti con trapianto renale (RTRs), pur beneficiando della migliore sopravvivenza del rene trapiantato, continuano ad essere gravati da alcune problematiche già presenti nella fase della terapia sostitutiva. Una di queste, che spesso non risolve con il trapianto, è l’iperparatiroidismo secondario (IPS). Questa condizione è più frequente in quei RTRs che durante la fase sostitutiva hanno richiesto il trattamento dell’IPS [26]. Sebbene i livelli di paratormone (PTH) tendono a ridursi nei primi 12 mesi del post-trapianto [26], si stima che in circa il 30%-50% dei casi questi rimangono elevati anche negli anni successivi [2, 3, 68]. La persistenza dell’IPS (IPSP) nel post-trapianto è stata associata a patologia ossea ad elevato turnover, responsabile di perdita della massa ossea e quindi maggior rischio di fratture [9, 10] e progressione delle calcificazioni vascolari [11]. L’importanza delle potenziali conseguenze dell’IPSP ha portato a prendere in considerazione un suo più precoce trattamento. Sebbene non vi sia ancora condivisione sulla definizione dell’IPSP, utile a tal fine sembrerebbe la definizione riportata nelle linee guida NKF-KDOQI (National Kidney Foundation–Kidney Disease Outcomes Quality Initiative), secondo le quali si parla di IPSP quando negli stadi 1-3 della malattia renale cronica (MRC) i livelli di PTH permangono nel tempo al disopra dei limiti alti della norma, mentre nello stadio 4 quando questi permangono a livelli di 1.5 volte maggiori i limiti alti della norma [12]. Nell’approccio terapeutico dell’IPSP nel trapianto renale spesso viene dimenticata, prima ancora di intraprendere qualsiasi terapia come suggerito dalle linee guida NKF/KDOQI, la valutazione dello stato nutrizionale della vitamina D attraverso la determinazione dei livelli sierici della 25-idrossi-vitamina D [25(OH)D] [12]. Infatti, bassi livelli sierici di 25(OH)D possono essere una delle cause responsabili dell’IPSP nei RTRs [13, 14]. Le concentrazioni sieriche di 25(OH)D sono il principale indice del patrimonio in vitamina D del nostro organismo e sono utilizzate per definire uno stato carenziale di vitamina D [15]. Nelle linee guida NKF/KDOQI livelli sierici di 25(OH)D <5 ng/mL sono utilizzati per indicare una grave deficienza di vitamina D, livelli tra 5 e 15 ng/mL indicano una lieve insufficienza, livelli tra 16 e 30 ng/mL indicano una insufficienza, mentre livelli ≥ 30 ng/mL vengono considerati ottimali, anche se non vi è consenso unanime su quelli che sono i livelli sierici di vitamina  D da considerarsi ottimali [12, 16]. Bassi livelli sierici di 25(OH)D si ritrovano frequentemente nei RTRs [17, 18]. Le cause possono essere diverse, sicuramente una delle principali è la ridotta disponibilità di vitamina D per la 25-idrossilazione a seguito della scarsa esposizione ai raggi solari per l’aumentato rischio di tumori della pelle che si ha a seguito alla terapia immunosoppressiva [1924]. Nella malattia renale cronica stadio 3-4 le linee guida NKF/KDOQI raccomandano la supplementazione con vitamina D quando i livelli sierici di 25(OH)D sono <30 ng/mL [12]. In accordo con queste linee guida i RTRs dovrebbero essere trattati come i pazienti con MRC non trapiantati e con analogo filtrato glomerulare [12]. Tuttavia, nonostante le indicazioni delle linee guida NKF/KDOQI, non vi è una univoca posizione su diversi punti quali: quando iniziare il trattamento con vitamina D; quale tipo di vitamina D impiegare; quale dosaggio; durata del periodo di supplementazione [2527]. Nei pazienti con trapianto renale le esperienze circa l’impatto della supplementazione di vitamina D sui livelli di PTH nell’IPSP e su quelli del 25(OH)D in pazienti con deficit di vitamina D sono estremamente carenti, a differenza di quanto riportato nei pazienti con MRC stadio 3-5D. Nei vari studi finora condotti la supplementazione di vitamina D è stata a volte giornaliera, altre settimanale ed altre ancora mensile. Anche i dosaggi della supplementazione con vitamina D rimangono un problema aperto come sottolineato da Levi e Silver [28]. Tangpricha e Wasse [29], confrontando una serie di studi condotti in pazienti in emodialisi con schemi posologici di supplementazione di vitamina D molto diversi tra loro, hanno concluso che un dosaggio di vitamina D insufficiente, stimato come <100,000 UI/mese, potrebbe non essere in grado di ristabilire i normali livelli di 25(OH)D e ridurre i livelli di PTH. I pochi studi condotti nei RTRs sulla supplementazione di vitamina D hanno dato risultati contrastanti. In uno studio di Courbebaisse et al [30] condotto su RTRs con bassi livelli di 25(OH)D, una dose di colecalciferolo (un precursore del 25(OH)D) <100,000 UI/mese non sembra in grado di mantenere i livelli di 25(OH)D ≥ 30 ng/mL in tutti i RTRs supplementati. In un altro studio condotto su RTRs nei pazienti con deficienza di vitamina D [25(OH)D <15 ng/ml] una dose mensile cumulativa di 64,000 UI di colecalciferolo è risultata sufficiente per normalizzare i livelli sierici di 25(OH)D, mentre nei pazienti con insufficienza di vitamina D [25(OH)D 15-30 ng/ml] questo risultato si otteneva impiegando 40,000 UI/mese [31]. Inoltre, come emerge dal confronto tra le varie esperienze di supplementazione con vitamina D nei pazienti con MRC, la diversità dei risultati riportati in letteratura è probabilmente da ricondurre alla diversa durata della supplementazione, in molte esperienze estremamente breve [2931]. Infatti, molte delle esperienze fin qui fatte hanno avuto una durata inferiore alle 36 settimane [29]. Nel nostro ambulatorio dedicato al F-U dei RTRs da oltre 10 anni determiniamo regolarmente e periodicamente i livelli sierici del 25(OH)D e da allora tutti quelli che presentano livelli di 25(OH)D <30 ng/mL vengono regolarmente supplementati con vitamina D, quando non vi sia concomitante ipercalcemia. In questo studio abbiamo valutato, retrospettivamente, in un gruppo di RTRs con livelli di 25(OH)D <30 ng/mL ed uno stato di IPSP, l’impatto della terapia con colecalciferolo sui livelli sierici del 25(OH)D, del PTH e del bilancio calcio-fosforico e abbiano raffrontato i risultati con quelli di un analogo gruppo che rifiutava la supplementazione con vitamina D e quindi di controllo.

  

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La supplementazione con colecalciferolo migliora il controllo dell’iperparatiroidismo secondario nel paziente in emodialisi

Abstract

Introduzione: La carenza di vitamina D è frequente nei pazienti in emodialisi (HD) ed è un’importante componente nell’eziopatogenesi dell’iperparatiroidismo secondario (IPS). In questo studio abbiamo voluto valutare l’impatto della supplementazione con colecalciferolo sui livelli di paratormone (PTH) e della 25-idrossivitamina D (25(OH)D) in un gruppo di pazienti in HD con carenza di vitamina D ed IPS.

Pazienti e metodi: Sono stati selezionati 122 pazienti con livelli di 25(OH)D ≤30 ng/mL e IPS definito come livelli di PTH >300 pg/mL o livelli di PTH tra 150-300 pg/mL in corso di terapia con cinacalcet e/o paricalcitolo. Di questi, 82 hanno acconsentito alla supplementazione per via orale con colecalciferolo alla dose fissa di 25,000 UI a settimana per 12 mesi, mentre i rimanenti 40 pazienti l’hanno rifiutata, andando a costituire il gruppo di controllo. I due principali endpoint dello studio erano la riduzione dei livelli PTH ≥30% rispetto ai valori basali e l’incremento dei livelli di 25(OH)D a valori >30 ng/mL.

Risultati: Al follow-up, nel gruppo supplementato i livelli di PTH si riducevano da 476 ±293 a 296 ±207 pg/mL (p<0.001) quelli di 25(OH)D aumentavano da 10.3 ±5.7 a 33.5 ±11.2 ng/mL (p<0.001), la calcemia aumentava da 8.6 ± 0.5 a 8.8 ± 0.6 mg/dL (p<0.05) mentre la fosforemia rimaneva invariata. In questo gruppo il dosaggio medio del paracalcitolo veniva ridotto da 8.7 ±4.0 a 6.1 ±3.9 µg/settimana (p<0.001). Un risultato inatteso era l’aumento dei livelli di emoglobina da 11.6 ±1.3 a 12.2 ±1.1 gr/dL (p <0.01) con una riduzione del dosaggio medio di eritropoietina da 119 ±88 a 88 ±65 UI/Kg p.c./settimana (P<0.05). Nel gruppo di controllo i livelli di 25(OH)D e di PTH non si modificavano, mentre vi era un incremento del dosaggio medio di cinacalcet da 21 ±14 a 43 ±17 mg/die (p<0.01).

Conclusioni: La carenza di vitamina D è molto frequente nel paziente in HD. La supplementazione di colecalciferolo migliora questo stato carenziale ed allo stesso tempo consente un miglior controllo dell’IPS ed una riduzione dei dosaggi medi di paracalcitolo.

 

Parole chiave: vitamina D, colecalciferolo, emodialisi, iperparatiroidismo secondario, paracalcitolo

Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (IPS) inizia come un processo adattativo ma in ultimo, a seguito del ridursi della funzione renale, della ridotta escrezione di fosfati, della ridotta produzione di vitamina D e dell’ipocalcemia, si trasforma in un processo patologico [1]. È opinione comune che bassi livelli sierici di vitamina D siano la causa del bilancio negativo del calcio, dell’IPS e della patologia ossea. Le concentrazioni sieriche di 25-idrossivitamina D (25(OH)D) sono il principale indice del patrimonio di vitamina D del nostro organismo e sono utilizzate per definire uno stato carenziale di vitamina D [2]. Nelle linee guida National Kidney Foundation–Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (NKF–KDOQI), livelli sierici di 25(OH)D <5 ng/mL sono utilizzati per indicare una grave deficienza di vitamina D, livelli tra 5 e 15 ng/mL indicano una lieve insufficienza, livelli tra 16 e 30 ng/mL indicano un’insufficienza, mentre livelli maggiori di 30 ng/mL vengono considerati ottimali, anche se non vi è unanime consenso su quali siano i livelli sierici di vitamina D da considerare ottimali [3, 4].

 

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La correzione dell’iperparatiroidismo secondario con paracalcitolo nel trapianto renale migliora l’ipertrofia ventricolare sinistra

Abstract

Introduzione L’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) nel trapianto renale (RTx) è frequente e l’iperparatiroidismo secondario (IPS) è ritenuto uno dei suoi principali fattori eziopatogenetici. Abbiamo valutato se la correzione dell’IPS con paracalcitolo si associava ad un miglioramento dell’IVS nel RTx. Metodi – A tal fine venivano selezionati 24 pazienti con IPS ed IVS. Si definiva IPS uno stato caratterizzato da livelli di paratormone (PTH) > di 1,5 volte i limiti alti dei valori di normalità, mentre si definiva come IVS un indice di massa cardiaca (iMCVS) >95gr/m2 nelle donne e >115gr/m2 negli uomini. La terapia con paracalcitolo veniva iniziata con un dosaggio fisso di 1µg/die per una durata di 18 mesi. Il dosaggio del paracalcitolo veniva ridotto a 1µg a giorni alterni quando la calcemia era >10.5 mg/dl e/o la frazione di escrezione urinaria del calcio era >0.020%; la sua somministrazione veniva temporaneamente sospesa quando la calcemia era >11mg/dl. Risultati – Al follow-up i livelli di PTH si riducevano da 198 ± 155 a 105 ± 43pg/ml (P < .01) e l’ iMCVS si riduceva da 134 ± 21 a 113 ± 29gr/m2 (P < .01), la presenza di IVS passava dal 100% al 54%. La calcemia e la funzione renale al F-U non mostravano significative variazioni. Conclusioni – L’iperparatiroidismo secondario persistente nel RTx sembrerebbe svolgere un ruolo importante nella eziopatogenesi della IVS e la sua correzione con paracalcitolo si associa ad un suo miglioramento.

Parole chiave: ipertrofia ventricolare sinistra; paratormone; paracalcitolo; trapianto renale; iperparatiroidismo secondario

INTRODUZIONE

La patologia cardiovascolare rimane una delle principali cause di morbilità e mortalità nel paziente portatore di trapianto renale (1). L’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) è uno dei principali reperti ecocardiografici nel trapianto renale riscontrandosi in circa il 50-70% di questi pazienti (2). L’evoluzione della IVS dopo trapianto renale rimane controversa.  

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Iperfosfatemia in dialisi: la scelta del chelante

Abstract

Le linee guida KDIGO del 2017 confermano le indicazioni delle precedenti sulla necessità di mantenere i livelli sierici di fosforo nei pazienti in dialisi quanto più possibile vicino alle concentrazioni normali dello ione.
Questi suggerimenti nascono da numerosi studi che hanno evidenziato sia una stretta associazione tra livelli di fosforemia ed eventi fatali e non fatali sia che circa il 30% dei pazienti emodializzati presenta livelli sierici elevati di fosforo.
Le stesse linee guida KDIGO forniscono indicazioni terapeutiche sul controllo della iperfosforemia, sottolineando l’importanza sia della nutrizione sia dell’opportuna prescrizione dei chelanti del fosforo in considerazione del parziale controllo della iperfosforemia ottenibile mediante le tecniche dialitiche.
Il chelante “ideale” tuttora non esiste; tuttavia l’ ampia disponibilità di chelanti del fosforo consente di ottenere una terapia personalizzata cioè funzionale al singolo paziente. Questo contribuisce ad ottenere sia un miglior controllo della fosforemia con minori effetti collaterali sia di incrementare la aderenza (compliance) del paziente alla terapia chelante. La quantità di pillole prescritta dal medico al paziente è inversamente correlata all’aderenza terapeutica del paziente stesso. A rendere questo problema particolarmente importante è il peso enorme che ha la terapia chelante il fosforo sul carico di compresse assunto ogni giorno dai pazienti dializzati.
Negli ultimi anni è disponibile un chelante non contenente calcio l’ossidrossido sucroferrico, il cui potere legante il fosforo è molto elevato per cui si rende necessario prescrivere un numero limitato di pillole. Questa caratteristica dell’ossidrossido sucroferrico è stata confermata dagli studi controllati e randomizzati finora disponibili.
L’ossidrossido sucroferrico può rappresentare una alternativa terapeutica, in monoterapia e in associazione, nel trattamento dell’iperfosforemia. Studi sono in corso per verificare nella “real life” la incidenza di effetti collaterali gastroenterici evidenziati con l’ossidrossido sucroferrico.

Parole chiave: Fosforo; Chelante; Iperparatiroidismo secondario

Lo scenario attuale

Le alterazioni del metabolismo minerale, ed in particolare l’iperfosforemia, sono riconosciute oggi fattori di rischio importanti per l’incremento della morbilità e mortalità dei pazienti affetti da malattia renale cronica, sia durante le fasi iniziali che nelle fasi più avanzate di malattia (1, 2).  Il controllo del bilancio fosforico rappresenta pertanto un punto cardine nel trattamento di questi pazienti.

 

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Nuovi scenari nell’iperparatiroidismo secondario: etelcalcetide. Position Paper dei Nefrologi lombardi

Abstract

Le alterazioni del metabolismo minerale (oggi chiamate Chronic Kidney Disease Mineral Bone Disorder; CKD-MBD) sono prevalenti ed associate ad un significativo rischio di morbilità e mortalità nel soggetto con malattia renale cronica. Diversi lavori scientifici documentano come un numero considerevole di pazienti in trattamento emodialitico cronico non presentino un controllo ottimale dei parametri biochimici della CKD-MBD. Sebbene non vi siano ancora dimostrazioni conclusive sull’impatto sulla sopravvivenza delle diverse opzioni terapeutiche, un sempre maggiore numero di molecole sono e saranno disponibili per il controllo della CKD-MBD. In questo “position paper” dei Nefrologi Lombardi, viene fatta un’analisi dello stato dell’arte della CKD-MBD, dei bisogni ancora non soddisfatti e delle potenzialità di un nuovo calciomimetico iniettabile, etelcalcetide, farmaco da poco disponibile in Italia.

Parole chiave: iperparatiroidismo secondario, etelcalcetide, cinacalcet, CKD-MBD, PTH

Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (secondary hyperparathyroidismSHPT) è una frequente, grave e costosa complicanza dell’insufficienza renale cronica (Chronic Kidney DiseaseCKD), con effetti negativi sugli esiti dei pazienti, in particolar modo di quelli in emodialisi (13) (l’elenco delle abbreviazioni e degli acronimi con le spiegazioni è riportato in Tabella 1).

Nonostante i numerosi approcci terapeutici disponibili, una notevole percentuale di pazienti presenta livelli sierici inappropriati di paratormone (PTH), fosforo e calcio, con valori spesso lontani da quanto raccomandato dalle linee guida per il trattamento delle alterazioni del metabolismo minerale nella CKD (Chronic Kidney Disease Mineral Bone Disorder – CKD-MBD) (1, 46). Nello studio COSMOS (4), che analizza i dati di circa 4.500 soggetti afferenti a 227 centri dialisi europei, il 70% dei pazienti in dialisi aveva fosforemia superiore ai limiti normali e il 41% superiore a 5.5 mg/dl. Negli US, in base ai dati della rilevazione del 2015 del Dialysis Outcomes Practice Patterns Study (DOPPS), più del 60% dei pazienti prevalenti in emodialisi (in trattamento emodialitico per più di 180 giorni) presentava una fosforemia superiore a quanto raccomandato dalle linee guida sulla gestione della CKD-MBD  (6). Per quanto riguarda i livelli plasmatici di PTH, in base ai dati DOPPS, si è osservato, negli ultimi anni, un progressivo aumento dei livelli mediani sia in Europa che negli USA  (5). In particolare, nella rilevazione 2012-2014, più del 25% dei pazienti in trattamento in USA presentavano un quadro di SHPT mal controllato (definito come livelli di PTH >500 pg/ml)  (5). Oltre a descrivere l’adeguatezza terapeutica del SHPT in Italia ed a livello internazionale, i dati dello studio DOPPS riportano, nei pazienti in dialisi, un incremento del rischio di morte cardiovascolare e per tutte le cause associato con livelli sierici di calcio >10 mg/dl, livelli di fosforo >7 mg/dl, e livelli di PTH >600 pg/ml  (7), sottolineando come il controllo del SHPT e della CKD-MBD rappresenti un bisogno clinico ancora oggi insoddisfatto. 

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Update 2017 delle linee guida KDIGO sulla Chronic Kidney Disease–Mineral and Bone Disorder (CKD-MBD). Quali i reali cambiamenti?

Abstract

Linee guida per la valutazione, diagnosi e terapia delle alterazioni che caratterizzano la CKD-MBD sono un importante supporto nella pratica clinica dello specialista nefrologo. Rispetto alle linee guida KDIGO pubblicate nel 2009, l’aggiornamento del 2017 ha apportato delle modifiche su alcuni argomenti sui quali non vi era in precedenza una forte evidenza sia per quanto riguarda la diagnosi che la terapia. Le raccomandazioni includono la diagnosi delle anomalie ossee nella CKD-MBD e la terapia delle alterazioni del metabolismo minerale con particolare riguardo all’iperfosforemia, i livelli di calcemia, l’iperparatiroidismo secondario e alle terapie antiriassorbitive. Il Gruppo di Studio Italiano sul metabolismo minerale, nel riesaminare le raccomandazioni 2017, ha inteso valutare il peso delle evidenze che hanno portato a questo aggiornamento. In realtà su alcuni argomenti non vi è stata una sostanziale differenza sul grado di evidenza rispetto alle precedenti linee guida. Il Gruppo di Studio Italiano sottolinea i punti che possono ancora riservare criticità, anche di interpretazione, ed invita ad una valutazione che sia articolata e personalizzata per ciascun paziente.

Parole chiave: CKD-MBD, BMD, Biopsia Ossea, Calcemia, Fosforemia, Iperparatiroidismo Secondario

Introduzione

L’alterazione del metabolismo minerale è una condizione estremamente prevalente e complessa dal punto di vista fisiopatologico nel paziente con malattia renale cronica nei diversi stadi e dopo il trapianto.
Tale condizione si associa ad un elevato rischio di mortalità e morbilità cardiovascolare in questa popolazione di pazienti. L’individuazione di mezzi diagnostici (bioumorali e strumentali) che possono consentire di identificare lo specifico quadro clinico e la conseguente terapia rappresenta uno degli obiettivi più importanti per noi Nefrologi.
A tal fine già nel 2009 venivano prodotte le linee guida Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) per la valutazione, diagnosi, prevenzione e trattamento della CKD-MBD (1).
La recente pubblicazione di un Update 2017 delle linee guida KDIGO sulla CKD-MBD (2) è nata dalla necessità di aggiornare, in base agli studi randomizzati controllati e prospettici di coorte prodotti dopo la pubblicazione delle linee guida KDIGO 2009 (1), le raccomandazioni precedenti che mancavano in molti casi di evidenze di elevata qualità.
L’Update 2017 ha riguardato solo alcuni argomenti quali: la diagnosi delle anormalità nella CKD-MBD; il trattamento della CKD-MBD in termini di riduzione a target del fosfato e mantenimento della calcemia, trattamento delle anormalità del PTH, trattamento delle anormalità ossee con anti riassorbitivi ed altre terapie per l’osteoporosi; la valutazione e trattamento della malattia ossea nel trapianto renale (Tabella 1).

Il Gruppo di Studio Italiano sul metabolismo minerale ha inteso presentare un breve sunto delle recenti linee guida KDIGO sottolineando alcuni punti che possono riservare ancora criticità anche di interpretazione. 

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