La collagenosi perforante reattiva nel paziente emodializzato

Abstract

Il prurito associato alla malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease-associated Pruritus, CKD-aP) nell’emodialisi affligge circa il 38% dei nostri pazienti. Esso non è associato ad alcuna lesione dermatologica se non le comuni lesioni da grattamento, conseguenza dello stesso sintomo. Le cause associate al prurito sono state studiate in diverse trattazioni. Tuttavia, esiste una condizione relativamente rara che coinvolge il 10% dei pazienti emodializzati ovvero la collagenosi perforante reattiva. Questa è una condizione patologica secondaria alla terapia emodialitica cronica, dove si sviluppa un prurito diffuso associato ad una peculiare dermatosi reattiva con perforazione del derma e sviluppo di soluzioni di continuità dermo-epidermiche con estrusione di componenti della matrice dermica. In questo lavoro riporteremo una nostra esperienza con un caso diagnosticato di tale condizione.

Parole chiave: prurito, malattia renale cronica, dermatosi perforante, collagenosi perforante reattiva, emodialisi, emodiafiltrazione con reinfusione endogena

Epidemiologia e patogenesi del CKD-aP

Il prurito associato alla malattia renale cronica (CKD-aP) è definito come una sintomatologia pruriginosa direttamente correlata alla malattia renale cronica, non causato da altre eventuali condizioni patologiche concomitanti. Il CKD-aP possiede un’elevata variabilità clinica, rendendo la sua diagnosi difficoltosa. La severità di questa condizione può essere tale da compromettere notevolmente lo stile di vita dei pazienti affetti. Il sintomo potrà essere intermittente o persistente [1]. Questa è una caratteristica dei pazienti con Malattia renale cronica end-stage (ESRD) e tende a manifestarsi nei pazienti sia in terapia conservativa, indicando la progressiva necessità di ricorrere ad un trattamento sostitutivo, sia in terapia sostitutiva, legata ad una ridotta efficienza dialitica. Tuttavia, la persistenza del sintomo, nonostante il potenziamento della capacità depurativa dei trattamenti sostitutivi in alcuni pazienti, ha dimostrato la presenza di meccanismi patogenetici peculiari, determinati dalle alterazioni fisiopatologiche della malattia renale cronica.

In considerazione della vasta eterogeneità della sintomatologia pruriginosa e del mancato riferimento del sintomo da parte dei pazienti, l’epidemiologia del CKD-aP è in corso di definizione ed in costante aggiornamento.

Nei pazienti in terapia conservativa è stata valutata la prevalenza di tale condizione tramite uno studio osservazionale internazionale, il CKDopps (Chronic Kidney Disease  Outcomes and Practice Patterns Study), con un arruolamento di circa 3780 pazienti con malattia renale cronica (G3-G4-G5),  e successiva valutazione del sintomo tramite questionari multidimensionali autosomministrati per la valutazione della qualità di vita nella CKD, con riscontro di una prevalenza complessiva del 24% per pazienti affetti da prurito ad intensità moderata-severa, maggiormente presente nei pazienti con malattia renale cronica G5 [2-4]. 

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Inibitori dell’enzima prolil-idrossilasi del fattore inducibile da ipossia: una nuova terapia per l’anemia nei pazienti con insufficienza renale cronica

Abstract

L’anemia è una delle principali complicanze della malattia renale cronica (MRC). La sua prevalenza aumenta con l’avanzare dell’età e con la progressione della malattia renale. La principale causa di anemia legata alla MRC è rappresentata dalla riduzione della produzione di eritropoietina. L’aumento del rischio cardiovascolare e della mortalità è strettamente associato alla presenza di anemia, incrementando con la severità del quadro anemico, come descritto in numerosi studi. Le principali terapie per il controllo dell’anemia sono state rappresentate fino ad ora dalla supplementazione di ferro, dall’utilizzo di eritropoietina sintetica e dalle emotrasfusioni. Nonostante la disponibilità di terapie adeguate, la prevalenza dell’anemia nella MRC continua ad essere significativa. I farmaci inibitori dell’enzima prolil-idrossilasi del fattore inducibile dall’ipossia (HIF-PHi), sono in grado di mimare una condizione di ipossia e aumentare la produzione di eritropoietina endogena. Gli HIF-PHi rappresentano quindi una importante alternativa terapeutica per il controllo dell’anemia legata alla MRC. Numerosi studi hanno confermato la capacità di HIF-PHi di correggere l’anemia e mantenere l’emoglobina su valori adeguati; inoltre hanno evidenziato altri potenziali benefici fattori pleiotropici sul controllo del colesterolo e sull’omeostasi del ferro. Sono necessari ulteriori studi per confermare la sicurezza del farmaco, soprattutto riguardo a rischio cardiovascolare, trombosi vascolare e stimolo neoplastico. In questo articolo vengono presentati il meccanismo d’azione, gli effetti e le caratteristiche farmacologiche degli HIF-PHi.

Parole chiave: anemia, malattia renale cronica, HIF, roxadustat

Introduzione

L’anemia è una delle complicanze della malattia renale cronica (MRC). La sua prevalenza nei pazienti affetti da MRC è il doppio rispetto alla popolazione generale, e aumenta con la progressione della MRC, colpendo fino all’85-95% dei pazienti in dialisi [1-4]. Lo sviluppo di anemia espone i pazienti affetti da MRC a un aumentato rischio di complicanze, tra cui eventi cardiovascolari (CV), mortalità CV e per tutte le cause, progressione della malattia renale e ospedalizzazioni [5-8]. Inoltre, indipendentemente dallo stadio di MRC e dalle comorbidità, i sintomi dell’anemia possono portare a una riduzione delle attività fisiche, sociali e lavorative, e avere un impatto negativo sulla qualità della vita dei pazienti [9, 10].

Per lungo tempo, le principali opzioni terapeutiche per la gestione dell’anemia nella MRC consistevano nella supplementazione di ferro, l’utilizzo di agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), e la terapia trasfusionale [11]. Tuttavia, nonostante la sua prevalenza e le sue significative conseguenze, alcuni studi hanno mostrato che l’anemia è un problema sotto-diagnosticato e sotto-trattato nei pazienti con MRC [4, 12, 13], possibilmente a causa dei costi degli ESA, ai problemi legati alla loro somministrazione per via parenterale, e alle controversie sui livelli target di emoglobina da ottenere con il trattamento [11].

Recentemente, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) hanno approvato l’utilizzo degli inibitori dell’enzima inibitore della prolil-idrossilasi del fattore inducibile da ipossia (HIF-PHi) come alternativa agli agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA) per il trattamento dell’anemia nella MRC [14]. Ad oggi la classe di farmaci HIF-PHi comprende sei molecole: roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat, ed enarodustat. In Italia, l’unica molecola attualmente disponibile è il roxadustat (Evrenzo®), mentre daprodustat e vadadustat sono tra i medicinali in valutazione da parte di EMA nel 2023 [15]. Questa revisione riassume il meccanismo di azione degli HIF-PHi, i risultati dei principali studi clinici sulla loro sicurezza ed efficacia, e il loro ruolo nella gestione dell’anemia nei pazienti affetti da MRC.

 

Meccanismo d’azione

Il fattore inducibile dall’ipossia (HIF) è un fattore di trascrizione presente in tutte le cellule del corpo umano e responsabile della risposta adattativa in caso di diminuzione dell’ossigeno disponibile nell’ambiente cellulare. È un eterodimero composto da una subunità α (HIF-1α o HIF-2α) altamente inducibile dall’ipossia e una subunità β costituiva (HIF-1β) [16]. Tale complesso è regolato da un complesso di enzimi inibitori della idrossilazione prolinica (PH) che, in presenza di ossigeno, idrossilano HIF-α indirizzandolo alla degradazione proteasomica. Viceversa, in condizioni di ipossia, l’attività degli enzimi PH viene soppressa e HIF-α sfugge alla degradazione proteasomica, trasloca nel nucleo cellulare e si lega ad HIF-1β, formando l’eterodimero che attiva la trascrizione dei geni bersaglio [17-19] (Figura 1).

I principali effetti di questa attivazione riguardano l’eritropoiesi e il metabolismo del ferro [20, 21]. Infatti, le cellule renali deputate alla produzione di eritropoietina (EPO) si trovano nell’interstizio peri-tubulare in una zona relativamente ipossica, dove anche lievi diminuzioni del contenuto di ossigeno possono attivare il sistema HIF, con conseguente induzione della trascrizione genica e aumento della sintesi di EPO [22-24]. Oltre ad incrementare i livelli circolanti di EPO, l’attivazione del sistema HIF porta all’aumento dei recettori dell’EPO, con conseguente aumento dell’internalizzazione del ferro da parte dei proeritrociti e promozione della maturazione degli eritrociti [24]. A livello intestinale, l’attivazione del sistema HIF aumenta l’espressione del citocromo B duodenale (DCYTB), enzima responsabile della riduzione del ferro trivalente a bivalente, e del trasportatore di metalli bivalenti (DMTI), responsabile del trasporto del ferro bivalente dal lume intestinale all’interno dell’enterocita [23]. Infine, a livello epatico l’attivazione del sistema HIF inibisce la sintesi di epcidina, ormone che riduce la biodisponibilità del ferro intrappolandolo negli enterociti e nelle cellule del sistema reticoloendoteliale, solitamente elevato nei pazienti affetti da MRC a causa dell’uremia e dell’infiammazione cronica [25].

In questo sistema, gli inibitori di HIF-PH, anche detti stabilizzatori di HIF, agiscono inibendo la degradazione proteosomica di HIFα, anche in assenza di ipossia, e portano all’attivazione del sistema HIF con conseguente stimolazione dell’eritropoiesi e promozione dell’assorbimento e dell’utilizzo del ferro [26-28].

 

Utilizzo degli HIF-PHi nella gestione dell’anemia da MRC

Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia degli HIF-PHi nel correggere e mantenere i livelli di emoglobina nei pazienti affetti da MRC sia in fase pre-dialitica, sia in pazienti dializzati.

Nei malati con MRC non ancora in dialisi, sia roxadustat che daprodustat si sono rivelati superiori al placebo nel raggiungere e mantenere i livelli di emoglobina entro i target (10-12 g/dL o 11-12 g/dL a seconda degli studi) nel lungo termine (fino a 4 anni), riducendo la necessità di emotrasfusioni o di terapia con ESA [29-33]. In particolare, una metanalisi sui risultati degli studi ALPS [32], ANDES [30] e OLYMPUS [31] ha mostrato un aumento dell’emoglobina nei pazienti trattati con roxadustat di 1.9 g/dL, rispetto all’aumento di 0.2 g/dL nel gruppo placebo [34]. Oltre che la loro efficacia rispetto al placebo, diversi studi clinici hanno convalidato la non inferiorità degli HIF-PHi rispetto agli ESA nel migliorare e mantenere i livelli di emoglobina entro i target, sia nei pazienti che erano già in terapia con ESA, sia nei pazienti ESA-naive [35-42]. Inoltre, in alcuni di questi studi si è osservato addirittura un aumento molto rapido dell’emoglobina in corso di terapia con HIF-PHi, tale da richiedere un aggiustamento precoce della posologia [39, 41, 43].

Anche negli studi su pazienti con MRC in dialisi, la terapia con HIF-PHi ha mostrato un’efficacia non inferiore alla terapia con ESA nella correzione e nel mantenimento dei valori di emoglobina, sia nei pazienti che iniziano la dialisi [43-47] che nei pazienti prevalenti [33, 37, 38, 45, 46, 48-52]. Tuttavia, è da segnalare che in alcuni di questi studi i pazienti randomizzati a HIF-PHi hanno avuto maggior bisogno di “terapia di salvataggio” con emotrasfusioni o somministrazione di ESA [37, 44, 45, 50].

 

Altri effetti benefici associati all’utilizzo di HIF-PHi

Dagli studi clinici effettuati, l’utilizzo di HIF-PHi si è dimostrato associato anche ad ulteriori effetti benefici, oltre alla correzione dell’anemia e al mantenimento dei livelli di emoglobina entro i target. Tra questi sono stati descritti effetti sull’omeostasi del ferro, l’infiammazione, il metabolismo lipidico, la progressione di malattia renale e la qualità di vita.

Riguardo all’omeostasi del ferro, la terapia con HIF-PHi ha mostrato un mantenimento dei livelli di sideremia e una riduzione dei livelli di ferritina maggiore rispetto al placebo [30, 31, 33] e simile o talvolta maggiore rispetto a quella osservata nei pazienti trattati con ESA [36-39, 41, 43-51, 53], secondaria all’aumento dell’eritropoiesi e della mobilizzazione del ferro. Inoltre, i pazienti trattati con HIF-PHi hanno mostrato una maggiore riduzione dei livelli di epcidina sia rispetto ai pazienti trattati con placebo [30], che rispetto ai pazienti trattati con ESA [33, 36-39, 41-47, 49-53]. Minori livelli di epcidina consentono un maggior assorbimento di ferro dall’intestino e una maggior mobilitazione del ferro dal sistema reticolo-endoteliale, rendendolo più disponibile per l’eritropoiesi. Infatti, in alcuni studi l’utilizzo di HIF-PHi si è anche associato a una minore necessità di supplementazione marziale per via endovenosa sia rispetto al placebo [30] sia rispetto alla terapia con ESA [36, 38, 42, 44-47, 50-53], anche se questo dato non è emerso in maniera uniforme in tutti gli studi.

Nonostante la presenza di infiammazione possa generalmente peggiorare il quadro di anemia, l’efficacia della terapia con HIF-PHi si è mantenuta costante anche in presenza di livelli elevati di proteina C reattiva (PCR) [30, 35, 37, 42, 44, 46, 47, 49, 50, 53]. Inoltre, tra i pazienti con PCR elevata, quelli trattati con HIF-PHi hanno mostrato una risposta emoglobinica superiore a quelli trattati con ESA [33, 45], o una risposta simile ma con necessità di incremento della posologia nei pazienti trattati ESA [44, 46, 52]. Questi dati suggeriscono un possibile ruolo della terapia con HIF-PHi nei casi di iporesponsività agli ESA nel contesto di quadri infiammatori, ma vanno interpretati con cautela perché i pazienti con stato infiammatorio cronico sono stati esclusi dalla maggioranza degli studi clinici condotti finora.

L’utilizzo di HIF-PHi ha mostrato degli effetti vantaggiosi anche dal punto di vista del metabolismo lipidico. Infatti, in diversi studi si è osservata una significativa riduzione delle lipoproteine a bassa densità (LDL) e un aumento delle lipoproteine ad alta densità (HDL) nei pazienti trattati con HIF-PHi rispetto a placebo o a ESA [30, 33, 36, 39, 43-46, 50, 53]. In particolare, nella metanalisi condotta da Provenzano et al. nei pazienti trattati con roxadustat si è osservata una riduzione dei valori di LDL di -17.3 mg/dL rispetto a +2.6 mg/dL nel gruppo placebo [35]. Questo fenomeno è verosimilmente dovuto all’effetto di HIF sul metabolismo glico-lipidico. Infatti, in presenza di ipossia il sistema HIF riduce il consumo mitocondriale di ossigeno inducendo l’espressione di enzimi glicolitici e inibendo l’espressione dell’acetil coenzima A, riducendo quindi collateralmente la sintesi del colesterolo [53].

Alcuni studi sperimentali hanno evidenziato che il sistema HIF svolge un ruolo regolatore anche nella riparazione del danno renale, modulando la guarigione fibrotica del parenchima renale dopo danno ischemico che porterebbe ad una riparazione incompleta ed allo sviluppo e alla progressione della malattia renale cronica [54]. Queste evidenze hanno fatto ipotizzare che l’utilizzo di HIF-PHi potrebbe regolare la risposta fibrotica e avere un’azione nefroprotettiva. Tuttavia, i risultati degli studi clinici sono disomogenei riguardo al dato di progressione di malattia renale. Infatti, la maggior parte degli studi che hanno valutato l’andamento del filtrato renale non hanno dimostrato un rallentamento della progressione di MRC con HIF-PHi rispetto alla terapia con placebo ed ESA [31, 32, 38, 40]. Solo lo studio SYMPHONY-ND [37] ha mostrato un tasso più lento di declino dell’eGFR nei pazienti trattati con enarodustat rispetto a quelli trattati con darbepoetina nell’arco di 24 settimane, con una variazione media dell’eGFR di -0.28 ml/min/1.73m2 rispetto a -1.57 ml/min/1.73m2. Al contrario, nello studio MIYABI ND-C [55], il gruppo di pazienti trattati con molidustat ha mostrato un’incidenza di declino della funzione renale lievemente maggiore rispetto al gruppo di pazienti trattati con darbepoetina (19.5% vs 11.4%). Per chiarire il possibile effetto nefroprotettivo degli HIF-PHi sono quindi necessari ulteriori studi, possibilmente disegnati con l’obiettivo primario di valutare la progressione del danno renale.

Risultati contrastanti si sono ottenuti anche in merito all’impatto dell’utilizzo degli HIF-PHi sulla qualità di vita correlata alla salute (HRQoL). Tra gli studi di comparazione tra HIF-PHi e placebo, solo lo studio ASCEND-NHQ [34] ha riportato un aumento del punteggio di vitalità SF-36 nei pazienti trattati con daprodustat rispetto al gruppo placebo (7.3 rispetto a 1.9 punti), mentre altri studi non hanno evidenziato cambiamenti nei parametri di HRQoL [30-32]. Allo stesso modo, negli studi di comparazione tra HIF-PHi ed ESA, solo nello studio PYRENEES [50] si è osservato un miglioramento della HRQoL nei pazienti trattati con roxadustat rispetto ad ESA, mentre i due trattamenti risultavano simili in altri studi [36, 53].

 

Sicurezza della terapia con HIF-PHi

Per quanto riguarda il profilo di sicurezza di tali farmaci e l’insorgenza di possibili effetti collaterali, negli studi comparativi con placebo l’incidenza di eventi avversi è risultata simile tra placebo e HIF-PHi e il tasso di sospensione della terapia a causa di eventi avversi è stato superiore nei gruppi placebo [30, 31, 33, 34]. Anche negli studi con comparatore attivo l’incidenza complessiva di eventi avversi è stata simile nei due bracci di trattamento, sebbene nei gruppi di pazienti trattati con HIF-PHi di sia osservata una maggior incidenza di disturbi gastrointestinali [32, 44, 49, 50, 53, 56] e una maggiore probabilità di ritirarsi dallo studio a causa di eventi avversi [33, 36, 37, 40, 41, 45-47, 50, 52, 53]. In particolare, gli studi condotti finora hanno indagato la sicurezza degli HIF-PHi per quanto concerne il rischio di mortalità da tutte le cause, mortalità da cause CV, incidenza di eventi CV, eventi trombotici, neoplasie, retinopatia e ipertensione arteriosa.

Per quanto riguarda il rischio di mortalità, la terapia con HIF-PHi non ha comportato maggior rischio in nessuno degli studi clinici, e questo dato è stato confermato anche da tre metanalisi che hanno analizzato congiuntamente i dati degli studi clinici disponibili [35, 57, 58].

Evidenze riguardo a un maggior rischio di eventi cerebrovascolari e tromboembolici nei pazienti con policitemia dovuta a mutazioni genetiche del sistema HIF [27], nonché a una maggiore accelerazione della calcificazione vascolare in corso di attivazione del sistema HIF [11], hanno fatto emergere dei leciti dubbi sulla sicurezza CV della terapia con HIF-PHi. Tuttavia, la maggior parte degli studi di fase 3 dimostrano una non inferiorità della terapia con HIF-PHi rispetto sia al placebo che alla terapia con ESA per quanto concerne l’insorgenza di eventi CV [31, 35, 36, 38, 44-46, 48, 50, 60]. Successivamente, una metanalisi di otto studi clinici comprendenti 3839 pazienti con MRC in dialisi e 4406 con MRC non ancora in dialisi, ha mostrato un’incidenza di eventi avversi CV maggiori (MACE) significativamente minore nei pazienti trattati con daprodustat rispetto a ESA (RR 0.89, IC al 95% 0.89-0.98) nei pazienti dializzati, ma non nella coorte di pazienti con MRC in terapia conservativa [59]. Questo dato però non si è confermato in altre metanalisi che non hanno osservato differenze significative, come quella che ha confrontato daprodustat con ESA in tre studi giapponesi condotti su pazienti con dializzati e non [60], e il lavoro condotto da Xiong et al. che ha confrontato vadadustat con placebo (4 studi) o darbepoetina alfa (6 studi) in pazienti dializzati e non [58]. Al contrario, negli studi PRO2TECT [40] e MIYABI ND-C [42] i pazienti non dializzati trattati con HIF-PHi hanno mostrato un rischio più elevato di MACE rispetto ai pazienti trattati con darbepoetina alfa. Tuttavia, nel primo studio questa differenza risultava principalmente determinata dal sottogruppo di pazienti con un target di emoglobina più elevato (10-12 g/dL rispetto a 10-11 g/dL), così come potrebbe essere spiegata nel secondo studio in cui il target di emoglobina preposto era di 11-13 g/dL. I risultati sono quindi eterogeni, e ulteriori studi sono necessari per valutare in modo mirato il rischio di eventi CV sulla base del tipo di terapia, della comorbidità e dei livelli di emoglobina ed ematocrito.

Particolare attenzione va posta sul rischio di eventi trombotici. Infatti, alcuni studi e metanalisi hanno mostrato che la terapia con HIF-PHi può associarsi a un aumento di rischio di trombosi dell’accesso arterovenoso [35, 38, 44-46], trombosi venosa profonda [35, 45, 61] e tromboembolia polmonare [35]. Tuttavia, questi dati non si sono confermati in altri studi e metanalisi che hanno riscontrato tassi di eventi tromboembolici simili o addirittura inferiori in corso di terapia HIF-PHi rispetto ad ESA [33, 49, 51].

Alcuni studi hanno anche analizzato eventuali associazioni dell’utilizzo di HIF-PHi con il rischio di eventi neoplastici. Infatti, l’attivazione del sistema HIF può portare all’espressione di fattori con potenziale effetto pro-oncogenico, come il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF) [27]. Finora, solo due studi hanno mostrato dati che supportano tale associazione. Nello studio ASCEND-ND [38] il rischio di esiti correlati a neoplasia (comprensivi di morte per tumore o progressione o recidiva del tumore) era più alto nei pazienti trattati con daprodustat rispetto a quelli trattati con ESA (RR 1.47; IC 95% 1.03-2.10). Nello studio MIYABI HD-M [37] si è registrata una maggiore incidenza di neoplasie nel braccio molidustat rispetto a darbepoetina (9.8 rispetto a 5.3%). Tuttavia, né la metanalisi condotta da Provenzano et al. sui pazienti con MRC non in dialisi randomizzati a roxadustat o placebo, né quella condotta da Nangaku et al. su pazienti con MRC dializzati e non, randomizzati a daprodustat o ESA, hanno confermato l’aumentato rischio per neoplasie maligne o eventi correlati [35].

È stato anche ipotizzato che l’effetto di neovascolarizzazione indotto dall’attivazione di HIF-PHi, e verosimilmente mediato da VEGF, peggiori alcune patologie oculari, come la retinopatia diabetica [11, 27]. Anche a questo riguardo, i risultati degli studi a disposizione sono contrastanti. Da un lato gli studi SYMPHONY-ND [37], SYMPHONY-HD [49], MIYABI HD-M [37] e ASCEND-ID [48] hanno evidenziato un aumento degli eventi avversi oculari nei pazienti trattati con HIF-PHi. Viceversa, altri studi e metanalisi non hanno rilevato differenze nel rischio di eventi oculari né aggravamento di malattie retiniche pre-esistenti [37, 39, 41].

Così come per l’utilizzo di ESA, anche la terapia con HIF-PHi sembra associarsi a una maggiore incidenza di ipertensione arteriosa rispetto al placebo, come evidenziato dalla metanalisi di Provenzano et al. (RR 1.37; IC 95% 1.13-1.65) [35]. Infatti, nella maggior parte degli studi comparativi di HIF-PHi ed ESA non si sono osservate significative differenze nello sviluppo di ipertensione, né nei pazienti con MRC in terapia conservativa né in dialisi [37, 38, 40, 43, 44, 46, 49, 50, 52]. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono un effetto benefico dell’utilizzo di HIF-PHi rispetto all’ESA dimostrato da una minore richiesta di titolazione della terapia antipertensiva, il che sarebbe coerente con un possibile effetto di riduzione della pressione arteriosa da parte degli HIF-PHi come sembrava emergere dai precedenti studi di fase 2 [33, 39, 41, 51-53].

 

Conclusioni e prospettive future

Gli HIF-PHi offrono un nuovo approccio farmacologico efficace per la correzione dell’anemia in corso di MRC. Tuttavia, il sistema HIF è ubiquitario e svolge diverse funzioni, ancora non del tutto conosciute. Quindi oltre alla correzione dell’anemia, la stabilizzazione del sistema HIF media anche una serie di percorsi metabolici e di espressione genica con alcuni effetti favorevoli, ma anche sfavorevoli. Tra gli altri effetti benefici si annoverano la migliore biodisponibilità delle riserve di ferro e la riduzione dei livelli di colesterolo (sebbene non sia ancora noto se questo possa avere un impatto sul rischio CV). Inoltre, gli HIF-PHi potrebbero avere un ruolo nefroprotettivo nei confronti del danno renale ipossico, ma ulteriori studi sono necessari per testare questa ipotesi. Tra i possibili svantaggi dell’utilizzo di questi farmaci vanno invece annoverati il rischio di una maggior incidenza di eventi CV, tromboembolici, retinici e tumorali. Sebbene siano stati pubblicati diversi ampi studi di fase 3, questi valutano gli eventi avversi in un numero relativamente limitato di pazienti e in un periodo di trattamento relativamente breve (52-104 settimane), e ulteriori evidenze emergeranno con il loro progressivo utilizzo nel lungo termine. Inoltre, alcuni gruppi specifici di pazienti, tra cui i pazienti trapiantati, quelli con gravi malattie CV, e quelli con malattie infiammatorie, sono stati esclusi dagli studi clinici di fase 3 ad oggi disponibili e l’efficacia e sicurezza dell’utilizzo di HIF-PHi in queste popolazioni devono ancora essere verificati.

Regolazione dell’attività di HIF-1 in condizioni di normossia e ipossia.
Figura 1. Regolazione dell’attività di HIF-1 in condizioni di normossia e ipossia. Abbrev: PHDs: prolil-idrossilasi; pVHL: proteina Von Hippel Lindau; OH: proline idrossilate; HRE: elementi di risposta all’ipossia; Ub: ubiquitina; CBP: proteina legante gli elementi di risposta dell’adenosina monofosfato ciclico.

 

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Quasi quarant’anni di terapia eritropoietinica: successi e limiti

Abstract

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica; se severa e non trattata comporta un peggioramento della qualità della vita e un aumentato rischio di ricorrere a emotrasfusioni.
Partendo dagli studi di fisiopatologia iniziati alla fine dell’Ottocento e poi proseguiti nel XX secolo, si è arrivati prima all’identificazione dell’eritropoietina, poi alla sua purificazione, identificazione del gene coinvolto e infine alla sintesi dell’eritropoietina ricombinante umana e dei suoi analoghi “long-acting”.
Oggi la terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), spesso in associazione alla terapia marziale, rappresenta lo standard di cura dei pazienti con malattia renale cronica e anemia. Recentemente agli ESA si sono aggiuntigli inibitori della HIF-PHD. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.
Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA e HIF-PHD deve essere personalizzata sia in termine di target di emoglobina, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

Parole chiave: anemia, malattia renale cronica, eritropoietina, agenti stimolanti l’eritropoiesi malattia cardiovascolare, inibitori della HIF-PHD

Introduzione

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica (MRC). Essa è una condizione multifattoriale, determinata principalmente da una carenza relativa di eritropoietina dai reni malati rispetto al grado di anemia. Oltre a ciò, è spesso presente una carenza marziale, relativa o assoluta, e uno stato infiammatorio cronico che contribuisce a un ridotto assorbimento intestinale di ferro e al sequestro dei depositi marziali e a una ridotta sensibilità del midollo osseo allo stimolo eritropoietico, sia esso endogeno o esogeno. Infine, diversi dati in letteratura hanno evidenziato la presenza di una ridotta sopravvivenza eritrocitaria, il contributo negativo di un aumento dello stress ossidativo, dell’iperparatiroidismo secondario, se di grado severo e dell’accumulo di tossine uremiche aggravato dai pazienti in dialisi da una dose dialitica insufficiente. Inoltre, nei pazienti in emodialisi, contribuiscono alla carenza marziale le perdite di sangue che rimane sequestrato nelle linee e filtri di dialisi dopo la reinfusione al termine della seduta dialitica. Infine, sono da considerare i frequenti prelievi ematici, le aumentate perdite gastro-intestinali, molto frequenti e spesso occulte nei pazienti con MRC, specialmente in emodialisi, la frequente malnutrizione, spesso severa, la carenza di folati e vitamina B12 e le frequenti neoplasie.

La comparsa di anemia è influenzata dalla severità della MRC; si stima che circa l’80% dei pazienti in dialisi nei sia affetto, con la conseguente necessità di ricevere una terapia con agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA) e/o ferro.

Si parla di anemia quando i valori di emoglobina (Hb) scendono al di sotto del limite di normalità definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In particolare, nei pazienti con MRC si parla di anemia nei soggetti con concentrazione di Hb <13.0 g/dL negli uomini e <12.0 g/dL nelle donne [1].

In ambito nefrologico è ancora oggetto di dibattito quando e se l’anemia non di grado severo debba essere trattata. I dati di numerosi studi osservazionali hanno evidenziato con chiarezza che i pazienti con valori di Hb normali in assenza di terapia hanno la prognosi migliore. D’atra parte, una lieve anemia nella MRC viene considerata quasi parafisiologica e in parte protettiva dal rischio di trombosi o eventi cardiovascolari. Al contrario, la presenza di anemia severa si associa ad un aumento della mortalità cardiovascolare o da tutte le cause, del rischio di ospedalizzazione e della necessità di dovere ricorrere a emotrasfusioni. Sappiamo inoltre che l’anemia, quando severa, può peggiorare in modo significativo la qualità della vita e contribuire alla comparsa di cardiopatia.

Oggi gli ESA e la terapia marziale rappresentano il “gold standard” della terapia dell’anemia nella MRC. Ad esse si sono aggiunti solo da poco tempo gli inibitori della HIF-PHD [2]. Quest’ultimi si differenziano dagli ESA perché stimolano la produzione dell’eritropoietina endogena, sono somministrati per via orale e non parenterale, non necessitano della conservazione in frigorifero, potrebbero essere più efficaci nei pazienti infiammati e, infine, potrebbero aumentare l’assorbimento del ferro e la sua disponibilità dai siti di deposito.

 

La scoperta dell’eritropoietina

La storia dell’eritropoietina ha origine agli inizi del secolo scorso (1905), quando Carnot e Deflandre ipotizzarono l’esistenza di un fattor umorale, capace di regolare la sintesi dei globuli rossi. Trent’anni dopo (1936), Hjort dimostrò e confermò l’esistenza di questo fattore.

Negli anni ’50, Erslev dimostrò che la trasfusione di grandi quantità di plasma da ratti anemici in ratti normali determinava un aumento significativo dei reticolociti e, a seguire, dell’ematocrito [3]. L’EPO umana è stata infine purificata per la prima volta nel 1977 dalle urine di un paziente affetto da anemia aplastica [4]; il suo gene è stato poi clonato nel 1984 con la tecnica del DNA ricombinante [5, 6]. Veniva presto notato che l’eritropoietina ottenuta dal lievito o da Escherichia coli aveva una debole attività o era inefficace, mentre quella prodotta dal criceto cinese aveva un’attività nettamente superiore, a causa di differenti pattern di glicosilazione. Fu proprio quest’ultima modalità che venne scelta per lo sviluppo clinico dell’eritropoietina ricombinante umana (HuEPO) per la cura dell’anemia.

L’introduzione della rHuEPO nella pratica clinica alla fine degli anni ’80 ha rappresentato un’importante svolta nel trattamento dell’anemia dei pazienti con MRC. L’epoetina alfa, la prima a essere stata introdotta, è una glicoproteina di 34000 dalton, composta, come l’ormone nativo, da 165 aminoacidi. La parte proteica rappresenta il 60% del peso della molecola, mentre la componente polisaccaridica ne rappresenta il 40%. Sono inoltre presenti siti di glicosilazione che determinano una struttura globulare compatta contenente quattro alfa eliche.

 

Dagli albori della terapia con eritropoietina alla ricerca del target di emoglobina ottimale

Negli anni ’60 i pazienti con MRC si presentavano con sintomi di estrema stanchezza, dovuti alla severa anemia, associata ad una progressiva ritenzione di tossine uremiche. In quegli anni, il trattamento dell’anemia risultava complicato e molto insoddisfacente, ed erano spesso necessarie ripetute trasfusioni per consentire una correzione dell’anemia che, tuttavia, era solo in grado di consentire una sopravvivenza, ma era associata ad una pessima qualità di vita. Inoltre, le necessarie periodiche trasfusioni comportavano un elevato rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e causavano enorme accumulo di ferro nel reticolo-endotelio, fegato compreso. Il ferro accumulato doveva a sua volta essere rimosso, per evitare i danni d’organo da eccessivo accumulo. Tuttavia, i chelanti del ferro, a base di desferriossamina, erano gravati da serie complicanze come la mucoviscidosi.

La pubblicazione del lavoro di Eschbach quasi 40 anni fa [7], relativo al trattamento dell’anemia con gli ESA, ha rivoluzionato la qualità̀ della vita dei pazienti con MRC. Si può quindi immaginare l’enorme entusiasmo con cui fu accolta da medici, infermieri e poi soprattutto dai pazienti, la possibilità di poter utilizzare l’eritropoietina ricombinante per il trattamento dell’anemia renale, in una prima fase per i soli pazienti in dialisi, ma successivamente anche per i pazienti in terapia conservativa. Pazienti che a malapena sopravvivevano con livelli di Hb anche inferiori a 5 g/dl, con una stanchezza indicibile e con innumerevoli sintomi, allora attribuiti all’intossicazione uremica, tornavano a vivere, vedendo sparire, o almeno drasticamente ridursi molti dei loro sintomi. Un’iniezione di eritropoietina nelle linee dei filtri di dialisi, 3 volte alla settimana, bastava a procurare ai pazienti un recupero di relativo benessere, comunque incomparabile rispetto alla situazione clinica precedente.

Un’intuizione ad utilizzare la somministrazione sottocute del farmaco anziché endovenosa, facilitò l’estensione dell’uso del farmaco anche ai pazienti in terapia conservativa, in dialisi peritoneale e successivamente anche ai trapiantati di rene, qualora la loro funzione renale si fosse deteriorata. La somministrazione sottocute evidenziò anche un altro vantaggio, per via di una più bassa concentrazione ematica dell’eritropoietina (alti dosaggi, come noto, sono potenzialmente associati a danneggiamento dell’endotelio dei vasi sanguigni) ed una più prolungata persistenza in circolo, consentendo la riduzione della frequenza di somministrazione a due ed anche una sola volta alla settimana, oltretutto con un risparmio del 30% della dose [8]. Tutto questo ha portato ad un radicale cambio di paradigma rispetto a quanto si era fatto sino ad allora. Era, infatti, necessaria una contemporanea somministrazione di ferro, non solo per la nota frequente carenza di ferro nei pazienti con MRC che non ricevevano più trasfusioni, perché non più necessarie, ma anche per la necessità di avere ferro sufficiente per produrre un’ulteriore quantità di globuli rossi per mantenere gli adeguati livelli di Hb, consentiti dal trattamento con eritropoietina.

Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti, che si arrivò ad una correzione troppo rapida ed eccessiva dei valori di Hb, con conseguenti complicanze, come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni. Oggi si usa più cautela rispetto a quegli anni e i rialzi pressori sono spesso impercettibili, in quanto la correzione dell’anemia inizia gradualmente ed a livelli di Hb solitamente non inferiori a 10 g/dL, per raggiungere e mantenere un target di 10-12 g/dL, come suggerito dal “position statement” pubblicato sull’argomento dalla European Renal Best Practice (ERBP) [9].

Non c’è dubbio quindi che gli ESA siano farmaci efficaci, in grado di correggere l’anemia e mantenere adeguati livelli di Hb nella maggioranza dei pazienti con CKD, migliorando il loro senso di fatica e, più in generale, la loro qualità̀ di vita, riducendo drasticamente la necessità trasfusionale, vantaggio non da poco, anche in previsione di un eventuale successivo trapianto. Inoltre, gli studi osservazionali hanno evidenziato una chiara associazione positiva tra livelli di Hb e sopravvivenza, suggerendo l’esecuzione di trial randomizzati, con l’intento di dimostrare i vantaggi di una completa normalizzazione dei livelli di Hb. Ma i risultati hanno deluso le notevoli aspettative. Un trial randomizzato con pazienti in dialisi [10] e ben tre trial randomizzati con pazienti in fase conservativa [11-13], tra cui molti diabetici (20% nel CREATE [11], 50% nel CHOIR [12] e 100% nel TREAT [13]), hanno complessivamente dimostrato che l’uso degli ESA, con l’intento di raggiungere livelli di Hb più̀ elevati rispetto alla pratica clinica di allora, poteva avere un effetto neutro o addirittura aumentare il rischio di morte o eventi cardiovascolari.

Molto interessante è stata l’osservazione che l’aumento del rischio di complicanze si verificava soprattutto nei pazienti che non erano in grado di raggiungere i target di Hb prefissati dai trial, indipendentemente dal fatto che fosse il target più̀ alto o più̀ basso, nonostante (o forse anche per questo) l’uso di dosaggi elevati di ESA per cercare di raggiungere i target. È stato quindi ipotizzato che l’ipo-responsività agli ESA e, di conseguenza l’uso di dosi elevate di ESA, fossero fattori prognostici negativi più̀ significativi rispetto al raggiungimento di valori di Hb più elevati [14, 15]. Preoccupante era anche il rischio d’insorgenza di neoplasia o la progressione di un’eventuale neoplasia già̀ in essere [13]. D’altra parte, cercare di raggiungere valori di Hb più̀ elevati non aveva prodotto un chiaro e clinicamente significativo miglioramento della qualità̀ della vita (anche se una rianalisi dei dati dello studio TREAT ha mostrato un significativo miglioramento [16]). Di conseguenza le linee-guida internazionali (KDIGO [1], ERBP [9], NICE [17], KDOQI [18] e CARI [19]) sono state tutte concordi nel suggerire un approccio cauto, bilanciando i pro e i contro del trattamento in modo personalizzato e correggendo solo parzialmente l’anemia con gli ESA. In Europa si suggerisce un valore target di Hb compreso tra 10 g/dL e 12 g/dL [9], mentre le linee-guida KDIGO [1] e KDOQI [18] hanno un atteggiamento più conservativo, suggerendo valori di Hb <10 g/dL per iniziare il trattamento con ESA e la sospensione della terapia nei pazienti in fase conservativa o in dialisi la cui Hb superi 11,5 g/dL. Vi è, comunque, comune accordo che non si debba intenzionalmente cercare di raggiungere intenzionalmente valori di Hb >13 g/dL.

Nel valutare le scelte non uniformi dei target di Hb, vale la pena ricordare che la pubblicazione di questi trial è stata contemporanea al cambiamento della politica di rimborso del trattamento dialitico negli Stati Uniti, applicando il “bundle” (tutto incluso). Il rimborso dell’ESA è ora incluso nella tariffa forfettaria per il rimborso del costo del trattamento del paziente con CKD in dialisi, provocando una possibile influenza economica sulle indicazioni al trattamento, dosi da usare e target da raggiungere. L’introduzione del “bundle” ha fatto sì che trattare il paziente con ESA si traducesse in una perdita economica per la struttura, a causa del costo del farmaco, senza rimborso aggiuntivo.

 

Indicazioni attuali alla terapia con ESA sull’inizio della terapia

Il trattamento con ESA deve essere avviato dopo avere appurato la presenza di adeguate riserve marziali, vitaminiche ed esclusa la presenza di sanguinamenti attivi o altre cause di anemia potenzialmente curabili.

Il timing ottimale su quando iniziare la terapia con ESA è un argomento ancora controverso, come confermato dal fatto che le diverse linee guida-position papers danno indicazioni tra loro diverse.

Le linee guida KDIGO del 2012 sconsigliano di iniziare il trattamento con ESA in pazienti con MRC di stadio V per valori superiori a 10 g/dL, senza indicare una soglia oltre la quale si debba iniziare necessariamente la terapia con ESA. Per i pazienti in dialisi viene consigliato d’iniziare la terapia con ESA per valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

L’anno successivo è stato pubblicato il position paper dell’ERBP, che si discosta dalle Linee Guida KDIGO in alcuni punti. In particolare, viene consigliato in generale d’iniziare la terapia con ESA nei pazienti con valori di Hb <10 g/dL. Veniva inoltre consigliato di tenere in considerazione il tasso di caduta della concentrazione di Hb, la precedente risposta alla terapia con ferro, il rischio di dover ricorrere a una trasfusione, i rischi correlati alla terapia con ESA e alla presenza di sintomi attribuibili all’anemia. Come nelle KDIGO, nel caso dei pazienti in emodialisi le ERBP consigliano di iniziare la terapia con ESA in caso di valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

Sempre nel 2013 le linee guida KDOQI e della società canadese di nefrologia hanno fornito i medesimi valori come cut-off per cominciare la terapia con ESA.

Il gruppo di lavoro del National Institute for Health and care excellence (NICE) suggeriscono di iniziare il trattamento con ESA a valori di Hb <11 g/dL indifferentemente dalla classe di MRC o se fosse in terapia conservativa o in dialisi.

Nel 2025 sarà probabilmente disponibile la versione aggiornata delle linee guida KDIGO sulla terapia dell’anemia. Non si prevedono modifiche sostanziali su quando iniziare la terapia con ESA o sul target di Hb a cui mantenere i pazienti durante la terapia, ma ci saranno indicazioni relative agli HIF-PHD inibitori.

 

L’eritropoietina ricombinante umana, i suoi biosimilari e le molecole long-acting

L’epoetina alfa e l’epoetina beta sono praticamente uguali all’eritropoetina endogena, di cui conservano la medesima struttura aminoacidica, mentre differiscono minimamente nella componente glucidica. Per la loro relativamente breve emivita (8 ore se somministrate endovena, 24 ore se somministrate per via sottocutanea), vengono definite “short-acting”. Dai primi studi di registrazione, inizialmente il loro uso era raccomandato con somministrazioni trisettimanali, soprattutto se in fase di correzione. Si è poi visto che, in realtà, possono essere somministrati anche in modo più dilazionato, fino a una volta al mese, soprattutto nei pazienti con basse necessità di dosaggio. Tuttavia, la frequenza dilazionata viene ottenuta spesso a prezzo di un aumento della dose somministrata e di escursioni al di sopra ma anche al di sotto della zona ottimale di stimolo alla produzione di Hb (aumentato rischio cardiovascolare legato alle elevate concentrazioni ematiche e, all’opposto, apoptosi dei globuli rossi quando si scende al disotto di determinati livelli di concentrazione ematica).

Dopo l’immissione in commercio delle prime due epoetine, la ricerca scientifica ha cercato di modificare la struttura dell’eritropoietina, per migliorarne la farmacocinetica e la farmacodinamica, e poterne quindi dilazionare la frequenza di somministrazione. La prima molecola “long-acting” ottenuta, in ordine cronologico, è la darbepoetina alfa. Essa si differenzia dall’eritropoietina ricombinante umana nella struttura aminoacidica per due sostituzioni; ciò permette alla molecola di avere due ulteriori catene di carboidrati attaccate con legame azotato, che ne modificano la struttura tridimensionale e ne aumentano il peso molecolare. La molecola ottenuta ha una ridotta affinità recettoriale rispetto all’eritropoietina, ma un’emivita più lunga (24 ore per via endovenosa, 48 ore per via sottocutanea, ma sono riportate in letteratura anche durate maggiori) [20]. Può essere quindi somministrata con frequenza monosettimanale, fino ad arrivare a quella mensile, senza le problematiche evidenziate per le eritropoietine “short-acting”.

La seconda molecola “long-acting” è il metossipolietilene glicol epoetina beta, ottenuta mediante pegilazione con legame covalente [21]. La molecola ha un peso molecolare ancora più elevato della darbepoetina alfa, un maggior ingombro sterico, una minore affinità recettoriale e un’emivita ancora più lunga (tra le 100 e le 130 ore, sia per via sottocutanea che endovenosa). Viene somministrata con frequenza mensile. Come per la darbepoetina alfa, e differenziandosi dalle molecole “short-acting”, se somministrata per via endovenosa, non comporta la necessità di aumentare la dose rispetto alla somministrazione endovenosa. Inoltre, le molecole “long-acting” si differenziano da quelle “short-acting” per una maggiore stabilità a temperatura ambiente e quindi possono essere conservate anche per giorni fuori dal frigorifero prima di essere somministrate, se la temperatura ambiente è ottimale. Come per l’insulina, ciò può avvenire una sola volta. Come per gli “short-acting”, le molecole “long-acting” necessitano quindi di una stretta catena del freddo, partendo dai siti produttivi, passando al trasporto e poi all’immagazzinamento della catena distributiva, fino ai luoghi dove il farmaco viene conservato prima della somministrazione.

Circa 10 anni fa, è entrata in commercio negli Stati Uniti, per brevissimo tempo, un’altra molecola “long-acting”, la peginesatide. Essa si differenzia dagli altri ESA perché non è ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante, dato che è una molecola di sintesi. Si tratta di un piccolo peptide, in grado di essere riconosciuto dal recettore dell’eritropoietina e determinarne l’attivazione, a cui è stata aggiunta una catena di carboidrati mediante pegilazione, per aumentarne l’emivita e renderlo utilizzabile in ambito clinico [22]. Il farmaco era estremamente interessante, perché aveva le caratteristiche delle molecole “long-acting”, ma con un processo produttivo molto più semplice ed economico, senza necessità di essere conservato in frigorifero e con un prezzo finale di vendita negli Stati Uniti persino inferiore o simile a quello dei biosimilari. Purtroppo, il farmaco è stato ritirato dal commercio solo dopo qualche mese a seguito di alcune severe reazioni allergiche, anche mortali [23]. Inoltre, nei pazienti con MRC in fase conservativa I pazienti randomizzati a peginesatide avevano avuto un rischio aumentato di raggiungere endpoint cardiovascolari (in particolare morte, angina instabile e aritmie) rispetto a quelli assegnati al trattamento con darbepoetina alfa [24]. In epoca recente, lo sviluppo clinico del farmaco è stato ripreso da una compagnia cinese [25].

In generale, la terapia con ESA è costosa. Al termine della durata del brevetto prima dell’epoetina alfa, poi dell’epoetina beta e della darbepoetina alfa, sono stati sviluppati diversi biosimilari di queste molecole, con il fine ultimo di potere abbassare i costi della terapia. Questo ha comportato a sua volta una riduzione del prezzo di vendita anche delle molecole “originator”, con un risparmio economico significativo. Allo scadere del brevetto, infatti, la struttura della molecola viene resa nota e quindi copiabile. Al contrario, il processo produttivo resta esclusivo dello sviluppatore del farmaco. Ne consegue che i produttori di biosimilari hanno dovuto sviluppare a loro volta i processi produttivi delle molecole, che in quanto biosimilari e non farmaci generici, hanno caratteristiche simili, ma non identiche alla molecola “originator”. In Europa e negli Stati Uniti la “European Medicine Agency (EMA) e la “Food and Drug Administration” (FDA) hanno sviluppato una precisa e stretta regolamentazione per lo sviluppo ed immissione in commercio dei farmaci biosimilari (definizione riservata dall’EMA ai farmaci approvati, mentre quelli non approvati sono definite copie), garantendo un profilo di sicurezza ed efficacia accettabili e stabilendo un range massimo di variabilità rispetto alla molecola “originator” [26]. Tuttavia, proprio perché il processo produttivo non è identico a quello del suo “originator”, piccole differenze possono portare alla produzione di lotti con efficacia diversa (sia maggiore che minore) o con una maggiore immunogenicità, con conseguente rischio di sviluppare una rara complicanza della terapia con ESA, l’aplasia midollare della serie rossa. Tale complicanza, non esclusiva dei biosimilari, ma descritta anche per gli “originator”, è stata principalmente riportata quando il farmaco viene somministrato per via sottocutanea [27]. Al contrario, il rischio di sviluppare aplasia midollare della serie rossa dopo somministrazione endovenosa è praticamente nullo. In generale quindi, è preferibile evitare di sostituire la molecola di ESA in corso di terapia con somministrazione sottocutanea, se non in presenza di motivazioni cliniche rilevanti. Al contrario il passaggio da una molecola ad un’altra risulta essere una pratica meno rischiosa, e ormai diffusa in ambito clinico, nei pazienti che ricevono il farmaco per via endovenosa (ad esempio quando iniziano il trattamento emodialitico sostitutivo) [28].

Pur se con differente affinità recettoriale ed emivita, tutti gli ESA hanno il medesimo meccanismo d’azione, riconoscendo tutti il recettore dell’eritropoietina e determinandone l’attivazione. Tuttavia, proprio le differenze farmacocinetiche e farmacodinamiche delle molecole potrebbero comportare sottili differenze nella modalità di attivazione del recettore, che potrebbero portare all’attivazione di diverse cascate enzimatiche [29]. Inoltre, i diversi picchi ematici di eritropoietina potrebbero comportare l’attivazione del recettore dell’eritropoietina su tessuti diversi, con differenti effetti pleiotropici (sia positivi che negativi). I nefrologi si sono concentrati per quasi due decenni sull’individuazione del target migliore di Hb a cui mirare con la terapia con ESA e hanno considerato solo in modo marginale la possibilità che le diverse molecole di ESA potessero avere un profilo di sicurezza tra loro differente. Peraltro, alcuni studi e metanalisi non avevano evidenziato segnali di rischio in tal senso [30]. Tuttavia, uno studio osservazionale giapponese di registro, su circa 200.000 pazienti, ha riportato un aumento del rischio di morte per ogni causa e per cause cardiovascolari nei pazienti trattati con molecole “long-acting” rispetto a quelle “short-acting” [31]. Questo era particolarmente vero nei soggetti trattati con elevate dosi di ESA. Lo studio però presentava una serie di bias che ne complicano l’interpretazione. In particolare, per motivi di rimborsabilità, i pazienti con elevati necessità di dose di ESA short acting (9.000 U.I./settimana) erano obbligatoriamente (autorità regolatorie giapponesi) passati a long acting. Inoltre, una quota importante di pazienti era stata esclusa dall’analisi per assenza di informazioni sulla terapia in corso con eritropoietina [31].

Risultati sovrapponibili sono stati ottenuti dallo studio DOPPS (Dialysis Outcomes and Practice Patterns Study), ma per il solo Giappone, ovviamente, essendo il database lo stesso. Al contrario, il rischio di morte era sovrapponibile, o addirittura inferiore, tra le molecole “short-acting” e “long-acting” nei pazienti americani ed europei.

Anche uno studio randomizzato, effettuato per fine registrativi di farmacovigilanza su una popolazione mista di pazienti in dialisi e non, non ha dimostrato differenze nel rischio di sviluppare eventi cardiovascolari o morte tra il trattamento con metossipolietilene glicol epoetina beta o altri ESA [32]. Dati opposti sono stati ottenuti da un altro studio osservazionale italiano, effettuato in pazienti con MRC in fase conservativa, con evidenza di un possibile aumento del rischio di morte e rischio di dialisi nei trattati con molecole “short-acting” ad alto dosaggio [33].

Recentemente, un’analisi di circa 60.000 pazienti emodializzati con Medicare negli Stati Uniti ha mostrato, come lo studio italiano sopracitato, un aumento del rischio di morte in chi riceveva le molecole “short-acting” rispetto alle “long-acting”, senza nessuna differenza sul rischio di endpoint cardiovascolari maggiori (MACE) [34].

Complessivamente, come anche dimostrato da una recente metanalisi, l’utilizzo delle singole molecole di ESA non sembra avere relazione con il rischio di morte ed eventi cardiovascolari se vengono rispettate le frequenze di somministrazione autorizzate [35]; i dati disponibili a supporto di possibili differenze sembrano essere influenzati principalmente da bias prescrittivi.

 

Le ombre della terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi

La terapia con ESA è, ormai da decenni, largamente diffusa nel mondo per la cura dell’anemia nei pazienti con MRC. Il farmaco si è dimostrato nel tempo relativamente sicuro e ben tollerato, anche grazie all’acquisizione da parte dei clinici di una maggiore esperienza nell’utilizzo di queste molecole.

Il recettore per l’eritropoietina umana, quando attivato dall’ormone, viene internalizzato, subisce un processo di degradazione dell’eritropoietina ad esso legato e viene nuovamente reso disponibile in superficie per un nuovo legame, evitando la saturazione dei recettori in superficie. Questa particolare cinetica è condizionata dalla concentrazione dell’ormone, rendendo possibile un’attivazione massiccia in caso di anemia severa [36]. Al contrario, però, manca un sistema di protezione in caso di utilizzo dell’eritropoietina esogena, soprattutto quando utilizzata ad alte dosi.

È noto che il recettore dell’eritropoietina è presente in diversi tessuti, tra cui il sistema nervoso centrale, l’endotelio, i cardiomiociti e le cellule lisce muscolari. Negli anni sono stati ipotizzati numerosi effetti pleiotropici, una parte di questi protettivi sia a livello cardiaco [37, 38] che neurologico [39-41].

D’altro canto, diversi dati sperimentali sono a supporto di una possibile azione dell’eritropoietina, soprattutto se somministrata ad alte dosi, nell’accentuare il rischio di trombosi ed eventi cardiovascolari, in modo indipendente dal solo aumento della viscosità ematica dato dalla correzione dell’anemia. Ad esempio, nelle cellule endoteliali, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione di attivazione endoteliale, aumento dell’angiogenesi e produzione di endotelina 1 [42, 43]. Il meccanismo potrebbe essere accentuato dalla presenza di ischemia [44]. Il recettore dell’eritropoietina è espresso anche sui megacariociti, dove potrebbe accelerarne sia la maturazione e l’attività pro-trombotica [45]. È ancora oggi controverso come e in quale misura queste evidenze sperimentali possano contribuire ad un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA. Sebbene i primi studi effettuati con gli ESA non fossero finalizzati a dimostrare un effetto cardiovascolare, non hanno messo in luce un aumentato rischio di morte rispetto a placebo per valori di Hb intorno ai 10 g/dL [46]. Al contrario, la correzione dell’anemia severa comporta vantaggi in termini di miglioramento della qualità della vita, riduzione della necessità di emotrasfusioni e riduzione della massa ventricolare sinistra [47].

L’utilizzo degli ESA negli anni ’90 e 2000 in trial randomizzati, come trattato nella precedente sezione sul target ottimale di Hb a cui mirare con la terapia, ha invece messo in luce con chiarezza un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA a target di Hb prossimi alla normalizzazione. Risultano essere a particolare rischio di complicanze i pazienti affetti da diabete, con precedenti eventi cardiovascolari, o affetti da arteriopatia agli arti inferiori. È inoltre emerso che la presenza d’infiammazione e d’iporesponsività alla terapia con ESA possano rappresentare ulteriori ed importanti fattori di rischio per le complicanze trombotiche e cardiovascolari in corso di terapia [48-50].

Un’altra ombra della terapia con ESA riguarda un possibile effetto pro-oncogenico. Tale preoccupazione nasce in primis dal fatto che l’eritropoietina è un fattore di crescita. Oltre a ciò, negli anni la ricerca di base ha dimostrato l’espressione del recettore dell’eritropoietina nelle cellule tumorali; restano però ancora dubbi sull’entità della loro attivazione, soprattutto in corso di terapia con ESA, e il loro ruolo prognostico [51]. Inoltre, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione sul “vascular endothelial growth factor” [52], contribuendo all’angiogenesi, con effetto di aumento della rapidità di crescita del tumore e della sua diffusione a distanza.

L’interpretazione dei dati sperimentali è resa ulteriormente complicata dal fatto che l’espressione del recettore dell’eritropoietina è influenzata dal tipo di tumore.

Infine, la terapia con ESA ha verosimilmente un effetto protrombotico, che potenzierebbe quello già di per sé aumentato dei pazienti oncologici [53].

Negli anni 2000 diversi trial randomizzati e metanalisi hanno evidenziato una possibile riduzione della sopravvivenza [54] o un aumento della crescita tumorale per alcuni tumori solidi in pazienti anemici trattati con ESA con un target di Hb prossimo alla normalità. Altre metanalisi non hanno confermato il dato [55, 56]. Sulla scorta di queste esperienze, oggi nei pazienti oncologici la terapia con ESA è riservata solo ai pazienti sottoposti a chemioterapia, mirando a target di Hb più bassi [57, 58].

I dati in letteratura su un possibile effetto prooncologici degli ESA nei pazienti con MRC sono limitati e poco conclusivi [13, 59]. La loro interpretazione è ulteriormente complicata dal fatto che la MRC di per sé è associata ad un aumento della prevalenza di neoplasie, in parte a causa di una riduzione delle difese immunitarie nei pazienti uremici [60]. A titolo precauzionale, è consigliato di soppesare il rischio beneficio nel singolo paziente oncologico con MRC di un’eventuale terapia con ESA, soprassedendo, ove possibile, nei pazienti dove si prevede una possibile cura della malattia oncologica [61].

 

Alternative terapeutiche e prospettive future

Da un paio di anni sono diventati disponibili nuove molecole per la cura dell’anemia nei pazienti con malattia renale cronica, gli inibitori delle HIF-PHD (hypoxia inducible factor prolyl hydroxylases). Queste molecole si differenziano dagli ESA perché agiscono andando a stimolare l’eritropoietina endogena, dimostrandosi efficaci anche nelle fasi più avanzate della MRC, fino ai pazienti anefrici. Date le ombre sui possibili rischi cardiovascolari degli ESA, gli enti regolatori (EMA e FDA) hanno imposto per la loro registrazione l’esecuzione di diversi trial randomizzati di fase 3, finalizzati non solo a dimostrare l’efficacia delle molecole (superiorità rispetto al placebo o non inferiorità rispetto agli altri ESA), ma anche a garantirne la sicurezza, soprattutto dal punto di vista cardiovascolare. A tale scopo sono stati arruolati nel mondo decine di migliaia di pazienti.

Delle sei molecole oggi disponibili nel mondo, tre sono state sviluppate solo in India o Estremo Oriente (molidustat, desidustat, enarodustat) e non sono quindi disponibili per uso clinico negli Stati Uniti o Europa. Le altre tre molecole (roxadustat, vadadustat, daprodustat) hanno avuto destini diversi in termini di approvazione e successiva commercializzazione in Europa e Stati Uniti, principalmente sulla base dei diversi risultati dei singoli trial clinici e di alcuni segnali di possibile aumento degli eventi cardiovascolari o delle trombosi emersi da analisi secondarie. Ad oggi, il roxadustat è in commercio in Europa sia per i pazienti in dialisi che per quelli in fase conservativa. Il vadadustat è approvato e in fase di commercializzazione in Europa e Stati Uniti solo per i pazienti in dialisi prevalenti. Analogamente, il daprodustat è stato approvato solo per i pazienti in dialisi da entrambi gli enti regolatori, ma non è stato commercializzato in Europa per una scelta aziendale.

Nonostante le aspettative verso questa nuova classe di farmaci fossero molte, soprattutto in termini di un miglior profilo di sicurezza cardiovascolare rispetto agli ESA, i risultati dei trials non hanno confermato l’ipotesi iniziale, ponendoli solo come una possibile alternativa terapeutica agli ESA, con un profilo di sicurezza a questi sovrapponibili nella maggior parte dei casi [62-64].

Dal punto di vista pratico, gli inibitori delle HIF-PHD si differenziano dagli ESA perché vengono somministrati per via orale e perché sono conservati a temperatura ambiente. Inoltre, grazie alla loro azione di stimolazione del sistema HIF, potrebbero aumentare l’assorbimento e la disponibilità del ferro ed essere più efficaci nei pazienti infiammati iporesponsivi agli ESA [65, 66].

Dal punto di vista delle prospettive future, dopo anni di intensa ricerca e sviluppo clinico per gli HIF-PHD inibitori, il panorama scientifico nel campo della terapia dell’anemia nei pazienti con MRC ha subito un notevole rallentamento, sia in termini di finanziamenti che di numero di nuove molecole innovative in sviluppo [67]. Ad oggi la strategia più promettente, e con maggiori possibilità di entrare nel breve-medio termine in commercio, sembra essere quella che va ad agire su alcune interleuchine, riducendo l’infiammazione e quindi migliorando gli outcome cardiovascolari. L’effetto antinfiammatorio comporta anche il miglioramento dell’anemia e/o la risposta agli ESA [68].

 

Conclusioni

La terapia con ESA, e in epoca recente con gli HIF-PHD inibitori, rappresentano una rivoluzione scientifica che ha permesso il trattamento dell’anemia sintomatica in milioni di persone nel mondo. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.

Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA o HIF-PHD inibitore deve essere personalizzata il più possibile, sia in termine di target di Hb, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

 

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Iperuricemia della malattia renale cronica: trattare o non trattare?

Abstract

Numerosi studi hanno dimostrato come l’iperuricemia (HU) costituisca un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo della malattia renale cronica (CKD) e di eventi patologici cardiovascolari. Pur tuttavia, benché alcune evidenze sembrino attribuire all’acido urico (UA) un ruolo non solo predittivo, ma anche causale nei confronti degli eventi sopra citati, una robusta e definitiva dimostrazione di ciò continua tuttora a mancare.
Inoltre, a dispetto di quello che parrebbe un logico razionale a sostegno dell’impiego della cosiddetta “urate-lowering therapy” (ULT) a scopo nefroprotettivo nel paziente iperuricemico con CKD, studi e meta-analisi al riguardo, peraltro talora gravati da limiti che potrebbero averne inficiato i risultati, hanno sinora fornito risultati tra loro assai divergenti lasciando incertezza circa la possibilità che una riduzione farmaco- indotta dell’uricemia possa davvero consentire di rallentare la progressione della CKD e prevenirne le complicanze cardiovascolari.
Il presente articolo riassume le attuali conoscenze sul metabolismo dell’UA e sui farmaci che con esso interferiscono, illustra le teorie sui possibili plurimi meccanismi patogenetici che sarebbero alla base del danno renale HU-correlato e passa in rassegna risultati e limiti dei più recenti studi che hanno sostenuto o negato il ruolo nefroprotettivo della ULT nella CKD alimentando una controversia scientifica che tuttora si protrae.

Parole chiave: Acido urico, iperuricemia asintomatica, gotta, malattia renale cronica, urate-lowering therapy.

Introduzione

I rapporti tra iperuricemia (HU) e malattia renale cronica (CKD) sono complessi e di difficoltosa interpretazione per la presenza di fattori confondenti legati alla duplice potenzialità della prima di poter essere sia conseguenza, sia causa della seconda. Da un lato infatti la riduzione del filtrato glomerulare (GFR) che si verifica nella CKD comporta una ridotta escrezione urinaria di acido urico (UA) che può innalzarne i livelli serici, il concomitante impiego di diuretici aggrava tale difetto e le principali cause di CKD, cioè diabete ed ipertensione, sono spesso già di per sé condizioni iperuricemiche(1-3). D’altra parte, ormai assodato che l’HU costituisca un fattore predittivo indipendente per lo sviluppo della CKD e di eventi cardiovascolari patologici, il suo possibile ruolo causale in tali situazioni resta incerto: in particolare, per quanto attiene quello relativo al danno renale, esso risulta meglio provato nella forma da deposito di cristalli di urato, ma meno definito, anche se con crescenti indizi a suo suffragio, nelle conseguenze ascritte all’azione dell’UA solubile. Analogamente rimane ancora controverso, a causa dei contrastanti risultati sinora forniti da studi e meta-analisi sull’argomento, il possibile ruolo nefroprotettivo dalla cosiddetta urate-lowering therapy (ULT)(4-5).
Nella trattazione che segue esamineremo gli studi più recenti e le motivazioni che sono alla base di differenti punti di vista rispetto alle sopra descritte diatribe.

 

Fisiologia

L’acido urico o C5H4N4O3 o 2,6,8-triossi-1H-purina, composto organico eterociclico con massa molecolare pari a 168,11 unità di massa atomica, è un acido debole che nel comparto extracellulare, al pH fisiologico, è presente al 98-99% nella forma ionizzata di urato monosodico (MSU).
La sintesi dell’UA, prodotto finale del catabolismo delle purine esogene (da cui derivano quotidianamente circa 100-200 mg di UA) ed endogene (da cui derivano ulteriori 600-700 mg/die di UA) avviene nel fegato ad opera dell’enzima xantina ossidoreduttasi (XOR), mentre l’eliminazione dell’UA è per 1/3 gastrointestinale, poi seguita da uricolisi batterica, e per 2/3 renale. In quest’ultima sede il 95% dell’UA viene filtrato dal glomerulo (la restante quota non filtrata è quella legata alle proteine), poi riassorbito al 99% nel tratto S1 del tubulo prossimale e successivamente secreto nel tratto S2, in entrambi i casi ad opera di trasportatori di membrana specifici per ciascuna delle due direzioni e situati in parte sul versante apicale (URAT1 o SLC22A12, OAT4 o SLC22A11, OAT10 o SLC22A13, GLUT9 o SLC2A9 deputati al riassorbimento e ABCG2, ABCC2 o MRP2, ABCC4 o MRP4, NPT1 o SLC17A1, NPT4 o SLC17A3 deputati alla secrezione) ed in parte sul versante baso-laterale (GLUT9 o SLC2A9 deputato al riassorbimento e OAT1 o SLC22A6, OAT2 o SLC22A7, OAT3 o SLC22A8 deputati alla secrezione) della cellula epiteliale del tubulo; alla fine del processo la quota di UA eliminata con le urine rappresenta circa il 10% di quella filtrata(6-10).

 

Definizione, cause e conseguenze della HU

Negli esseri umani i livelli plasmatici di UA sono più elevati rispetto a quelli degli animali dotati di attività uricasica che permette loro di trasformarlo in allantoina (rispettivamente 3-7 mg/dl contro 1-2 mg/dl), e sono inferiori nella donna rispetto all’uomo per effetto dell’attività uricosurica propria degli estrogeni.
La mutazione responsabile della perdita dell’uricasi (o urato ossidasi) da parte dell’uomo e dei primati superiori sarebbe avvenuta nel Miocene, tra 25 e 12 milioni di anni fa, comportando almeno quattro rilevanti vantaggi in termini evoluzionistici: il rimpiazzo dell’attività antiossidante conseguente alla perdita della capacità di sintesi della vitamina C, importante per la longevità e la neuro-protezione; la stimolazione mentale dovuta ad analogie strutturali con la caffeina, importante per lo sviluppo dell’intelligenza; la stimolazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) per il mantenimento di un adeguato regime pressorio in concomitanza con l’assunzione della stazione eretta nonostante un’alimentazione all’epoca povera di sodio; l’incremento delle capacità di accumulare grasso in risposta alla ridotta disponibilità di frutti causata dal raffreddamento della terra(7,11).
Nella seconda metà del secolo scorso, nei paesi economicamente avanzati, i livelli medi di uricemia della popolazione sono progressivamente saliti con il progredire del benessere(12) e l’incremento dell’assunzione di cibi ricchi in purine (soprattutto proteine animali, crostacei, birra, vino, e bevande alcooliche) e fruttosio (bevande zuccherate).
Benché da lungo tempo siano considerati valori di uricemia patologici quelli superiori a 7.0 mg/dl nell’uomo e a 6.0 mg/dl nella donna, alcuni invitano a considerare l’uricemia normale per entrambi soltanto fino a 6.0-6.4 mg/dl poiché questi sono i limiti di solubilità del MSU rispettivamente a 35° e 37°(13-14); al momento questo orientamento non sembra tuttavia trovare ancora il completo accordo di tutti gli esperti.
Cause acquisite o congenite di aumentata introduzione (dieta iperpurinica) o di aumentata produzione di UA (malatttie mielo-linfoproliferative, neoplasie, chemioterapia, psoriasi, sindrome di Lesch-Nyhan, iperattività della fosforibosilpirofosfato sintetasi), ma soprattutto (90% dei casi) di ridotta eliminazione dell’UA (ipovolemia, CKD, farmaci, saturnismo, tubulopatia autosomica dominante uromodulina-associata) inducono HU, condizione a rischio per il successivo sviluppo di patologie. Come già anticipato in premessa, queste conseguono alla formazione di cristalli di MSU e alla loro successiva precipitazione intra- tissutale (gotta articolare, nefropatia gottosa cronica, AKI da massiva precipitazione intra- tubulare acuta) o nelle vie urinarie (calcolosi), ma potenzialmente anche ad effetti emodinamici e cellulari attribuiti alla forma solubile di UA: questi ultimi comprendono attivazione del RAAS (ipertensione arteriosa), ma anche infiammazione e stress ossidativo con risvolti sia renali (disfunzione endoteliale, glomerulosclerosi, fibrosi tubulo-interstiziale) che sistemici (danno cardiovascolare, aumentata resistenza all’insulina, sindrome metabolica)(15). Va infatti considerato il ruolo ambiguo dell’UA che ha proprietà antiossidanti quando circolante nell’ambiente idrofilo extracellulare, ma ha effetti pro- ossidanti che sarebbero alla base del danno cardio-nefro-metabolico nell’ambiente idrofobico intracellulare(16).

 

Epidemiologia della HU e della gotta

Nel paziente adulto con GFR normale la prevalenza di iperuricemia asintomatica (aHU) è circa del 20%, mentre quella della gotta oscilla tra lo 0.7 e il 3.9%, con trend complessivo in crescita, ampia variabilità nelle diverse aree geografiche ed etnie, e valori anche superiori nella parte più anziana della popolazione. Nel paziente affetto da CKD la prevalenza di aHU sale fino all’80% e quella della gotta fino al 32% e ciò avviene in modo direttamente proporzionale alla severità della malattia renale. Inoltre, in modo quasi speculare, anche nei pazienti iperuricemici e gottosi si osserva un incremento della prevalenza di CKD dal 6-12% fino al 50% ed al 70% rispettivamente(4,8,17).

 

Esiste davvero il danno renale cronico da UA?

Come già detto, la patologia da cristalli comprende, oltre al danno renale acuto (AKI) da precipitazione intra-tubulare massiva di cristalli di MSU, e alla calcolosi da precipitazione di MSU nelle vie urinarie, anche la nefropatia da deposizione intra-parenchimale cronica di MSU. Quest’ultima è istologicamente caratterizzata da deposizione focale di cristalli di MSU nei tubuli, flogosi interstiziale evolvente verso la fibrosi dell’interstizio e l’atrofia tubulare, glomerulosclerosi ed arteriolosclerosi di grado variabile, mentre si manifesta clinicamente dapprima con un deficit della capacità di concentrazione delle urine e successivamente con una graduale riduzione del GFR(6).
Benché assai ben descritta già in un lontano passato, la reale esistenza di questa forma cronica di nefropatia è stata tuttavia rimessa in discussione verso la fine del XX secolo prima di essere nuovamente riaffermata. Come riporta un antico testo scientifico(18), infatti, già verso la metà del XIX secolo Robert Bentley Todd, irlandese divenuto professore al King’s College di Londra, descriveva il quadro del rene gottoso come caratterizzato dalla presenza di “linee bianche di materiale simile al gesso nella porzione piramidale del rene che prendono la direzione dei tubuli retti e che risultano cristallizzate in forma di prismi quando osservate al microscopio e costituite da urato di soda quando sottoposte ai test chimici”. L’identità di tale riscontro, poi confermato in ampie casistiche, autoptiche e non, della metà del XX secolo(19-20), venne successivamente confutata negli anni ottanta con la pubblicazione di alcuni articoli(21-23) che formulavano le seguenti obiezioni: il riscontro bioptico di una focale deposizione di cristalli di MSU, peraltro osservabile anche in soggetti senza malattia renale, non può spiegare la diffusa presenza di cicatrici renali; il concomitante danno vascolare renale sembra dipendere da altre più rilevanti cause di nefropatia, quali ad esempio la coesistente ipertensione arteriosa; il danno interstiziale può anche conseguire al largo impiego di antiinfiammatori non steroidei (FANS) nel paziente gottoso. Così, per un certo periodo, l’UA non venne più considerato come possibile causa di CKD e l’HU venne ritenuta piuttosto una mera conseguenza della ridotta escrezione di UA dovuta alla riduzione del GFR(2).
Nuovi elementi a suffragio della possibilità di un nesso causale tra UA e CKD giunsero dall’evidenza che ratti con CKD, se resi iperuricemici, avevano una progressione più rapida della malattia anche in assenza di deposizione intrarenale di cristalli (24): ciò riaprì la ricerca e la discussione sul possibile ruolo nefrolesivo dell’UA non solo nella sua forma cristallina, ma anche nella sua forma solubile.
Dopo un appello di alcuni ad adoperare maggior cautela prima di estrapolare conclusioni valide per l’uomo da studi condotti su roditori dotati di attività uricasica, cioè abituati a uricemie ben inferiori a quelle umane e resi severamente iperuricemici in via sperimentale(25), successive ricerche evidenziarono reali effetti pro-infiammatori e di immuno-attivazione dell’UA solubile nei confronti rispettivamente delle cellule dell’epitelio tubulare e delle cellule mesangiali umane(26-27).
Nuovi studi effettuati nel corrente secolo e qui di seguito descritti, sono poi giunti a identificare la HU come fattore indipendente di rischio cardiovascolare e renale nella CKD. Nel 2012 Kanbay e coll. hanno pubblicato i risultati di uno studio condotto su 303 pazienti con CKD e follow-up medio di 39 mesi che mostravano una significativa associazione tra HU ed eventi cardiovascolari fatali e non in maniera indipendente da altri fattori di rischio(28).
Nel 2014 Zhu e coll. hanno dimostrato, in una meta-analisi di 15 studi di coorte che avevano complessivamente arruolato oltre 99.000 individui, un’associazione positiva tra livelli di UA e sviluppo di CKD, con un rischio relativo di 1.22 per ogni mg/dl di incremento dell’uricemia e in maniera indipendente da altri fattori di rischio(29).

Nel 2018 Srivastava e coll. hanno confermato il suddetto riscontro evidenziando una curva conformata a “J” tra livelli di uricemia e rischio di morte per ogni causa (30).
Più recentemente i risultati del progetto URRAH, uno studio osservazionale multicentrico retrospettivo italiano su una coorte di 26.971 soggetti, hanno evidenziato un’associazione indipendente tra livelli di UA e mortalità cardiovascolare e globale, con soglie di uricemia predittive di mortalità anche inferiori a quello che viene attualmente ritenuto il cut off di normalità dell’uricemia(31), oltre che una prevalenza di HU crescente con il decrescere del GFR e maggiore nei pazienti con macroalbuminuria rispetto a quelli con micro e normoalbuminuria(17).
Anche una meta-analisi condotta da Autori brasiliani su 24 studi osservazionali riguardanti oltre 400.000 pazienti, pubblicata nel 2022(32), ha documentato una significativa correlazione tra uricemie inferiori e minor sviluppo e progressione di CKD.
Uno studio prospettico multicentrico osservazionale del gruppo di studio francese CKD- REIN(33), condotto su 2.781 pazienti con CKD in stadio 3-5 seguiti mediamente per oltre 3 anni, dopo aver pianificato l’esecuzione di una determinazione basale e di almeno 5 successive determinazioni dell’UA per ciascun paziente, ha confrontato in modo longitudinale il rapporto tra uricemia e rischio di insufficienza renale e di morte: ne è emerso che il rischio di insufficienza renale aumenta con il crescere dell’uricemia, con un plateau tra i 6 ed i 10 mg/dl ed un brusco incremento al di sopra degli 11 mg/dl, mentre il rischio di morte palesa una curva conformata ad “U” in cui, al di sotto dei 3 mg/dl (forse per il venir meno dell’azione anti-ossidante dell’UA) e al di sopra degli 11 mg/dl, esso è doppio rispetto a quello osservato con valori di uricemia attorno ai 5 mg/dl. Ne è altresì emerso che analoghe curve, costruite solo in funzione delle uricemie basali, non sono in grado di fornire i medesimi risultati: ciò potrebbe spiegare perché alcuni precedenti lavori non abbiano trovato correlazione tra livelli di UA e insufficienza renale.
Schwartz e coll.(34), in uno studio longitudinale su 693 bambini o adolescenti con CKD ad eziologia glomerulare e non glomerulare, hanno trovato un’importante correlazione tra livelli di UA e rischio di progressione della nefropatia: la perdita annuale di GFR in tre fasce pre-definite (<5.5 mg/dl, 5.5-7.5 mg/dl e >7.5 mg/dl) di uricemia basale era infatti rispettivamente -1,4%, -7,7% e -14,7% nelle glomerulopatie e -1,4%, -4,1% e -8,6% nelle nefropatie ad eziologia non glomerulare. Esaminando poi la perdita di GFR osservata per ogni successivo mg/dl di incremento dell’UA nei pazienti che al controllo basale appartenevano alle prime due fasce si evinceva una significativa perdita del GFR, di -5,7% e -4,3% nelle glomerulopatie e di -5,1% e -3,3% nelle nefropatie non glomerulari.
Assodato il ruolo dell’UA come fattore di rischio per lo sviluppo della nefropatia, sono in molti a ritenere plausibile un suo ruolo attivo e non solo predittivo in tal senso, ipotizzando differenti e coesistenti meccanismi lesivi per la sua forma cristallina e per quella solubile. Da un lato la precipitazione a livello tubulare di cristalli di MSU in grado di indurre flogosi interstiziale. Dall’altro una duplice possibilità, immunologica la prima, non immunologica la seconda, che l’UA solubile, identificato come sostanza pericolosa dai recettori dell’immunità innata, inneschi una risposta infiammatoria evolvente verso la fibrosi, ma anche che, attraverso l’attivazione del RAAS e l’avvio di stress ossidativo, induca vasocostrizione, disfunzione endoteliale e proliferazione delle cellule muscolari lisce vascolari alle quali conseguono glomerulosclerosi e fibrosi interstiziale (9,15,35,36).

Una recente divergente osservazione sostiene invece la possibilità che la forma solubile dell’UA abbia effetti soppressivi, e non stimolanti, sull’immunità innata e che sia implicata, insieme ad altri fattori, nello sviluppo della cosiddetta immunodeficienza secondaria alla malattia renale (SIDKD), tipica dell’uremia in fase avanzata, che si caratterizza per alterate difese nei confronti dei patogeni, scarsa risposta ai vaccini e attenuazione delle patologie infiammatorie croniche non infettive(37). Questo contrasta con gli studi citati in precedenza conferendo invece all’UA solubile effetti anti-infiammatori e anti-ossidanti e avvalorando l’ipotesi che la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e il rilascio di citochine pro-infiammatorie non derivino dalla HU, bensì dalla contestuale attivazione della XOR(5).
Per quanto attiene invece la patologia da cristalli, i noti limiti della biopsia renale nei riguardi dell’identificazione della nefropatia gottosa, difficoltosa soprattutto nelle fasi iniziali di malattia perché il prelievo di tessuto renale avviene perlopiù in sede corticale mentre la patologia ha prevalente estrinsecazione midollare, ed anche perché alcuni fissativi causano la dissoluzione dei cristalli stessi(15), sembrano oggi superabili grazie alla Dual-energy computed tomography (DECT) e/o all’impiego combinato dell’ultrasonografia B-mode e Power Doppler-mode. La DECT è infatti in grado di fornire immagini dei depositi di MSU consentendo di applicare loro un codice colore che li distingua dalle calcificazioni, mentre con l’ultrasonografia l’iperecogenicità midollare apprezzabile in B-mode
corrisponde alla presenza di artefatti scintillanti all’indagine in modalità Power Doppler (38- 39).

 

Il possibile ruolo della XOR

La XOR è un enzima del peso molecolare di 300 kDa regolato a più livelli e dotato di due forme, la xantina deidrogenasi (XDH) presente nell’ambiente intracellulare e la xantina ossidasi (XO) che deriva dalla conversione della precedente quando rilasciata a livello plasmatico. La sua struttura è composta da due sub-unità identiche, ciascuna delle quali costituita da un duplice gruppo Fe/S all’estremo N-terminale, da un cofattore flavin- adenina dinucleotide (FAD) dotato di attività NADH-ossidasica nella porzione intermedia e da un cofattore molibdopterinico all’estremo C-terminale responsabile delle attività enzimatiche xantino-deidrogenasica, xantino-ossidasica e nitrito/nitrato-reduttasica.

La XOR provvede al catabolismo delle purine trasformando l’ipoxantina in xantina e quest’ultima in UA. Essa è inoltre in grado di interferire sullo stato ossido-riduttivo e sulla dinamica dei segnali dell’ambiente cellulare mediante la produzione di ROS e di specie reattive dell’azoto (RNS). Ne deriva che un’eventuale inadeguata attivazione della XOR possa indurre danni tissutali sia di tipo ossidativo che di tipo infiammatorio, assumendo dunque un ruolo patogenetico nelle fasi iniziali della CKD e nelle altre patologie HU- correlate (ipertensione arteriosa, obesità, resistenza all’insulina) che potrebbero quindi anche conseguire più all’iperattività della XOR che non alla HU di per sé.
In questa differente prospettiva, il trattamento con farmaci inibitori della XOR (XORi) quali allopurinolo e febuxostat, oltre a ridurre l’uricemia prevenendo la deposizione tissutale di cristalli di MSU, ridurrebbe la produzione di ROS indotta dalla XOR prevenendo il danno ossidativo tissutale. In aggiunta, gli XORi non competitivi (febuxostat), attraverso l’azione della ipoxantina-guanina-fosforibosil-transferasi (HGPRT) del cosiddetto “purine salvage pathway”, promuoverebbero il riutilizzo dell’ipoxantina, convertita in inosin-monofosfato (IMP) utilizzabile per incrementare la produzione di ATP. Quest’ultima azione potrebbe anche spiegare gli eventi cardiaci sfavorevoli, descritti in alcuni pazienti al momento della sospensione della terapia con febuxostat, come conseguenti ad un disturbo della conduzione e della contrazione da improvvisa ridotta disponibilità di ATP(40-41).

 

L’approccio terapeutico alla HU sintomatica nel paziente con CKD

L’approccio terapeutico alla HU sintomatica(6,9,10,42,43) deve sempre innanzitutto prevedere l’analisi delle sue possibili cause, l’adozione di appropriate variazioni dello stile di vita e dell’alimentazione (incoraggiamento dell’attività fisica e del calo ponderale; eliminazione di birra, vino, alcoolici e bevande zuccherate; riduzione dell’apporto di proteine animali; mantenimento di un adeguato apporto di fluidi, frutta e verdura), nonché la ricerca e il governo di eventuali altri fattori di rischio concomitanti (fumo, ipertensione, iperglicemia, dislipidemia, obesità). Poiché queste prime obbligatorie misure possono non essere sufficienti, si rende spesso poi necessario anche il ricorso anche alla ULT che può contare sull’esistenza di farmaci appartenenti a tre distinte categorie: XORi, uricosurici e uricasi ricombinanti. Una recente review di Jenkins e coll.(43) ha censito l’esistenza di 36 sostanze ipouricemizzanti, 10 delle quali approvate da una o più organizzazioni nazionali di controllo del farmaco (allopurinolo, febuxostat, topiroxostat, benzbromarone, lesinurad, dotinurad, probenecid, sulfinpirazone, pegloticase, rasburicase) e 26 in studio; di particolare interesse tra queste ultime nuove forme di uricasi ricombinante a minor immunogenicità e farmaci con duplice meccanismo d’azione.
Tra i farmaci finora approvati, gli XORi restano al momento la prima scelta per la buona efficacia nella riduzione dell’uricemia, la semplicità d’utilizzo e, nonostante tutto, la relativa buona sicurezza d’impiego se somministrati nel rispetto di alcune ben specificate cautele.
L’allopurinolo è un analogo purinico, inibitore competitivo non specifico di XOR, che agisce tramite il suo metabolita attivo ossipurinolo ad eliminazione renale. Oltre alla nota interferenza con il metabolismo di altri farmaci (azatioprina, warfarin, diuretici), la sua complicanza più temibile è la sindrome da ipersensibilità all’allopurinolo (AHS): essa è legata alla presenza dell’allele HLA-B*58.01, peraltro più frequente nelle popolazioni asiatica e afro-americana, le sole per le quali ha indicazione il test genetico per ricercarlo, mentre si riscontra solo nello 0.7% dei soggetti di razza bianca. Anche il supposto ruolo della CKD nel favorire la AHS è oggi ridimensionato e ritenuto limitato ai casi di avvio del trattamento a dosi troppo alte, più che non alla necessità di adeguare al GFR la successiva dose di mantenimento. Nella CKD è pertanto indicato iniziare con 100 mg/die se il GFR è 30-60 ml/min e con 50 mg/die se il GFR è <30 ml/min, salendo con gradualità ogni 2-5 settimane fino alla dose che consente di raggiungere il target di uricemia <6 mg/dl, e potendo arrivare anche sino a 300 mg/die finché il GFR resta >15 ml/min. Nel paziente in trattamento sostitutivo occorre ricordare che la dialisi rimuove l’UA, ma che, mentre la dialisi peritoneale lo fa in modo continuo, l’emodialisi lo fa ad intermittenza, con una modalità che potrebbe da sola non essere sufficiente nelle forme di gotta severa; a questo proposito va quindi tenuto presente che l’eventuale assunzione dell’allopurinolo deve avvenire dopo la seduta dialitica perché l’emodialisi rimuove il suo metabolita attivo(9,10,43).

Il febuxostat è un inibitore selettivo non purinico di XOR, più costoso dell’allopurinolo, per il quale occorre ricordare che, come quest’ultimo, interferisce con il metabolismo dell’azatioprina. Esso è anche in grado di inibire ABCG2 e di rallentare così l’eliminazione dei propri metaboliti senza tuttavia innalzare significativamente l’uricemia. Avendo un metabolismo prevalentemente epatico è utilizzabile nella CKD a 40 mg/die, ma probabilmente anche a dosi maggiori, con buon profilo di sicurezza, finché il GFR si mantiene >15 ml/min. Se l’avvio del trattamento avviene quando il paziente ha già GFR <30 ml/min, è opportuno farlo a posologia ridotta; in dialisi, pur con pochi dati al riguardo, dosi di 20-40 mg sembrano ben tollerate(9,10,43).
Il topiroxostat è un altro inibitore selettivo non purinico di XOR, approvato solo in Giappone e con profilo di sicurezza non dissimile dai precedenti, che si somministra alla dose di mantenimento di 60-80 mg due volte al dì (9,43).
Gli URICOSURICI sono farmaci ULT di seconda scelta che non funzionano se il GFR è inferiore a 20-30 ml/min, possono indurre nefrolitiasi e vengono generalmente impiegati, pur con tutti i limiti appena descritti, in caso di intolleranza agli XORi o in associazione a questi ultimi quando la monoterapia si rivela insufficiente.
Il probenecid è un inibitore non selettivo di URAT1, che in minor misura agisce anche su GLUT9, OAT1 e OAT3, del quale occorre tener presente la capacità di alterare la clearance di altri farmaci quali ad esempio penicilline, furosemide e methotrexate. Si somministra a una dose variabile da 0.5 a 2 g al giorno(43).
Il benzbromarone è un uricosurico non selettivo più potente del precedente, che agisce allo stesso modo e che può dare epatotossicità. Si somministra alla dose 50-200 mg al giorno(43).
Il lesinurad è un inibitore selettivo di URAT1 che si somministrava alla dose di 200 mg al giorno, ma del quale l’industria farmaceutica ha recentemente cessato la produzione(9,10,43). Il dotinurad è un inibitore selettivo di URAT1 in grado di inibire anche l’inflammasoma NLRP3 che si somministra alla dose di 0.5-4 mg al giorno(43).
Il sulfinpirazone è un altro uricosurico non selettivo in via di cessazione di produzione la cui dose quotidiana varia da 100 a 800 mg suddivisi in due somministrazioni(43).
Le URICASI RICOMBINANTI hanno potente attività ipouricemizzante derivante dalla loro capacità di trasformare l’UA in allantoina, ma sono gravate dalla necessità di somministrazione per via endovenosa, da costi elevati e soprattutto dalla loro immunogenicità.
La rasburicase è indicata nelle HU di origine tumorale e nella sindrome da lisi tumorale alla dose endovenosa di 2 mg/kg/die per 1-5 giorni. Non sono consigliati cicli di trattamento ripetuti in quanto può indurre sia reazioni anafilattiche, sia sviluppo di anticorpi anti-farmaco che ne compromettono l’efficacia(43).
La pegloticase è la forma peghilata della precedente utilizzabile nella gotta severa e non responsiva ai farmaci delle categorie precedentemente illustrate. Ha lunga emivita per cui è sufficiente una somministrazione endovenosa di 8 mg ogni 2 settimane e, nel paziente con CKD, non necessita di adeguamento della dose al GFR. Suoi limiti sono rappresentati dalla necessità di infusione della durata di almeno 2 ore, dal costo elevato, dalle frequenti reazioni infusionali, dal rischio di sviluppo di anticorpi anti-farmaco che ne compromettono l’efficacia e dalla controindicazione all’impiego nei pazienti con favismo nei quali può scatenare crisi emolitiche(43).
Occorre poi tenere presente che esistono svariati farmaci concepiti per altre scopi che possiedono anche un effetto ipouricemizzante mediato dall’inibizione di URAT1. La conoscenza di questa loro caratteristica può consentire di sfruttarli laddove, insieme alla patologia per la quale sono primariamente indicati, coesista anche una HU: tra essi il losartan, i calcio-antagonisti diidropiridinici, gli SGLT2-inibitori (soprattutto empaglifozin), il fenofibrato e l’atorvastatina, le alte dosi di aspirina, la leflunomide, alcuni FANS (indometacina e fenilbutazone), il desametasone e gli estrogeni(10,44).
Parimenti esistono farmaci e sostanze che inducono HU, sempre mediata dell’interazione con trasportatori dell’UA della parete tubulare, effetto collaterale del quale è opportuno essere a conoscenza: i diuretici tiazidici e dell’ansa, alcuni beta-bloccanti (propranololo, atenololo, metoprololo e sotalolo), alcuni antitubercolari (pirazinamide e etambutolo), gli inibitori delle calcineurine, le basse dosi aspirina (effetto peraltro trascurabile rispetto al beneficio cardiovascolare indubbiamente offerto dal farmaco), l’insulina, il testosterone e il lattato(44).

 

È plausibile che la somministrazione della ULT nella CKD possa esercitare anche un’azione nefroprotettiva?

Un piccolo trial randomizzato e controllato (RCT) del 2006 condotto a Hong Kong su 54 pazienti iperuricemici con CKD(45) documentava un rallentamento del calo del GFR rispetto ai controlli dopo 12 mesi di trattamento con allopurinolo.
Giungevano ad analoghe conclusioni, dopo 24 mesi di trattamento con allopurinolo, anche due studi spagnoli del 2010 e del 2015, peraltro non disegnati in doppio-cieco, rispettivamente su 113 e 107 pazienti con CKD(46-47).
Lo studio RENAAL, disegnato per valutare gli effetti antiipertensivi del losartan(48-49), evidenziava anche un effetto ipouricemizzante del farmaco che determinava una riduzione del 6% del rischio di progressione della CKD per ogni 0.5 mg/dl di riduzione dell’uricemia. Le linee guida KDIGO per la gestione della CKD, la cui stesura risale peraltro ormai al 2012, riportavano tuttavia l’inesistenza di sufficienti evidenze sia per supportare, sia per controindicare l’impiego della ULT allo scopo di rallentare la progressione della nefropatia nel paziente con CKD ed HU sintomatica o asintomatica(50), lasciando del tutto all’orientamento personale di ogni medico la scelta del comportamento da adottare di fronte a ciascun singolo caso. Purtroppo, anche l’ormai lunga serie di studi al riguardo successivi a quella data ha continuato a fornire dati non univoci e spesso criticabili.
Nel 2017 uno studio con 7 anni di follow up condotto con il criterio della randomizzazione mendeliana su 3.896 caucasici finnici affetti da diabete di tipo 1(51) concludeva che la HU è indipendentemente associata al calo del GFR, ma non con un rapporto causale.
Anche da una revisione a ombrello di precedenti meta-analisi di Li e coll. del 2017(52) emergeva un nesso causale tra livelli di UA e sviluppo di gotta o nefrolitiasi, ma non tra livelli di UA e ipertensione o CKD, la cui semplice associazione veniva ritenuta insufficiente ad autorizzare la prescrizione della ULT a scopo nefroprotettivo.
Un’altra meta-analisi cinese del 2017(53) su 16 RCT comprendenti 1.211 pazienti con CKD trovava invece un tasso di declino significativamente inferiore nei pazienti trattati con ULT.

I risultati dello studio FEATHER, un RCT di confronto tra febuxostat e placebo su 443 pazienti con HU asintomatica e CKD in stadio 3, pubblicati da Kimura e coll. nel 2018(54), non mostravano differenze significative nel tasso di riduzione del GFR tra i due gruppi, anche se emergeva invece un significativo beneficio in un sottogruppo di pazienti con malattia meno avanzata, cioè senza proteinuria e con creatininemia inferiore alla media complessiva.
Uno studio retrospettivo del 2018(55) su 12.751 pazienti con CKD stadio 2-4, confrontando quelli trattati con ULT fino a raggiungere un’uricemia inferiore a 6 mg/dl rispetto ai non trattati, concludeva che i primi avevano una significativa maggior probabilità di miglioramento del GFR, soprattutto negli stadi 2 e 3, ma non nello stadio 4.
Kojima e coll hanno pubblicato nel 2019 i risultati dello studio FREED(56), un RCT multicentrico giapponese con 3 anni di follow up su 1.070 anziani iperuricemici con ipertensione, diabete, CKD o patologia cardiovascolare, nell’ambito del quale l’andamento del gruppo di quelli trattati con febuxostat è stato confrontato con quello dei non trattati, dimostrando che il raggiungimento di un end-point composito, costituito dal tasso di eventi cerebrali, cardiovascolari, renali o mortali, era significativamente inferiore tra i primi. Una meta-analisi di studi condotti su pazienti di origine europea eseguita con il metodo della randomizzazione mendeliana e pubblicata nel 2019(57) dimostrava invece nuovamente, pur in presenza di un nesso causale tra livelli di UA e rischio di gotta, l’assenza di un analogo nesso rispetto al rischio di riduzione del GFR per cui gli Autori giudicavano improbabile un effetto nefroprotettivo da parte della ULT.
Due importanti studi pubblicati nel 2020(58-59), a seguito descritti, sui quali erano riposte le aspettative di molti per una definitiva dimostrazione della possibile utilità della ULT per rallentare il calo del GFR nella HU della CKD non hanno invece raggiunto questo traguardo. Lo studio PERL(58), RCT effettuato su 530 pazienti statunitensi e canadesi con diabete tipo 1 e CKD stadio 1-3a, non ha mostrato differenze significative nel tasso medio di declino del GFR tra il gruppo trattato con l’allopurinolo e quello trattato con il placebo. Lungo l’elenco delle successive osservazioni riguardanti i limiti che potrebbero aver inficiato le conclusioni di questo studio: casistica relativamente piccola, reclutamento pianificato per pazienti con uricemia >4.5 mg/dl (quindi anche con uricemia normale) ed attuato in soggetti con diabete mediamente di lunga durata, mal controllato e con nefropatia ad andamento fast- progressive(4,9,36,60).
Lo studio australiano e neozelandese CKD-FIX(59), RCT su 363 pazienti con CKD in stadio 3- 4 senza gotta, diabetici e non, trattati in parte con allopurinolo ed in parte con placebo e seguiti per 2 anni, ha ottenuto una riduzione delle uricemie nel braccio con allopurinolo senza ottenere differenze significative nel tasso annuo di riduzione del GFR rispetto al braccio con placebo. Anche in questo caso sono stati elencati svariati limiti che potrebbero aver inficiato le conclusioni dello studio: casistica relativamente piccola e comprendente pazienti con CKD già troppo avanzata, arruolamento avvenuto in modo incompleto (solo al 60% rispetto al numero preventivamente pianificato), elevata (17-30%) percentuale di interruzione della terapia senza conseguente esclusione di questi pazienti dalla casistica, eccessiva eterogeneità delle uricemie basali per mancata adozione tra i criteri di inclusione di un range ben definito(4,9,36,60).

Da segnalare a questo proposito anche altre non dirette e più generali osservazioni, valide per ottimizzare il disegno di eventuali futuri studi, sul fatto che i benefici del trattamento con ULT potrebbero anche variare in funzione dell’età(60), della durata(60) e della tipologia della nefropatia di base(35,61), oltre che del tipo, della dose e della durata(4) del trattamento ipouricemizzante.
Sempre nel 2020 Chen e coll.(62) hanno effettuato una revisione sistematica con meta- analisi di 28 RCT, tra i quali erano inclusi anche gli studi FEATHER, PERL e CKD-FIX e complessivamente riguardanti 3.934 pazienti, senza trovare benefici cardio-nefroprotettivi della ULT. Anche un successivo aggiornamento di questo studio, riportato nelle linee-guida CARI messe a punto in Australia e Nuova Zelanda nel 2022(63), nel quale sono stati selezionati 17 dei 28 RCT analizzati nel lavoro precedente, nello specifico quelli nei quali almeno il 66% dei soggetti reclutati risultasse affetto da CKD, e ne sono stati aggiunti 2 con analoghe caratteristiche, pur appurando che la ULT riduce gli attacchi gotta e non è meno sicura del placebo, ha confermato l’assenza di benefici cardionefroprotettivi e la non indicazione al suo impiego con questo scopo. Costituisce tuttavia un limite di entrambi questi studi il fatto che non tutti i pazienti avessero una HU e una CKD(4).
Nel 2022 Tien e coll. di Taiwan(64) hanno pubblicato una revisione sistematica con meta- analisi di 13 RCT riguardanti complessivamente 2.842 pazienti con aHU rilevando benefici nefroprotettivi della ULT rispetto al placebo, dove però raggiungevano la significatività quelli trattati con allopurinolo, ma non quelli trattati con febuxostat.
Un’altra revisione sistematica con meta-analisi di Tsukamoto e coll.(65) su 10 RCT che includevano 1.480 pazienti con CKD ha documentato una significativa azione nefroprotettiva del topiroxostat e del febuxostat nei pazienti con HU, ma non dell’allopurinolo e della pegloticase.
Al contrario, uno studio retrospettivo statunitense su 269.651 pazienti con GFR >60 ml/min e senza albuminuria non solo non mostrava benefici nefroprotettivi nell’avvio della ULT, ma addirittura rilevava un maggior rischio di insorgenza di CKD(66).
Sempre nel 2022, il trail randomizzato ALL-HEART ha arruolato 5.721 ultrasessantenni del Regno Unito con cardiopatia ischemica e senza gotta non trovando differenze nel raggiungimento di un endpoint composito, riguardante eventi cardiovascolari sfavorevoli, tra trattati anche con allopurinolo e trattati solo con le cure usuali(67).
Nel 2023 una meta-analisi, eseguita da Autori brasiliani(68) su 18 RCT complessivamente riguardanti 2.463 pazienti con CKD, ha documentato significativi effetti nefroprotettivi della ULT rispetto al placebo.
Ancora nel 2023 i risultati pubblicati da Yang e coll.(69), relativi ad un RCT multicentrico cinese su 100 pazienti con CKD in stadio 3-4 seguiti per 12 mesi, mostrano un rallentamento del declino del GFR nel gruppo trattato con febuxostat rispetto a quello trattato con placebo.
Per quanto attiene il confronto tra i diversi farmaci utilizzabili per la ULT nella CKD, sia in termini di sicurezza di impiego, sia in termini di maggior o minor efficacia cardionefroprotettiva, alcuni articoli di più recente pubblicazione forniscono indicazioni, anche anche in questo caso non tali da consentire di trarne univoche conclusioni.
Lo studio CARES del 2018(70), un RCT su 6.190 pazienti con gotta e patologia cardiovascolare, stratificati per livelli di GFR, dimostra la non inferiorità del febuxostat rispetto all’allopurinolo per tasso di eventi cardiovascolari avversi, ma ne palesa una maggior mortalità totale e cardiovascolare. I risultati di questo studio sono stati peraltro messi in discussione per l’alto tasso di sospensione del trattamento e di perdita al follow- up, la mancanza di un gruppo di controllo con placebo e l’insufficiente associata prescrizione di farmaci cardioprotettivi nei cardiopatici arruolati per lo studio(43).
Nel 2021 Pawar e coll., per rivalutare il problema della sicurezza cardiovascolare in un contesto reale, hanno esaminato retrospettivamente i dati relativi a 467.461 pazienti del sistema statunitense Medicare giungendo alla conclusione che il febuxostat non aumenta il rischio cardiovascolare rispetto all’allopurinolo(71).
La già citata revisione sistematica con meta-analisi di Tsukamoto e coll. del 2022(65) su studi relativi a pazienti con CKD documenta una significativa azione nefroprotettiva del topiroxostat e del febuxostat, ma non dell’allopurinolo e della pegloticase.
Altri 2 RCT cinesi pubblicati nel 2022 e condotti per 6 mesi rispettivamente su 100 e 120 pazienti con CKD mostrano nel primo caso(72) la superiorità del febuxostat rispetto all’allopurinolo sia come effetto nefroprotettivo, sia come sicurezza d’impiego, e nel secondo caso(73), la maggior nefroprotezione offerta delle basse dosi di febuxostat rispetto a quelle di allopurinolo (20 mg e 200 mg rispettivamente) con sicurezza d’impiego non inferiore.
Uno studio retrospettivo del 2023 condotto da Lai e coll.(74) su 13.661 pazienti di Taiwan con aHU in trattamento con ULT evidenzia minor rischio di sviluppare CKD con il benzbromarone che non con l’allopurinolo.
Un’analisi post-hoc del 2023 di Kohagura e coll.(75), riferita a 707 dei 1.070 pazienti dello studio FREED(56) che avevano un GFR <60 ml/min, evidenzia che il rischio relativo di sviluppo o peggioramento della macroalbuminuria era del 56% inferiore nel gruppo con febuxostat rispetto ai controlli.
In un altro studio randomizzato di Kohagura e coll. su 95 pazienti con ipertensione, HU e CKD in stadio 3(76) non sono emerse differenze nel declino del GFR fra quelli trattati con febuxostat e quelli trattati con benzbromarone. Il declino del GFR era peraltro significativamente inferiore con febuxostat nel sottogruppo con CKD in stadio 3a, ma non in quello in stadio 3b: tutto sommato una non trascurabile conferma che, anche i farmaci che mostrano un’efficacia nefroprotettiva nelle fasi più precoci della CKD, tendono a perderla nei pazienti con CKD in stadio più avanzato.
La già citata meta-analisi di Bignardi e coll.(68), che documenta l’utilità della ULT ai fini nefroprotettivi, non ha trovato differenze di efficacia in tal senso fra i tre XORi studiati. Va infine per completezza ricordato che, una recente ricognizione dello stato dell’arte sui rapporti tra HU e CKD anche nell’ambito del trapianto renale, riporta un analogo clima di incertezza caratterizzato dall’evidenza che la HU, presente nel 28% dei casi, costituisca un indubbio fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di insufficienza del rene trapiantato, ma con rapporto di causalità e indicazioni all’impiego della ULT ancora oggetto di dubbi(77).
In conclusione, come ben dimostrato non solo dall’insieme dei risultati delle ricerche sin qui citate, ma anche dall’accesa diatriba consegnata alla Letteratura(78-80) da gruppi di Autori in dissenso su quali caratteristiche conferiscano maggiore o minore attendibilità agli studi (degne di menzione, a questo proposito, anche le critiche ai lavori nei cui gruppi di controllo non era avvenuta, come lecito attendersi, una significativa progressione della nefropatia), e come ben riporta il titolo di un’ampia revisione sull’argomento recentemente pubblicata(4), probabilmente molto resta ancora da fare.

 

Quali comportamenti clinici e quali future ricerche gli esperti suggeriscono di adottare alla luce dell’attuale stato delle conoscenze?

Alcuni Autori(4) suggeriscono di affrontare il problema del trattamento della HU nella CKD distinguendo i comportamenti da adottare nei pazienti con gotta da quelli nei pazienti con aHU: nel primo caso la ULT, che trova comunque indicazione per ridurre il rischio di ricorrenza degli attacchi artritici e di peggioramento del danno articolare perseguendo un target di uricemia <5-6 mg/dl(81-85), ha buona probabilità di interferire favorevolmente sulla patologia da deposito di cristalli che si sviluppa anche in sede extra-articolare (renale e vascolare)(4,39); nel secondo caso, poiché i controversi risultati delle meta-analisi si spiegherebbero anche con il fatto che alcuni sottogruppi di pazienti potrebbero giovarsi più di altri della ULT, sembra trovare crescenti consensi l’idea che la ricerca venga orientata verso l’individuazione di tali sottogruppi(4,9,36,60). In particolare, secondo Johnson e coll.4), potrebbero essere da tenere in maggior considerazione quelli con patologia tissutale da cristalli ancora silente, oggi meglio identificabili con le indagini ecografiche e DECT già in precedenza citate, quelli con cristalluria ricorrente e/o nefrolitiasi uratica e quelli con aumentati livelli intracellulari di UA, questi ultimi indirettamente individuabili attraverso il rilievo di un’incrementata attività plasmatica della XOR. Altri punti fondamentali da tenere presente nel disegnare futuri studi sono rappresentati: dal momento d’inizio della ULT (4,9,36,41), che dovrebbe essere quanto mai tempestivo e precoce perché il danno renale da UA solubile, una volta avviato, progredisce poi indipendentemente dai livelli di uricemia per l’iperfiltrazione e l’ipertensione glomerulare; dalla durata del trattamento(4) che sembra possa offrire benefici maggiori se protratto per almeno due anni; dalla verifica se il target di uricemia per ottenere l’effetto nefroprotettivo può essere o meno il medesimo adottato per la prevenzione della gotta(42).
Altri Autori(5,40,42) suggeriscono inoltre di chiarire fino a che punto gli effetti dei farmaci XORi dipendano in modo diretto dalla loro azione ipouricemizzante e non da altri effetti quali ad esempio l’azione anti-ossidante indotta dal blocco di altri substrati della XOR.

 

Conclusioni

E’ assodato che la HU costituisca un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo della CKD con crescenti anche se non definitive dimostrazioni di causalità legate a possibili plurimi meccanismi patogenetici.
In considerazione delle differenze nel metabolismo delle purine tra una specie e l’altra va ricordato che, qualunque risultato ottenuto in proposito da esperimenti su animali dotati di attività uricasica, necessita comunque di essere riconfermato nell’uomo.
A dispetto della presenza di un logico razionale per l’impiego della ULT ai fini del rallentamento della progressione della nefropatia nei pazienti con HU e CKD, i risultati controversi e i limiti degli studi a ciò rivolti non hanno finora portato a robuste e definitive dimostrazioni di reale efficacia in tal senso.

Poiché il danno renale UA-correlato, una volta indotto e consolidato, sembrerebbe mantenuto da meccanismi indipendenti dai livelli di uricemia, resta da confermare se un precoce avvio della ULT nelle fasi iniziali della nefropatia abbia maggiori probabilità di fornire reale nefroprotezione. Analogamente occorre appurare se esistano altri specifici sottogruppi di pazienti che per età, sesso, tipologia di danno, nefropatia di base o altre caratteristiche abbiano maggiori probabilità di potersi giovare di tale trattamento.
Sono pertanto auspicabili futuri più ampi RCT che, adeguatamente disegnati, e dotati di criteri di inclusione tali da superare i limiti di alcuni di quelli sin qui prodotti, analizzino la risposta ai differenti farmaci somministrati in fase iniziale di malattia, per un tempo sufficiente e in dosi idonee al raggiungimento di un target di uricemia che va anch’esso meglio ridefinito.
Nel frattempo, nella pratica clinica quotidiana, è opportuno tenere sempre presente che quella dell’utilità della ULT a scopo nefroprotettivo nella CKD rimane una questione aperta e che tale terapia, per ora non raccomandata dalle linee guida per il protrarsi della mancanza di sicure evidenze, potrebbe in realtà essere di grande utilità almeno per alcuni dei nostri pazienti.

 

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Finerenone: effetti sulla proteinuria e nefroprotezione

Abstract

Un numero sempre maggiore di evidenze sperimentali e cliniche confermano che l’aldosterone contribuisce, indipendentemente dai suoi classici effetti omeostatici, alla patogenesi ed alla progressione della malattia renale cronica (CKD).

Infatti, l’attivazione del recettore mineralcorticoide (MR), presente nel rene a livello podocitario e mesangiale oltre che endoteliale e tubulo-interstiziale, è stata messa in relazione con il danno podocitario e la conseguente apoptosi, la proliferazione delle cellule mesangiali, l’infiammazione del compartimento tubulointerstiziale con l’esito in fibrosi interstiziale e glomerulare.

Pertanto, il blocco del MR può rappresentare un trattamento efficace della terapia della CKD. Oggi sono disponibili diverse molecole in grado di inibire il MR, con caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche differenti.

In questa breve review ci soffermeremo sulle caratteristiche di queste molecole ed in particolare del Finerenone, un inibitore del MR (MRA) di nuova generazione, non steroideo, contraddistinto da minimi effetti collaterali ed elevata efficacia farmacologica.

Parole chiave: antagonisti del recettore mineralcorticoide dell’aldosterone, malattia renale cronica, iperpotassiemia, rischio cardiovascolare, finerenone

Introduzione

Per molto tempo l’azione dell’aldosterone è stata ritenuta essere limitata al rene al fine di garantire il mantenimento dell’omeostasi del volume extracellulare e degli elettroliti.

Recentemente, però, tale approccio è stato rivisto alla luce della definizione di molti effetti biologici pleiotropici dell’aldosterone, che si aggiungono ai classici effetti esercitati sulle cellule tubulari renali.

Nel rene il recettore mineralcorticoide (MR) è infatti espresso praticamente in tutte le linee cellulari residenti: cellule della linea monocito-macrofagica, endoteliali, muscolari liscie, mesangiali, podocitarie e tubulari. La sua attivazione è stata correlata in molti modelli sperimentali al danno podocitario, alla proliferazione mesangiale, alla sclerosi glomerulare e alla fibrosi interstiziale. Gli stessi modelli hanno dimostrato che il blocco del MR induce una remissione del danno tissutale [1].

Pertanto, il riconoscimento dei molteplici effetti dell’aldosterone nella modulazione dell’emodinamica intrarenale, dell’infiammazione, della fibrosi, della funzione endoteliale e dello stress ossidativo si pone a supporto del crescente utilizzo dei farmaci bloccanti del recettore mineralcorticoide (MRA) nella pratica clinica nefrologica [2].

L’aldosterone è divenuto un bersaglio terapeutico nella CKD dal 2001, quando Chrysostomou et al. [3] dimostrarono in una coorte di pazienti affetti da CKD proteinurica che l’aggiunta dello spironolattone alla terapia con ACE inibitori riduceva la proteinuria senza effetti negativi sulla funzione renale. Cinque anni dopo, nel 2006, Epstein et al. [4] confermarono tali risultati per un altro MRA,  Eplerenone. Complessivamente nella prima decade del 2000 stati molti gli studi che, su coorti di dimensioni ridotte, hanno dimostrato in vari studi la  efficacia efficacia dei MRA in termini di riduzione della proteinuria e di stabilizzazione del GFR [5].

Bianchi et al. [6] dimostrarono in una coorte di pazienti con CKD non diabetica che l’effetto antiproteinurico dello spironolattone, già evidente dopo due settimane, era indipendente dai livelli basali di aldosterone.

Nel 2005 Sato et al. [7] confermarono l’effetto dello spironolattone nella CKD diabetica, dimostrando che l’impatto sulla proteinuria era maggiore nei pazienti che mostravano il fenomeno dell’Aldosterone Breakthrough.

“Aldosterone Breakthrough” è un termine coniato per definire un fenomeno che avviene nel 30-40% dei pazienti che avviano un trattamento con RAS inibitori, nei quali dopo un periodo di riduzione dei livelli sierici di aldosterone, si osserva un ritorno di tali livelli ai valori pre-trattamento; fenomeno che si accompagna ad una prognosi peggiore rispetto ai pazienti che mostrano una soppressione continua di questo ormone [8]. Sulla base di tale evidenza venne quindi riconosciuto un razionale fisiopatologico che potesse spiegare i benefici del blocco del recettore mineralcorticoide [9].

Dal punto di vista fisiopatologico, l’impiego degli MRA è stato poi giustificato da una serie di osservazioni che nel tempo hanno rivelato la notevole complessità del signalling mineralcorticoide.

Studi di biologia molecolare focalizzati sul MR hanno evidenziato infatti che quest’ultimo può essere attivato con un meccanismo aldosterone indipendente mediato dal RAC1, una proteina G nota nella patologia renale per essere implicata nei meccanismi di danno podocitario in risposta a stimoli quali il sovraccarico di sodio e glucosio, l’angiotensina II e multiple citochine [10, 11].

Sulla base delle evidenze cliniche e precliniche il blocco del MR guadagnava quindi un’attenzione crescente, e non soltanto in ambito nefrologico: infatti, i primi studi clinici randomizzati sugli MRA, il RALES con lo spironolattone, l’EPHESUS e l’EMPHASIS-HF con eplerenone [12, 13], avevano dimostrato che tali farmaci conferivano una protezione dal rischio di morte nei pazienti affetti da scompenso cardiaco, rendendo quindi gli MRA una classe di farmaci di straordinaria importanza nella terapia dello scompenso cardiaco.

Tuttavia, l’uso routinario degli MRA steroidei è stato limitato da ad una serie di rilevanti effetti collaterali quali l’iperpotassiemia, la ginecomastia e l’impotenza.

Particolarmente rilevante in ambito nefrologico il rischio di iperpotassiemia associato all’uso di MRA, raddoppiato nei pazienti in CKD non in dialisi ed aumentato di ben tre volte nei pazienti in trattamento dialitico rispetto a quanto osservato nei pazienti con normale funzione renale [14].

Questo ha spinto la ricerca allo sviluppo di MRA potenti ma più selettivi. Le nuove tecnologie di biologia molecolare hanno reso possibile lo sviluppo di una nuova classe di MRA, gli antagonisti del MR non steroidei. Le due molecole appartenenti a questa nuova classe di farmaci sono l’esaxerenone, il cui commercio è limitato al Giappone per la cura dell’ipertensione arteriosa, ed il finerenone, sul quale si è concentrata la ricerca in ambito nefrologico.

 

Peculiarità del finerenone

Eplerenone e spironolattone sono  MRA steroidei. Il finerenone è un MRA non steroideo, con una breve emivita e senza metaboliti attivi, mentre lo Spironolattone è profarmaco di molti metaboliti attivi che possono essere individuati nelle urine fino a 4 settimane dopo la sospensione del trattamento ed essere attivi farmacologicamente fino a circa 2 settimane dopo la sospensione. Il  finerenone si distribuisce equamente tra cuore e rene, a differenza di eplerenone e spironolattone che hanno una maggiore concentrazione a livello del rene con un conseguente  maggiore effetto sul bilancio di sodio e potassio.

Ci sono delle differenze anche nella farmacodinamica che avvantaggiano il finerenone: la IC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per inibire del 50% l’attivazione del recettore MR, è pari a 17.8 per finerenone, ed è più bassa sia rispetto a spironolattone che eplerenone . D’altra parte, lo spironolattone ha una IC50 per il legame con il recettore degli androgeni (77 vs > 10.000 di finerenone) e i glucocorticoidi (2410 vs >10.000 di finerenone). Anche la concentrazione di farmaco richiesta per attivare il 50% del recettore del progesterone è nettamente minore per lo spironolattone (740 vs >10.000 di finerenone) [15, 16].

Inoltre, il finerenone inibisce il reclutamento di cofattori ai vari domini del MR (che in genere dipende dai livelli di aldosterone) ed in questo modo riduce l’espressione di geni pro-infiammatori e pro-fibrotici. Tale effetto è assente per quanto riguarda lo spironolattone, e nettamente inferiore per quanto riguarda l’eplerenone. Pertanto, la cascata di segnali a valle del recettore evocata da MRA steroidei e non steroidei è differente e questo giustifica la presenza (o assenza per finerenone) di effetti colleterali di tipo endocrino [17].

 

Effetti su proteinuria e protezione renale

I due principali trial compiuti utilizzando finerenone sono stati entrambi condotti in pazienti affetti da Diabete Mellito di tipo 2 e CKD.

Nel trial di fase 3 FIDELIO [18] sono stati arruolati 5734 pazienti randomizzati 1:1 a finerenone o placebo, follow-up 31 mesi. I criteri di inclusione erano: la presenza di CKD con eGFR 25-60 mL/min, UACR 30-300mg/g e retinopatia diabetica; oppure CKD con eGFR 25-75 mL/min e UACR>300 mg/g.

Il trial FIGARO [19] presentava un disegno simile con follow up di 41 mesi. I criteri di inclusione erano eGFR 25-90 mL/min e UACR 30-300 mg/g, oppure eGFR>60 mL/min e UACR 300-5000 mg/g).

Entrambi gli studi avevano gli stessi endpoint: la riduzione degli eventi per un composito renale di morte per cause renali, decremento sostenuto del GFR di almeno il 40% rispetto al basale, raggiungimento dell’ESRD; la riduzione degli eventi per un composito cardiovascolare di morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale, stroke e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Nel FIDELIO l’endpoint renale era il primario ed il cardiovascolare il secondario, nel FIGARO il contrario.

Dal punto di vista dell’endpoint primario renale nel FIDELIO il Finerenone ha raggiunto l’endpoint, con un HR di 0.82 (CI 0.75-0.93); nel FIGARO si è osservata una riduzione degli eventi renali sovrapponibile, ma non statisticamente significativa, con un HR di 0.87 (CI 0.76-1.01). In entrambi gli studi è stato raggiunto l’endpoint cardiovascolare.

I dati dei due trial sono stati successivamente aggregati in una pooled analysis nell’ambito del FIDELITY Trial Programme Analysis [20] a formare una eterogenea popolazione di 13026 pazienti con diabete mellito di tipo 2 e CKD in trattamento massimale con RAS inibitori: il 40% dei pazienti era in stadio 1-2 di CKD, il 60% dei pazienti in stadio 3-4; il 67% dei pazienti aveva una UACR maggiore di 300 mg/g, il 21.3% una UACR minore 300 mg/g, l’1.7% dei pazienti aveva una UACR < 30 mg/g.

È stato definito un outcome composito di un decremento sostenuto per 4 settimane del GFR ≥ del 57%, arrivo alla insufficienza renale terminale e morte per cause renali.

I risultati hanno dimostrato che nel gruppo trattato con Finerenone l’outcome composito è stato raggiunto nel 5.5% dei casi mentre nel gruppo placebo è stato raggiunto nel 7.1% dei casi. Tale differenza corrisponde ad una riduzione dell’HR del 23% per l’outcome composito (HR 0.77, CI 0.67-0.88).

Valutando i singoli eventi, la riduzione dell’HR per il peggioramento funzionale renale è stata del 30% (HR 0.70, CI 0.60-0.83); la riduzione dell’HR per l’arrivo alla insufficienza renale terminale è stata del 20% (HR 0.80, CI 0.64-0.99); l’incidenza della morte per cause renali è stata talmente bassa in entrambi i gruppi da precludere ogni tipo di analisi (2 pazienti nel gruppo trattato, 4 pazienti nel gruppo placebo).

Da questi risultati emerge che l’NNT stimato è 20, ossia che per prevenire un evento occorre trattare 60 pazienti con DM2 e malattia renale cronica negli stadi da 1 a 4, proteinurica o non proteinurica, per 3 anni.

Analizzando l’impatto del farmaco sulla proteinuria, nel FIDELITY il Finerenone ha dimostrato un marcato effetto antiproteinurico indipendente dall’entità della proteinuria al baseline: nei microalbuminurici la riduzione dell’UACR è stata del 33% nei pazienti trattati contro un aumento del 3% nel gruppo placebo, mentre nei macroalbuminurici la riduzione della proteinuria è stata del 39% nei pazienti trattati contro una riduzione del 12% nel gruppo placebo.

Tuttavia, a fronte di un effetto antiproteinurico sovrapponibile, l’analisi per sottogruppi mostra chiaramente come i benefici del finerenone siano concentrati sulla popolazione macroalbuminurica: in questi pazienti l’HR per l’outcome composito è di 0.75 (CI 0.65-0.87), mentre nei pazienti microalbuminurici il risultato è inconsistente, con un HR di 0.94 e CI compreso tra 0.60-1.47.

Tale differenza può essere imputata ad un’incidenza dell’outcome renale notevolmente ridotta nei pazienti microalbuminurici (78 eventi su 4099 pazienti) rispetto ai pazienti macroalbuminurici (745 eventi su 8692 pazienti).

Per spiegare questa differenza si possono analizzare i dati relativi agli eventi cardiovascolari, i quali hanno mostrato una distribuzione indipendente dall’UACR. Allo stesso modo il beneficio del trattamento sull’outcome cardiovascolari si è mantenuto a prescindere dall’UACR.

Mentre nei pazienti macroalbuminurici l’incidenza degli eventi cardiovascolari e di quelli renali è nello stesso ordine di grandezza (su 8692 pazienti si sono registrati 1185 eventi cardiovascolari e 745 eventi renali), su 4099 pazienti microalbuminurici si sono registrati 552 eventi cardiovascolari ma solo 78 eventi renali.

Premesso che i trial in esame hanno dimostrato che sia la malattia cardiovascolare che la malattia renale nel paziente diabetico siano allo stesso modo sostenute dall’attivazione del recettore mineralcorticoide, il beneficio del finerenone nei pazienti microalbuminurici potrebbe essere postulato considerando la riduzione degli eventi cardiovascolari.

Si può dunque ipotizzare che nel paziente microalbuminurico, per definizione a rischio minore di progressione della malattia renale, siano necessari tempi di osservazione più lunghi per provare un beneficio renale, e quindi necessario un follow-up maggiore per osservare un effetto significativo [21].

Un’attenta analisi dei due studi si è concentrata anche sull’iperkaliemia, effetto collaterale che nella pratica clinica ha costituito da sempre de facto la principale limitazione all’uso degli MRA. Nei due trial sono stati esclusi tutti i pazienti che, sotto trattamento massimale con RAS inibitori, avevano una kaliemia pari o superiore a 4.8 mmol/L. Nel gruppo trattato l’incidenza di iperkaliemia necessitante la sospensione del trattamento è stata del 2.4% contro lo 0.8% registrato nel gruppo placebo; l’incidenza di iperkaliemia necessitante ospedalizzazione nel gruppo trattato è stata dell’1.4% contro lo 0.3% registrato nel gruppo placebo. Nessun evento fatale attribuibile ad iperkaliemia è stato osservato nei due studi.

 

Conclusioni

Dati gli ottimi risultati ottenuti nell’ambito della malattia renale diabetica, è lecito chiedersi se l’effetto nefroprotettivo possa essere ipotizzabile anche nella malattia renale non diabetica.

A questa domanda risponderà il trial FIND-CKD [22], la cui conclusione è prevista nel 2026 il quale è stato progettato incentrando il disegno sulla nefroprotezione: l’outcome primitivo è infatti costituito dalla perdita di GFR.

Nello studio sono stati arruolati 1584 pazienti affetti da malattia renale cronica non diabetica con eGFR tra 25 e 90 mL/min e UACR tra 200 e 3500 mg/g, con esclusione dei pazienti affetti da malattia renale immunomediata o che abbiano ricevuto una terapia immunosoppressiva ed i pazienti affetti da rene policistico autosomico dominante. Il follow-up è compreso tra un minimo di 32 ed un massimo di 49 mesi. Tra gli endpoint è degno di nota un composito cardiorenale di decremento sostenuto del GFR ≥ 57%, ospedalizzazione per scompenso cardiaco e morte cardiovascolare.

Nella tabella 1 sono elencati i principali trial in corso sul finerenone. I risultati di tali trial, se favorevoli, probabilmente apriranno la strada per un impiego routinario del finerenone anche nel paziente con CKD non diabetico.

TRIAL CRITERI DI INCLUSIONE ENDPOINTS OBIETTIVI
FINEROD 

Osservazionale

In reclutamento (2500 pz), 2024

Diabete mellito di tipo 2

Malattia renale cronica stadio 2-4

UACR > 30 mg/g

Già in trattamento con Finerenone

Descrittivo Osservare una coorte di pazienti in trattamento con Finerenone
CONFIDENCE

RCT multicentrico Fase 2

Attivo (807 pz) 2025

Diabete mellito di tipo 2 con Hb glicata < 11%

Malattia renale cronica con eGFR 20-90 mL/min o 30-90 mL/min

UACR tra 100 e 5000 mg/g

Primari:

Variazione dell’UACR

Secondari:

Variazione del GFR

Incidenza di danno renale acuto

Incidenza di Iperpotasiemia

Incidenza di  eventi renali avversi acuti

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del trattamento combinato Finerenone+Empagliflozin nel diabetico tipo 2 con malattia renale cronica
EFFEKTOR

RCT multicentrico Fase 2

In reclutamento (150), 2025

Riceventi di trapianto renale

eGFR> 25mL/min

UACR > 30 mg/g

Primari:

Reclutamento di un numero adeguato di pazienti

Secondari:

Sospensione del farmaco

Incidenza di eventi avversi

Incidenza di iperpotassiemia

Incidenza di eventi renali avversi acuti

Ospedalizzazione per scompenso cardiaco

% istologica di fibrosi interstiziale ed atrofia tubulare

Variazione dei parametri valutati con risonanza magnetica funzionale renale

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del Finerenone nel paziente trapiantato con albuminuria, valutazione istologica dell’effetto del Finerenone
REDEFINE-HF

RCT multicentrico Fase 3

In reclutamento (5200 pz), 2026

Scompenso cardiaco a frazione di eiezione lievemente ridotta o preservata

NTproBNP>1000, BNP>250; NTproBNP>2000, BNP>500 se presente fibrillazione atriale

eGFR>25 mL/min

Primari:

Composito di ospedalizzazione o visita urgente per scompenso cardiaco, morte da causa cardiovascolare

Numero di eventi avversi

Numero di eventi avversi richiedenti sospensione del trattamento

Secondari:

Tempo di insorgenza degli outcome

Numero totale di HF

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del Finerenone nello scompenso cardiaco a frazione d’eiezione lievemente ridotta o conservata
FIND-CKD

RCT multicentrico Fase 3

Attivo (1584 pz), 2026

Malattia renale cronica stadio 2-4 non diabetica, non immunomediata

eGFR 25-90 mL/min

UACR 200-3500

Trattamento massimale con RAS inibitori

Primari:

Variazione del GFR a 32 mesi

Secondari:

Composito di arrivo all’ESRD, perdita di GFR del 57%, scompenso cardiaco e morte cardiovascolare

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del Finerenone nella malattia renale cronica non diabetica.
FINE-REAL

Osservazionale

In reclutamento (5500 pz)

2027

Diabete mellito di tipo 2

Malattia renale cronica

Già in trattamento con Finerenone

Descrittivo Osservare una coorte di pazienti in trattamento con Finerenone
Tabella 1. Principali Ongoing Trials sul Finerenone
Figura 1. In presenza di aldosterone, il MR viene attivato e recluta dei cofattori trascrizionali che permettono l’assemblaggio del complesso trascrizionale e la trascrizione dei geni bersaglio. In presenza di Finerenone, la funzione recettoriale del MR e la capacità di reclutare cofattori sono inibite. I geni bersaglio non sono trascritti. MR, mineralcorticoid reeptor; ASC2, activating signal cointegrator 2; NCoR, nuclear receptor corepressor 1; TIF1α: transcriptional intermediary factor α; TRAP220, mediator of RNA polymerase II transcription subunit 1

 

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  22. Heerspink HJL, Agarwal R, Bakris GL, Cherney DZI, Lam CSP, Neuen BL, Sarafidis PA, Tuttle KR, Wanner C, Brinker MD, Dizayee S, Kolkhof P, Schloemer P, Vesterinen P, Perkovic V; FIND-CKD investigators. Design and baseline characteristics of the Finerenone, in addition to standard of care, on the progression of kidney disease in patients with Non-Diabetic Chronic Kidney Disease (FIND-CKD) randomized trial. Nephrol Dial Transplant. 2024 Jun 11:gfae132. doi: 10.1093/ndt/gfae132. Epub ahead of print. PMID: 38858818.

Glifozine, contenimento della proteinuria e nefroprotezione

Abstract

Negli ultimi anni, la prevalenza della malattia renale cronica (CKD) ha subito un incremento significativo, con una stima di circa 843,6 milioni di individui affetti nel 2017 [1]. Questo aumento è strettamente correlato alla crescente incidenza di fattori di rischio quali il diabete mellito e l’obesità. I pazienti con nefropatia diabetica (DKD), una delle complicanze più comuni del diabete, sono caratterizzati da un’alta morbilità e mortalità cardiovascolare. Evidenze recenti indicano che gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) hanno un ruolo determinante nella riduzione della progressione sia della DKD sia della CKD, grazie ai loro effetti nefroprotettivi e cardioprotettivi. Gli SGLT2i agiscono diminuendo l’iperfiltrazione glomerulare, migliorando il feedback tubulo-glomerulare e riducendo la glicemia.

Parole chiave: malattia renale cronica, SGLT2i, nefroprotezione, proteinuria, iperfiltrazione

Introduzione

Attualmente, a livello globale, si stima una prevalenza di 537 milioni pazienti diabetici, numero destinato ad aumentare fino a 643 milioni entro il 2030 e a 783 milioni entro il 2045 [2]. L’obesità e il diabete rappresentano un riconosciuto fattore di rischio per la CKD e il link fisiopatologico che lega tali patologie, spesso coesistenti sul piano clinico, è rappresentato dall’iperfiltrazione [3]. Negli ultimi anni, numerose molecole sono state studiate al fine di rallentare la progressione della CKD, queste, sebbene differenti da un punto di vista biochimico, sono accomunate dall’effetto sull’iperfiltrazione. Tra queste, gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) hanno rappresentato una vera e propria svolta grazie ai loro effetti nefro e cardio protettivi e attualmente sono farmaci di prima linea per il trattamento della DKD e della CKD. . Numerosi studi clinici, tra cui CREDENCE, DAPA-CKD ed EMPA-KIDNEY [4–6], hanno dimostrato l’efficacia degli SGLT2i nel ridurre il rischio di progressione della CKD nei pazienti diabetici e non diabetici. Inoltre, ricerche recenti suggeriscono che gli SGLT2i possano avere effetti benefici anche nei pazienti affetti da glomerulonefriti e nei trapiantati di rene. Questi risultati supportano l’impiego degli SGLT2i come trattamento di prima linea nella gestione della DKD e della CKD.

 

Il ruolo degli SGLT2i nella DKD e nella CKD

La nefropatia diabetica è una patologia multifattoriale che coinvolge diversi processi fisiologici, emodinamici e infiammatori. Tra i fattori che giocano un ruolo predominante nella DKD, vi è sicuramente l’iperglicemia, infatti, è stato dimostrato che i pazienti con emoglobina glicata in range di normalità non sviluppano DKD [7]. L’iperglicemia induce l’aumento dell’attività del cotrasportatore SGLT2, responsabile di circa il 90% del riassorbimento del glucosio e della maggior parte del riassorbimento del sodio nel tubulo prossimale. Questo meccanismo ha un ruolo centrale nello sviluppo della DKD, infatti, a livello renale, l’assorbimento di glucosio non è mediato dallo stimolo insulinico (come per muscoli, adipociti ed epatociti), ma aumenta in proporzione alla concentrazione di glucosio nel plasma. Nel contesto del diabete di tipo II, questo assorbimento non regolato di glucosio induce un aumento di glucosio nelle cellule glomerulari e dei tubuli renali e devia il glucosio verso vie non glicolitiche, con conseguente glicosilazione delle proteine ​​e generazione dei prodotti di glicazione avanzata. I prodotti finali di queste vie promuovono la disfunzione mitocondriale, lo stress ossidativo e l’infiammazione [8].

Nella fisiopatologia della DKD un ruolo fondamentale è rivestito anche dall’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) e attori fondamentali della nefroprotezione sono gli ACE inibitori e gli ARB [9,10]. L’effetto nefroprotettivo dei bloccanti del RAAS si esplica sia nella riduzione dell’ipertensione arteriosa ma, soprattutto, nella riduzione dell’elevata pressione intraglomerulare, e della conseguente iperfiltrazione, caratteristica della DKD [9–12]. Tuttavia, i bloccanti del RAAS non annullano completamente la progressione della DKD, probabilmente a causa del fenomeno dell’aldosterone breakthrough, che porta ad un aumento dell’attività della renina a seguito di una prolungata inibizione del RAAS [13]. Ormai numerose evidenze hanno dimostrato come gli SGLT2i abbiano un effetto additivo a quello dei bloccanti del RAAS nel ridurre la progressione della DKD [14,15].

Gli SGLT2i riducendo i livelli di glucosio plasmatico sia a digiuno che postprandiali [16], riducono il glucosio nelle cellule glomerulari e nei tubuli renali e la conseguente produzione dei prodotti di glicazione avanzata. Gli SGLT2i riducono la soglia renale per l’escrezione del glucosio da ~10 mmol/l (180 mg/dl) a ~2,2 mmol/l (~40 mg/dl) [17] e la glicosuria che ne risulta, oltre a ridurre la concentrazione media di glucosio plasmatico, migliora la glucotossicità, con conseguente miglioramento della funzione delle cellule β pancreatiche che si traduce in una maggiore sensibilità all’insulina [16–18].

L’azione degli SGLT2i si esplica attraverso il ripristino del feedback tubulo-glomerulare, infatti, è ormai noto come il rilascio del cloruro di sodio alle cellule della macula densa dell’apparato iuxtaglomerulare giochi un ruolo centrale nella regolazione della frazione di filtrazione glomerulare (GFR) e della pressione intraglomerulare [19,20]. Nello specifico, una riduzione nel rilascio di cloruro di sodio a livello nella macula densa, attraverso la vasodilatazione della arteriola afferente aumenta e la pressione intraglomerulare. Al contrario, un aumento del rilascio di cloruro di sodio nella macula densa riduce la GFR e la pressione intraglomerulare attraverso la riattivazione del feedback tubulo-glomerulare. Alcuni studi su modelli animali hanno dimostrato come il diabete scarsamente controllato, inducendo un aumento del carico filtrato di glucosio, porti a un aumento del riassorbimento del glucosio accoppiato al sodio da parte del tubulo prossimale e ad una diminuzione del rilascio di sodio alla macula densa [21,22]. Questa diminuzione dell’apporto di sodio alla macula densa determina l’attivazione intrarenale del RAAS, la vasocostrizione dell’arteriola efferente, l’ipertensione glomerulare e l’iperfiltrazione renale [19,21,22]. Inoltre, il ridotto apporto di sodio alla macula densa inibisce la conversione dell’ATP in adenosina che ha a sua volta un effetto vasocostrittore, questo genera la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento del flusso plasmatico renale, con conseguente aumento della pressione intraglomerulare e dell’iperfiltrazione [23].

Anche a questo livello gli SGLT2i giocano un ruolo fondamentale, infatti, aumentando il ​​rilascio di sodio alla macula densa favoriscono la conversione dell’ATP in adenosina con conseguente vasodilatazione dell’arteriola efferente, diminuzione del flusso plasmatico renale, riduzione dell’ipertensione glomerulare e, a lungo termine, attenuano la progressione della DKD anche in pazienti con efficace inibizione del RAS [24]. Gli effetti sul feedback sono alla base del calo iniziale del GFR osservato nei pazienti che iniziano SGLT2i, e che risulta simile a quello osservato dopo l’inizio della terapia con antagonisti del RAS. La riduzione dell’iperfiltrazione si traduce in riduzione della proteinuria con conseguente miglioramento dell’outcome renale e cardiovascolare [25]. (Figura 1)

Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.
Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.

Ulteriori meccanismi sono coinvolti nella progressione della DKD tra cui: l’aumento dello stato infiammatorio, la disfunzione e la perdita sia delle cellule endoteliali che del podocita. In tutti questi meccanismi gli SGLT2i svolgono un ruolo protettivo fondamentale, infatti, alcuni studi hanno dimostrato la loro capacità di ridurre i markers di infiammazione [26,27], la disfunzione endoteliale e la perdita della funzionalità del podocita [9,28].

Negli ultimi anni diversi studi hanno dimostrato che gli effetti nefroprotettvi degli SGLT2i non si esplicano solo nella DKD ma anche nella CKD; infatti, gli effetti sull’emodinamica renale possono offrire una nefroprotezione efficace indipendente dai livelli ematici di glicemia [29]. L’iperfiltrazione secondaria all’alterazione del meccanismo di feedback tubuloglomerulare è infatti un meccanismo comune nella patogenesi sia nella CKD che nella DKD [30]. Nella CKD, l’iperfiltrazione rappresenta un meccanismo inizialmente di tipo adattativo secondario alla riduzione della popolazione dei nefroni funzionanti al fine di compensare le richieste metaboliche ma che diventa successivamente maladattativo favorendo la progressione del danno renale. In entrambe le condizioni patologiche, Il ridotto apporto di sodio alla macula densa induce la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento della pressione intraglomerulare[31–33]. L’inibizione del SGLT2, anche nella CKD, aumenta il rilascio distale di sodio, che a sua volta promuove il feedback tubuloglomerulare portando al ripristino della pressione intraglomerulare.

 

La nefroprotezione mediata dagli SGLT2i nei trial clinici

Nell’ultimo decennio, gli SGLT2i sono stati studiati in numerosi trial clinici randomizzati con outcome primario incentrato sugli eventi cardiovascolari, dimostrando un’efficacia nella riduzione del rischio di eventi cardiovascolari maggiori nei pazienti trattati. Inoltre, le analisi secondarie di questi studi hanno dimostrato un effetto protettivo sulla progressione della DKD e CKD.

Lo studio CREDENCE, pubblicato nel 2019, ha rappresentato una vera svolta nella storia della CKD e degli SGLT2i, infatti, è stato il primo trial creato per valutare l’effetto degli SGLT2i, e precisamente del canaglifozin, sull’outcome renale. In questo studio vennero arruolati 4401 pazienti diabetici di tipo II con malattia renale cronica (eGFR di 30-90 mL/min/1,73 m2) e albuminuria (UACR di 300-5000 mg/g) già in terapia stabile con inibitori del RAS alla massima dose tollerata. La terapia con canaglifozin dimostrò, in un follow up medio di 2,6 anni, di ridurre significativamente il rischio dell’outcome composito (progressione della CKD fino allo stadio terminale, raddoppio della creatinina sierica o morte per cause renali) (HR [IC al 95%] 0,66 [0,53–0,81]) [4]. I risultati furono così incisivi da causare l’interruzione prematura per il raggiungimento dei criteri di efficacia prespecificati, inoltre, dopo la pubblicazione dello stesso, le linee guida KDIGO per la gestione del diabete nella CKD raccomandarono l’uso di SGLT2i come trattamento di prima linea associato alla metformina [34].

Dopo la pubblicazione dello studio CREDENCE, diversi studi hanno valutato l’efficacia degli SGLT2i nella CKD cercando di rispondere alla domanda se questi farmaci potessero avere un ruolo anche nei pazienti affetti da CKD non diabetici.

Nello studio DAPA-CKD, vennero arruolati 4.304 pazienti diabetici e non diabetici con CKD (eGFR di 25–75 mL/min/1,73 m2 e UACR da 200 a 5.000 mg/g) già in trattamento stabile con inibitori del RAS [46]. Lo studio dimostrò la netta superiorità del dapaglifozin, pari al 39%, nel ridurre il rischio dell’endpoint primario combinato (declino del GFR > 50%, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali o cardiovascolari). Inoltre, la superiorità veniva mantenuta anche quando le componenti dell’endpoint primario venivano considerate separatamente (HR [IC al 95%] 0,56 [0,45-0,68]). Lo studio dimostrò, inoltre, che il dapaglifozin era efficace nel ridurre il rischio di endpoint primario (HR [IC al 95%] 0,50 [0,35-0,72]) anche nei pazienti con CKD non diabetici [5]. Anche questo studio venne interrotto precocemente dopo 2,4 anni per dimostrata efficacia.

L’azione nefroprotettiva degli SGLT2i è stata, inoltre, confermata dallo studio EMPA-KIDNEY. Questo trial, su 6609 pazienti con CKD (eGFR tra 20 e 90 ml/min/1,73 m2 e UACR >200 mg/g) diabetici e non con un follow-up medio di 2 anni, dimostrò l’efficacia dell’empaglifozin di ridurre il rischio dell’endpoint primario composito (diminuzione dell’eGFR ≥40% rispetto al basale, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali) e morte cardiovascolare (HR [IC al 95%] 0,72 [0,64–0,82]) [6]. Inoltre, fu osservata una riduzione del rischio di progressione renale del 29% e una riduzione significativa dell’ospedalizzazione per qualsiasi causa (HR [IC 95%] 0,86 [0,78-0,95]). Inoltre, estendendo i criteri di inclusione fino alla CKD IV stadio ha dimostrato come l’effetto protettivo di questi farmaci si mantenga anche nei pazienti con malattia renale cronica avanzata [6].  (Tabella 1)

  CREDENCE DAPA-CKD EMPA-KIDNEY
Intervento Canaglifozin 100mg/die Dapaglifozin 10 mg/die Empaglifozin 10 mg/die
Popolazione 4.401 pazienti diabetici in terapia con RAAS inibitore 4.304 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore 6.609 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore
eGFR (ml/min) da 30 a 90 da 25 a 75

da 20 a 45

da 45 a 90 con albuminuria

Albuminuria (mg/gr) 300-5.000 200-5.000 >200
Outcomes primari

Composito:

ESKD, raddoppio della creatinina dal basale, morte per cause renali o cardiache

Composito:

Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali o cardiache

Progressione della malattia renale o morte per cause cardiache
Outcomes secondari

1.     Composito: ospedalizzazione per morte cardiaca o scompenso

2.     Composito: ESKD, raddoppio della creatinina dal basale o morte per cause

3.     Morte per cause cardiache

4.     Morte per tutte le cause

1.     Composito renale: Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali

2.     Composito cardiaco: ospedalizzazione per scompenso o morte cardiaca

3.     Morte per tutte le cause

Composito: ospedalizzazione per scompenso cardiaco, morte per cause cardiache, tutte le cause di ospedalizzazione, morte per tutte le cause
Tabella 1. Studi sugli SGLT2i con outcomes primari renali. ESKD (insufficienza renale terminale)

Un aspetto da considerare nei trial con SGLT2 è che in tutti è stato osservato un calo acuto del GFR (DIP), che successivamente si stabilizza. Un’analisi pre-specificata dello studio DAPA-CKD ha osservato una differenza tra dapaglifozin e placebo nel dip del GFR di 2,61 ml/min nei pazienti diabeti e di 2,01 ml/min per 1,73 m2 nei pazienti non diabetici [35]. Il declino acuto (DIP) del GFR si presenta circa intorno alla seconda settimana di trattamento con una stabilizzazione del GFR fino alla fine del follow up [36]. La riduzione nello slope (la pendenza del calo del filtrato) è maggiore nei pazienti con diabete di tipo 2, emoglobina glicata più elevata e UACR più elevata [36].

Infine, una metanalisi di 13 trial clinici randomizzati (SMART-C), su 90413 pazienti, ha confermato che l’introduzione in terapia degli SGLT2i riduce il rischio di progressione della malattia renale cronica del 37 %, questo effetto può essere osservato sia nei pazienti diabetici che no. Precisamente, l’aggiunta in terapia di un SGLT2i ha dimostrato di ridurre il rischio di progressione di malattia del 40% nei pazienti affetti da nefropatia diabetica, del 30% nei pazienti con malattia renale ischemica/ipertensiva, del 40% nei pazienti con glomerulonefrite e del 26% nei pazienti con CKD ad eziologia sconosciuta. Le analisi di sensitività hanno inoltre suggerito che questo beneficio non dipenda dalla funzionalità renale basale e dall’albuminuria, e che la terapia con SGLT2i protegga anche dal rischio di insufficienza renale acuta ed eventi cardiovascolari [37].

Questi dati sono stati confermati, nella real-life, anche da uno studio di coorte scandinavo, su 29887 pazienti che hanno intrapreso la terapia con SGLT2i, in cui è stato dimostrato che l’uso di questi farmaci, rispetto agli inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP4), è stato associato a un rischio ridotto di eventi renali gravi (2,6 eventi per 1.000 anni-persona vs 6,2 eventi per 1.000 anni-persona; HR 0,42 (IC 95%,  0,34  0,53), una riduzione della necessità di terapia sostitutiva renale [HR 0.32 (IC 95%, 0.22 0.47)],  di ospedalizzazione per cause renali [HR 0,41 (IC 95%, 0,32 0,52)] e di morte per cause renali  [HR 0,77 (IC 95%, 0,26  2,23)] [38].

 

Gli SGLT2i nel trattamento delle glomerulonefriti

I trial condotti con l’utilizzo degli SGLT2i nella CKD includevano anche un gran numero di pazienti con nefropatie glomerulari.

Nello studio DAPA-CKD, 270 pazienti erano affetti da nefropatia da IgA in terapia con inibitori del RAS, di questi solo il 14,1% era anche diabetico e l’eGFR e l’UACR medi erano rispettivamente 43,8 mL/min/1,73 m2 e 900 mg/g. Un’analisi secondaria prespecificata sui pazienti con IgAN confermata alla biopsia renale ha dimostrato che il dapagliflozin riduceva significativamente il rischio di progressione della CKD, insufficienza renale o morte per cause renali (HR [95% IC] 0,23 [0,09–0,63]) [39]. Come nello studio principale, questo effetto non differiva tra i sottogruppi definiti dalle categorie eGFR e UACR al basale. È stata inoltre osservata, nei pazienti randomizzati a dapaglifozin, una riduzione dell’UACR del 26% e un rallentamento della progressione della CKD, con una differenza di eGFR tra i bracci di trattamento di 2,4 ml/min/1,73 m2 per anno [39].

Al contrario, lo studio EMPA-KIDNEY non prevedeva di condurre analisi in sottogruppi con glomerulonefriti, ma nella popolazione di studio erano presenti 817 pazienti con IgAN. La metanalisi SMART-C, condotta successivamente, ha dimostrato, attraverso la combinazione dei risultati di EMPA-KIDNEY e DAPA-CKD, una riduzione del 51% del rischio di progressione della CKD nell’IgAN nei pazienti trattati con empaglifozin o dapaglifozin[37].

Per quanto riguarda l’impatto degli SGLT2i nei pazienti con glomerulosclerosi focale segmentale (FSGS) i risultati sono stati meno soddisfacenti. Nello studio DAPA-CKD sono stati arruolati 115 soggetti affetti da FSGS di cui il 90% con diagnosi istologica [40],  l’endpoint renale primario però non differiva significativamente tra i bracci di trattamento. Questo è probabilmente dovuto al basso numero di eventi, tuttavia, la differenza tra i gruppi nell’UACR è stata del 19,7% a favore di dapagliflozin, e i tassi di declino cronico dell’eGFR erano di -1,9 e -4,0 mL/min/1,73 m2 per anno rispettivamente nel braccio dapagliflozin e placebo [40].

In questo ambito è da sottolineare la post-hoc analisi dei dati dell’EMPA-REG, comprendente 112 pazienti con proteinuria in range nefrosico (definita come UACR ≥2200 mg/g al basale), che ha dimostrato un beneficio nella riduzione della progressione della CKD nei pazienti trattati con empaglifozin.  Infatti, è stata osservata una riduzione dell’UACR ≥ del 50%, rispetto al basale, più frequentemente nei pazienti trattati con empaglifozin rispetto a placebo [58,8% vs 26,2%; HR 2.48; (95% IC 1.27−4.84)]. Inoltre, l’outcome composito renale (raddoppio della creatinina sierica accompagnati da un eGFR di ≤45 mL/min/1.73 m2, inizio della terapia sostitutiva renale o morte per malattia renale) è stato osservato nel 20,6% dei pazienti trattati con empaglifozin rispetto al 33.3% dei pazienti trattati con placebo [28].

 

Gli SGLT2i nel trapianto di rene

Nonostante le numerose prove di efficacia e sicurezza dell’utilizzo degli SGLT2i nella popolazione generale con CKD secondaria a nefropatia diabetica e non, pochi studi sono stati effettuati nei pazienti trapiantati di rene con diabete di tipo II o diabete post-trapianto; infatti, persistono delle riserve relate soprattutto all’aumentato rischio di infezioni micotiche genitali e delle vie urinarie. Uno studio multicentrico osservazionale, su 339 pazienti trapiantati in terapia con SGLT2i, ha dimostrato, tra il basale e 6 mesi, una riduzione significative del peso corporeo [-2,22 kg (IC 95% da -2,79 a -1,65)], della pressione sanguigna, della glicemia a digiuno, dell’emoglobina [-0,36% (IC 95% da -0,51 a -0,21)]. Inoltre, seppur sia stata osservata una riduzione non significativa dell’UACR [da 164 mg/g (IQR 82–430) a 160 (IQR 80–347), p 0.006], quando i pazienti sono stati stratificati in base a un UACR al basale inferiore o superiore a 300 mg/g, è stato osservato un miglioramento significativo nei pazienti che avevano un UACR al basale ≥ 300 mg/g [da 760 mg/g (IQR 454–1594) a 534 (IQR 285–1092); p<0,001]. Il 26% dei pazienti ha avuto un evento avverso di cui il più frequente è stato l’infezione delle vie urinarie (14%); i fattori di rischio erano un precedente episodio di infezione nei 6 mesi precedenti [[OR] 7,90 (IC 3,63–17,2)] e il sesso femminile [OR 2,46 (IC 1,19–5,03)]. Da sottolineare che una post hoc analisi ha osservato che l’incidenza di infezione delle vie urinarie a 12 mesi era simile tra i pazienti trapiantati con SGLT2i e quelli non trattati (17,9% contro 16,7%) [41]. Questi dati sono stati confermati da uno studio randomizzato controllato su 44 pazienti trapiantati trattati con empaglifozin o placebo, in cui è stata osservata, nel gruppo di trattamento, una riduzione significativa dell’emoglobina glicata [-0.2% (-0.6, -0.1) vs 0.1% (-0.1,0.1), ‘p 0.025] e del peso corporeo [-2.5 Kg (-4.0, -0.05) vs +1 Kg (0.0, 2.0), p 0.014] ma non una differenza significativa in termini di eventi avversi, eGFR e livelli dei farmaci immunosoppressori [42].

 

Conclusioni

La terapia con SGLT2i, negli ultimi anni, ha rappresentato una rivoluzione nel trattamento della nefropatia diabetica e nella riduzione della progressione della malattia renale cronica. I profili di efficacia e sicurezza di questi farmaci sono stati testati in numerosi trial e confermati da evidenze di real-life, questi dati incoraggianti li hanno resi un pilastro delle strategie di nefroprotezione applicabili nella CKD.

La nuova sfida sarà quella di agire sulla progressione della CKD e della DKD attraverso un approccio incentrato su un intervento farmacologico mirato ai diversi meccanismi di progressione. L’associazione con nuove molecole come gli antagonisti dei mineralcorticoidi, gli inibitori dell’aldosterone sintetasi, gli antagonisti del recettore dell’endotelina e gli agonisti recettoriali del GLP permetterà di massimizzare ulteriormente l’efficacia nefroprotettiva degli SGLT2i.

 

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Impatto del fosforo sierico sull’emoglobina: revisione della letteratura

Abstract

Il fosforo è un macroelemento presente nel nostro organismo principalmente sotto forma di cristalli di idrossiapatite. Un’alta concentrazione di fosforo sierico è riscontrata in pazienti affetti con insufficienza renale cronica. L’escrezione di fosforo tende a ridursi sin dai primi stadi di malattia renale cronica, ma l’aumento di PTH e FGF23 fanno sì che il suo livello sierico rimanga entro il range di normalità. Nell’ultima decade il ruolo dell’FGF23 nell’eritropoiesi è stato oggetto di studio, mostrando il suo impatto nella patogenesi dell’anemia nei pazienti affetti da CKD in terapia conservativa. Sia l’iperfosfatemia sia l’anemia sono complicanze della CKD, ma molti studi hanno posto l’ipotesi di un’associazione indipendente tra queste due complicanze.  Infatti, il fosforo potrebbe essere considerato come un punto in comune di più vie eziopatogenetiche, indipendenti dalla malattia renale cronica: l’overproduzione di FGF23, l’invecchiamento vascolare e la compromissione dell’eritropoiesi.

Parole chiave: fosforo, emoglobina, anemia, malattia renale cronica, FGF23

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Introduction

Phosphorus is a macroelement found in the body; 85% of it is deposited in the bone as crystals of hydroxyapatite, 14% in the intracellular compartment as a component of nucleic acids, plasma membranes and involved in all cellular energetic processes, and only 1% is extracellular [1].

Of the latter, 70% is organic phosphorous and 30% is inorganic phosphorous. Inorganic phosphorous can be protein-bound, complexed with sodium, calcium, and magnesium, or circulating as mono- or di-hydrogen forms. About 800 mg of phosphorous is  introduced with the food, and the kidneys filter across the glomerulus about 90% of the daily phosphate load. The residual 10% is excreted by the gastrointestinal system.

Chronic Kidney disease (CKD) impairs phosphorus excretion due to the reduction of the skillful nephron mass. As a consequence of this, parathyroid hormone (PTH) and fibroblast growth factor 23 (FGF-23) are over-secreted from the early stages of CKD, to prevent an increase in serum phosphorous concentration [2].

Both PTH and FGF23 increase phosphorus urinary excretion but, conversely to FGF23, PTH is related to serum calcium due to the relative activation of calcium-sensing receptor (CaSR). Indeed, PTH limits calcium gastrointestinal absorption because it reduces 1,25-dihydroxy vitamin D levels. This negative feedback tray maintains serum calcium and phosphorus within normal ranges in individuals with normal kidney function. The progression of renal disease causes the failure of this equilibrium and hypocalcemia, hyperphosphatemia, and tertiary hyperparathyroidism may occur. 

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La Semaglutide nella Malattia Renale Cronica: tanto entusiasmo. Ma come funziona?

Abstract

La Malattia Renale Cronica (CKD) è una condizione clinica caratterizzata dalla progressiva perdita della funzione del rene. Il 10% della popolazione mondiale è affetto da questa condizione, che rappresenta la quinta causa di morte a livello globale. Inoltre, la CKD è associata ad aumentato rischio di eventi cardiovascolari fatali e non-, e alla progressione verso l’insufficienza renale terminale. Negli ultimi venti anni, si è osservata una crescita esponenziale della sua prevalenza ed incidenza. Per questo motivo, sono stati sviluppati e implementati nella pratica clinica diversi farmaci, con vario maccanismo, allo scopo di ridurre e minimizzare questo drammatico rischio “cardio-renale”. Tra questi, gli inibitori di SGLT2, gli antagonisti dei recettori dei mineralocorticoidi e gli antagonisti recettoriali delle endoteline. Tuttavia, una cospicua parte dei pazienti con CKD non risponde sufficientemente a questi trattamenti. Gli agonisti recettoriali del GLP-1 rappresentano una classe di farmaci antidiabetici e nefroprotettivi molto promettenti nel migliorare la prognosi dei pazienti con CKD, specie se associata a una delle classi sopramenzionate. In questo articolo, discutiamo i meccanismi, diretti e indiretti, attraverso i quali uno degli agonisti del GLP-1, la semaglutide, garantisce la nefro- e cardioprotezione nei pazienti affetti da CKD e diabete tipo 2.
Parole chiave: malattia renale cronica, epidemiologia CKD, semaglutide

Introduzione

La malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) è una condizione clinica caratterizzata dalla perdita irreversibile e progressiva della funzione renale. La CKD colpisce circa il 10% della popolazione mondiale e rappresenta la quinta causa di morte a livello globale [1]. Nell’ultimo ventennio l’incidenza e la prevalenza di tale patologia sono cresciute in modo esponenziale, quasi raddoppiando entrambe. Le ragioni di questo aumento sono diverse: primo fra tutti, il progressivo allungamento della durata media della vita, che sta portando a un continuo incremento della fascia di popolazione con età > 65 anni; in secondo luogo, la notevole diffusione di patologie tipiche del mondo occidentale che sono al contempo fattori di rischio per la CKD. Infatti, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa, l’obesità (la cui prevalenza è progressivamente cresciuta dagli anni ’90 in molti paesi, diffondendosi anche nella popolazione giovanile per importanti variazioni delle abitudini dieto-comportamentali) e le patologie cardiovascolari (CV), rappresentano dei fattori eziopatogenetici del danno renale, che si estrinseca attraverso vari meccanismi [2]. 

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Identificazione e descrizione dei pazienti con malattia renale cronica candidabili agli inibitori SGLT2 mediante l’analisi integrata dei dati amministrativi sanitari e delle cure primarie

Abstract

Introduzione. La malattia renale cronica (CKD) può essere trattata con successo con gliflozine, indipendentemente dal diabete. I database amministrativo di Fondazione Ricerca e Salute (ReSD) e delle cure primarie di Health Search (HSD) sono stati combinati nel Database Consortium ReS-HS, per quantificare e descrivere i pazienti con CKD potenzialmente candidabili a gliflozine e valutare i costi diretti a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Metodi. Sono stati selezionati i pazienti di età ≥18 anni con CKD e tasso di filtrazione glomerulare stimato (eGFR) <60 ml/min nel 2018, dopo aver escluso i soggetti in dialisi e/o che avevano subito un trapianto renale. Tramite l’HSD sono stati sviluppati e convalidati algoritmi basati su covariate, per stimare l’eGFR nel ReSD. Sono stati valutati comorbilità, farmaci dispensati e costi assistenziali.
Risultati. Nel 2018, sono stati identificati 66.297 (il 5,0% della popolazione HSD) e 211.494 (il 4,4% della popolazione ReSD) pazienti con CKD potenzialmente eleggibili a gliflozine (femmine ≥58%). La prevalenza aumentava con l’età e ha presentato un picco tra 75-84 anni. Nelle coorti HSD e ReSD, rispettivamente: il 31,0% e il 41,5% avevano diabete; >82% e >96% hanno ricevuto ≥1 trattamento farmacologico, di cui ≥50% e ≥25% cardiovascolare e antidiabetico. Il costo medio pro capite a carico del SSN è stato di €3.825 (IC 95%, €3.655-€4.000): >50% per ospedalizzazioni e >40% per farmaci (>31% per farmaci cardiovascolari e >10% per antidiabetici).
Conclusione. Attraverso il Database Consortium ReS-HS, il 5% degli assistiti SSN adulti con CKD è stato considerato potenzialmente candidabile a gliflozine e ha mostrato un’alta frequenza di comorbilità cardio-metaboliche che può favorire il rischio di progressione di CKD.

Parole chiave: gliflozine, malattia renale cronica, cure primarie, costi assistenziali, servizio sanitario nazionale

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in inglese.

This work was supported by an unconditional grant from Astra Zeneca Italy SpA. The financial support for this study was provided with a funding agreement ensuring maintenance of author independence in study design, data interpretation, writing, and decision to publish.

Competing interests: APM received personal fees for the participation in clinical studies supported by Bayer, Novartis, Sanofi and Astra Zeneca, outside the present work. FL and EM and provided consultancies in protocol preparation for epidemiological studies and data analyses for AstraZeneca and Mundipharma. DP, CC, GP and GM provided clinical consultancies for AstraZeneca. RP received honoraria for lectures from Lilly, Boehringer, AstraZeneca, Novo-Nordisk, Vifor, Alfa-Sigma, and Bayer, outside the present work. CP, LD, SC, GR and NM are employees of Fondazione Ricerca e Salute (ReS). AP is consultant for Fondazione Ricerca e Salute (ReS).  

Introduction

Sodium-glucose cotransporter-2 inhibitors (SGLT2-Is) have shown positive outcomes on the reduction of glycated hemoglobin (Hb1cA) levels, the protection from cardiovascular events in high-risk patients with type 2 diabetes mellitus (T2DM), the prevention of cardiovascular death and heart failure regardless of T2DM, and of the progression of chronic kidney disease (CKD) [1, 3]. The latter is likely to be independent from the glucose-lowering effects and favored by the glucose-related natriuresis and osmotic diuresis that reduce intraglomerular pressure; the DAPA-CKD (Dapagliflozin and Prevention of Adverse Outcomes in Chronic Kidney Disease) trial was based on this hypothesis and aimed at assessing the long-term efficacy and safety of dapagliflozin in patients with CKD, regardless of T2DM [4]. This trial has shown that patients with CKD assessed by an estimated glomerular filtration rate (eGFR) ranging from 25 to 75 ml/min, regardless of T2DM, have benefited from dapagliflozin through a significant reduction of the risk of sustained decline in eGFR of at least 50%, end-stage kidney disease (ESKD) and renal- or cardiovascular-related death [4]. 

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La dialisi palliativa e di supporto: stato dell’arte e proposte per una buona pratica clinica

Abstract

Per dialisi “di supporto” o “palliativa” si intende il trattamento dialitico rivolto a pazienti che giungono alle fasi più avverse di malattia e nella fase finale della loro vita. Quando le condizioni di salute, le comorbidità, la prognosi sfavorevole e le complicanze legate alla malattia renale avanzata non consentono l’avvio o la prosecuzione del trattamento dialitico standard, occorre identificare i criteri con cui proporre schemi dialitici mirati, integrati con adeguate cure di supporto, sia a pazienti incidenti che prevalenti.

Questo documento riassume le raccomandazioni nefrologiche e le evidenze scientifiche in tema di approccio palliativo alla dialisi, e avanza una proposta operativa per una buona gestione clinica della dialisi palliativa. Dopo un percorso di pianificazione condivisa della cura (“shared-decision-making”) che prevede la valutazione multidimensionale del malato, l’inquadramento prognostico e l’esplicitazione degli obiettivi personali e di salute del paziente, ha inizio un iter di cura mirato a integrare le opzioni terapeutiche disponibili, l’appropriatezza e proporzionalità della cura, e le preferenze del paziente, condivise con i suoi caregiver. Con l’obiettivo di ridurre l’impatto del trattamento dialitico sulla qualità di vita, di garantire un adeguato controllo dei sintomi, di favorire la domiciliazione delle cure e ridurre le ospedalizzazioni nella fase finale della vita, proponiamo una raccolta di indicazioni che agevolino il nefrologo nel mettere in pratica misure di proporzionalità di trattamento nelle condizioni di maggiore fragilità clinica del malato, e nel favorire un percorso decisionale e di cura ad oggi sempre più necessario nella pratica nefrologica, ma non ancora standardizzato.

Parole chiave: cure palliative, malattia renale cronica, fine vita, dialisi palliativa, emodialisi, dialisi peritoneale, pianificazione condivisa delle cure

Introduzione

L’applicazione dei principi della medicina palliativa nei pazienti affetti da malattia renale ha lo scopo di alleviare le sofferenze legate alla malattia e al suo trattamento, ed è appropriata lungo l’intera traiettoria di malattia, incluso (ma non limitato a) il fine vita [1]. L’attenzione è focalizzata sul trattamento dei sintomi e sul sollievo dell’impatto psicologico, sociale e funzionale della malattia. Poiché le cure palliative trovano indicazione ben oltre gli ultimi giorni di vita, quando sono ancora in atto cure volte a prolungare la sopravvivenza, come la dialisi, le linee guida nefrologiche internazionali ne hanno definito i criteri per la popolazione affetta da malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD), e hanno introdotto il termine di “Kidney Supportive Care” (cure nefrologiche di supporto o cure simultanee), in luogo di “cure palliative” [2, 3].

Se confrontati con i pazienti oncologici, i pazienti affetti da CKD avanzata hanno più probabilità di morire in ospedale, meno probabilità di ricevere istruzioni sul fine vita, e sono gravati da analoga incidenza di sintomi severi, quale il dolore moderato-severo [4].

In Italia nel 2015 viene pubblicato un documento intersocietario (SIN-SICP) da nefrologi e palliativisti, che riassume i criteri prognostici e di identificazione precoce dei bisogni di cure di supporto nella fase finale della CKD, e suggerisce un percorso condiviso con i palliativisti di presa in carico di questi pazienti, percorso che contempla anche la rimodulazione e la sospensione della dialisi, quando in atto [5]. Questo documento ha gettato le basi per l’implementazione delle cure palliative e simultanee nel nostro paese, consentendo di sviluppare le prime esperienze condivise: presso l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento dal 2017 è stato attuato un protocollo integrato di cura per la gestione della fine della vita dei nostri nefropatici e dializzati [6]. 

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