Finerenone: effetti sulla proteinuria e nefroprotezione

Abstract

Un numero sempre maggiore di evidenze sperimentali e cliniche confermano che l’aldosterone contribuisce, indipendentemente dai suoi classici effetti omeostatici, alla patogenesi ed alla progressione della malattia renale cronica (CKD).

Infatti, l’attivazione del recettore mineralcorticoide (MR), presente nel rene a livello podocitario e mesangiale oltre che endoteliale e tubulo-interstiziale, è stata messa in relazione con il danno podocitario e la conseguente apoptosi, la proliferazione delle cellule mesangiali, l’infiammazione del compartimento tubulointerstiziale con l’esito in fibrosi interstiziale e glomerulare.

Pertanto, il blocco del MR può rappresentare un trattamento efficace della terapia della CKD. Oggi sono disponibili diverse molecole in grado di inibire il MR, con caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche differenti.

In questa breve review ci soffermeremo sulle caratteristiche di queste molecole ed in particolare del Finerenone, un inibitore del MR (MRA) di nuova generazione, non steroideo, contraddistinto da minimi effetti collaterali ed elevata efficacia farmacologica.

Parole chiave: antagonisti del recettore mineralcorticoide dell’aldosterone, malattia renale cronica, iperpotassiemia, rischio cardiovascolare, finerenone

Introduzione

Per molto tempo l’azione dell’aldosterone è stata ritenuta essere limitata al rene al fine di garantire il mantenimento dell’omeostasi del volume extracellulare e degli elettroliti.

Recentemente, però, tale approccio è stato rivisto alla luce della definizione di molti effetti biologici pleiotropici dell’aldosterone, che si aggiungono ai classici effetti esercitati sulle cellule tubulari renali.

Nel rene il recettore mineralcorticoide (MR) è infatti espresso praticamente in tutte le linee cellulari residenti: cellule della linea monocito-macrofagica, endoteliali, muscolari liscie, mesangiali, podocitarie e tubulari. La sua attivazione è stata correlata in molti modelli sperimentali al danno podocitario, alla proliferazione mesangiale, alla sclerosi glomerulare e alla fibrosi interstiziale. Gli stessi modelli hanno dimostrato che il blocco del MR induce una remissione del danno tissutale [1].

Pertanto, il riconoscimento dei molteplici effetti dell’aldosterone nella modulazione dell’emodinamica intrarenale, dell’infiammazione, della fibrosi, della funzione endoteliale e dello stress ossidativo si pone a supporto del crescente utilizzo dei farmaci bloccanti del recettore mineralcorticoide (MRA) nella pratica clinica nefrologica [2].

L’aldosterone è divenuto un bersaglio terapeutico nella CKD dal 2001, quando Chrysostomou et al. [3] dimostrarono in una coorte di pazienti affetti da CKD proteinurica che l’aggiunta dello spironolattone alla terapia con ACE inibitori riduceva la proteinuria senza effetti negativi sulla funzione renale. Cinque anni dopo, nel 2006, Epstein et al. [4] confermarono tali risultati per un altro MRA,  Eplerenone. Complessivamente nella prima decade del 2000 stati molti gli studi che, su coorti di dimensioni ridotte, hanno dimostrato in vari studi la  efficacia efficacia dei MRA in termini di riduzione della proteinuria e di stabilizzazione del GFR [5].

Bianchi et al. [6] dimostrarono in una coorte di pazienti con CKD non diabetica che l’effetto antiproteinurico dello spironolattone, già evidente dopo due settimane, era indipendente dai livelli basali di aldosterone.

Nel 2005 Sato et al. [7] confermarono l’effetto dello spironolattone nella CKD diabetica, dimostrando che l’impatto sulla proteinuria era maggiore nei pazienti che mostravano il fenomeno dell’Aldosterone Breakthrough.

“Aldosterone Breakthrough” è un termine coniato per definire un fenomeno che avviene nel 30-40% dei pazienti che avviano un trattamento con RAS inibitori, nei quali dopo un periodo di riduzione dei livelli sierici di aldosterone, si osserva un ritorno di tali livelli ai valori pre-trattamento; fenomeno che si accompagna ad una prognosi peggiore rispetto ai pazienti che mostrano una soppressione continua di questo ormone [8]. Sulla base di tale evidenza venne quindi riconosciuto un razionale fisiopatologico che potesse spiegare i benefici del blocco del recettore mineralcorticoide [9].

Dal punto di vista fisiopatologico, l’impiego degli MRA è stato poi giustificato da una serie di osservazioni che nel tempo hanno rivelato la notevole complessità del signalling mineralcorticoide.

Studi di biologia molecolare focalizzati sul MR hanno evidenziato infatti che quest’ultimo può essere attivato con un meccanismo aldosterone indipendente mediato dal RAC1, una proteina G nota nella patologia renale per essere implicata nei meccanismi di danno podocitario in risposta a stimoli quali il sovraccarico di sodio e glucosio, l’angiotensina II e multiple citochine [10, 11].

Sulla base delle evidenze cliniche e precliniche il blocco del MR guadagnava quindi un’attenzione crescente, e non soltanto in ambito nefrologico: infatti, i primi studi clinici randomizzati sugli MRA, il RALES con lo spironolattone, l’EPHESUS e l’EMPHASIS-HF con eplerenone [12, 13], avevano dimostrato che tali farmaci conferivano una protezione dal rischio di morte nei pazienti affetti da scompenso cardiaco, rendendo quindi gli MRA una classe di farmaci di straordinaria importanza nella terapia dello scompenso cardiaco.

Tuttavia, l’uso routinario degli MRA steroidei è stato limitato da ad una serie di rilevanti effetti collaterali quali l’iperpotassiemia, la ginecomastia e l’impotenza.

Particolarmente rilevante in ambito nefrologico il rischio di iperpotassiemia associato all’uso di MRA, raddoppiato nei pazienti in CKD non in dialisi ed aumentato di ben tre volte nei pazienti in trattamento dialitico rispetto a quanto osservato nei pazienti con normale funzione renale [14].

Questo ha spinto la ricerca allo sviluppo di MRA potenti ma più selettivi. Le nuove tecnologie di biologia molecolare hanno reso possibile lo sviluppo di una nuova classe di MRA, gli antagonisti del MR non steroidei. Le due molecole appartenenti a questa nuova classe di farmaci sono l’esaxerenone, il cui commercio è limitato al Giappone per la cura dell’ipertensione arteriosa, ed il finerenone, sul quale si è concentrata la ricerca in ambito nefrologico.

 

Peculiarità del finerenone

Eplerenone e spironolattone sono  MRA steroidei. Il finerenone è un MRA non steroideo, con una breve emivita e senza metaboliti attivi, mentre lo Spironolattone è profarmaco di molti metaboliti attivi che possono essere individuati nelle urine fino a 4 settimane dopo la sospensione del trattamento ed essere attivi farmacologicamente fino a circa 2 settimane dopo la sospensione. Il  finerenone si distribuisce equamente tra cuore e rene, a differenza di eplerenone e spironolattone che hanno una maggiore concentrazione a livello del rene con un conseguente  maggiore effetto sul bilancio di sodio e potassio.

Ci sono delle differenze anche nella farmacodinamica che avvantaggiano il finerenone: la IC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per inibire del 50% l’attivazione del recettore MR, è pari a 17.8 per finerenone, ed è più bassa sia rispetto a spironolattone che eplerenone . D’altra parte, lo spironolattone ha una IC50 per il legame con il recettore degli androgeni (77 vs > 10.000 di finerenone) e i glucocorticoidi (2410 vs >10.000 di finerenone). Anche la concentrazione di farmaco richiesta per attivare il 50% del recettore del progesterone è nettamente minore per lo spironolattone (740 vs >10.000 di finerenone) [15, 16].

Inoltre, il finerenone inibisce il reclutamento di cofattori ai vari domini del MR (che in genere dipende dai livelli di aldosterone) ed in questo modo riduce l’espressione di geni pro-infiammatori e pro-fibrotici. Tale effetto è assente per quanto riguarda lo spironolattone, e nettamente inferiore per quanto riguarda l’eplerenone. Pertanto, la cascata di segnali a valle del recettore evocata da MRA steroidei e non steroidei è differente e questo giustifica la presenza (o assenza per finerenone) di effetti colleterali di tipo endocrino [17].

 

Effetti su proteinuria e protezione renale

I due principali trial compiuti utilizzando finerenone sono stati entrambi condotti in pazienti affetti da Diabete Mellito di tipo 2 e CKD.

Nel trial di fase 3 FIDELIO [18] sono stati arruolati 5734 pazienti randomizzati 1:1 a finerenone o placebo, follow-up 31 mesi. I criteri di inclusione erano: la presenza di CKD con eGFR 25-60 mL/min, UACR 30-300mg/g e retinopatia diabetica; oppure CKD con eGFR 25-75 mL/min e UACR>300 mg/g.

Il trial FIGARO [19] presentava un disegno simile con follow up di 41 mesi. I criteri di inclusione erano eGFR 25-90 mL/min e UACR 30-300 mg/g, oppure eGFR>60 mL/min e UACR 300-5000 mg/g).

Entrambi gli studi avevano gli stessi endpoint: la riduzione degli eventi per un composito renale di morte per cause renali, decremento sostenuto del GFR di almeno il 40% rispetto al basale, raggiungimento dell’ESRD; la riduzione degli eventi per un composito cardiovascolare di morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale, stroke e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Nel FIDELIO l’endpoint renale era il primario ed il cardiovascolare il secondario, nel FIGARO il contrario.

Dal punto di vista dell’endpoint primario renale nel FIDELIO il Finerenone ha raggiunto l’endpoint, con un HR di 0.82 (CI 0.75-0.93); nel FIGARO si è osservata una riduzione degli eventi renali sovrapponibile, ma non statisticamente significativa, con un HR di 0.87 (CI 0.76-1.01). In entrambi gli studi è stato raggiunto l’endpoint cardiovascolare.

I dati dei due trial sono stati successivamente aggregati in una pooled analysis nell’ambito del FIDELITY Trial Programme Analysis [20] a formare una eterogenea popolazione di 13026 pazienti con diabete mellito di tipo 2 e CKD in trattamento massimale con RAS inibitori: il 40% dei pazienti era in stadio 1-2 di CKD, il 60% dei pazienti in stadio 3-4; il 67% dei pazienti aveva una UACR maggiore di 300 mg/g, il 21.3% una UACR minore 300 mg/g, l’1.7% dei pazienti aveva una UACR < 30 mg/g.

È stato definito un outcome composito di un decremento sostenuto per 4 settimane del GFR ≥ del 57%, arrivo alla insufficienza renale terminale e morte per cause renali.

I risultati hanno dimostrato che nel gruppo trattato con Finerenone l’outcome composito è stato raggiunto nel 5.5% dei casi mentre nel gruppo placebo è stato raggiunto nel 7.1% dei casi. Tale differenza corrisponde ad una riduzione dell’HR del 23% per l’outcome composito (HR 0.77, CI 0.67-0.88).

Valutando i singoli eventi, la riduzione dell’HR per il peggioramento funzionale renale è stata del 30% (HR 0.70, CI 0.60-0.83); la riduzione dell’HR per l’arrivo alla insufficienza renale terminale è stata del 20% (HR 0.80, CI 0.64-0.99); l’incidenza della morte per cause renali è stata talmente bassa in entrambi i gruppi da precludere ogni tipo di analisi (2 pazienti nel gruppo trattato, 4 pazienti nel gruppo placebo).

Da questi risultati emerge che l’NNT stimato è 20, ossia che per prevenire un evento occorre trattare 60 pazienti con DM2 e malattia renale cronica negli stadi da 1 a 4, proteinurica o non proteinurica, per 3 anni.

Analizzando l’impatto del farmaco sulla proteinuria, nel FIDELITY il Finerenone ha dimostrato un marcato effetto antiproteinurico indipendente dall’entità della proteinuria al baseline: nei microalbuminurici la riduzione dell’UACR è stata del 33% nei pazienti trattati contro un aumento del 3% nel gruppo placebo, mentre nei macroalbuminurici la riduzione della proteinuria è stata del 39% nei pazienti trattati contro una riduzione del 12% nel gruppo placebo.

Tuttavia, a fronte di un effetto antiproteinurico sovrapponibile, l’analisi per sottogruppi mostra chiaramente come i benefici del finerenone siano concentrati sulla popolazione macroalbuminurica: in questi pazienti l’HR per l’outcome composito è di 0.75 (CI 0.65-0.87), mentre nei pazienti microalbuminurici il risultato è inconsistente, con un HR di 0.94 e CI compreso tra 0.60-1.47.

Tale differenza può essere imputata ad un’incidenza dell’outcome renale notevolmente ridotta nei pazienti microalbuminurici (78 eventi su 4099 pazienti) rispetto ai pazienti macroalbuminurici (745 eventi su 8692 pazienti).

Per spiegare questa differenza si possono analizzare i dati relativi agli eventi cardiovascolari, i quali hanno mostrato una distribuzione indipendente dall’UACR. Allo stesso modo il beneficio del trattamento sull’outcome cardiovascolari si è mantenuto a prescindere dall’UACR.

Mentre nei pazienti macroalbuminurici l’incidenza degli eventi cardiovascolari e di quelli renali è nello stesso ordine di grandezza (su 8692 pazienti si sono registrati 1185 eventi cardiovascolari e 745 eventi renali), su 4099 pazienti microalbuminurici si sono registrati 552 eventi cardiovascolari ma solo 78 eventi renali.

Premesso che i trial in esame hanno dimostrato che sia la malattia cardiovascolare che la malattia renale nel paziente diabetico siano allo stesso modo sostenute dall’attivazione del recettore mineralcorticoide, il beneficio del finerenone nei pazienti microalbuminurici potrebbe essere postulato considerando la riduzione degli eventi cardiovascolari.

Si può dunque ipotizzare che nel paziente microalbuminurico, per definizione a rischio minore di progressione della malattia renale, siano necessari tempi di osservazione più lunghi per provare un beneficio renale, e quindi necessario un follow-up maggiore per osservare un effetto significativo [21].

Un’attenta analisi dei due studi si è concentrata anche sull’iperkaliemia, effetto collaterale che nella pratica clinica ha costituito da sempre de facto la principale limitazione all’uso degli MRA. Nei due trial sono stati esclusi tutti i pazienti che, sotto trattamento massimale con RAS inibitori, avevano una kaliemia pari o superiore a 4.8 mmol/L. Nel gruppo trattato l’incidenza di iperkaliemia necessitante la sospensione del trattamento è stata del 2.4% contro lo 0.8% registrato nel gruppo placebo; l’incidenza di iperkaliemia necessitante ospedalizzazione nel gruppo trattato è stata dell’1.4% contro lo 0.3% registrato nel gruppo placebo. Nessun evento fatale attribuibile ad iperkaliemia è stato osservato nei due studi.

 

Conclusioni

Dati gli ottimi risultati ottenuti nell’ambito della malattia renale diabetica, è lecito chiedersi se l’effetto nefroprotettivo possa essere ipotizzabile anche nella malattia renale non diabetica.

A questa domanda risponderà il trial FIND-CKD [22], la cui conclusione è prevista nel 2026 il quale è stato progettato incentrando il disegno sulla nefroprotezione: l’outcome primitivo è infatti costituito dalla perdita di GFR.

Nello studio sono stati arruolati 1584 pazienti affetti da malattia renale cronica non diabetica con eGFR tra 25 e 90 mL/min e UACR tra 200 e 3500 mg/g, con esclusione dei pazienti affetti da malattia renale immunomediata o che abbiano ricevuto una terapia immunosoppressiva ed i pazienti affetti da rene policistico autosomico dominante. Il follow-up è compreso tra un minimo di 32 ed un massimo di 49 mesi. Tra gli endpoint è degno di nota un composito cardiorenale di decremento sostenuto del GFR ≥ 57%, ospedalizzazione per scompenso cardiaco e morte cardiovascolare.

Nella tabella 1 sono elencati i principali trial in corso sul finerenone. I risultati di tali trial, se favorevoli, probabilmente apriranno la strada per un impiego routinario del finerenone anche nel paziente con CKD non diabetico.

TRIAL CRITERI DI INCLUSIONE ENDPOINTS OBIETTIVI
FINEROD 

Osservazionale

In reclutamento (2500 pz), 2024

Diabete mellito di tipo 2

Malattia renale cronica stadio 2-4

UACR > 30 mg/g

Già in trattamento con Finerenone

Descrittivo Osservare una coorte di pazienti in trattamento con Finerenone
CONFIDENCE

RCT multicentrico Fase 2

Attivo (807 pz) 2025

Diabete mellito di tipo 2 con Hb glicata < 11%

Malattia renale cronica con eGFR 20-90 mL/min o 30-90 mL/min

UACR tra 100 e 5000 mg/g

Primari:

Variazione dell’UACR

Secondari:

Variazione del GFR

Incidenza di danno renale acuto

Incidenza di Iperpotasiemia

Incidenza di  eventi renali avversi acuti

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del trattamento combinato Finerenone+Empagliflozin nel diabetico tipo 2 con malattia renale cronica
EFFEKTOR

RCT multicentrico Fase 2

In reclutamento (150), 2025

Riceventi di trapianto renale

eGFR> 25mL/min

UACR > 30 mg/g

Primari:

Reclutamento di un numero adeguato di pazienti

Secondari:

Sospensione del farmaco

Incidenza di eventi avversi

Incidenza di iperpotassiemia

Incidenza di eventi renali avversi acuti

Ospedalizzazione per scompenso cardiaco

% istologica di fibrosi interstiziale ed atrofia tubulare

Variazione dei parametri valutati con risonanza magnetica funzionale renale

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del Finerenone nel paziente trapiantato con albuminuria, valutazione istologica dell’effetto del Finerenone
REDEFINE-HF

RCT multicentrico Fase 3

In reclutamento (5200 pz), 2026

Scompenso cardiaco a frazione di eiezione lievemente ridotta o preservata

NTproBNP>1000, BNP>250; NTproBNP>2000, BNP>500 se presente fibrillazione atriale

eGFR>25 mL/min

Primari:

Composito di ospedalizzazione o visita urgente per scompenso cardiaco, morte da causa cardiovascolare

Numero di eventi avversi

Numero di eventi avversi richiedenti sospensione del trattamento

Secondari:

Tempo di insorgenza degli outcome

Numero totale di HF

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del Finerenone nello scompenso cardiaco a frazione d’eiezione lievemente ridotta o conservata
FIND-CKD

RCT multicentrico Fase 3

Attivo (1584 pz), 2026

Malattia renale cronica stadio 2-4 non diabetica, non immunomediata

eGFR 25-90 mL/min

UACR 200-3500

Trattamento massimale con RAS inibitori

Primari:

Variazione del GFR a 32 mesi

Secondari:

Composito di arrivo all’ESRD, perdita di GFR del 57%, scompenso cardiaco e morte cardiovascolare

Valutare il profilo di rischio e di efficacia del Finerenone nella malattia renale cronica non diabetica.
FINE-REAL

Osservazionale

In reclutamento (5500 pz)

2027

Diabete mellito di tipo 2

Malattia renale cronica

Già in trattamento con Finerenone

Descrittivo Osservare una coorte di pazienti in trattamento con Finerenone
Tabella 1. Principali Ongoing Trials sul Finerenone
Figura 1. In presenza di aldosterone, il MR viene attivato e recluta dei cofattori trascrizionali che permettono l’assemblaggio del complesso trascrizionale e la trascrizione dei geni bersaglio. In presenza di Finerenone, la funzione recettoriale del MR e la capacità di reclutare cofattori sono inibite. I geni bersaglio non sono trascritti. MR, mineralcorticoid reeptor; ASC2, activating signal cointegrator 2; NCoR, nuclear receptor corepressor 1; TIF1α: transcriptional intermediary factor α; TRAP220, mediator of RNA polymerase II transcription subunit 1

 

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  22. Heerspink HJL, Agarwal R, Bakris GL, Cherney DZI, Lam CSP, Neuen BL, Sarafidis PA, Tuttle KR, Wanner C, Brinker MD, Dizayee S, Kolkhof P, Schloemer P, Vesterinen P, Perkovic V; FIND-CKD investigators. Design and baseline characteristics of the Finerenone, in addition to standard of care, on the progression of kidney disease in patients with Non-Diabetic Chronic Kidney Disease (FIND-CKD) randomized trial. Nephrol Dial Transplant. 2024 Jun 11:gfae132. doi: 10.1093/ndt/gfae132. Epub ahead of print. PMID: 38858818.

Iposodiemia e disordini elettrolitici nel paziente oncologico

Abstract

L’onconefrologia è un campo nascente e in costante espansione che costituisce un’interfaccia clinica tra nefrologia e oncologia. Oncologo e nefrologo si confrontano sempre più spesso anche al di là degli incontri multi-disciplinari con altri specialisti. Timing, dose terapeutica e gestione degli effetti avversi sono i principali argomenti di confronto. I disordini elettrolitici rappresentano un frequente ricorso alla consulenza nefrologica. Nella maggior parte dei casi, essi sono secondari al tumore o alle terapie oncologiche. Il grande sforzo negli ultimi anni nel trovare terapie targeted, immune-based e cell-based ha portato d’altra parte all’identificazione di nuovi effetti collaterali. Tra gli squilibri elettrolitici più comuni, abbiamo l’iposodiemia, l’ipopotassiemia, l’iperpotassiemia, l’ipercalcemia e l’ipomagnesemia. È stato dimostrato che i disturbi elettrolitici peggiorano la prognosi del paziente oncologico, oltre a causare un ritardo nell’avvio delle terapie specifiche per il tumore o una loro interruzione. È importante quindi riconoscere tempestivamente il disordine elettrolitico e trattarlo. In questa review, ci focalizzeremo in particolare sul trattamento dell’iposodiemia come disordine più frequente nei pazienti oncologici, ma anche sui nuovi casi descritti di ipo- e iperpotassiemia e acidosi metabolica.

Parole chiave: iposodiemia, paziente oncologico, disturbi elettrolitici, iperpotassiemia

Introduzione

I pazienti oncologici costituiscono una popolazione fragile e la sovrapposizione con patologie renali pre-esistenti o subentranti peggiora notevolmente la prognosi. Oltre ad AKI, proteinuria e ipertensione, spesso i pazienti oncologici presentano disturbi idroelettrolitici. Tra i più comuni sono l’iposodiemia, l’ipopotassiemia, l’iperpotassiemia, l’ipercalcemia e l’ipomagnesemia. Questi possono essere causati direttamente dal tumore, come nelle sindromi paraneoplastiche, o essere secondari a terapia. Tra le sindromi paraneoplastiche più comuni abbiamo la SIAD, sindrome da inappropriata antidiuresi, che porta a iposodiemia. Negli ultimi anni, lo sviluppo di nuovi farmaci ha portato a nuovi effetti collaterali, come l’ipomagnesemia indotta da anticorpi monoclonali anti EGFR o l’iposodiemia da agenti alchilanti e alcaloidi della vinca e le più recenti targeted therapies.

Questa review intende fornire gli elementi clinici più recenti per l’identificazione e il trattamento dei disturbi elettrolitici nei pazienti oncologici, focalizzandosi prevalentemente sulla iposodiemia.

 

Iposodiemia

L’iposodiemia è definita da una concentrazione sierica di sodio inferiore a 135 mmol/L. Si distinguono tre gradi in funzione della concentrazione di sodio: lieve (130-134 mmol/L), moderata (125-129 mmol/L) e severa (<125 mmol/L). In base alla modalità di insorgenza, distinguiamo l’iposodiemia in acuta (insorta da meno di 48 h) o cronica (> di 48h). I disordini della sodiemia sono da considerarsi disordini dell’omeostasi dell’acqua. Proprio la quantità di acqua corporea (TBW, total body water), è un indicatore clinico molto importante che ci permette di classificare l’iposodiemia in ipovolemica, euvolemica e ipervolemica. 

Il 14% di tutti i casi di iposodiemia in setting ospedaliero sono da riferire a pazienti oncologici [1].  Inoltre, il 47% dei pazienti oncologici alla prima ospedalizzazione presenta iposodiemia, di cui il 23% già al ricovero e il 24% la sviluppa durante la degenza [2]. 

In generale, l’iposodiemia aumenta il rischio di mortalità [3] e la sua correzione migliora la sopravvivenza, come dimostrato negli studi SALT-1, SALT-2 e EVEREST. Questo è particolarmente vero nei pazienti con cancro, dove l’iposodiemia severa e/o moderata raddoppia quasi la durata della degenza [2]. Il rischio di morte a 90 giorni dalla diagnosi di iposodiemia è di 4,74 nei pazienti con forme moderate e di 3,46 nei pazienti con forme severe [2]. Questi numeri presentano il peso dell’iposodiemia sui pazienti oncologici sia in termini di qualità di vita che di durata. 

I sintomi dell’iposodiemia sono variabili e spesso sfumati e dipendono dalla velocità e dall’entità con cui essa si instaura. Riguardano soprattutto la sfera neurologica, comprendendo confusione, alterato stato di coscienza, irritabilità, aumentato rischio di cadute e andatura instabile [4] e quindi un maggior rischio di fratture [5], fino ad arrivare al coma e alle convulsioni negli esordi acuti. 

L’iposodiemia nei pazienti oncologici può essere dovuta direttamente al tumore primitivo, può essere secondaria alla sua terapia o a comorbidità che spesso ne costituiscono la complessità di gestione. La causa principale di iposodiemia in questa popolazione è la SIAD (Sindrome da inappropriata antidiuresi), la più comune forma di iposodiemia euvolemica. Rappresenta più del 30% dei casi di iposodiemia nei pazienti con cancro [6]. Altre cause di SIAD includono l’insufficienza cardiaca, altre patologie polmonari e farmaci. In generale, circa l’1-2% dei pazienti oncologici presenta SIAD [7]. La SIADH, o Sindrome da inappropriata secrezione di ADH (ormone antidiuretico), è un termine coniato nel 1957 da Bartter & Schwartz [8] per descrivere quelle situazioni in cui, nonostante i livelli di osmolarità sierica siano < 275 mOsm/kg, ADH è inappropriatamente secreto dalla neuroipofisi o altri siti. Infatti, per valori di osmolalità sierica < 275 mOsm/kg la secrezione di questo ormone è annullata, quando questa situazione non si rileva si parla di inappropriato rilascio di ADH. Poiché il dosaggio sierico di ADH è spesso poco accurato per la labilità di questo peptide, sono necessari altri parametri per identificarne la sua presenza in circolo. Quello più economico e storicamente in uso è la osmolalità urinaria. Valori > 100 – 200 mOsm/kg H2O indicano la presenza in circolo di ADH (Tabella I). Dosaggi alternativi ematici sono rappresentati dalla copeptina, un peptide di rilascio equimolare con ADH, ma molto più stabile in circolo.

Criteri essenziali

Osmolalità sierica effettiva <275 mOsm/kg
Osmolalità urinaria >100 mOsm/kg
Euvolemia clinica
Concentrazione di sodio urinario >30 mmol/L con normale apporto di sale e acqua dalla dieta
Assenza di insufficienza surrenalica, tiroidea, ipofisaria o renale
Non uso recente di diuretici

Criteri supplementari

Acido urico sierico < 4 mg/dL

Azotemia < 21,6 mg/dL
Fallimento della correzione dell’iposodiemia con infusione salina 0,9%
FE Na >0,5%

FE Urea  >55%

FE Acido urico >12%
Correzione dell’iposodiemia con la restrizione dei fluidi

Tabella I. Criteri diagnostici della SIADH. Adattata da [8].

Il tumore solido più frequentemente associato a SIADH è il microcitoma polmonare, seguito poi da tumori del tratto gastrointestinale, tumori ematologici e carcinoma della mammella [9]. 

Tra i farmaci che più frequentemente si associano a SIADH, abbiamo i derivati del platino, gli agenti alchilanti (soprattutto ciclofosfamide), target therapy, immunoterapia e gli alcaloidi della vinca. L’eziologia del disturbo è multifattoriale e i meccanismi sono molteplici (Tabella II). Questi farmaci non agiscono solo tramite la secrezione di ADH: alcuni dei loro metaboliti hanno un’attività simil ADH (come nel caso della ciclofosfamide [10]), alcuni portano ad up-regulation dei recettori V2R e delle acquaporine-2 [11]. L’ipilimumab provoca insufficienza surrenalica che porta al mancato feedback negativo del cortisolo sull’ADH [12]. La vincristina, un alcaloide della vinca, ha un effetto diretto neurotossico a livello ipotalamico [13]. Inoltre, i derivati del platino spesso inducono nausea e vomito, i quali costituiscono di per sé un importante stimolo alla secrezione di ADH. I protocolli di idratazione aggressiva per prevenire la cistite emorragica nella terapia a base di ciclofosfamide peggiorano l’iposodiemia. Inoltre, insieme ai chemioterapici, spesso i pazienti oncologici sono trattati con oppioidi, antidepressivi come SSRI e triciclici, antiemetici come le fenotiazine [14] che aggravano lo squilibrio idroelettrolitico. Tutti questi fattori contribuiscono ad aumentare la complessità dell’eziologia dell’iposodiemia nei pazienti oncologici.

Chemioterapici             Meccanismo fisiopatologico
Alcaloidi della vinca

vincristina, vinblastina

SIADH (tossicità diretta ipotalamica)
Derivati del platino

Cisplatino, carboplatino

Aumentata secrezione ADH, Renal salt wasting, danno al DNA di NCC
Agenti alchilanti
ev cyclophosphamide, melphalan, ifosfamide
SIADH, infusione preventiva di sol. ipotoniche, upregulation di V2R
Target therapies

Bevacizumab, Ado-trastuzumab

SIADH, sindrome nefrosica, Cerebral Salt Wasting Syndrome

Ipilimumab, Nivolumab

Icrucumab, Etaracizumab, Volociximab

Insufficienza surrenalica da ipofisite autoimmune, nefrite interstiziale

Brivanib, Imatinib, Dasatinib,Cediranib Nilotinib,Sorafenib,
Sunitinib, Gefinitib, Pazopanib, Afatinib, Bosutinib

SIADH

Bortezomib TLS
Antimetaboliti

Metotrexate

SIADH, secrezione di peptride natriuretico
Inibitori topoisomerasi tipo I

Irinotecano

SIADH
 Tabella II. Principali meccanismi fisiopatologici dell’iposodiemia da agenti chemioterapici. Adattata da [15].

Terapia infusionale

La gestione dell’iposodiemia avviene su due fronti: il ripristiono dei livelli di sodiemia e il trattamento della causa scatenante. Essa prevede un diverso approccio a seconda della durata e severità dei sintomi. Nell’iposodiemia secondaria a SIAD acuta, severamente sintomatica, il trattamento consigliato è la soluzione ipertonica NaCl al 3% in bolo di 150 mL in 20 minuti, ripetibili fino ad un massimo di 3 volte, monitorando strettamente i livelli di sodiemia (ogni 2 ore e al limite ogni 4). L’obiettivo è correggere la sodiemia di 4-6 mEq/L nelle prime 6/8 ore [16]. Quando invece l’iposodiemia è moderata e i sintomi non sono severi, la correzione può essere più graduale (per evitare la sindrome da mielinolisi pontina) con obiettivo di correzione limite di 8-10 mEq/L nelle prime 24 ore e massimo 18 nelle 48 ore soprattutto nei pazienti anziani e fragili.

Approccio dietetico

Nel caso dell’iposodiemia cronica, è utile identificare il/i fattore/i scatenante/i. Tra questi, l’apporto idrico non è un fattore secondario. Il paziente oncologico è sottoposto a continue consulenze specialistiche ed assume diversi farmaci: è educato insomma ad associare l’introito idrico col benessere renale. Questo assioma è vero, finchè è conservata la capacità di diluizione delle urine. Purtroppo la perdita della massa nefronica con l’età e il decrescere del GFR anche negli stadi iniziali minano la capacità di diluire prontamente le urine, ovvero di ridurre in tempi rapidi l’osmolalità urinaria quando si introduce acqua.

Questo espone al rischio di sviluppare iposodiemie sostenute da comportamenti, almeno nelle intenzioni, benevoli. Pertanto bisogna educare il paziente a bere il giusto per soddisfare la sua sete e scegliere cibi ricchi in acqua in modo da ridurre l’acqua libera da soluti introdotta.

Questo punto diventa ancora più importante per quei pazienti oncologici che mangiano poco. Lo scarso introito di proteine e sale (le principali fonti di osmoli attive: Na, Cl e Urea) determina un carico osmolare renale quotidiano molto basso. Quando questi pazienti aumentano il loro introito idrico ai famosi 2 litri al giorno, diluiscono il loro carico di osmoli ed è come se si sottoponessero ad infusioni quotidiane di soluzioni ipotoniche e iposmotiche. Questo accelera lo sviluppo di iposodiemia laddove ci sono le condizionizioni fisiopatologiche di una SIADH.

Per il calcolo facilitato del carico osmotico con la dieta, noto anche come carico di soluti renale, si puo fare riferimento alla seguente formula derivata dagli studi di Ziegler e Fomon [17]:

Carico osmotico del cibo: mOsmoli = contenuto proteico totale (g) × 5,8 (× 4 se bambini)  + Na+ × 2 + K+ (mmoli)

Sebbene questa formula sia stata derivata per la nutrizione dei neonati e poi per la nutrizione parenterale o enterale, può essere estesa al cibo ingerito.

Per un paziente oncologico tipo di 50 kg (Figura 1) che assume 40 gr di proteine/die e segue una dieta di circa 3 gr di sale al giorno con limitazione dell’apporto di potassio a 50 mmol/die, il carico osmotico giornaliero calcolato è di circa 385 mOsm. Se questo carico osmotico è diluito in 2 L di acqua al die, il paziente assume un carico osmotico di circa 193 mOsm/L pari a meno della metà di quello previsto quotidianamente. Fatto 500 il set point osmolare del rene di un paziente oncologico anziano con SIADH, il nostro paziente tratterrà ben circa 620 mL di acqua per ogni litro di acqua bevuto (1 – (193/500)).

Pertanto, ridurre l’apporto idrico a 500 mL/die in questo esempio può essere molto efficace nell’incrementare di 4 volte l’osmolalità della soluzione in cui il carico osmotico effettivo è contenuta (385 mOsm / 0,5 litri = 770 mOsm/L). Una simile soluzione consentirebbe la perdita di 1,54 L di acqua per ogni litro di soluzione 770 mOsm, consentendo così di eliminare circa 540 ml di acqua libera da soluti per ogni litro di soluzione prevenendo così il rischio di iposodiemia.

Figura 1. Esempio di carico osmotico. Creato con BioRender.com.
Figura 1. Esempio di carico osmotico. Creato con BioRender.com.

Pertanto, è indispensabile nell’approccio al paziente oncologico con iposodiemia cronica valutare l’assetto nutrizionale ed idrico ancor prima di decidere ogni terapia.

Individuazione dei farmaci induttori di SIADH

La lista di farmaci che causano SIADH è in costante aggiornamento. Cinque classi di farmaci (antidepressivi, anticonvulsivanti, antipsicotici, farmaci citotossici e antidolorifici) sono la causa dell’82,3% di pazienti diagnosticati con SIADH indotta da farmaci [18]. I più frequentemente coinvolti sono gli inibitori del reuptake della serotonina e la carbamazepina. In ambito oncologico, la Tabella 2 riporta i farmaci per il trattamento delle neoplasie associati a SIADH. In generale, bisogna notare come farmaci di ampio utilizzo come gli inibitori di pompa protonica e gli ACE-inibitori possano associarsi a SIADH [19, 20].

Terapia orale

Al fine di aumentare il carico osmotico in alcuni paesi è approvata ed in uso corrente la terapia con cialde di urea. Questa terapia associata a restrizione idrica è efficace nell’incrementare la sodiemia, ma si associa ad alitosi e scarsa compliance dei pazienti [21].

Laddove consentito, per la presenza di eventuali altre comorbilità incluso ipertensione arteriosa, sindrome edemigene, etc., aumentare la quota di sale nella dieta è tra gli interventi più praticati per aumentare il carico osmolare in questi pazienti, tuttavia ci sono evidenze contrastanti a riguardo il beneficio rispetto alla sola restrizione idrica. Un recente studio randomizato controllato (EFFUSE-FLUID trial) ha dimostrato che l’aggiunta di supplementi di sale e/o furosemide non rappresenta un beneficio in termini di incremento della sodiemia rispetto alla sola restrizione idrica. Inoltre i pazienti che assumevano furosemide presentavano una più alta frequenza di Acute Kidney Injury (AKI) e ipopotassiemia [22].

Per le forme in cui le misure indicate sopra sono inefficaci, i vaptani devono essere considerati come ulteriore opzione terapeutica. I vaptani sono antagonisti del recettore V2R ed agiscono come acquaretici, cioè promuovendo la perdita di acqua libera da soluti. I vaptani permettono direttamente di diminuire il setpoint renale osmotico a valori appropriati per iposodiemia. Infatti, in corso di iposodiemia la secrezione di ADH dovrebbe essere completamente soppressa e quindi il set point osmolare renale molto basso (< 100 mOsm). Questo non è il caso in corso di SIADH, in cui nonostante l’iposodiemia il set point renale osmolare resta inappropriatamente alto. I vaptani ripristinano questa situazione riducendo il set point osmolare renale a circa 100 mOsm/kg H2O e favorendo così la clearance dell’acqua libera. Il tolvaptan, in uso in Italia, è molto efficace in questo senso già per dosaggi molto bassi, da 7,5 mg/die. Il tolvaptan ha dimostrato di indurre una rapida correzione dei livelli di sodio sierico e della sintomatologia nei pazienti con microcitoma polmonare [1]. L’efficacia e la rapidità d’azione permettono di non ritardare trattamenti chemioterapici.

 

Ipopotassiemia

L’ipopotassiemia è definita da livelli di potassio sierico inferiori a 3,5 mEq/L. È il secondo disordine elettrolitico per frequenza nella popolazione oncologica [23]. Spesso si accompagna ad altri disordini elettrolitici, come l’ipomagnesemia e l’iposodiemia. In base alla causa, possiamo dividere l’ipopotassiemia in 3 categorie: da ridotto apporto (malnutrizione, anoressia), aumentata perdita (renale e non) o redistribuzione all’interno delle cellule (farmaci, alcalosi). I principali chemioterapici che provocano ipopotassiemia sono indicati nella Tabella III.

Tra le cause meno comuni, ma di cui ci sono report sempre più frequenti, abbiamo la sindrome da secrezione ectopica di ACTH. L’EAS (Ectopic ACTH Syndrome) rappresenta il 5-10% dei casi di sindrome di Cushing e si associa maggiormente a tumori neuroendocrini, soprattutto con sede toracica come il microcitoma polmonare, il carcinoide bronchiale, il carcinoma midollare tiroideo e il carcinoma timico [24].

I sintomi comprendono habitus Cushingoide con ipertensione, alcalosi metabolica ipopotassiemica, ipercalciuria e poliuria per via dei bassi livelli di aldosterone. In questa condizione riscontriamo una secrezione di ACTH da parte del tumore che porta a eccesso di cortisolo secreto dalle ghiandole surrenali. Il cortisolo viene fisiologicamente metabolizzato in cortisone (biologicamente inattivo) grazie all’enzima 11-β-idrossisteroido-deidrogenasi tipo 2 nelle cellule principali a livello dei dotti collettori corticali e midollari [25]. Quando vi è un eccesso di cortisolo, l’enzima 11βHSD2 viene saturato e il cortisolo si lega al recettore dei mineralcorticoidi, per cui ha affinità. Questo quadro presenta similitudini con la sindrome AME (Apparent Mineralcorticoid Excess), condizione che si configura nell’ingestione cronica di liquirizia o geneticamente determinata da mutazioni a perdita di funzione della 11βHSD2. Ciò spiega perché viene trattato con successo grazie agli antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi, come spironolattone ed eplerenone [26].

Altro caso degno di nota è la frequente associazione tra la leucemia mieloide acuta (soprattutto i sottotipi M4 e M5) e l’ipopotassiemia. Dal 40% al 60% di questi pazienti sviluppano ipopotassiemia nel decorso della patologia [23], associata spesso ad altri disordini come ipomagnesemia, iposodiemia, ipocalcemia, ipofosfatemia e acidosi metabolica. Questa condizione è stata associata a un danno tubulare provocato dal lisozima [27, 28], un enzima litico prodotto dai monociti e dalle loro varianti neoplastiche.

Chemioterapici              Meccanismo fisiopatologico
Derivati del platino

(Cisplatino, Carboplatino)

Perdita di potassio renale associato a ipomagnesemia, ridotto assorbimento per citotossicità intestinale
Agenti alchilanti

 Ifosfamide,

 bendamustina

Danno al tubulo prossimale (RTA, sindrome di Fanconi) per via del metabolita cloroacetaldeide

Tubulopatia distale (sindrome di Gitelman)

Target Therapies

Cetuximab, Panitumumab

Perdita di potassio renale associato a ipomagnesemia

Lumretuzumab, Pertuzumab (associati a paclitaxel)

Diarrea secretoria da farmaci

Bevacizumab
Temsirolimus, Everolimus
Danno al tubulo prossimale (sindrome di Fanconi)
Tabella III. Chemioterapici associati a ipopotassiemia. Adattata da [15].

 

Iperpotassiemia

L’iperpotassiemia è definita da livelli di potassio sierico superiori a 5,5 mEq/L. Si riscontra nella popolazione oncologica associata a AKI, CKD, rabdomiolisi, sindrome da lisi tumorale, insufficienza surrenalica (da metastasi), farmaci. Importante è fare la distinzione con la pseudoiperpotassiemia, una condizione nella quale si riscontra un aumentato livello di potassio nel sangue in seguito alla formazione di trombi o a centrifugazione (le cellule leucemiche sono particolarmente fragili e vanno più spesso incontro a lisi). Condizioni di trombocitosi, leucocitosi ed eritrocitosi possono portare ad iperpotassiemia.

La sindrome da lisi tumorale è un’emergenza medica in cui vi è distruzione delle cellule tumorali con rilascio in circolo delle componenti intracellulari.

La sindrome da lisi tumorale è definita dai criteri di Cairo-Bishop [29], distinti in laboratoristici e clinici. In breve, essa è caratterizzata da iperpotassiemia, ipocalcemia, iperuricemia, iperfosfatemia, acidosi metabolica e AKI. Può complicarsi con aritmie cardiache e convulsioni.
Il trattamento dell’iperpotassiemia nel paziente oncologico non prevede divergenze da quanto consigliato dalle linee guida nel trattamento dell’iperpotassiemia negli altri pazienti [30].

 

Ipomagnesemia

L’ipomagnesemia è definita da livelli di magnesio sierico inferiori a 1,5 mg/dL (o 1,2 mEq/L). Si può riscontrare come disordine isolato o più spesso associato a ipopotassiemia o ipocalcemia. Nei pazienti oncologici, l’ipomagnesemia è frequentemente secondaria all’utilizzo di farmaci e più raramente conseguenza del tumore. I derivati del platino, in particolare il cisplatino, sono fortemente associati a perdita di magnesio per danno diretto tubulare [31]. Il 90% dei pazienti dopo 3 cicli di cisplatino sviluppano ipomagnesemia [32] e necessitano di terapia suppletiva, spesso già prevista nei protocolli di infusione.

Il 34% dei pazienti in terapia con anticorpi monoclonali anti-EGFR sviluppa ipomagnesemia [33]. Il Panitumumab è associato a un’incidenza maggiore rispetto al Cetuximab. Gli anticorpi monoclonali anti-EGFR causano ipomagnesemia inibendo TRPM6 sul versante luminale delle cellule del tubulo contorto distale.

 

Ipofosfatemia

L’ipofosfatemia è definita da livelli di fosfato sierico inferiori a 2,5 mg/dL. Può avere diverse cause nella popolazione oncologica: malnutrizione, presenza di stomie intestinali, chemioterapici (TKI inibitori, ifosfamide [34]). I chemioterapici agiscono provocando danno diretto al tubulo prossimale, configurando spesso un quadro di sindrome di Fanconi acquisita.

Una causa rara di ipofosfatemia nei pazienti con cancro è la TIO (Tumor Induced Osteomalacia), anche conosciuta come osteomalacia oncogenica, una sindrome paraneoplastica riscontrabile in condrosarcomi, osteoblastomi e tumori di origine mesenchimale. Si caratterizza per ridotto riassorbimento di fosfato a livello tubulare, con bassi o normali livelli di vitamina D [35], causato da una ipersecrezione di FGF-23, un importante fattore fosfaturico che riduce l’assorbimento intestinale di fosfato tramite inibizione dell’attivazione della vitamina D. La terapia consiste nella resezione chirurgica del tumore quando possibile, in alternativa l’utilizzo di burosumab, anticorpo monoclonale contro l’FGF-23 [36].

 

Ipercalcemia

L’ipercalcemia è definita da livelli sierici di calcio superiori a 10,5 mg/dL o 2.5 mmol/L. In base al livello, l’ipercalcemia può essere classificata in lieve (10.5-11.9 mg/dL), moderata (12-13.9 mg/dL) o severa (14-16 mg/dL). A seconda della severità, i sintomi variano da astenia, malessere, anoressia, poliuria, dolori ossei a confusione e coma. Le cause dell’ipercalcemia nella popolazione oncologica possono essere divise in tre categorie. La più frequente è da produzione di sostanze con azione simile al PTH, come il PTHrp, che promuove il turnover osseo e aumenta il rilascio di calcio dalle ossa. Questo quadro si riscontra nel carcinoma squamoso polmonare, carcinoma della cervice uterina, carcinoma esofageo, linfomi [37]. La seconda categoria comprende tumori associati o a importanti metastasi osteolitiche, come il carcinoma della mammella, del polmone o il mieloma multiplo. Alla terza categoria appartengono quei tumori capaci di attivare la vitamina D, come il mieloma multiplo, il linfoma di Hodgkin e non Hodgkin [38].

Di recente si è identificata una forma di ipercalcemia secondaria all’uso degli inibitori del checkpoint immunitario [39]. Questi farmaci hanno l’abilità di riattivare il sistema immunitario e scatenare diverse risposte immuno-mediate che vanno sotto il nome di irAEs (immune related adverse events). Tra queste, i granulomi sarcoid-like, in cui i macrofagi contengono 1-alfa-idrossilasi, attivano la vitamina D a 1-25-diidrossicolecalciferolo e aumentano i livelli di calcio sierico.

Il trattamento, a seconda della causa, prevede un duplice obiettivo: ridurre il riassorbimento osseo e promuovere l’escrezione di calcio. In generale, prevede idratazione, utilizzo di bifosfonati (zoledronato e pamidronato) o denosumab ed eventualmente steroidi.

 

Acidosi metabolica

Diversi chemioterapici, in particolare gli inibitori del checkpoint (CPI) sono stati associati ad acidosi metabolica [40]. L’utilizzo di anti-PD1, in particolare il pembrolizumab, è stato associato allo sviluppo di acidosi tubulare renale (RTA) con ipopotassiemia. Il caso indice presentava incapacità di acidificare le urine (UpH > 5,3) nonostante una severa acidosi metabolica e di eliminare ammonio nelle urine. Conservata era la ipocitraturia. Tuttavia, il quadro bioptico renale eseguito per la persistenza della sintomatologia ancora a 3 mesi dalla sospensione del farmaco, non rivelava alterazioni istologiche ai danni del nefrone distale, ma una intensa vacuolizzazione del tubulo prossimale. La sintomatologia regrediva dopo 6 mesi dalla sospensione della terapia con anti-PD1 [41].

Una rara causa di acidosi metabolica a gap anionico aumentato nei pazienti con cancro è l’acidosi lattica tipo B, un’acidosi nella quale vi è un aumento dei livelli di lattato senza evidenza di ipoperfusione sistemica, quindi in condizione normossiemiche. Si osserva maggiormente in neoplasie ematologiche quali leucemie e linfomi, ma non mancano report in tumori solidi. La patogenesi non è chiara, anche se diverse ipotesi sono state proposte. Uno dei possibili meccanismi è l’effetto Warburg, in cui le cellule tumorali preferiscono le vie anaerobie di produzione del lattato, probabilmente indotte dal rilascio di HIF1alfa (hypoxia inducible factor 1alfa) da parte delle cellule tumorali [42], nonostante i normali livelli di ossiemia.

 

Conclusioni

I disordini elettrolitici sono spesso misconosciuti. Ciò è da ricondurre alla loro sintomatologia, spesso sfumata, alla loro ampia diffusione in ambiti diversi della medicina e alla scarsa prioritizzazione rispetto alla condizione di base. In una popolazione fragile come quella oncologica, diagnosticare tempestivamente e trattare uno squilibrio elettrolitico significa migliorare la prognosi del paziente ed evitare interruzioni e/o ritardi nelle cure chemioterapeutiche oltre che migliorare la qualità della vita migliorando alcuni sintomi. I disordini idroelettrolitici sono spesso associati tra loro come le tessere di un puzzle e come un puzzle non sempre la terapia è immediata e risolutrice senza l’ospedalizzazione. Gli avanzamenti terapeutici in oncologia hanno rivelato nuovi aspetti della regolazione dell’omeostasi renale idroelettrolitica come emerge ad esempio dal ruolo della modulazione del sistema immunitario.

Diventa essenziale per il clinico riconoscere questi disturbi e comprenderne la fisiopatologia che molto spesso è alla base della terapia. Anche in questo ambito l’interazione nefrologo ed oncologo è essenziale per il più opportuno management dei pazienti oncologici che manifestano disordini idrolelettrolitici.

 

Bibliografia

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Hyperkalemia-induced acute flaccid paralysis: a case report

Abstract

Acute flaccid paralysis is a medical emergency that may be caused by primary neuro-muscular disorders, metabolic alterations, and iatrogenic effects. Severe hyperkalemia is also a potential cause, especially in elderly patients with impaired renal function. Early diagnosis is essential for appropriate management.

Here, we report the case of a 78-year-old woman with hypertension and diabetes presenting to the emergency department because of pronounced asthenia, rapidly evolving in quadriparesis. Laboratory examinations showed severe hyperkalemia of 9.9 mmol/L, metabolic acidosis, kidney failure (creatinine 1.6 mg/dl), and hyperglycemia (501 mg/dl). The electrocardiography showed absent P-wave, widening QRS, and tall T-waves. The patient was immediately treated with medical therapy and a hemodialysis session, presenting a rapid resolution of electrocardiographic and neurological abnormalities. This case offers the opportunity to discuss the pathogenesis, the clinical presentation, and the management of hyperkalemia-induced acute flaccid paralysis.

Keywords: hyperkalemia, acute flaccid paralysis, hemodialysis, diabetes

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Introduction

Hyperkalemia is associated with poor outcomes and a high mortality rate among the general population, and among patients with cardiac and renal disease [1,2]. Hyperkalemia-related clinical complications and deaths are determined mainly by the cardiac electrophysiological effects of elevated potassium levels [3]. Indeed, hyperkalemia may result in ventricular arrhythmias and sudden death. Moreover, hyperkalemia may also cause other physiologic perturbations, such as muscle weakness and paralysis, paraesthesia, and metabolic acidosis.

Here, we report a case of severe hyperkalemia presenting with dramatic neurological manifestations in the form of acute flaccid paralysis (AFP).

 

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L’iperkalemia un fattore limitante nell’utilizzo dei farmaci che bloccano il Sistema Renina Angiotensina Aldosterone (SRAA)

Abstract

Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-I) ed i bloccanti dei recettori dell’angiotensina (ARB) hanno dimostrato una reale efficacia nel ridurre la pressione arteriosa,la proteinuria, nel rallentare la progressione della malattia renale cronica (MRC) e nel miglioramento clinico. in pazienti con insufficienza cardiaca, diabete mellito e cardiopatia ischemica. Il loro utilizzo è però limitato da alcuni effetti collaterali come l’aumento del potassio (K) sierico,che assume carattere di severità nei pazienti con insufficienza renale. Nei 23.000 pazienti seguiti nell’ambito del progetto PIRP della Regione Emilia-Romagna, l’iperkaliemia alla prima visita (K>5,5 mEq/L) era presente complessivamente nel 7% circa di tutti i pazienti. La prevalenza di valori di K > 5.5 mEq/L aumentava in relazione allo stadio CKD, raggiungendo l’11% nei pazienti in stadio 4 e 5. Tra i pazienti con valori di K >5.5 al baseline, il 44.8% era in terapia con ACE-I/ARB inibitori, il 3.8% con diuretici anti-aldosteronici ed un ulteriore 3.9% assumeva contestualmente farmaci bloccanti il SRAA e risparmiatori di K. Le contro-misure per evitare l’insorgenza di iperkalemia in corso di terapie con farmaci che bloccano i SRAA vanno dalla dieta povera di K, ai diuretici ed infine a farmaci che favoriscono l’eliminazione fecale del K. Tra questi i polistirene sulfonati che hanno più di 50 anni di vita scambiano il K con il sodio o con il calcio. Questi farmaci però, nell’uso cronico, possono determinare dei sovraccarichi di sodio o di calcio e causare delle pericolose necrosi intestinali. Recentemente sono stati introdotti sul mercato due nuovi farmaci estremamente promettenti nel trattamento dell’iperkalemia, il patiromer ed il sodio zirconio ciclosilicato. Il patiromer, che è uno scambiatore potassio-calcio, agisce a livello del colon dove vi è una maggiore concentrazione di K e dove il farmaco è maggiormente ionizzato. Il Sodio zirconio ciclosilicato (ZS-9) è un a resina che sfrutta per intrappolare il K dei micropori di ben definite dimensioni collocati nella struttura cristallina del silicato di zirconio. Il K intrappolato viene scambiato con altri protoni e con il sodio. Anche questi farmaci dovranno però, dimostrare la loro efficacia e sicurezza nel lungo periodo per ritenersi dei veri partners dei bloccanti del SRAA in alcune categorie di pazienti.

Parole chiave: potassio, iperkalemia, sartani, ace-inibitori, insufficienza renale, patiromer, sodio zieconio ciclosilato, ZS-9, kayexalate

Introduzione

Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-I) ed i bloccanti dei recettori dell’angiotensina (ARB) hanno dimostrato una reale efficacia nel ridurre la pressione arteriosa,la proteinuria e nel rallentare la progressione della malattia renale cronica (13). Inoltre questi farmaci favoriscono il miglioramento clinico in pazienti con insufficienza cardiaca, diabete mellito e cardiopatia ischemica. Tuttavia, questa classe di farmaci è stata anche associata ad eventi avversi, a volte severi: comparsa di insufficienza renale acuta, iperkalemia severa (45) importanti riduzioni della pressione arteriosa.

Il timore verso gli effetti avversi dei bloccanti del Sistema Renina Angiotensina Aldosterone (SRAA), spesso comporta una loro sottoutilizzazione o un sottodosaggio, in particolare nei sottogruppi di pazienti che sono maggiormente a rischio di sviluppare complicanze. Uno studio turco che si è occupato di valutare le barriere che limitano l’uso di ACE-I e ARB in pazienti con insufficienza renale cronica, ha riconosciuto nell’iperkalemia, l’elemento principale che porta alla sospensione dei bloccanti il SRAA (6). Anche lo studio di Shirazian ha evidenziato che l’iperkalemia rappresenta la causa principale di sottoutilizzo di ACE-I e ARB (7)

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