Quasi quarant’anni di terapia eritropoietinica: successi e limiti

Abstract

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica; se severa e non trattata comporta un peggioramento della qualità della vita e un aumentato rischio di ricorrere a emotrasfusioni.
Partendo dagli studi di fisiopatologia iniziati alla fine dell’Ottocento e poi proseguiti nel XX secolo, si è arrivati prima all’identificazione dell’eritropoietina, poi alla sua purificazione, identificazione del gene coinvolto e infine alla sintesi dell’eritropoietina ricombinante umana e dei suoi analoghi “long-acting”.
Oggi la terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), spesso in associazione alla terapia marziale, rappresenta lo standard di cura dei pazienti con malattia renale cronica e anemia. Recentemente agli ESA si sono aggiuntigli inibitori della HIF-PHD. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.
Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA e HIF-PHD deve essere personalizzata sia in termine di target di emoglobina, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

Parole chiave: anemia, malattia renale cronica, eritropoietina, agenti stimolanti l’eritropoiesi malattia cardiovascolare, inibitori della HIF-PHD

Introduzione

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica (MRC). Essa è una condizione multifattoriale, determinata principalmente da una carenza relativa di eritropoietina dai reni malati rispetto al grado di anemia. Oltre a ciò, è spesso presente una carenza marziale, relativa o assoluta, e uno stato infiammatorio cronico che contribuisce a un ridotto assorbimento intestinale di ferro e al sequestro dei depositi marziali e a una ridotta sensibilità del midollo osseo allo stimolo eritropoietico, sia esso endogeno o esogeno. Infine, diversi dati in letteratura hanno evidenziato la presenza di una ridotta sopravvivenza eritrocitaria, il contributo negativo di un aumento dello stress ossidativo, dell’iperparatiroidismo secondario, se di grado severo e dell’accumulo di tossine uremiche aggravato dai pazienti in dialisi da una dose dialitica insufficiente. Inoltre, nei pazienti in emodialisi, contribuiscono alla carenza marziale le perdite di sangue che rimane sequestrato nelle linee e filtri di dialisi dopo la reinfusione al termine della seduta dialitica. Infine, sono da considerare i frequenti prelievi ematici, le aumentate perdite gastro-intestinali, molto frequenti e spesso occulte nei pazienti con MRC, specialmente in emodialisi, la frequente malnutrizione, spesso severa, la carenza di folati e vitamina B12 e le frequenti neoplasie.

La comparsa di anemia è influenzata dalla severità della MRC; si stima che circa l’80% dei pazienti in dialisi nei sia affetto, con la conseguente necessità di ricevere una terapia con agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA) e/o ferro.

Si parla di anemia quando i valori di emoglobina (Hb) scendono al di sotto del limite di normalità definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In particolare, nei pazienti con MRC si parla di anemia nei soggetti con concentrazione di Hb <13.0 g/dL negli uomini e <12.0 g/dL nelle donne [1].

In ambito nefrologico è ancora oggetto di dibattito quando e se l’anemia non di grado severo debba essere trattata. I dati di numerosi studi osservazionali hanno evidenziato con chiarezza che i pazienti con valori di Hb normali in assenza di terapia hanno la prognosi migliore. D’atra parte, una lieve anemia nella MRC viene considerata quasi parafisiologica e in parte protettiva dal rischio di trombosi o eventi cardiovascolari. Al contrario, la presenza di anemia severa si associa ad un aumento della mortalità cardiovascolare o da tutte le cause, del rischio di ospedalizzazione e della necessità di dovere ricorrere a emotrasfusioni. Sappiamo inoltre che l’anemia, quando severa, può peggiorare in modo significativo la qualità della vita e contribuire alla comparsa di cardiopatia.

Oggi gli ESA e la terapia marziale rappresentano il “gold standard” della terapia dell’anemia nella MRC. Ad esse si sono aggiunti solo da poco tempo gli inibitori della HIF-PHD [2]. Quest’ultimi si differenziano dagli ESA perché stimolano la produzione dell’eritropoietina endogena, sono somministrati per via orale e non parenterale, non necessitano della conservazione in frigorifero, potrebbero essere più efficaci nei pazienti infiammati e, infine, potrebbero aumentare l’assorbimento del ferro e la sua disponibilità dai siti di deposito.

 

La scoperta dell’eritropoietina

La storia dell’eritropoietina ha origine agli inizi del secolo scorso (1905), quando Carnot e Deflandre ipotizzarono l’esistenza di un fattor umorale, capace di regolare la sintesi dei globuli rossi. Trent’anni dopo (1936), Hjort dimostrò e confermò l’esistenza di questo fattore.

Negli anni ’50, Erslev dimostrò che la trasfusione di grandi quantità di plasma da ratti anemici in ratti normali determinava un aumento significativo dei reticolociti e, a seguire, dell’ematocrito [3]. L’EPO umana è stata infine purificata per la prima volta nel 1977 dalle urine di un paziente affetto da anemia aplastica [4]; il suo gene è stato poi clonato nel 1984 con la tecnica del DNA ricombinante [5, 6]. Veniva presto notato che l’eritropoietina ottenuta dal lievito o da Escherichia coli aveva una debole attività o era inefficace, mentre quella prodotta dal criceto cinese aveva un’attività nettamente superiore, a causa di differenti pattern di glicosilazione. Fu proprio quest’ultima modalità che venne scelta per lo sviluppo clinico dell’eritropoietina ricombinante umana (HuEPO) per la cura dell’anemia.

L’introduzione della rHuEPO nella pratica clinica alla fine degli anni ’80 ha rappresentato un’importante svolta nel trattamento dell’anemia dei pazienti con MRC. L’epoetina alfa, la prima a essere stata introdotta, è una glicoproteina di 34000 dalton, composta, come l’ormone nativo, da 165 aminoacidi. La parte proteica rappresenta il 60% del peso della molecola, mentre la componente polisaccaridica ne rappresenta il 40%. Sono inoltre presenti siti di glicosilazione che determinano una struttura globulare compatta contenente quattro alfa eliche.

 

Dagli albori della terapia con eritropoietina alla ricerca del target di emoglobina ottimale

Negli anni ’60 i pazienti con MRC si presentavano con sintomi di estrema stanchezza, dovuti alla severa anemia, associata ad una progressiva ritenzione di tossine uremiche. In quegli anni, il trattamento dell’anemia risultava complicato e molto insoddisfacente, ed erano spesso necessarie ripetute trasfusioni per consentire una correzione dell’anemia che, tuttavia, era solo in grado di consentire una sopravvivenza, ma era associata ad una pessima qualità di vita. Inoltre, le necessarie periodiche trasfusioni comportavano un elevato rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e causavano enorme accumulo di ferro nel reticolo-endotelio, fegato compreso. Il ferro accumulato doveva a sua volta essere rimosso, per evitare i danni d’organo da eccessivo accumulo. Tuttavia, i chelanti del ferro, a base di desferriossamina, erano gravati da serie complicanze come la mucoviscidosi.

La pubblicazione del lavoro di Eschbach quasi 40 anni fa [7], relativo al trattamento dell’anemia con gli ESA, ha rivoluzionato la qualità̀ della vita dei pazienti con MRC. Si può quindi immaginare l’enorme entusiasmo con cui fu accolta da medici, infermieri e poi soprattutto dai pazienti, la possibilità di poter utilizzare l’eritropoietina ricombinante per il trattamento dell’anemia renale, in una prima fase per i soli pazienti in dialisi, ma successivamente anche per i pazienti in terapia conservativa. Pazienti che a malapena sopravvivevano con livelli di Hb anche inferiori a 5 g/dl, con una stanchezza indicibile e con innumerevoli sintomi, allora attribuiti all’intossicazione uremica, tornavano a vivere, vedendo sparire, o almeno drasticamente ridursi molti dei loro sintomi. Un’iniezione di eritropoietina nelle linee dei filtri di dialisi, 3 volte alla settimana, bastava a procurare ai pazienti un recupero di relativo benessere, comunque incomparabile rispetto alla situazione clinica precedente.

Un’intuizione ad utilizzare la somministrazione sottocute del farmaco anziché endovenosa, facilitò l’estensione dell’uso del farmaco anche ai pazienti in terapia conservativa, in dialisi peritoneale e successivamente anche ai trapiantati di rene, qualora la loro funzione renale si fosse deteriorata. La somministrazione sottocute evidenziò anche un altro vantaggio, per via di una più bassa concentrazione ematica dell’eritropoietina (alti dosaggi, come noto, sono potenzialmente associati a danneggiamento dell’endotelio dei vasi sanguigni) ed una più prolungata persistenza in circolo, consentendo la riduzione della frequenza di somministrazione a due ed anche una sola volta alla settimana, oltretutto con un risparmio del 30% della dose [8]. Tutto questo ha portato ad un radicale cambio di paradigma rispetto a quanto si era fatto sino ad allora. Era, infatti, necessaria una contemporanea somministrazione di ferro, non solo per la nota frequente carenza di ferro nei pazienti con MRC che non ricevevano più trasfusioni, perché non più necessarie, ma anche per la necessità di avere ferro sufficiente per produrre un’ulteriore quantità di globuli rossi per mantenere gli adeguati livelli di Hb, consentiti dal trattamento con eritropoietina.

Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti, che si arrivò ad una correzione troppo rapida ed eccessiva dei valori di Hb, con conseguenti complicanze, come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni. Oggi si usa più cautela rispetto a quegli anni e i rialzi pressori sono spesso impercettibili, in quanto la correzione dell’anemia inizia gradualmente ed a livelli di Hb solitamente non inferiori a 10 g/dL, per raggiungere e mantenere un target di 10-12 g/dL, come suggerito dal “position statement” pubblicato sull’argomento dalla European Renal Best Practice (ERBP) [9].

Non c’è dubbio quindi che gli ESA siano farmaci efficaci, in grado di correggere l’anemia e mantenere adeguati livelli di Hb nella maggioranza dei pazienti con CKD, migliorando il loro senso di fatica e, più in generale, la loro qualità̀ di vita, riducendo drasticamente la necessità trasfusionale, vantaggio non da poco, anche in previsione di un eventuale successivo trapianto. Inoltre, gli studi osservazionali hanno evidenziato una chiara associazione positiva tra livelli di Hb e sopravvivenza, suggerendo l’esecuzione di trial randomizzati, con l’intento di dimostrare i vantaggi di una completa normalizzazione dei livelli di Hb. Ma i risultati hanno deluso le notevoli aspettative. Un trial randomizzato con pazienti in dialisi [10] e ben tre trial randomizzati con pazienti in fase conservativa [11-13], tra cui molti diabetici (20% nel CREATE [11], 50% nel CHOIR [12] e 100% nel TREAT [13]), hanno complessivamente dimostrato che l’uso degli ESA, con l’intento di raggiungere livelli di Hb più̀ elevati rispetto alla pratica clinica di allora, poteva avere un effetto neutro o addirittura aumentare il rischio di morte o eventi cardiovascolari.

Molto interessante è stata l’osservazione che l’aumento del rischio di complicanze si verificava soprattutto nei pazienti che non erano in grado di raggiungere i target di Hb prefissati dai trial, indipendentemente dal fatto che fosse il target più̀ alto o più̀ basso, nonostante (o forse anche per questo) l’uso di dosaggi elevati di ESA per cercare di raggiungere i target. È stato quindi ipotizzato che l’ipo-responsività agli ESA e, di conseguenza l’uso di dosi elevate di ESA, fossero fattori prognostici negativi più̀ significativi rispetto al raggiungimento di valori di Hb più elevati [14, 15]. Preoccupante era anche il rischio d’insorgenza di neoplasia o la progressione di un’eventuale neoplasia già̀ in essere [13]. D’altra parte, cercare di raggiungere valori di Hb più̀ elevati non aveva prodotto un chiaro e clinicamente significativo miglioramento della qualità̀ della vita (anche se una rianalisi dei dati dello studio TREAT ha mostrato un significativo miglioramento [16]). Di conseguenza le linee-guida internazionali (KDIGO [1], ERBP [9], NICE [17], KDOQI [18] e CARI [19]) sono state tutte concordi nel suggerire un approccio cauto, bilanciando i pro e i contro del trattamento in modo personalizzato e correggendo solo parzialmente l’anemia con gli ESA. In Europa si suggerisce un valore target di Hb compreso tra 10 g/dL e 12 g/dL [9], mentre le linee-guida KDIGO [1] e KDOQI [18] hanno un atteggiamento più conservativo, suggerendo valori di Hb <10 g/dL per iniziare il trattamento con ESA e la sospensione della terapia nei pazienti in fase conservativa o in dialisi la cui Hb superi 11,5 g/dL. Vi è, comunque, comune accordo che non si debba intenzionalmente cercare di raggiungere intenzionalmente valori di Hb >13 g/dL.

Nel valutare le scelte non uniformi dei target di Hb, vale la pena ricordare che la pubblicazione di questi trial è stata contemporanea al cambiamento della politica di rimborso del trattamento dialitico negli Stati Uniti, applicando il “bundle” (tutto incluso). Il rimborso dell’ESA è ora incluso nella tariffa forfettaria per il rimborso del costo del trattamento del paziente con CKD in dialisi, provocando una possibile influenza economica sulle indicazioni al trattamento, dosi da usare e target da raggiungere. L’introduzione del “bundle” ha fatto sì che trattare il paziente con ESA si traducesse in una perdita economica per la struttura, a causa del costo del farmaco, senza rimborso aggiuntivo.

 

Indicazioni attuali alla terapia con ESA sull’inizio della terapia

Il trattamento con ESA deve essere avviato dopo avere appurato la presenza di adeguate riserve marziali, vitaminiche ed esclusa la presenza di sanguinamenti attivi o altre cause di anemia potenzialmente curabili.

Il timing ottimale su quando iniziare la terapia con ESA è un argomento ancora controverso, come confermato dal fatto che le diverse linee guida-position papers danno indicazioni tra loro diverse.

Le linee guida KDIGO del 2012 sconsigliano di iniziare il trattamento con ESA in pazienti con MRC di stadio V per valori superiori a 10 g/dL, senza indicare una soglia oltre la quale si debba iniziare necessariamente la terapia con ESA. Per i pazienti in dialisi viene consigliato d’iniziare la terapia con ESA per valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

L’anno successivo è stato pubblicato il position paper dell’ERBP, che si discosta dalle Linee Guida KDIGO in alcuni punti. In particolare, viene consigliato in generale d’iniziare la terapia con ESA nei pazienti con valori di Hb <10 g/dL. Veniva inoltre consigliato di tenere in considerazione il tasso di caduta della concentrazione di Hb, la precedente risposta alla terapia con ferro, il rischio di dover ricorrere a una trasfusione, i rischi correlati alla terapia con ESA e alla presenza di sintomi attribuibili all’anemia. Come nelle KDIGO, nel caso dei pazienti in emodialisi le ERBP consigliano di iniziare la terapia con ESA in caso di valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

Sempre nel 2013 le linee guida KDOQI e della società canadese di nefrologia hanno fornito i medesimi valori come cut-off per cominciare la terapia con ESA.

Il gruppo di lavoro del National Institute for Health and care excellence (NICE) suggeriscono di iniziare il trattamento con ESA a valori di Hb <11 g/dL indifferentemente dalla classe di MRC o se fosse in terapia conservativa o in dialisi.

Nel 2025 sarà probabilmente disponibile la versione aggiornata delle linee guida KDIGO sulla terapia dell’anemia. Non si prevedono modifiche sostanziali su quando iniziare la terapia con ESA o sul target di Hb a cui mantenere i pazienti durante la terapia, ma ci saranno indicazioni relative agli HIF-PHD inibitori.

 

L’eritropoietina ricombinante umana, i suoi biosimilari e le molecole long-acting

L’epoetina alfa e l’epoetina beta sono praticamente uguali all’eritropoetina endogena, di cui conservano la medesima struttura aminoacidica, mentre differiscono minimamente nella componente glucidica. Per la loro relativamente breve emivita (8 ore se somministrate endovena, 24 ore se somministrate per via sottocutanea), vengono definite “short-acting”. Dai primi studi di registrazione, inizialmente il loro uso era raccomandato con somministrazioni trisettimanali, soprattutto se in fase di correzione. Si è poi visto che, in realtà, possono essere somministrati anche in modo più dilazionato, fino a una volta al mese, soprattutto nei pazienti con basse necessità di dosaggio. Tuttavia, la frequenza dilazionata viene ottenuta spesso a prezzo di un aumento della dose somministrata e di escursioni al di sopra ma anche al di sotto della zona ottimale di stimolo alla produzione di Hb (aumentato rischio cardiovascolare legato alle elevate concentrazioni ematiche e, all’opposto, apoptosi dei globuli rossi quando si scende al disotto di determinati livelli di concentrazione ematica).

Dopo l’immissione in commercio delle prime due epoetine, la ricerca scientifica ha cercato di modificare la struttura dell’eritropoietina, per migliorarne la farmacocinetica e la farmacodinamica, e poterne quindi dilazionare la frequenza di somministrazione. La prima molecola “long-acting” ottenuta, in ordine cronologico, è la darbepoetina alfa. Essa si differenzia dall’eritropoietina ricombinante umana nella struttura aminoacidica per due sostituzioni; ciò permette alla molecola di avere due ulteriori catene di carboidrati attaccate con legame azotato, che ne modificano la struttura tridimensionale e ne aumentano il peso molecolare. La molecola ottenuta ha una ridotta affinità recettoriale rispetto all’eritropoietina, ma un’emivita più lunga (24 ore per via endovenosa, 48 ore per via sottocutanea, ma sono riportate in letteratura anche durate maggiori) [20]. Può essere quindi somministrata con frequenza monosettimanale, fino ad arrivare a quella mensile, senza le problematiche evidenziate per le eritropoietine “short-acting”.

La seconda molecola “long-acting” è il metossipolietilene glicol epoetina beta, ottenuta mediante pegilazione con legame covalente [21]. La molecola ha un peso molecolare ancora più elevato della darbepoetina alfa, un maggior ingombro sterico, una minore affinità recettoriale e un’emivita ancora più lunga (tra le 100 e le 130 ore, sia per via sottocutanea che endovenosa). Viene somministrata con frequenza mensile. Come per la darbepoetina alfa, e differenziandosi dalle molecole “short-acting”, se somministrata per via endovenosa, non comporta la necessità di aumentare la dose rispetto alla somministrazione endovenosa. Inoltre, le molecole “long-acting” si differenziano da quelle “short-acting” per una maggiore stabilità a temperatura ambiente e quindi possono essere conservate anche per giorni fuori dal frigorifero prima di essere somministrate, se la temperatura ambiente è ottimale. Come per l’insulina, ciò può avvenire una sola volta. Come per gli “short-acting”, le molecole “long-acting” necessitano quindi di una stretta catena del freddo, partendo dai siti produttivi, passando al trasporto e poi all’immagazzinamento della catena distributiva, fino ai luoghi dove il farmaco viene conservato prima della somministrazione.

Circa 10 anni fa, è entrata in commercio negli Stati Uniti, per brevissimo tempo, un’altra molecola “long-acting”, la peginesatide. Essa si differenzia dagli altri ESA perché non è ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante, dato che è una molecola di sintesi. Si tratta di un piccolo peptide, in grado di essere riconosciuto dal recettore dell’eritropoietina e determinarne l’attivazione, a cui è stata aggiunta una catena di carboidrati mediante pegilazione, per aumentarne l’emivita e renderlo utilizzabile in ambito clinico [22]. Il farmaco era estremamente interessante, perché aveva le caratteristiche delle molecole “long-acting”, ma con un processo produttivo molto più semplice ed economico, senza necessità di essere conservato in frigorifero e con un prezzo finale di vendita negli Stati Uniti persino inferiore o simile a quello dei biosimilari. Purtroppo, il farmaco è stato ritirato dal commercio solo dopo qualche mese a seguito di alcune severe reazioni allergiche, anche mortali [23]. Inoltre, nei pazienti con MRC in fase conservativa I pazienti randomizzati a peginesatide avevano avuto un rischio aumentato di raggiungere endpoint cardiovascolari (in particolare morte, angina instabile e aritmie) rispetto a quelli assegnati al trattamento con darbepoetina alfa [24]. In epoca recente, lo sviluppo clinico del farmaco è stato ripreso da una compagnia cinese [25].

In generale, la terapia con ESA è costosa. Al termine della durata del brevetto prima dell’epoetina alfa, poi dell’epoetina beta e della darbepoetina alfa, sono stati sviluppati diversi biosimilari di queste molecole, con il fine ultimo di potere abbassare i costi della terapia. Questo ha comportato a sua volta una riduzione del prezzo di vendita anche delle molecole “originator”, con un risparmio economico significativo. Allo scadere del brevetto, infatti, la struttura della molecola viene resa nota e quindi copiabile. Al contrario, il processo produttivo resta esclusivo dello sviluppatore del farmaco. Ne consegue che i produttori di biosimilari hanno dovuto sviluppare a loro volta i processi produttivi delle molecole, che in quanto biosimilari e non farmaci generici, hanno caratteristiche simili, ma non identiche alla molecola “originator”. In Europa e negli Stati Uniti la “European Medicine Agency (EMA) e la “Food and Drug Administration” (FDA) hanno sviluppato una precisa e stretta regolamentazione per lo sviluppo ed immissione in commercio dei farmaci biosimilari (definizione riservata dall’EMA ai farmaci approvati, mentre quelli non approvati sono definite copie), garantendo un profilo di sicurezza ed efficacia accettabili e stabilendo un range massimo di variabilità rispetto alla molecola “originator” [26]. Tuttavia, proprio perché il processo produttivo non è identico a quello del suo “originator”, piccole differenze possono portare alla produzione di lotti con efficacia diversa (sia maggiore che minore) o con una maggiore immunogenicità, con conseguente rischio di sviluppare una rara complicanza della terapia con ESA, l’aplasia midollare della serie rossa. Tale complicanza, non esclusiva dei biosimilari, ma descritta anche per gli “originator”, è stata principalmente riportata quando il farmaco viene somministrato per via sottocutanea [27]. Al contrario, il rischio di sviluppare aplasia midollare della serie rossa dopo somministrazione endovenosa è praticamente nullo. In generale quindi, è preferibile evitare di sostituire la molecola di ESA in corso di terapia con somministrazione sottocutanea, se non in presenza di motivazioni cliniche rilevanti. Al contrario il passaggio da una molecola ad un’altra risulta essere una pratica meno rischiosa, e ormai diffusa in ambito clinico, nei pazienti che ricevono il farmaco per via endovenosa (ad esempio quando iniziano il trattamento emodialitico sostitutivo) [28].

Pur se con differente affinità recettoriale ed emivita, tutti gli ESA hanno il medesimo meccanismo d’azione, riconoscendo tutti il recettore dell’eritropoietina e determinandone l’attivazione. Tuttavia, proprio le differenze farmacocinetiche e farmacodinamiche delle molecole potrebbero comportare sottili differenze nella modalità di attivazione del recettore, che potrebbero portare all’attivazione di diverse cascate enzimatiche [29]. Inoltre, i diversi picchi ematici di eritropoietina potrebbero comportare l’attivazione del recettore dell’eritropoietina su tessuti diversi, con differenti effetti pleiotropici (sia positivi che negativi). I nefrologi si sono concentrati per quasi due decenni sull’individuazione del target migliore di Hb a cui mirare con la terapia con ESA e hanno considerato solo in modo marginale la possibilità che le diverse molecole di ESA potessero avere un profilo di sicurezza tra loro differente. Peraltro, alcuni studi e metanalisi non avevano evidenziato segnali di rischio in tal senso [30]. Tuttavia, uno studio osservazionale giapponese di registro, su circa 200.000 pazienti, ha riportato un aumento del rischio di morte per ogni causa e per cause cardiovascolari nei pazienti trattati con molecole “long-acting” rispetto a quelle “short-acting” [31]. Questo era particolarmente vero nei soggetti trattati con elevate dosi di ESA. Lo studio però presentava una serie di bias che ne complicano l’interpretazione. In particolare, per motivi di rimborsabilità, i pazienti con elevati necessità di dose di ESA short acting (9.000 U.I./settimana) erano obbligatoriamente (autorità regolatorie giapponesi) passati a long acting. Inoltre, una quota importante di pazienti era stata esclusa dall’analisi per assenza di informazioni sulla terapia in corso con eritropoietina [31].

Risultati sovrapponibili sono stati ottenuti dallo studio DOPPS (Dialysis Outcomes and Practice Patterns Study), ma per il solo Giappone, ovviamente, essendo il database lo stesso. Al contrario, il rischio di morte era sovrapponibile, o addirittura inferiore, tra le molecole “short-acting” e “long-acting” nei pazienti americani ed europei.

Anche uno studio randomizzato, effettuato per fine registrativi di farmacovigilanza su una popolazione mista di pazienti in dialisi e non, non ha dimostrato differenze nel rischio di sviluppare eventi cardiovascolari o morte tra il trattamento con metossipolietilene glicol epoetina beta o altri ESA [32]. Dati opposti sono stati ottenuti da un altro studio osservazionale italiano, effettuato in pazienti con MRC in fase conservativa, con evidenza di un possibile aumento del rischio di morte e rischio di dialisi nei trattati con molecole “short-acting” ad alto dosaggio [33].

Recentemente, un’analisi di circa 60.000 pazienti emodializzati con Medicare negli Stati Uniti ha mostrato, come lo studio italiano sopracitato, un aumento del rischio di morte in chi riceveva le molecole “short-acting” rispetto alle “long-acting”, senza nessuna differenza sul rischio di endpoint cardiovascolari maggiori (MACE) [34].

Complessivamente, come anche dimostrato da una recente metanalisi, l’utilizzo delle singole molecole di ESA non sembra avere relazione con il rischio di morte ed eventi cardiovascolari se vengono rispettate le frequenze di somministrazione autorizzate [35]; i dati disponibili a supporto di possibili differenze sembrano essere influenzati principalmente da bias prescrittivi.

 

Le ombre della terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi

La terapia con ESA è, ormai da decenni, largamente diffusa nel mondo per la cura dell’anemia nei pazienti con MRC. Il farmaco si è dimostrato nel tempo relativamente sicuro e ben tollerato, anche grazie all’acquisizione da parte dei clinici di una maggiore esperienza nell’utilizzo di queste molecole.

Il recettore per l’eritropoietina umana, quando attivato dall’ormone, viene internalizzato, subisce un processo di degradazione dell’eritropoietina ad esso legato e viene nuovamente reso disponibile in superficie per un nuovo legame, evitando la saturazione dei recettori in superficie. Questa particolare cinetica è condizionata dalla concentrazione dell’ormone, rendendo possibile un’attivazione massiccia in caso di anemia severa [36]. Al contrario, però, manca un sistema di protezione in caso di utilizzo dell’eritropoietina esogena, soprattutto quando utilizzata ad alte dosi.

È noto che il recettore dell’eritropoietina è presente in diversi tessuti, tra cui il sistema nervoso centrale, l’endotelio, i cardiomiociti e le cellule lisce muscolari. Negli anni sono stati ipotizzati numerosi effetti pleiotropici, una parte di questi protettivi sia a livello cardiaco [37, 38] che neurologico [39-41].

D’altro canto, diversi dati sperimentali sono a supporto di una possibile azione dell’eritropoietina, soprattutto se somministrata ad alte dosi, nell’accentuare il rischio di trombosi ed eventi cardiovascolari, in modo indipendente dal solo aumento della viscosità ematica dato dalla correzione dell’anemia. Ad esempio, nelle cellule endoteliali, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione di attivazione endoteliale, aumento dell’angiogenesi e produzione di endotelina 1 [42, 43]. Il meccanismo potrebbe essere accentuato dalla presenza di ischemia [44]. Il recettore dell’eritropoietina è espresso anche sui megacariociti, dove potrebbe accelerarne sia la maturazione e l’attività pro-trombotica [45]. È ancora oggi controverso come e in quale misura queste evidenze sperimentali possano contribuire ad un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA. Sebbene i primi studi effettuati con gli ESA non fossero finalizzati a dimostrare un effetto cardiovascolare, non hanno messo in luce un aumentato rischio di morte rispetto a placebo per valori di Hb intorno ai 10 g/dL [46]. Al contrario, la correzione dell’anemia severa comporta vantaggi in termini di miglioramento della qualità della vita, riduzione della necessità di emotrasfusioni e riduzione della massa ventricolare sinistra [47].

L’utilizzo degli ESA negli anni ’90 e 2000 in trial randomizzati, come trattato nella precedente sezione sul target ottimale di Hb a cui mirare con la terapia, ha invece messo in luce con chiarezza un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA a target di Hb prossimi alla normalizzazione. Risultano essere a particolare rischio di complicanze i pazienti affetti da diabete, con precedenti eventi cardiovascolari, o affetti da arteriopatia agli arti inferiori. È inoltre emerso che la presenza d’infiammazione e d’iporesponsività alla terapia con ESA possano rappresentare ulteriori ed importanti fattori di rischio per le complicanze trombotiche e cardiovascolari in corso di terapia [48-50].

Un’altra ombra della terapia con ESA riguarda un possibile effetto pro-oncogenico. Tale preoccupazione nasce in primis dal fatto che l’eritropoietina è un fattore di crescita. Oltre a ciò, negli anni la ricerca di base ha dimostrato l’espressione del recettore dell’eritropoietina nelle cellule tumorali; restano però ancora dubbi sull’entità della loro attivazione, soprattutto in corso di terapia con ESA, e il loro ruolo prognostico [51]. Inoltre, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione sul “vascular endothelial growth factor” [52], contribuendo all’angiogenesi, con effetto di aumento della rapidità di crescita del tumore e della sua diffusione a distanza.

L’interpretazione dei dati sperimentali è resa ulteriormente complicata dal fatto che l’espressione del recettore dell’eritropoietina è influenzata dal tipo di tumore.

Infine, la terapia con ESA ha verosimilmente un effetto protrombotico, che potenzierebbe quello già di per sé aumentato dei pazienti oncologici [53].

Negli anni 2000 diversi trial randomizzati e metanalisi hanno evidenziato una possibile riduzione della sopravvivenza [54] o un aumento della crescita tumorale per alcuni tumori solidi in pazienti anemici trattati con ESA con un target di Hb prossimo alla normalità. Altre metanalisi non hanno confermato il dato [55, 56]. Sulla scorta di queste esperienze, oggi nei pazienti oncologici la terapia con ESA è riservata solo ai pazienti sottoposti a chemioterapia, mirando a target di Hb più bassi [57, 58].

I dati in letteratura su un possibile effetto prooncologici degli ESA nei pazienti con MRC sono limitati e poco conclusivi [13, 59]. La loro interpretazione è ulteriormente complicata dal fatto che la MRC di per sé è associata ad un aumento della prevalenza di neoplasie, in parte a causa di una riduzione delle difese immunitarie nei pazienti uremici [60]. A titolo precauzionale, è consigliato di soppesare il rischio beneficio nel singolo paziente oncologico con MRC di un’eventuale terapia con ESA, soprassedendo, ove possibile, nei pazienti dove si prevede una possibile cura della malattia oncologica [61].

 

Alternative terapeutiche e prospettive future

Da un paio di anni sono diventati disponibili nuove molecole per la cura dell’anemia nei pazienti con malattia renale cronica, gli inibitori delle HIF-PHD (hypoxia inducible factor prolyl hydroxylases). Queste molecole si differenziano dagli ESA perché agiscono andando a stimolare l’eritropoietina endogena, dimostrandosi efficaci anche nelle fasi più avanzate della MRC, fino ai pazienti anefrici. Date le ombre sui possibili rischi cardiovascolari degli ESA, gli enti regolatori (EMA e FDA) hanno imposto per la loro registrazione l’esecuzione di diversi trial randomizzati di fase 3, finalizzati non solo a dimostrare l’efficacia delle molecole (superiorità rispetto al placebo o non inferiorità rispetto agli altri ESA), ma anche a garantirne la sicurezza, soprattutto dal punto di vista cardiovascolare. A tale scopo sono stati arruolati nel mondo decine di migliaia di pazienti.

Delle sei molecole oggi disponibili nel mondo, tre sono state sviluppate solo in India o Estremo Oriente (molidustat, desidustat, enarodustat) e non sono quindi disponibili per uso clinico negli Stati Uniti o Europa. Le altre tre molecole (roxadustat, vadadustat, daprodustat) hanno avuto destini diversi in termini di approvazione e successiva commercializzazione in Europa e Stati Uniti, principalmente sulla base dei diversi risultati dei singoli trial clinici e di alcuni segnali di possibile aumento degli eventi cardiovascolari o delle trombosi emersi da analisi secondarie. Ad oggi, il roxadustat è in commercio in Europa sia per i pazienti in dialisi che per quelli in fase conservativa. Il vadadustat è approvato e in fase di commercializzazione in Europa e Stati Uniti solo per i pazienti in dialisi prevalenti. Analogamente, il daprodustat è stato approvato solo per i pazienti in dialisi da entrambi gli enti regolatori, ma non è stato commercializzato in Europa per una scelta aziendale.

Nonostante le aspettative verso questa nuova classe di farmaci fossero molte, soprattutto in termini di un miglior profilo di sicurezza cardiovascolare rispetto agli ESA, i risultati dei trials non hanno confermato l’ipotesi iniziale, ponendoli solo come una possibile alternativa terapeutica agli ESA, con un profilo di sicurezza a questi sovrapponibili nella maggior parte dei casi [62-64].

Dal punto di vista pratico, gli inibitori delle HIF-PHD si differenziano dagli ESA perché vengono somministrati per via orale e perché sono conservati a temperatura ambiente. Inoltre, grazie alla loro azione di stimolazione del sistema HIF, potrebbero aumentare l’assorbimento e la disponibilità del ferro ed essere più efficaci nei pazienti infiammati iporesponsivi agli ESA [65, 66].

Dal punto di vista delle prospettive future, dopo anni di intensa ricerca e sviluppo clinico per gli HIF-PHD inibitori, il panorama scientifico nel campo della terapia dell’anemia nei pazienti con MRC ha subito un notevole rallentamento, sia in termini di finanziamenti che di numero di nuove molecole innovative in sviluppo [67]. Ad oggi la strategia più promettente, e con maggiori possibilità di entrare nel breve-medio termine in commercio, sembra essere quella che va ad agire su alcune interleuchine, riducendo l’infiammazione e quindi migliorando gli outcome cardiovascolari. L’effetto antinfiammatorio comporta anche il miglioramento dell’anemia e/o la risposta agli ESA [68].

 

Conclusioni

La terapia con ESA, e in epoca recente con gli HIF-PHD inibitori, rappresentano una rivoluzione scientifica che ha permesso il trattamento dell’anemia sintomatica in milioni di persone nel mondo. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.

Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA o HIF-PHD inibitore deve essere personalizzata il più possibile, sia in termine di target di Hb, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

 

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Nuove strategie terapeutiche nel trattamento dell’anemia nell’MRC: gli inibitori della prolil-idrossilasi del fattore ipossia-indotto

Abstract

Il link che intercorre tra malattia renale cronica e anemia è ormai noto da più di 180 anni impattando negativamente sulla qualità di vita, sul rischio cardiovascolare, sulla mortalità e sulla morbidità dei pazienti con malattia renale cronica (MRC). Tradizionalmente la gestione dell’anemia in corso di MRC si è basata sull’uso di terapia marziale di rimpiazzo, vitaminica e sull’uso di agenti stimolanti l’eritropoiesi (erythropoiesis-stimulating agents ESAs). Negli ultimi anni, accanto a queste consolidate terapie, si sono affacciate nuove molecole note come inibitori della prolil-idrossilasi del fattore indotto dall’ipossia (HIF-PHIs). Il meccanismo d’azione si esplica mediante un’incrementata attività trascrizionale del gene HIF con aumento della produzione di eritropoietina. I farmaci attualmente prodotti sono rappresentati dal roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat, ed enarodustat; tra questi solo il roxadustat è attualmente approvato e utilizzabile in Italia. La possibilità di assunzione per via orale, l’attività pleiotropica sul metabolismo marziale e lipidico e la non inferiorità rispetto alle eritropoietine rendono questi farmaci una valida alternativa nell’armamentario del nefrologo per il trattamento dell’anemia associata a malattia renale cronica.

Parole chiave: MRC, anemia, eritropoietina, HIF, roxadustat

Introduzione

Il link che intercorre tra malattia renale cronica (MRC) e anemia è ormai noto da più di 180 anni [1]. La Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) definisce l’anemia come la presenza di valori di emoglobina sierica (Hb) < 13,0 g/dl per gli uomini e < 12,0 g/dl per le donne non in stato di gravidanza.

Ad oggi è ormai consolidato come al progredire della malattia renale incrementi anche la prevalenza di anemia, condizione che impatta negativamente sulla qualità di vita, sul rischio cardiovascolare, sulla mortalità e sulla morbidità di pazienti già con rischio aumentato per tutte queste condizioni [24].

L’anemia associata a malattia renale cronica è determinata da differenti meccanismi patogenetici. Oltre alla diminuita capacità del rene di produrre l’eritropoietina (EPO), si è visto come l’attività delle tossine uremiche sia capace di inibire i meccanismi deputati all’eritropoiesi e diminuire la sopravvivenza degli eritrociti. Accanto a questi meccanismi si aggiungono le alterazioni del metabolismo marziale, dove l’eccesso di epcidina risulta il principale attore impattando negativamente sull’assorbimento dietetico del ferro e sulla mobilizzazione dei suoi depositi corporei [5].

Tradizionalmente la gestione dell’anemia in corso di MRC si è basata sull’uso di terapia marziale di rimpiazzo e sull’uso di agenti stimolanti l’eritropoiesi (erythropoiesis-stimulating agents, ESAs) [68]. È proprio da questi ultimi agenti che, a partire dagli anni ’80, i pazienti hanno avuto il maggior beneficio tramite una riduzione dei sintomi relativi all’astenia e la liberazione dalla dipendenza di emotrasfusioni e delle correlate complicanze, tra cui sovraccarico marziale, infezioni e sensibilizzazioni che potenzialmente inficiavano le possibilità di trapianto. Secondo le principali linee guida, in pazienti con MRC, la presenza di valori di emoglobina compresi tra 9-10 g/dl necessita di correzione mediante la somministrazione di eritropoietine, fino al raggiungimento i valori compresi tra 11-12 g/dl, con una personalizzazione della terapia a seconda dei casi [2].

Se da un lato i benefici derivanti da tali terapie sono molteplici, bisogna considerare la presenza di effetti avversi. I pazienti sottoposti a terapia con ESAs presentano un aumentato rischio di ipertensione, convulsioni e coagulazione dell’accesso vascolare per emodialisi [9, 10]. Inoltre, gli ESAs non si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli aventi avversi correlati all’anemia (mortalità, eventi cardiovascolari non fatali, ipertrofia ventricolare sinistra e progressione della malattia renale) in studi prospettici controllati e randomizzati [1113].
Recenti studi in pazienti affetti da CKD in emodialisi e pre-dialisi dimostrano un aumento del rischio di morte, di eventi avversi cardiovascolari ed ictus [14, 15]. Infine, questi agenti sono stati associati a progressione di malattie maligne e a morte in pazienti affetti da neoplasia [16].

La terapia marziale si colloca accanto alla terapia con ESAs nel trattamento dell’anemia secondaria a CKD. Il ferro è fondamentale non solo per implementare i depositi, ma anche per rendere più efficace l’azione degli ESAs [17, 18].

La progressiva riduzione di efficacia degli ESAs parallelamente alle preoccupazioni relative ai potenziali eventi avversi di questi farmaci, hanno progressivamente portato allo sviluppo di nuovi farmaci che presentassero una migliore sicurezza generale e cardiovascolare, superando l’iporeattività degli ESAs associata all’infiammazione.

Tra i nuovi approcci terapeutici compaiono gli inibitori del dominio prolil idrossilasi del fattore inducibile da ipossia (HIF-PHIs).

 

Meccanismo molecolare e farmacodinamica

I fattori indotti dall’ipossia (Hypoxia-inducible factors ‒ HIFs) sono dei fattori di trascrizione regolati dalla quantità di ossigeno presente nell’ambiente cellulare. Il fattore HIF fu originariamente identificato nel 1991 da Semenza e collaboratori [19].

HIF è costituito da una subunità α sensibile all’ossigeno e da una subunità β, formando una struttura etero dimerica [20].

In condizioni di normo ossigenazione cellulare, la subunità α di HIF viene idrossilata da una prolil-idrossilasi (PHD) con conseguente ubiquitinazione da parte della E3 ubiquitina ligasi (processo facilitato dal legame con la proteina di Von Hippel-lindau (VHL)) e successiva degradazione proteasomica. In condizioni di ipossiemia, invece, l’attività di PHD è ridotta e ciò consente la sopravvivenza e la traslocazione nucleare di HIF α dopo la sua dimerizzazione con la subunità β [21] determinando l’attivazione trascrizionale genetica.

Sono stati identificati tre distinti sottotipi di HIF-α: HIF-1α, HIF-2α e HIF-3α. HIF-1α è espresso in quasi tutte le cellule e la sua attività nucleare determina la trascrizione di numerosi geni coinvolti nel metabolismo energetico, glucidico e marziale, nell’angiogenesi e nell’infiammazione [22]. HIF-2α è principalmente espresso da cellule simil-fibroblastiche presenti nell’interstizio renale e dalle cellule endoteliali, anche se studi successivi hanno dimostrato la sua espressione negli epatociti, cardiomiociti, pneumociti e cellule gliali [23, 24]. Esso è principalmente coinvolto nella regolazione della produzione di eritropoietina (EPO) e nel trasporto marziale [25]. La funzione del sottotipo HIF-3α non è nota, ma si pensa possa essere coinvolta nella regolazione dell’espressione genica degli altri due sottotipi [23].

Mentre il rene rappresenta la principale fonte fisiologica di produzione di EPO nell’età adulta, il fegato risulta essere il sito principale di sintesi durante lo sviluppo embrionale. In ogni caso, nell’adulto, il fegato mantiene la sua capacità di sintesi in risposta ad una moderata o severa ipossia o in caso di attivazione farmacologica del fattore HIF [26]. Infatti, similmente al rene, il fegato risponde in presenza di ipossia severa incrementando il numero di epatociti EPO secernenti localizzati attorno alle vene centrali [27]. Va inoltre considerato come l’espressione di mRNA per EPO è stata riscontrata anche nelle cellule cerebrali, polmonari, cardiache, nel midollo emopoietico, nella milza e nel tratto riproduttivo [28].

Da quanto suddetto, la capacità dei farmaci che vengono qua descritti di determinare una correzione dei valori di emoglobina nel paziente con malattia renale cronica è legata all’inibizione delle prolil-idrossilasi (PHD) che, non potendo determinare l’ubiquitinazione e conseguentemente la degradazione del fattore HIF, fa sì che quest’ultimo possa traslocare nel nucleo ed avviare i processi trascrizionali descritti (Figura 1).

Figura 1. In questa figura è rappresentata la regolazione del fattore HIF in condizioni di normossia e ipossia, modulata dall’azione dei farmaci inibitori la prolil idrossilasi (PH) coinvolta nella degradazione proteasomica del fattore nucleare di trascrizione HIF.
Figura 1. In questa figura è rappresentata la regolazione del fattore HIF in condizioni di normossia e ipossia, modulata dall’azione dei farmaci inibitori la prolil idrossilasi (PH) coinvolta nella degradazione proteasomica del fattore nucleare di trascrizione HIF.

In tal modo si genera un’incrementata produzione di EPO che a livello midollare determinerà lo stimolo all’eritropoiesi. Dagli studi effettuati, l’attività di tali farmaci, però, non si limita solo all’incremento dell’EPO. L’azione sul fegato garantisce anche una soppressione dell’epcidina, un’aumentata espressione di ceruloplasmina, transferrina e recettori della transferrina, con incremento dell’assorbimento e biodisponibilità del ferro [2932], effetto sinergico con l’incremento dell’EPO nel correggere l’anemia in pazienti con MRC che, com’è noto, presentano uno stato infiammatorio cronico con carenza marziale cronica e frequente resistenza alla terapia con EPO [33].

Allo stato attuale sono disponibili diverse molecole inibitrici della prolil-idrossilasi del fattore ipossia indotto per il trattamento dell’anemia nel paziente con MRC dipendente o non dipendente da emodialisi. Tra queste si annoverano: roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat ed enarodustat. Il roxadustat ha ricevuto l’approvazione dalla EMA e dall’AIFA nel 2021, mentre l’FDA ha approvato il daprodustat nei primi giorni del febbraio 2023.

 

Farmacocinetica

Questi farmaci vengono assunti per via orale, il loro assorbimento è indipendente dalla presenza di cibo, ma può essere limitato dalla presenza di chelanti a scambio ionico. Dopo l’assorbimento subiscono un metabolismo di primo passaggio a livello epatico ad opera del citocromo P-450 e della uridina difosfato grucoronil transferasi. Il metabolita attivo circola nel plasma legato per il 99% a proteine plasmatiche per cui la sua biodisponibilità non è influenzata dal trattamento emodialitico.

L’eliminazione avviene con urine e feci in massima parte come metaboliti, in minima parte come farmaco non modificato [34].

 

Effetti collaterali

Al pari degli ESAs, anche gli HIF-PHIs possono presentare potenziali eventi avversi dipendenti da dose e farmacocinetica.

Poiché i fattori responsabili della produzione di eritropoietina sono altamente sensibili all’ipossia rispetto ad altri bersagli HIF (quali ad esempio il VEGF) [35], gli HIF-PHIs sono in grado di ottenere effetti pro-eritropoietici a dosi che non elicitano un più ampio spettro di risposte di HIF nei pazienti con CKD, compresa la stimolazione di pathway VEGF-dipendenti [36].

Gli eventi avversi gravi (SAE), riportati negli studi di fase 3, non sono stati considerati correlati al farmaco e rientravano nell’intervallo delle frequenze attese di SAE nei pazienti con CKD.

Tuttavia, le informazioni sulla prescrizione della Japanese Pharmaceutical and Medical Devices Agency includono un avviso di sicurezza relativo al rischio potenziale di tromboembolia, infarto cerebrale e miocardico, embolia polmonare e trombosi venosa profonda e degli accessi vascolari con HIF-PHIs [37]. Una maggiore incidenza di eventi tromboembolici (11,3% vs. 3,9%) è stata riportato con roxadustat rispetto a darbepoetina alfa nell’analisi di sicurezza degli studi aggregati di fase 3 nei pazienti in emodialisi [37].

I dati preliminari di 3 studi con roxadustat in pazienti dializzati non hanno riportato alcun aumento del rischio di mortalità per tutte le cause e per roxadustat rispetto a epoetina alfa, mentre il rischio insufficienza cardiaca o angina instabile, che richiede ospedalizzazione, è stato significativamente ridotto per roxadustat vs epoietin alfa [38]. Questo potrebbe essere dovuto ai potenziali effetti pleiotropici da parte di HIF-PHIs quali roxadustat e daprodustat che si sono dimostrati in grado di ridurre i livelli sierici di colesterolo totale, LDL e trigliceridi [3941]. L’effetto ipolipemizzante potrebbe essere spiegato dall’aumento dell’assorbimento HIF-dipendente delle lipoproteine e dalla riduzione della sintesi del colesterolo attraverso una maggiore degradazione della 3-idrossi-3-metil-glutaril-CoA reduttasi [42, 43].

L’iperkaliemia è un evento avverso segnalato frequentemente con roxadustat negli studi cinesi di fase 3 sia nei pazienti con CKD non dipendenti da dialisi (NDD-CKD) che in quelli in trattamento emodialitico (DD-CKD) [4447] e in studi di fase 2 in pazienti trattati con altri HIF-PHIs [48, 49]. Un ulteriore evento avverso segnalato in pazienti in terapia con roxadustat non in dialisi è l’acidosi metabolica, sebbene i meccanismi alla base non siano chiari, riportata nel 12% dei casi [45]. Vi sono poi da prendere in considerazione potenziali eventi avversi correlati agli effetti pro-angiogenici degli HIF-PHIs. In particolare, in pazienti con retinopatia vascolare [48], non vi è stato alcun aumento nell’incidenza di emorragia retinica, edema maculare o cambiamenti nella pressione intraoculare o nell’acuità visiva negli studi clinici con roxadustat o daprodustat [49, 50].

Poiché l’attivazione dell’HIF è evidente in molti tumori (soprattutto quando, in crescita, sperimentano l’ipossia e cooptano la via dell’HIF per l’adattamento metabolico e l’angiogenesi) sono state avanzate preoccupazioni relative alle capacità di questi prodotti di promuovere la crescita tumorale o facilitare le metastasi [51].  Tuttavia, ad oggi, gli studi sugli animali non hanno mostrato alcuna evidenza che l’esposizione prolungata agli HIF-PHI sia pro-oncogenica [52, 53]. A tal proposito sono necessarie osservazioni a lungo termine nell’uomo ed attualmente non ne è raccomandato l’uso in pazienti con storia di neoplasia a causa dell’esclusione negli studi effettuati di pazienti con neoplasie maligne attive o in anamnesi più recente di 2-5 anni.

Altre preoccupazioni includono il potenziale rischio di ipertensione arteriosa polmonare (poiché l’attivazione di HIF aumenta il tono vascolare nelle arterie polmonari [54, 55], eventi tromboembolici che sono stati osservati in pazienti con policitemia di Chuvash [5658], promozione della crescita delle cisti renali [56], eventi avversi sul metabolismo del glucosio e del fegato [59] e gli eventi avversi sulle calcificazioni vascolari e sui livelli dell’FGF23 [60, 61].

 

Trial e risultati

Roxadustat

Molteplici sono gli studi che hanno valutato l’efficacia ed il profilo di roxadustat sia in pazienti con malattia renale cronica non dipendenti da dialisi (NDD-CKD) che in pazienti dialisi-dipendenti o incipienti (DD- CKD, ID-CKD), ESA naive o già in trattamento con ESAs.

Nel 2019 Chen N. e collaboratori hanno pubblicato I risultati di due trial clinici condotti in Cina. In uno si valutava l’efficacia in 154 pazienti con MRC non in trattamento dialitico, randomizzati 2:1 a ricevere il farmaco o placebo. Nel gruppo trattamento si osservava un incremento di emoglobina di 1,9 g/dl a differenza del gruppo placebo in cui si osservava una riduzione di 0,4 g/dl. Inoltre, nel gruppo trattato si riducevano significativamente anche i livelli di epcidina e colesterolo [62]. Nel secondo trial invece gli autori hanno avviato terapia con roxadustat in pazienti in trattamento dialitico che da sei mesi effettuavano terapia con epoietina alfa e li hanno confrontati con un gruppo di pazienti che proseguivano terapia con EPO. In questo studio si evidenziava la non inferiorità del roxadustat rispetto all’epoietina alfa nel mantenere valori di emoglobina a target. Paragonato ad epoetina alfa, roxadustat determinava un incremento del valore di transferrina, una stabilità della sideremia ed un minor calo della saturazione della transferrina. In ultimo la riduzione del colesterolo e dell’epcidina era maggiore nel gruppo trattato con roxadustat [63].

Una pooled analysis su studi che hanno coinvolto pazienti in trattamento emodialitico in terapia con ESA randomizzati a proseguire EPO o assumere roxadustat (ROCKIES, PYRENEES, SIERRAS, HIMALAYAS) ha mostrato come roxadustat non sia inferiore all’eritropoietina nel correggere e mantenere i valori di emoglobina con profilo di sicurezza cardiovascolare simile [64].

Una pooled analysis riguardante gli studi ALPS, ANDES, OLYMPUS, in pazienti con MRC, non in trattamento emodialitico, randomizzati a ricevere roxadustat o placebo, ha evidenziato come il primo sia più efficace del placebo nell’incrementare i valori di emoglobina, con minore frequenza di trasfusioni e con stesso profilo di sicurezza o eventi avversi [65].

Nel 2021 Barratt J. e collaboratori hanno confrontato roxadustat con darbepoietina alfa in uno studio di non inferiorità che ha coinvolto 616 pazienti con MRC non in dialisi (DOLOMITES trial) [66]. I risultati mostravano come roxadustat avesse la stessa capacità della darbepoietina nel mantenere stabile i valori di emoglobina per 104 settimane. Nel 2022 Fishbane e collaboratori in un trial su 2133 pazienti in trattamento dialitico riscontravano una capacità di roxadustat di incrementare i valori di emoglobina con stessa incidenza di eventi avversi quando paragonato ad epoietina alfa (ROCKIES study) [67].

Daprodustat

Anche per questo farmaco vari sono i trial in letteratura che hanno analizzato, in confronto con le molecole di eritropoietina più comunemente usate nella pratica clinica, la capacità di controllare nel tempo i valori di emoglobina e gli eventi avversi correlati.

Sono stati disegnati ed effettuati due trial clinici i cui risultati sono stati pubblicati nel 2021 (ASCEND-D ed ASCEND-ND trial) che si sono rivolti a pazienti in trattamento dialitico e non in trattamento dialitico (MRC G3-G5) rispettivamente.

Nel primo trial venivano randomizzati 2964 pazienti in trattamento dialitico sostitutivo a ricevere daprodustat o ESAs (epoietina alfa in pazienti in trattamento emodialitico, darbepoietina alfa in pazienti in trattamento peritoneo dialitico) per 52 settimane. I valori medi di emoglobina, la somministrazione di ferro endovenoso, gli effetti sulla pressione arteriosa e gli eventi avversi, non differivano nei due gruppi di trattamento [68].

Nel trial ASCEND-ND, che ha arruolato quasi 4000 partecipanti, sono stati randomizzati pazienti con MRC non in trattamento emodialitico e in terapia con eritropoietine, a ricevere daprodustat o darbepoietina alfa. I risultati derivanti dall’indagine garantivano il mantenimento dei valori di emoglobina in entrambi i gruppi con stessi eventi avversi [69].

Nel 2022 è stata pubblicata una metanalisi coinvolgente 8 dei principali trial clinici indaganti daprodustat e 8245 pazienti. I risultati mostrano che, in comparazione con ESAs, daprodustat mantiene la stessa efficacia nell’incrementare i valori di emoglobina, riduce in misura maggiore i livelli di epcidina e gli eventi cardiovascolari maggiori [70].

Vadadustat

I due trial clinici principali che hanno valutato vadadustat come farmaco in grado di mantenere adeguati valori di emoglobina sono stati PRO2TECT e INNO2VATE, rivolti rispettivamente a pazienti con malattia renale cronica in trattamento conservativo ed emodialitico.

Il PRO2TECT ha comparato vadadustat con darbepoetina alfa in pazienti con MRC non in dialisi in due gruppi diversi: quelli con valori di emoglobina inferiori a 10 g/dl, non in terapia con EPO, e quelli con valori di emoglobina compresi tra 8 g/dl e 11 g /dl, in terapia con EPO.

In questi due gruppi i rispettivi 1751 e 1725 pazienti sono stati randomizzati a ricevere vadadustat o darbepoetina alfa. Dopo 52 settimane di follow-up i risultati ottenuti mostravano come vadadustat, comparato a darbepoietina alfa, raggiungeva il pre-specificato criterio di non inferiorità per l’efficacia sull’incremento dell’emoglobina, ma non su quello della sicurezza cardiovascolare, mostrando cioè un numero maggiore di eventi cardiovascolari nel gruppo di trattati con vadadustat [71].

Il trial INNO2VATE è stato eseguito su 3923 pazienti con MRC dipendenti da dialisi, randomizzati a ricevere vadadustat o darbepoetina alfa. In entrambi i gruppi sono stati valutati oltre all’efficacia di controllare i valori di emoglobina, anche gli eventi avversi cardiovascolari. Gli autori concludevano che il vadadustat non risultava essere inferiore alla darbepoietina alfa nel correggere e mantenere la concentrazione emoglobinica, con stesso profilo di sicurezza cardiovascolare [72].

Nel 2022 sono stati pubblicati i risultati di una metanalisi che ha incluso 4 trial randomizzati riguardanti la comparazione tra vadadustat e placebo e 6 trial randomizzati di confronto con eritropoietine per un totale di 8438 partecipanti. In questo lavoro si evidenziava come vadadustat rispetto ai gruppi placebo determinava un incremento dell’emoglobina, comparato con placebo e darbepoietina alfa determinava una riduzione dell’epcidina e della ferritina con aumentata capacità ferro legante. L’uso del vadadustat era invece correlato ad un maggior tasso di effetti avversi lievi-moderati come diarrea e nausea, ma non incrementava il rischio di eventi cardiovascolari maggiori e mortalità per tutte le cause [73].

Molidustat

Questo farmaco è stato testato come gli altri appartenenti alla classe in pazienti con MRC avanzata sia in trattamento dialitico che conservativo, sia in pazienti già in trattamento con eritropoietine, che naïve.

Il trial DIALOGUE comprendeva delle sottosezioni in cui molidustat veniva confrontato con placebo (in pazienti naïve per ESAs), oppure dopo sospensione della precedente terapia con epoietina alfa o darbepoietina alfa (DIALOGUE 1, 2, 4 rispettivamente) [74].

Il MIYABI program ha comparato l’efficacia del molidustat rispetto alla darbepoietina alfa in pazienti in trattamento emodialitico e già in terapia con EPO con un follow-up di 52 settimane [75].

In questi trial si dimostrava la non inferiorità di molidustat rispetto alla terapia standard eritropoietinica, la capacità di correggere l’anemia in pazienti naïve, con profili di tossicità non dissimili.

Desidustat

I due trial principali di investigazione sono stati il DRAEM-D [76] in pazienti con MRC in trattamento emodialitico ed il DREAM-ND [77], in pazienti MRC non in dialisi. Nel primo, sia pazienti in trattamento con EPO che naïve con livelli di emoglobina tra 8 ed 11 g/dl venivano randomizzati a ricevere desidustat o epoietina alfa. Nel secondo invece, pazienti con MRC in trattamento conservativo, con valori di emoglobina tra 7 e 10 g/dl, venivano randomizzati a ricevere desidustat o darbepoietina alfa.

In entrambi i trial si osservava una non inferiorità del desidustat rispetto alla terapia con EPO nel mantenere costanti i valori di emoglobina durante il follow-up, con un maggior tasso di responder nei gruppi desidustat. Nel secondo trial, inoltre si osservavano valori significativamente più bassi di epcidina e LDL nei pazienti trattati con desidustat.

Enarodustat

I trial SYMPHONY-ND [30] e SYMPHONY-HD [78] hanno valutato l’efficacia e la tollerabilità di enarodustat in due corti di popolazioni giapponesi rispettivamente in MRC conservativa ed in trattamento emodialitico.

Il SYMPHONY-ND ha randomizzato una popolazione di pazienti naïve per ESAs 1:1 ad assumere enarodustat o darbepoietina alfa con follow-up di 24 settimane. Il SYMPHONY-HD condotto su pazienti in emodialisi periodica ha randomizzato 1:1 a ricevere enarodustat o darbepoietina alfa, con follow-up di 24 settimane. In entrambi gli studi si dimostrava la non inferiorità di enarodustat a correggere e mantenere i livelli di emoglobina quando confrontato a darbepoietina alfa, con un profilo di tossicità non differente, con l’aggiunta capacità di migliorare l’assetto marziale [79, 80].

 

Roxadustat: attuali linee guida in Italia

Attualmente, in Italia, l’unica molecola disponibile è il roxadustat. In commercio sono presenti compresse da 20, 50, 70, 100 e 150 mg. La somministrazione deve essere fatta tre volte a settimana, in giorni non consecutivi, indipendentemente dall’assunzione di cibo. Per i pazienti che non assumono eritropoietine, la dose iniziale è di 70 mg 3 volte a settimana per pazienti con peso inferiore ai 100 kg, 100 mg per pazienti con peso maggiore di 100 kg. La dose può essere incrementata fino a 400 mg 3 volte a settimana (in pazienti in trattamento emodialitico) o 300 mg 3 volte a settimana (in pazienti non in dialisi), con controllo dell’emocromo ogni 2 settimane fino al raggiungimento dei valori target e successivamente ogni 4 settimane.

Nei pazienti in trattamento con eritropoietine è disponibile una tabella (Tabella 1) di conversione che permette di evitare un periodo di wash out per la terapia eritropoietinica, facendo assumere la prima compressa di roxadustat al posto della successiva dose di eritropoietina. Per i pazienti in trattamento emodialitico non è necessario un aggiustamento della dose del farmaco [81].

In attesa di nuove evidenze, come avviene per la ormai consolidata terapia con eritropoietine, per valori di emoglobina al di sotto di 9 g/dl si dovrebbe avviare terapia con HIF-PHIs, con raggiungimento di valori di mantenimento tra 11-12 g/dl.

È da considerare inoltre che, in caso di compromissione epatica è consigliato di dimezzare la dose in caso di compromissione moderata (Child Pugh-B) e di evitare la somministrazione in caso di compromissione severa (Child Pugh-C).

Dose di darbepoietina alfa endovenosa o sottocutanea (microgrammi/settimana) Dose di epoietina endovenosa o sottocutanea (UI/settimana) Dose di metossipoietilenglicole-epoietina beta endovenosa o sottocutanea (microgrammi/mese) Dose di roxadustat (milligrammi tre volte a settimana)
Meno di 25 Meno di 5000 Meno di 80 70
Da 25 a meno di 40 Da 5000 fino ad 8000 Da 80 fino a 120 inclusi 100
Da 40 fino ad 80 inclusi Da più di 8000 fino a 16000 incluse Da più di 120 fino a 200 inclusi 150
Più di 80 Più di 16000 Più di 200 200
In questa tabella sono riportati i dosaggi e lo schema terapeutico nel passaggio da ESA a roxadustat
Tabella 1. Dosi iniziali di roxadustat da assumere tre volte alla settimana nei pazienti che passano da un ESA a roxadustat.

Dagli studi effettuati si è visto come alcuni chelanti del fosforo quali acetato di calcio e sevelamer carbonato riducono la biodisponibilità della molecola, per tanto roxadustat deve essere assunto almeno un’ora dopo l’assunzione di tali chelanti. Per il lantanio carbonato invece non si sono osservate interazioni significative. Inoltre, roxadustat può determinare un incremento delle concentrazioni sieriche delle statine per cui, in caso di co-somministrazione è necessario valutare la possibilità di ridurre il dosaggio della stessa.

 

Conclusioni

Questa nuova classe di farmaci, utili al trattamento dell’anemia correlata a malattia renale cronica, dai numerosi studi eseguiti si è dimostrata non inferiore rispetto alla terapia standard con eritropoietine nel correggere e mantenere i valori di emoglobina in pazienti con malattia renale cronica, e potrebbe garantire, nel prossimo futuro, un’alternativa terapeutica. Un punto di forza di queste nuove molecole è rappresentato dagli effetti pleiotropici sul metabolismo lipidico e marziale. Com’è noto i pazienti con malattia renale cronica, a causa di uno stato infiammatorio cronico possono presentare alterazioni del normale metabolismo marziale con difficoltà al trattamento dell’anemia con l’eritropoietina. I farmaci HIF-PHIs grazie alla modulazione genica, determinando una soppressione dell’epcidina, un’aumentata espressione di ceruloplasmina, transferrina e recettori della transferrina, facilitano l’assorbimento e la biodisponibilità del ferro. Tale meccanismo potrebbe rendere tali molecole una valida opzione terapeutica alle anemie difficili da trattare a causa della flogosi [82, 83].

Altro vantaggio nell’utilizzo di queste nuove molecole risulta legato alla possibilità di una produzione più “fisiologica” dell’EPO endogena se confrontata ad una possibile disponibilità “sovrafisiologica” di eritropoietina ricombinante esogena necessaria per correggere l’anemia. Questo determinerebbe un minore feed-back negativo endocrino sugli organi eritropoietici con minori effetti collaterali, in particolar modo cardio-vascolari, rispetto alla classica terapia con eritropoietina che, in alcuni casi, per fenomeni di resistenza, necessita incrementi del dosaggio, esponendo il paziente a un maggior rischio di eventi avversi con valori di emoglobina a target [84, 85].

Presentando un buon profilo di sicurezza e limitati effetti avversi, con l’utilizzo su larga scala si potrà in futuro confermare queste iniziali evidenze, ma senza dubbio, questi farmaci andranno ad arricchire l’armamentario farmacologico del nefrologo.

 

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Eritropoietina, ormone tuttofare

Abstract

Nel corso degli ultimi due decenni è stato dimostrato che, oltre all’attività eritropoietica, l’eritropoietina (EPO) esercita numerose altre funzioni, tra cui quelle neuro-protettive, anti-apoptotiche, antiossidanti, angiogenetiche e immunomodulanti. L’azione dell’EPO si esplica attraverso l’interazione con due differenti forme del suo recettore (EPOR): una omodimerica, responsabile degli effetti eritropoietici, ed una eterodimerica, responsabile degli effetti non eritropoietici. La stimolazione di quest’ultimo recettore si è dimostrata anche efficace nel prolungare la sopravvivenza del trapianto d’organo, sia in modelli murini che nell’uomo.

Lo sviluppo di nuove molecole che agiscono selettivamente sull’EPOR eterodimerico, privo di attività eritropoietica, ha consentito di iniziare a valutare l’effetto di trattamenti a lungo termine, evitando di incorrere nelle possibili complicanze, di natura principalmente cardiovascolare, legate all’aumento dell’ematocrito.

Parole chiave: eritropoietina, EPO, ARA290, EPOR

Introduzione

All’inizio del XX secolo, due scienziati francesi osservarono che il plasma di conigli anemici era in grado di incrementare la produzione di globuli rossi quando iniettato in animali non anemici [1]. I ricercatori ipotizzarono che questa attività eritropoietica fosse causata da una singola proteina plasmatica, alla quale nel tempo vennero attribuiti vari nomi, tra cui “erythropoietic-stimulating factor” e, infine, “eritropoietina”. 

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