Ambulatorio nefrologico nutrizionale: una organizzazione traversale in nefrologia e flowchart di accesso

Abstract

L’aspetto nutrizionale ha rilevanza critica nel percorso educazionale e di cura del paziente nefropatico. La sinergia tra nefrologia e dietologia nelle aziende ospedaliere è condizionata da vari fattori, fra cui la difficoltà delle unità di dietologia ad erogare follow-up capillari e personalizzati ai nefropatici.

Da qui nasce l’esperienza di un ambulatorio nefrologico trasversale di II livello dedicato agli aspetti nutrizionali del nefropatico in tutto il suo percorso, dalle fasi più precoci della malattia renale fino al trattamento sostitutivo. La flowchart di accesso prevede una prima indicazione nefrologica: da ambulatori di malattia renale cronica (MRC), calcolosi, immunopatologia, emodialisi, dialisi peritoneale e trapianto, o dalla degenza ospedaliera i pazienti vengono selezionati per la valutazione nutrizionale. L’ambulatorio è condotto da un nefrologo esperto e da dietisti formati ed è articolato in diverse prestazioni: incontri educazionali a piccoli gruppi (pazienti e caregiver); visite dietistiche simultanee all’ambulatorio MRC IV e V stadio; visite nefrologiche nutrizionali su problematiche specifiche: dallo screening metabolico della calcolosi urinaria, alla cura del microbiota intestinale in immunopatologia, all’uso della dieta chetogenica in obesità, sindrome metabolica, diabete ed iniziale nefropatia, alla terapia dietetico-nutrizionale in onconefrologia. L’invio a valutazioni dietologiche rimane limitato a casi critici e selezionati.

Il modello sinergico tra nefrologia e dietologia offre vantaggi clinici e organizzativi: garantisce un follow-up capillare dei pazienti riducendo il numero degli accessi in ospedale, potenziando così la compliance ed i risultati clinici, nel contempo ottimizzando le risorse a disposizione e superando le criticità di un ospedale complesso a vantaggio della sempre proficua multidisciplinarietà.

Parole chiave: terapia dietetico-nutrizionale, nefrologia, malattia renale cronica

La terapia dietetico-nutrizionale nella malattia renale cronica (MRC)

L’aspetto nutrizionale ha rilevanza critica nel percorso educazionale e di cura del paziente nefropatico tanto che anche le linee guida nazionali ed internazionali [16] confermano la Terapia Dietetico-Nutrizionale (TDN) come parte integrante del trattamento da offrire ai nostri pazienti cronici. Il suo obiettivo non è solo di preservare la funzione renale residua, rallentando la progressione della malattia renale verso l’uremia, ma anche e soprattutto di meglio controllare i sintomi uremici e di mantenere uno stato nutrizionale adeguato [1, 2, 7]. In questo modo i pazienti stanno meglio e giungono al trattamento sostitutivo più tardi e in condizioni cliniche e nutrizionali migliori, con vantaggi anche economici di risparmio sulla spesa sanitaria [1, 2].

Negli anni l’approccio nutrizionale è maturato: la dieta ipoproteica originaria [8] è evoluta a terapia dietetico-nutrizionale [913] ponendo una particolare attenzione all’adeguatezza dell’apporto energetico e rivendicando il ruolo di vera e propria terapia e, come tale, da gestire con indicazioni, controindicazioni, posologia, follow-up e controllo della compliance [1, 2]. Si è inoltre arricchita delle opzioni di dieta vegetariana, più recentemente rivalutate ed estese anche ai pazienti dializzati [14, 15], anche alla luce delle conoscenze sul microbiota intestinale [1521], delle disponibilità di nuovi chelanti del potassio, oltre che dell’emergenza climatica globale [2225].

Da segnalare è anche il concetto di TDN di precisione, maturato per ritagliare ad hoc sulle caratteristiche del paziente il miglior approccio nutrizionale possibile [1, 2, 2631].

Il concetto di aderenza è un punto cruciale per il successo della TDN: l’impegno educazionale che si profonde nel prescrivere la TDN è proporzionale ai risultati che si conseguono e non a caso, storicamente, i centri nefrologici che più si impegnano nella istruzione dei pazienti e delle famiglie in ogni ambito nefrologico, da sempre sono anche quelli che più “credono” nella dieta. Le esperienze italiane a questo proposito sono maestre [1, 2, 3247].

Tuttavia la crescente sensibilità, anche a livello di popolazione, all’aspetto nutrizionale e allo stile di vita “sano”, le evidenze epidemiologiche sempre più rilevanti sul ruolo di obesità, sindrome metabolica, diabete e malattie cardiovascolari e neoplastiche [4856] da un lato e dall’altro i numerosi studi su microbiota intestinale e sul suo ruolo nella patogenesi di molte malattie croniche,  impongono al nefrologo di allargare il proprio orizzonte di pensiero e di azione anche in termini nutrizionali. Come ribadito nel Core curriculum del 2022 [57], la terapia dietico-nutrizionale diventa un continuum che accompagna il paziente dalle fasi precoci di prevenzione secondaria – e prima ancora primaria – della malattia renale, fino al suo sviluppo ed evoluzione, sino alla terapia sostitutiva. In questa accezione la terapia nutrizionale può intervenire molto presto, fin dalle fasi di prevenzione primaria: ipertensione arteriosa, sovrappeso, obesità, sindrome metabolica,  diabete tipo II, calcolosi renale, nefropatie immunologiche sono tutti campi in cui l’intervento nutrizionale precoce contribuisce alla prevenzione primaria e secondaria dello sviluppo di nefropatia cronica [4957]; fra gli approcci meno convenzionali, ma con ormai una solida letteratura alle spalle, vanno  anche considerati il rinnovo del microbiota intestinale e la dieta chetogenica very-low-carbohydrate ketogenic diet (VLKD) con i suoi effetti pleiotropici [5866].

Abbiamo detto come l’aderenza alla terapia dietetico nutrizionale ne condizioni inesorabilmente il successo: entrambe dipendono molto da quanto le Unità Operative di Nefrologia riescono a dedicarvi, facendo i conti con le risorse, non solo numeriche, ma anche culturali ed organizzative, che ciascuna realtà ha a disposizione.

La sinergia tra Nefrologia e Dietologia in un presidio ospedaliero è condizionata da vari fattori. Maggiori sono la dimensione, la complessità del presidio e la numerosità dell’utenza tanto più è difficile per la Dietologia sopperire alle esigenze delle diverse unità operative e per la Nefrologia ottenere un follow-up personalizzato e capillare. Ci sono poi realtà dove non è neanche presente una Dietologia a cui riferirsi e la collaborazione con dietisti in varia forma (borse di studio, contratti a tempo sempre più breve) è l’unica opzione disponibile, gestita direttamente dalle Nefrologie stesse [1, 2, 67].

Proprio da queste considerazioni nasce l’idea del nostro ambulatorio nefrologico nutrizionale trasversale.

Si riporta qui l’esperienza della nascita e sviluppo di un ambulatorio nefrologico di II livello focalizzato sugli aspetti nutrizionali del paziente nefropatico in tutto il suo percorso. La novità del progetto sta nel fatto che l’Ambulatorio Nefrologico Nutrizionale non è un’entità fisica e temporale ben definita, ma una presenza fluida, che si inserisce trasversalmente nei vari settori dell’attività nefrologica realizzando concretamente il concetto di continuum della terapia dietico-nutrizionale lungo il percorso assistenziale e di cura del paziente nefropatico [57].

 

Il modello organizzativo nefrologo-dietista

L’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano copre un vasto bacino di utenza nell’area ovest e sud di Milano.

La Struttura Complessa (SC) di Nefrologia del Presidio Ospedaliero San Carlo Borromeo di Milano comprende un reparto di degenza nefrologica di 22 posti letto (600 ricoveri/anno), un ambulatorio di Dialisi Ospedaliera con 30 000 trattamenti/anno, 200 pz cronici in carico; un CAL Centro ad assistenza limitata intraospedaliero (25 pazienti), un ambulatorio di Dialisi Peritoneale (26 pazienti), un ambulatorio trapianti (75 pazienti in carico, 203 visite/anno);  un ambulatorio nefrologico (2500 visite/anno), che include: ambulatorio nefrologico generale (564/anno), ambulatorio immunologico (348/anno), ambulatorio malattia renale cronica stadio 4 (489/anno), ambulatorio Malattia Renale Avanzata (MaReA) (622/anno).

La nostra realtà poi da alcuni anni prevede un’unica SC di Nefrologia e Dialisi nell’ambito della ASST, ponendoci come obiettivo quello di uniformare al massimo il nostro operato, estendendo anche al PO San Paolo quanto avviato al PO San Carlo.

Di contro il Servizio di Dietologia, attivo sui due presidi ospedalieri, eroga 8000 prestazioni anno al PO San Carlo e 4000 al San Paolo.

Prima del nostro intervento, i pazienti con Malattia Renale Cronica (MRC) afferivano all’ambulatorio generale gestito dal Centro Unico di Prenotazione e non differenziato per i diversi stadi di insufficienza renale e non esisteva un’uniformità di indicazione nefrologica all’approccio dietetico-nutrizionale. Il primo step organizzativo è stato riprogettare l’ambulatorio della Malattia Renale Avanzata al fine di censire adeguatamente i pazienti, di ottimizzare il percorso di cura in previsione della dialisi e di programmare meglio l’inizio del trattamento sostitutivo. A partire dal mese di gennaio 2020 è stata pertanto effettuata una revisione organizzativa strutturando l’ambulatorio MaReA con 10 visite cliniche settimanali e 5 colloqui educazionali. I pazienti afferenti a questo ambulatorio presentano una MRC di stadio IV/V con filtrato glomerulare minore di 20 ml/min, non ancora in trattamento dialitico. Successivamente, a partire dal mese di settembre 2021, a causa dell’elevato numero di pazienti afferenti, si è pensato di restringere ulteriormente il criterio di inclusione a un valore di VFG 15 ml/min, creando un ambulatorio parallelo dedicato ai pazienti con MRC di IV stadio (VFG tra 16-20 ml/min). Il primo accesso del paziente in ambulatorio prevede una prima visita nefrologica della durata di un’ora circa in cui, insieme alla visita clinica, viene presentato l’obiettivo di presa in carico clinico-educazionale globale dell’ambulatorio MaReA. Gli appuntamenti di controllo vengono gestiti internamente grazie ad un’agenda dedicata e vengono generalmente programmati a distanza di un minimo di un mese a un massimo di tre mesi, a seconda della situazione clinica e della gravità del paziente. Accanto al follow-up clinico ogni paziente effettua, in presenza di eventuali famigliari, un percorso educazionale articolato in 3-4 incontri di un’ora sui seguenti argomenti: la malattia renale cronica, la fisiopatologia, la terapia, la dieta e gli aspetti educazionali; l’emodialisi; la dialisi peritoneale; il trapianto renale. Al termine del percorso educazionale, il paziente e la famiglia, supportati dal nefrologo e dalle figure sanitarie gravitanti nell’ambulatorio MaReA, esprimono una decisione in merito al tipo di trattamento sostitutivo più idoneo. Inoltre, se necessario, è previsto un supporto psicologico.

A partire dal mese di gennaio 2021, grazie ad una rinsaldata collaborazione tra il Servizio Dietetico e di Nutrizione Clinica e l’Unità operativa di Nefrologia e Dialisi, nasce l’ambulatorio nutrizionale parallelo e contestuale all’ambulatorio MaReA. La peculiarità di questo ambulatorio è che si svolge nella stessa sede e negli stessi orari dell’ambulatorio MaReA; la valutazione nefrologica in questo contesto è sempre seguita dalla valutazione dietistica in modo da affrontare immediatamente criticità cliniche che di volta in volta si evidenziano (controllo di fosforo e potassio non ottimali, rischio di malnutrizione, inadeguata aderenza alla dieta in eccesso o in difetto, dubbi o quesiti particolari). In casi di criticità maggiori il paziente viene indirizzato a valutazione dietologica.

Dal gennaio 2021 prendono anche il via:

–  incontri educazionali a piccoli gruppi (4 incontri al mese ciascuno con 8 pazienti/caregiver):  durante l’incontro di 1 ora un nefrologo e una dietista formati spiegano con l’aiuto di diapositive la malattia renale cronica con cenni di fisiopatologia, segni e sintomi, farmaci ed alimentazione con consegna di libretto da noi redatto; l’esiguità numerica dei gruppi, dettata dalle esigenze di pandemia Covid19, consente al termine una sessione sempre vivace dedicata alle numerose domande dei presenti. Tale incontro è dedicato a tutti i pazienti afferenti al nostro ambulatorio fin dallo stadio III di IRC. Sono in fase di organizzazione incontri dedicati a pazienti di area dialitica e trapianto.

– visite nefrologiche individuali (12/mese) con presa in carico di problematiche specifiche: dallo screening metabolico della calcolosi urinaria, al lavoro sul microbiota intestinale nei soggetti con malattie immunologiche, alla indicazione e monitoraggio di dieta chetogenica medicalizzata finalizzata al calo ponderale in pazienti con obesità, sindrome metabolica, diabete ed iniziale danno renale.

Riportiamo di seguito la flowchart che riassume l’attività dell’ambulatorio nefrologico nutrizionale di II livello (Fig. 1): l’invio prevede una indicazione nefrologica alla presa in carico: da ambulatori di MRC, calcolosi, immunologia, emodialisi, dialisi peritoneale e trapianto o in dimissione da reparto nefrologico i pazienti vengono inviati a valutazione presso il nostro ambulatorio di secondo livello. L’ambulatorio si articola in diversi setting, di cui vi abbiamo raccontato la nascita:

  • Visite nefrologiche e dietistiche contestuali ad ambulatorio MaReA
  • Visite nefologiche e dietistiche contestuali ad ambulatorio MRC IV
  • Incontri educazionali di gruppo
  • Produzione di materiale educazionale stampato distribuito negli ambulatori e negli incontri
  • Visite nefrologiche nutrizionali dedicate a problematiche specifiche

Solo in caso di criticità particolari questi pazienti vengono indirizzati a rivalutazione dietologica, altrimenti proseguono l’iter nutrizionale negli ambulatori nefrologici congiunti.

Il progetto è stato sviluppato a pari risorse: un nefrologo esperto e formato specificamente, una giovane dietista formata, due dietiste renali di consolidata esperienza, tutti già operativi all’interno del PO San Carlo, ma accomunati dall’entusiasmo per un progetto comune, semplice, ma innovativo al tempo stesso.

Figura 1: Flowchart di accesso all’ambulatorio nefrologico nutrizionale di II livello.
Figura 1: Flowchart di accesso all’ambulatorio nefrologico nutrizionale di II livello.

 

Volumi e risultati dell’ambulatorio nefrologico-nutrizionale

Dal punto di vista numerico nel 2022 sono state effettuate circa 500 visite dietistiche contestuali ad ambulatorio MaReA ed MRC IV; 144 prime visite dietologiche per MRC e 366 controlli.

L’ambulatorio nutrizionale dedicato ha effettuato 101 prime visite. I pazienti afferiti ad incontri educazionali sono stati 90 (con altrettanti famigliari).

La sinergia tra Nefrologia e Dietologia ha portato numerosi risultati. Essa ha consentito innanzitutto di ottimizzare le risorse e la gestione dei controlli ambulatoriali, riducendo il numero dei “doppi controlli” dietologico e dietistico, aumentando così la disponibilità, per numero e riduzione tempi di attesa, di sedute ambulatoriali per prima visita dietologica da dedicare a presa in carico di nuovi pazienti affetti da MRC, inclusi i pazienti in trattamento sostitutivo.

Si sono ridotti anche, per singolo paziente, il numero di prelievi ematici e di accessi in ospedale, dovuti in passato alla mancata sincronizzazione tra le diverse visite e alla mancanza di comunicazione tra nefrologi e dietologi.

Tutto ciò ha portato a migliorare la compliance e l’aderenza al progetto terapeutico in particolare per i pazienti MaReA, con ricadute in termini clinici e di qualità di prestazione percepita.

Dal punto di vista clinico poi la tempestiva correzione di “errori dietetici” ha consentito di migliorare i risultati, di controllare meglio i sintomi uremici, di prevenire lo sviluppo di eventuale malnutrizione e di individuare precocemente una deplezione energetico-proteica.

Gli incontri di gruppo hanno inciso notevolmente nell’aumento della aderenza al progetto terapeutico globale, sensibilizzando i pazienti e le famiglie, riducendo i drop-out e aumentando notevolmente la qualità percepita di servizio prestato.

Le valutazioni nefrologiche individuali mirate alla nutrizione hanno invece consentito di offrire un approccio educazionale e nutrizionale fin dalle fasi più precoci dell’insufficienza renale (con particolare sensibilizzazione all’intervento precoce sul controllo degli introiti di fosforo e di sale), ma anche un approccio innovativo alla gestione dell’obesità, della sindrome metabolica e del diabete con la dieta chetogenica medicalizzata, e delle malattie autoimmuni con la cura del microbiota intestinale.

Il progetto ha anche avuto una grande ricaduta formativa nell’ambito delle due équipe coinvolte, nefrologica e dietologica. Sono state redatte una tesi di laurea triennale in dietistica e una tesi magistrale in alimentazione e nutrizione umana, e sono in fase di organizzazione eventi formativi interni per il personale di area nefrologica, dialitica e dietologica. Il nostro obiettivo è di proseguire con la sua applicazione validandolo e quantificandone i risultati dal punto di vista clinico, di qualità percepita e di impatto economico sulla spesa.

Il maggiore impatto ora quantificabile è sicuramente quello sulla qualità percepita dal paziente e sulla organizzazione. Si riportano i risulati dei questionari di gradimento somministrati ai pazienti al termine dei colloqui educazionali di Gruppo (Tab. 1).

Domande Risposte
Quanto ha gradito da 1 a 10 l’incontro? Da 1 a 10: media 9,55
Ritiene utile conoscere meglio la malattia renale? Da 1 a 10: media 9,44
Desidera partecipare a ulteriori incontri sull’argomento? SI   76,5%
Vorrebbe avere una consulenza dietistica personalizzata? SI    72%
I contenuti della lezione sono stati chiari? Da 1 a 10: media 9,36
Gradirebbe effettuare visita nefrologica e dietistica contemporaneamente? Da 1 a 10: media 9,16
Quanto ritiene importante il ruolo della corretta alimentazione nella MRC? Da 1 a 10: media 9, 67
Tabella 1: Risultati dei questionari di gradimento somministrati ai 90 pazienti in occasione degli incontri di gruppo.

 

Considerazioni finali

Il modello sinergico tra nefrologia e dietologia offre vantaggi clinici e organizzativi: garantisce un follow-up capillare dei pazienti riducendo il numero degli accessi in ospedale, potenziando così la compliance e i risultati clinici, nel contempo ottimizzando le risorse a disposizione e superando le criticità di un ospedale complesso, a vantaggio della sempre proficua multidisciplinarietà.

Quello da noi proposto e sperimentato è un modello organizzativo fluido, che ben si adatta alle realtà nefrologiche di medie-grandi dimensioni dove la numerosità dell’utenza e delle attività cliniche spesso non consente un follow-up personalizzato e globale.

La terapia dietetico-nutrizionale concepita trasversalmente alla attività delle UO nefrologiche e ai vari ambiti del percorso del paziente nefropatico deve integrarsi sempre più saldamente con le risorse di cura del paziente nefropatico in un approccio moderno e flessibile, di precisione per ogni singola esigenza.

In particolare, il passaggio da fase conservativa a trattamento sostitutivo appare critico: in questo ambito la TDN non deve essere dimenticata, anzi il suo uso sapiente è cruciale per poter percorrere anche la strategia della dialisi incrementale, con vantaggi clinici e risparmio di spesa, e comunque per il mantenimento del benessere clinico del paziente [6872].

Un’amministrazione lungimirante e saggia dovrebbe, a nostro avviso, investire nella terapia dietico-nutrizionale come strumento di cura per migliorare l’outcome del paziente, ridurre le comorbidità e diminuire anche i costi del trattamento sostitutivo dilazionandolo e riducendone la dose [73-76]. In ultimo, in tempi di green nephrology, va ricordato anche il beneficio che procrastinare la dialisi o ridurne la dose può comportare sull’impatto ambientale [2326].

 

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Tolleranza all’ultrafiltrazione nel paziente in dialisi cronica: è utile un approccio ecografico?

Abstract

Introduzione: L’ipotensione intradialitica è una delle complicanze più frequenti del trattamento emodialitico e si associa ad aumento della mortalità. Ad oggi non esistono fattori predittivi validati per stimare a priori la tolleranza emodinamica alla sottrazione idrica in corso di trattamento dialitico.
Scopo dello studio è stato valutare se i parametri ecografici inerenti alla vena cava inferiore (VCI) a inizio dialisi possano essere predittivi di tolleranza all’ultrafiltrazione in pazienti emodializzati cronici, clinicamente stabili, previa valutazione dello stato di idratazione con un’ecografia polmonare bed-side.
Materiali e metodi: Abbiamo condotto uno studio spontaneo, prospettico, osservazionale, monocentrico, esplorativo su 17 pazienti in emodialisi cronica. Prima dell’inizio della seduta dialitica, sono state eseguite l’ecografia della VCI e l’ecografia polmonare. Abbiamo confrontato i dati ecografici rilevati dal gruppo di pazienti che ha presentato almeno un episodio di ipotensione intradialitica con quelli dei pazienti che non ne hanno presentati.
Risultati: Dei 17 pazienti arruolati, 4 hanno presentato ipotensione. L’indice di collassabilità della VCI (IC-VCI) dei pazienti che presentavano ipotensione intradialitica è risultato significativamente aumentato rispetto ai pazienti che non andavano incontro a ipotensione. Il diametro minimo della VCI (VCI min) è risultato significativamente minore nei soggetti con ipotensioni intradialitiche. Il risultato si confermava anche nelle analisi multivariate in cui tali parametri si mantenevano significativi anche al netto del B-lines-score.
Conclusioni: I risultati del nostro studio permettono di ipotizzare che IC-VCI e VCI min possano essere considerati predittori di rischio di ipotensione intradialitica inpazienti in emodialisi cronica. Studi ulteriori saranno necessari per confermare i dati osservati.

Parole chiave: emodialisi, ipotensione intradialitica, ecografia vena cava inferiore, ecografia polmonare

Introduzione

L’ipotensione intradialitica è una complicanza relativamente frequente nel paziente in emodialisi cronica cheimpedisce il raggiungimento del peso secco e risulta correlata a ridotta sopravvivenza e a ridotta efficacia del trattamento emodialitico [1, 2].

Per evitare le ipotensioni intradialitiche è fondamentale garantire la tolleranza emodinamica alla ultrafiltrazione che dipende sia dalla corretta valutazione dello stato di idratazione che del peso secco.

La valutazione clinica dello stato di idratazione risulta spesso complessa e non conclusiva. Metodiche strumentali come l’Rx torace non sono sempre disponibili al letto, hanno una sensibilità e specificità non ottimali ed espongono il paziente a radiazioni [3]. Lo studio bioimpedenziometrico (BIA) rappresenta una metodica che deve essere utilizzata come una parte di tutto lo strumentario disponibile per il nefrologo per lo studio dello stato di idratazione e va integrato con la valutazione clinica [4].

L’ecografia della vena cava inferiore, mediante la determinazione dei diametri massimo e minimo e dell’indice di collassabilità (IC) è uno strumento valido nello stimare lo stato volemico e la pressione venosa centrale (PVC) in pazienti in trattamento emodialitico cronico [3]. Riguardo all’utilità dei parametri ecografici relativi alla vena cava inferiore quali predittori di tolleranza clinica all’ultrafiltrazione nel paziente in emodialisi, gli studi presenti in letteratura non hanno mostrato risultati univoci e hanno preso in considerazione setting clinici eterogenei (pazienti in trattamento emodialitico cronico, pazienti in terapia intensiva con diagnosi di insufficienza renale acuta e/o shock, sottoposti a ventilazione meccanica) [58].

L’ecografia polmonare, mediante la quantificazione delle linee B, si è dimostrata utile per la valutazione dello stato di idratazione polmonare eper la determinazione del peso secco nel paziente in emodialisi cronica [9].

Lo scopo di questo studio è stato valutare se i parametri ecografici inerenti alla vena cava inferiore possano essere predittivi di tolleranza all’ultrafiltrazione in pazienti trattamento emodialitico cronico clinicamente stabili, in cui sia stata prima effettuata una valutazione strumentale bed-side dello stato di idratazione mediante ecografia polmonare.

 

Metodi

Disegno dello studio

Studio spontaneo, prospettico, osservazionale, monocentrico, esplorativo.

Pazienti

Sono stati studiati pazienti in trattamento dialitico cronico presso l’UO di Nefrologia e Dialisi dell’AUSL Romagna sede di Rimini. Sono stati esclusi pazienti che presentavano un’infezione attiva concomitante o ricoverati in Terapia Intensiva.

Materiali e metodi

Prima dell’inizio della programmata seduta emodialitica i pazienti sono stati sottoposti a valutazione dello stato di idratazione mediante obiettività clinica ed ecografia polmonare. Èstata quindi eseguita, prima della seduta dialitica, l’ecografia della vena cava inferiore, con determinazione di diametro massimo, diametro minimo e indice di collassabilità (IC).

L’ecografia polmonare è stata effettuata mediante sonda Convex addominale. Per il conteggio delle linee B è stato utilizzato il metodo a 28 scansioni, ovvero dal secondo al quinto spazio intercostale per l’emitorace di destra e dal secondo al quarto spazio intercostale per l’emitorace di sinistra, seguendo le linee parasternale, emiclaveare, ascellare anteriore e ascellare media. Per ogni scansione è stato quantificato il numero di linee B e, dalla loro somma, ottenuto il B-lines score. Il grado di congestione polmonare è stato valutato come assente (<5 linee B), lieve (da 5 a 13 linee B), moderato (da 14 a 30 linee B) e severo (>30 linee B) [10].

L’ecografia della VCI è stata effettuata mediante sonda Convex addominale con approccio sub-xifoideo. Le misurazioni di diametro massimo e minimo e dell’IC sono state effettuate a circa 2-3 cm dall’atrio destro.

Per una valutazione più obiettiva, sia l’ecografia polmonare che l’ecografia della VCI sono state eseguite contemporaneamente da 2 medici promotori dello studio. Le misure della vena cava e il conteggio delle linee B veniva quindi discusso e condiviso in sede d’esame per limitare l’errore di valutazione.

Durante la seduta emodialitica sono stati registrati parametri quali grado di ultrafiltrazione, episodi di ipotensione intradialitica, riduzione critica del volume ematico, sintomi clinici, eventuale sospensione anticipata della seduta.

La prescrizione della seduta non è stata influenzata dalla valutazione ecografica ed è stata effettuata secondo la consueta scheda di programmazione senza modifiche alla prescrizione.

Non sono state apportate modifiche nella terapia domiciliare e intradialitica.

L’ipotensione intradialitica è stata definita come riduzione della pressione arteriosa sistolica superiore a 20 mmHg con sintomi associati o come riduzione della PA sistolica al di sotto di 90 mmHg.

Endpoint

L’endpoint è stato valutare l’impatto dei parametri ecografici inerenti alla vena cava inferiore (in particolare l’indice di collassabilità) sul rischio di ipotensione intradialitica.

Analisi statistica

I risultati riferiti alle variabili continue con distribuzione normale sono stati riportati come media e deviazione standard (standard deviation, SD). I risultati riferiti alle variabili continue con distribuzione non normale sono stati riportati come mediana e intervallo interquartile (Interquartile Range, IQR).

Il confronto fra i gruppi è stato effettuato mediante t-test per le variabili continue con distribuzione normale. Il test di Mann-Whitney è stato impiegato per le variabili continue a distribuzione non normale e il test di Fisher per le variabili categoriche.

La correlazione tra variabili continue è stata valutata mediante regressione lineare semplice.

L’analisi multivariata è stata condotta mediante regressione logistica multipla. Un p value< 0,05 è stato considerate significativo.

I calcoli sono stati effettuati mediante GraphPadPrism™ (version 8 for Windows, GraphPad Software Inc., CA, USA).

 

Risultati

Sono stati arruolati 17 pazienti in trattamento emodialitico cronico. L’età media era di 71 anni (DS 15,18). Dieci pazienti erano di sesso maschile (59%) e 7 di sesso femminile (41%). L’età dialitica mediana era di 50 mesi (IQR 53,24) e il Charlson Comorbidity Index mediano era di 7 (IQR 5,00 – 7,50). In merito alle comorbidità, 7 soggetti (41%) avevano un’anamnesi positiva per cardiopatia ischemica, 3 pazienti (17%) presentavano una stenosi aortica moderata-severa, 3 (17%) un’insufficienza mitralica moderata-severa e 7 (41%) erano affetti da diabete mellito. La Frazione d’Eiezione (FE) % media era di 52,88 (DS 14,45). L’accesso vascolare per l’emodialisi era la Fistola Artero-Venosa (FAV) per 10 soggetti (59%) mentre i restanti 7 dializzavano tramite CVC (41%). La modalità dialitica era l’emodiafiltrazione (HDF) per 2 pazienti (12%), l’Acetate Free Biofiltration (AFB) per 3 (18%) e l’emodialisi bicarbonato (HD) per 12 (70%).

Nell’ambito della nostra popolazione 4 pazienti (24%) hanno presentato ipotensione intradialitica.

Le caratteristiche cliniche e laboratoristiche così come il confronto fra i due gruppi sono riassunte nella Tabella 1.

I due gruppi risultavano omogenei rispetto alle principali caratteristiche cliniche e demografiche. Non sussisteva differenza significativa in termini di patologie valvolari, cardiopatia ischemica e diabete. La percentuale di soggetti di sesso femminile è risultata maggiore nel gruppo che è andato incontro a ipotensione intradialitica. Non si è registrata differenza tra i livelli ematici di emoglobina fra i due gruppi (10,73 g/dL, DS 1,53 vs 11,40 g/dL DS 1,66) mentre l’albuminemia è risultata significativamente minore nei pazienti ipotesi pur attestandosi su valori medi maggiori di 30 mg/dL (30,25 g/L, DS 9,60 vs 38,23 g/L, DS 2,74, p=0,0129).

L’IC della VCI (IC-VCI) è risultato significativamente maggiore nel gruppo di pazienti che hanno presentato un episodio ipotensivo (65,84, DS 22,01 vs 33,35, DS 22,49, p=0,0228), come mostrato nella (Figura 1).

Il diametro massimo della VCIera simile tra i pazienti ipotesi e non ipotesi (11,20 mm, IQR 9.95 – 13,88 vs 18,00 mm, IQR 11.00 – 22,80) mentre il diametro minimo è risultato significativamente inferiore nel gruppo di pazienti con episodi ipotensivi (2,75 mm, IQR 2,12 – 8,02 vs 13,00 mm IQR 5,00 – 19,70, p=0,0349).

Non sono emerse differenze tra il B-lines score dei due gruppi di pazienti (21, DS 16,99 vs 16, DS 16,56) mentre la presenza di versamenti pleurici è risultata significativamente maggiore nel gruppo con episodi ipotensivi intradialitici (2 DS 50 vs 0, p=0,0441).

L’ultrafiltrazione totale media non è risultata differente fra i due gruppi (2363 mL, DS 1349 vs 2346 mL, DS 887,5) anche tenendo conto del peso corporeo (41,25 mL/kg, DS 21,98 vs 33,31 mL/kg, DS 12,24), così come l’ultrafiltrazione oraria massima (11,50 mL/kg/h, DS 6,55 vs 11,60 mL/kg/h DS 3,87).

Variabili Totale (17) Ipotensione (4) No ipotensione (13) P
Età,anni,media (DS) 71 (15,18) 72 (23,27) 70 (13,10) 0,8792
Maschi,n (%) 10 (59) 0 (0) 10 (77) 0,01747
Età dialitica, mesi mediana (IQR) 50 (53,24) 36 (11.50) 42 (11.50 – 45,75) 0,6088
Charlson Comorbidity Index, mediana (IQR) 7 (5,00 – 7,50) 6 (2,75 – 7,75) 7 (5,00 – 7,50) 0,7034
Emoglobina, g/dL, media (DS) 11,24 (1,61) 10,73 (1,53) 11,40 (1,66) 0,4819
Albumina mg/dL, media (DS) 37,5 (5,6) 30,25 (9,60) 38,23 (2,74) 0,0129
Accesso vascolare
FAV, n (%) 10 (39) 2 (50) 8 (62) >0,9999
CVC, n (%) 7 (41) 2 (50) 5 (38)
Qb, ml/min, mediana (IQR) 300 (275 – 300) 275 (212 – 300) 300 (300-300) 0,2534
Tecnicadialitica
HDF 2 (12) 0 (0) 2 (15) >0,9999
AFB 3 (17) 2 (50) 1 (7) 0,1206
HD 12 (71) 2 (50) 10 (78) 0,5378
Comorbidità
Cardiopatiaischemica, n (%) 7 (41) 1 (25) 6 (46) 0,6029
Diabetemellito, n (%) 7 (41) 1 (25) 6 (46) 0,6029
FE%, media (DS) 52,88 (14,45) 55,75 (18,19) 51,92 (13,80) 0,6617
Stenosi aortica moderata-severa, n (%) 3 (17) 1 (25) 2 (15) >0,9999
Insufficienza mitralica moderata-severa, n (%) 3 (17) 2 (50) 1 (7) 0,1206
Indice di collassabilità VCI, n (DS) 40,99 (25,93) 65,84(22,01) 33,35 (22,49) 0,0228
Diametro VCI max, mm, mediana (IQR) 12,00 (10,35 – 22,60) 11,20 (9.95 – 13,88) 18,00 (11.00 – 22,80) 0,3097
Diametro VCI min, mm, mediana (IQR) 8,60 (3,80 – 17,10) 2,75 (2,12 – 8,02) 13,00 (5,00 – 19,70) 0,0349
B-lines score media (DS) 17,47 (16,24) 21(16,99) 16 (16,56) 0,6348
Versamento pleurico, n (%) 2 (12) 2 (50) 0 (0) 0,0441
Uf totale, mL, media (DS) 2350 (965,3) 2363 (1349) 2346 (887,5) 0,9775
Uf totale, ml/kg, media (DS) 35,18 (14,66) 41,25 (21,98) 33,31 (12,24) 0,3601
Uf oraria massima ml/kg/h, media (DS) 11,57 (4,39) 11,50 (6,55) 11,60 (3,87) 0,9709
Max variazione vol ematico, %, media (DS) 11,94 (4,82) 12,73 (6,70) 11,69 (4,42) 0,7210
Tabella 1: Caratteristiche cliniche e outcome dell’intera popolazione e confronto fra pazienti che hanno presentato ipotensione intradialitica clinicamente significativa (riduzione PAS > 20 mmHg con sintomi associati o PAS < 90 mmHg).
Figura 1: L’indice di collassabilità % della VCI è significativamente maggiore nei pazienti con episodi ipotensivi rispetto al gruppo senza ipotensione.
Figura 1: L’indice di collassabilità % della VCI è significativamente maggiore nei pazienti con episodi ipotensivi rispetto al gruppo senza ipotensione.

Abbiamo realizzato delle regressioni logistiche semplici considerando come variabile dipendente l’ipotensione intradialitica e come variabili indipendenti l’IC-VCI%, il diametro minimo della vena cava inferiore (VCI min) e il B-lines score. Da tali analisi è risultato che un maggiore IC-VCI determinava un rischio aumentato di ipotensione (OR 1,071 95%CI 1,011 – 1,177, p= 0,0161) così come un ridotto VCI min (OR 0,7409; 95% CI 0,4091 – 0,9737; p= 0,0249). Il VCI max e il B-lines score non influenzavano il rischio di ipotensione intradialitica (Tabella 2).

Variable OR 95% CI P
IC VCI% 1,071 1,011 – 1,177 0,0161
VCI min, mm 0,7409 0,4091 – 0,9737 0,0249
B-lines score 1,018 0,9452 to 1,093 0,6147
Tabella 2: Regressione logistica semplice avente come variabile dipendente ipotensione clinicamente significativa.

Le analisi di regressione lineare semplice hanno mostrato:

1) una correlazione significativa tra IC-VCI e PAS minima raggiunta (a IC-VCI maggiori corrispondeva una PAS minima raggiunta minore, p = 0,0049 (Figura 2);

2) una correlazione fra VCI min e PAS minima (a VCI minori corrispondeva una PAS minima raggiunta minore, p = 0,0102) (Figura 3).

3) non vi era correlazione significativa fra VCI max e PAS minima (Figura 4) o fra IC-VCI e PAD minima raggiunta (Figura 5) e fra IC-VCI e ultrafiltrazione ottenuta (Figura 6).

Figura 2: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente PAS minima raggiunta e come variabile indipendente l’indice di collassabilità della VCI %.
Figura 2: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente PAS minima raggiunta e come variabile indipendente l’indice di collassabilità della VCI %.
Figura 3: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente PAS minima raggiunta e come variabile indipendente il diametro minimo della VCI.
Figura 3: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente PAS minima raggiunta e come variabile indipendente il diametro minimo della VCI.
Figura 4: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente la PAS minima raggiuntae come variabile indipendente il diametro massimo della VCI.
Figura 4: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente la PAS minima raggiuntae come variabile indipendente il diametro massimo della VCI.
Figura 5: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente la PAD minima raggiunta e come variabile indipendente l’indice di collassabilità della VCI %.
Figura 5: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente la PAD minima raggiunta e come variabile indipendente l’indice di collassabilità della VCI %.
Figura 6: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente l’ultrafiltrazione massima pro kg e come variabile indipendente l’indice di collassabilità della VCI %.
Figura 6: Regressione lineare semplice avente come variabile dipendente l’ultrafiltrazione massima pro kg e come variabile indipendente l’indice di collassabilità della VCI %.

Inoltre, abbiamo eseguito una regressione logistica multipla considerando come variabile dipendente l’ipotensione intradialitica e come variabili indipendenti l’IC-VCI% e il B-lines score (BLS): in questa analisi l’IC-VCI ha mantenuto significatività anche al netto del BLS (Tabella 3).

Variable OR 95% CI
IC VCI% 1,072 1,010 – 1,181
B-lines score 0,9957 0,9060 – 1,079
 Tabella 3: Regressione logistica multipla avente come variabile dipendente l’ipotensione clinicamente significativa.

Anche la significatività statistica del diametro minimo della VCI resiste alla multivariata che considera come variabile dipendente sempre l’ipotensione clinicamente significativa mentre come variabili indipendenti la VCI min e il BLS (Tabella 4).

Variable OR 95% CI
VCI min 0,7467 0,4120 -0,9774
B-lines score 1,010 0,9323 – 1,091
Tabella 4: Regressione logistica multipla avente come variabile dipendente l’ipotensione clinicamente significativa.

Infine, abbiamo eseguito un’ulteriore regressione logistica multipla considerando sempre come variabile dipendente l’ipotensione intradialitica e come variabili indipendenti l’IC-VCI% e la Frazione di Eiezione (FE): è emerso come l’indice di collassabilità resista anche al netto della FE (Tabella 5).

Variable OR 95% CI
IC VCI 1,073 1,011 -1,187
FE 1,022 0,9315 – 1,133
Tabella 5: Regressione logistica multipla avente come variabile dipendente l’ipotensione clinicamente significativa.

 

Discussione

Abbiamo condotto uno studio il cui obiettivo era quello di valutare se i parametri ecografici inerenti alla vena cava inferiore (in particolare l’indice di collassabilità) potessero essere predittivi di tolleranza all’ultrafiltrazione in pazienti in trattamento emodialitico cronico in cui fosse stata effettuata, prima dell’inizio della dialisi, una valutazione strumentale bed-side dello stato di idratazione mediante ecografia polmonare.

Nel nostro studio sono stati posti a confronto pazienti che hanno presentato ipotensione intradialitica e pazienti che non hanno presentato ipotensione intradialitica.

I due gruppi sono risultati omogenei per comorbidità cardiovascolari che possono portare allo sviluppo più frequente di episodi ipotensivi intradialitici (patologie valvolari, cardiopatia ischemica e diabete). Vi era uno sbilanciamento di soggetti di sesso femminile nel gruppo di pazienti con ipotensione intradialitica probabilmente imputabile al ridotto numero del campione.

Il gruppo con ipotensione intradialitica presentava un’albuminemia ridotta, ma il valore medio è risultato al di sopra del cut-off associato ad outcome negativi nel paziente in emodialisi cronica [11].

Dall’analisi dei dati è emerso che il gruppo di pazienti con ipotensione intradialitica presentava un indice di collassabilità della VCI significativamente aumentato rispetto ai pazienti che non andavano incontro a ipotensione.

Per quanto riguarda lo studio dei diametri della VCI, solo il diametro minimo della vena cava inferiore è risultato significativamente diverso tra i pazienti con e senza episodi ipotensivi: in particolare è risultato minore nei soggetti con ipotensioni intradialitiche.

La VCI è un vaso compliante che cambia dimensione e forma in rapporto ai cambiamenti della pressione venosa centrale e del volume intravascolare.

Diversi studi clinici hanno dimostrato che l’accuratezza diagnostica dello studio ecografico della VCI è alta. In particolare, sono riportate correlazioni positive tra diametro della VCI e volume intravascolare e correlazioni negative tra IC-VCI e volume intravascolare [12].

La tolleranza al trattamento dialitico dei pazienti in dialisi cronica dipende dalle variazioni di volume indotte dal trattamento dialitico (calo ponderale impostato). In caso di eccessiva riduzione del volume circolante il paziente manifesta ipotensione. Il risultato del nostro studio, quindi, è in accordo con i dati noti della relazione VCI/volume intravascolare in quanto i pazienti che hanno presentato ipotensione avevano rispettivamente variazioni di questi parametri in linea con quanto descritto dalla letteratura.

La valutazione dello stato di idratazione mediante ecografia polmonare (B-linesscore) non ha mostrato differenze significative fra i due gruppi (21, DS 16,99 vs 16, DS 16,56). La presenza di versamento pleurico è risultata maggiormente rappresentata nel gruppo di pazienti con ipotensione.

A conferma di ciò, anche nelle analisi multivariate, sia l’indice di collassabilità che il diametro minimo della vena cava inferiore mantengono significatività anche al netto del B-linesscore.

Infine, da un’altra regressione logistica multipla effettuata è emerso che la significatività del IC-VCI quale fattore di rischio per ipotensione si manteneva tale anche inserendo nel modello la frazione d’eiezione. È ipotizzabile, pertanto, che tale parametro possa essere utile anche in pazienti con funzionalità cardiaca ridotta.

L’indice di collassabilità non è risultato essere un predittore dell’ultrafiltrazione massima raggiunta. Tale risultato potrebbe essere spiegato dalla eterogeneità dell’ultrafiltrazione prescritta e dal campione ridotto.

I risultati di questo studio permettono dunque di ipotizzare che IC della VCI e VCI min possano essere considerati predittori di rischio di ipotensione intradialitica in pazienti in emodialisi cronica anche tenendo conto dello stato di idratazione del paziente e quindi al netto di eventuali ipotensioni intradialitiche iatrogene dovute a un’errata prescrizione del peso secco.

Lo studio di Brennan et al. su pazienti in emodialisi cronica non aveva dimostrato una correlazione chiara fra IC-VCI e rischio di ipotensione intradialitica; tuttavia, in tale lavoro non veniva effettuata una valutazione accurata dello stato di idratazione. Lo studio mostrava infatti che i pazienti con minore IC-VCIinferiore andavano incontro a maggior rischio di ipotensione intradialitica. Gli autori commentavano tale risultato come dovuto a un possibile maggiore tasso di ultrafiltrazione in questi pazienti poiché giudicati “ipervolemici” [5]. Nel nostro studio i parametri inerenti alla VCI non erano utilizzati quale marcatore di stato di idratazione, bensì come possibili predittori di rischio di ipotensione intradialitica mentre la valutazione dello stato di idratazione veniva effettuato mediante ecografia polmonare e valutazione clinica e comunque senza influenzare la prescrizione della seduta.

Da Hora Passos et al. hanno dimostrato il valore della IC-VCI quale predittore di eventi avversi intradialitici analogamente a quanto riportato nel nostro lavoro, prendendo in esame una popolazione eterogenea di pazienti con AKI sottoposti a CRRT in terapia intensiva [13].

I limiti del nostro studio sono la natura osservazionale e la numerosità ridotta della popolazione.

 

Conclusioni

Nella nostra popolazione di pazienti in emodialisi cronica clinicamente stabili l’indice di collassabilità della vena cava inferiore e il diametro minimo della vena cava inferiore sono risultati predittori di tolleranza all’ultrafiltrazione anche tenendo conto dello stato di idratazione determinato mediante valutazione clinica ed ecografia polmonare.

Lo studio della VCI è un esame rapido e non invasivo che potrebbe essere utilizzato per ottenere una stima indiretta della tolleranza emodinamica al fine delle relative decisioni terapeutiche.

Ulteriori studi condotti su una popolazione più ampia potrebbero confermare i risultati del nostro studio.

 

Bibliografia

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  3. Adrian Covic, Dimitrie Siriopol, Luminita Voroneanu. Use of Lung Ultrasound for the Assessment of Volume Status in CKD. Am J Kidney Dis, 2017. 71(3):412-422. https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2017.10.009.
  4. R. Di Iorio, E. Cucciniello, V. Bellizzi. La bioimpedenza nella clinica del paziente uremico. GIN, 2005. 5:437-445. http://www.nephromeet.com/web/eventi/GIN/dl/storico/2005/gin_5_2005/437-Di%20Iorio-445.pdf.
  5. Brennan JM, Ronan A, Goonewardena S, Blair JE, Hammes M, Shah D, Vasaiwala S, Kirkpatrick JN, Spencer KT. Handcarried ultrasound measurement of the inferior vena cava for assessment of intravascular volume status in the outpatient hemodialysis clinic. Clin J Am Soc Nephrol, 2006. 1(4):749-53. https://doi.org/10.2215/CJN.00310106.
  6. Matthew J Kaptein, John S Kaptein, Zayar Oo, Elaine M Kaptein. Relationship of inferior vena cava collapsibility to ultrafiltration volume achieved in critically ill hemodialysis patients. International Journal of Nephrology and Renovascular Disease, 2020. 23;11:195-209. https://doi.org/10.2147/IJNRD.S165744.
  7. Hiroshi Sekiguchi, Luke A. Seaburg, Jun Suzuki, Walter J. Astorne, Anil S. Patel, A. Scott Keller, Ognjen Gajic, Kianoush B. Kashani. Central venous pressure and ultrasonographic measurement correlation and their associations with intradialytic adverse events in hospitalized patients: A prospective observational study. Journal of Critical Care, 2017. 44:168-174. https://doi.org/10.1016/j.jcrc.2017.10.039.
  8. Loïc Chimot, Arnaud Gacouin, Nicolas Nardi, Antoine Gros, Sophie Mascle, Sophie Marqué, Christophe Camus, Yves Le Tulzo. Can We Predict Poor Hemodynamic Tolerance of Intermittent Hemodialysis With Echocardiography in Intensive Care Patients? J Ultrasound Med, 2014. 33(12):2145-50.  https://doi.org/10.7863/ultra.33.12.2145.
  9. Loutradis C, Sarafidis PA, Ekart R, Papadopoulos C, Sachpekidis V, Alexandrou ME, Papadopoulou D, Efstratiadis G, Papagianni A, London G, Zoccali C. The effect of dry-weight reduction guided by lung ultrasound on ambulatory blood pressure in hemodialysis patients: a randomized controlled trial. Kidney Int, 2019. 95(6):1505-1513. https://doi.org/10.1016/j.kint.2019.02.018.
  10. Mallamaci F, Benedetto FA, Tripepi R, Rastelli S, Castellino P, Tripepi G, Picano E, Zoccali C. Detection of pulmonary congestion by chest ultrasound in dialysis patients. JACC Cardiovasc Imaging, 2010. 94(6):e473. https://doi.org/10.1016/j.jcmg.2010.02.005. 
  11. Owen WF Jr, Lew NL, Liu Y, Lowrie EG, Lazarus JM. The urea reduction ratio and serum albumin concentration as predictors of mortality in patients undergoing hemodialysis. N Engl J Med., 1993. https://doi.org/10.1056/NEJM199309303291404.
  12. Ciozda, W., Kedan, I., Kehl, D.W. et al. The efficacy of sonographic measurement of inferior vena cava diameter as an estimate of central venous pressure. Cardiovasc Ultrasound, 2015. https://doi.org/10.1186/s12947-016-0076-1. https://doi.org/1186/s12947-016-0076-1.
  13. da Hora Passos R, Caldas J, Ramos JGR, Dos Santos Galvão de Melo EB, Ribeiro MPD, Alves MFC, Batista PBP, Messeder OHC, de Carvalho de Farias AM, Macedo E, Rouby JJ. Ultrasound-based clinical profiles for predicting the risk of intradialytic hypotension in critically ill patients on intermittent dialysis: a prospective observational study. Crit Care, 2019. 23 (389). https://doi.org/10.1186/s13054-019-2668-2.

Calcifediolo a rilascio prolungato e paracalcitolo nel trattamento dell’iperparatiroidismo secondario: una network metanalisi di comparazione indiretta

Abstract

Introduzione: L’iperparatiroidismo secondario (IPS) è una complicanza comune e importante della malattia renale cronica (MRC) tra i pazienti sia in fase conservativa che in dialisi. Il paracalcitolo (PCT), altri analoghi attivi della vitamina D e la vitamina D attiva (calcitriolo) sono comunemente utilizzati per il trattamento dell’IPS nella MRC stadio G3, G4 e G5-non dialitica (ND). Tuttavia, studi recenti indicano che queste terapie aumentano in modo significativo i livelli sierici di calcio, fosforo e fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF-23). Il calcifediolo a rilascio prolungato (ERC) è stato sviluppato come trattamento alternativo per l’IPS in MRC. La presente meta-analisi confronta l’effetto dell’ERC rispetto al PCT sui valori di paratormone (PTH) e di calcemia in studi randomizzati controllati.
Metodi: È stata condotta una revisione sistematica della letteratura, secondo le linee guida PRISMA (Preferred Reporting Items for Systematic review and Meta-Analyses) per identificare gli studi da includere nella Network Meta-Analysis (NMA).
Risultati: 18 pubblicazioni rispettavano i criteri d’inclusione nella NMA e 9 articoli sono stati inclusi nella NMA finale. La riduzione del PTH con PCT (-59,5 pg/ml) era maggiore della riduzione con ERC (-45,3 pg/ml), ma la differenza negli effetti del trattamento non ha mostrato significatività statistica. Il trattamento con PCT ha aumentato significativamente il calcio sierico rispetto al placebo (0,31 mg/dl), mentre l’aumento del calcio derivante dal trattamento con l’ERC (0,10 mg/dl) non ha mostrato significatività.
Conclusioni: L’evidenza suggerisce che sia il PCT che l’ERC sono efficaci nel ridurre il PTH, mentre i livelli di calcio tendono ad aumentare significativamente solo con il trattamento con PCT. Pertanto, l’ERC può essere un’alternativa terapeutica altrettanto efficace, ma più tollerabile rispetto al PCT.

Parole chiave: iperparatiroidismo secondario, PTH, calcio, vitamina D

Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (IPS) è una complicanza grave e comune della malattia renale cronica (MRC) tra i pazienti sia in fase conservativa che in dialisi. L’IPS è caratterizzato da alterazioni di parametri metabolici, fra i quali livelli sierici di fosforo (P), calcio (Ca), fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF-23), e insufficienza/carenza di vitamina D. La diminuzione della capacità dei reni di convertire la vitamina D [25(OH)D] nel suo metabolita attivo [1,25(OH)2D] determina una secrezione eccessiva di paratormone (PTH). Valori elevati di PTH, se non controllati, possono causare malattia ossea e calcificazione extra-scheletrica con aumento del rischio di insorgenza di malattie cardiovascolari legate all’incremento delle calcificazioni vascolari stesse. Inoltre l’IPS prolungato può evolvere nella sua forma terziaria, resistente alla terapia con vitamina D e calciomimetici, con la necessità di ricorrere alla paratiroidectomia nei casi più severi o in previsione del trapianto renale [1]. Pertanto, è essenziale controllare contemporaneamente vari biomarcatori, fra cui PTH, Ca e P, per poter attuare un trattamento efficace dei problemi correlati all’IPS in corso di MRC [2].

Gli attivatori del recettore della vitamina D (Vitamin D Receptor Activators: VDRA), come il calcitriolo, il paracalcitolo (PCT), il doxercalciferolo e l’alfacalcidolo, rappresentano da diversi anni il trattamento prevalente nei pazienti affetti da IPS in corso di MRC stadio G3-G5. Tuttavia, recenti studi indicano che i VDRA possono aumentare i livelli sierici di Ca e FGF-23 [3, 4]. Le più recenti linee guida Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) [2] hanno evidenziato l’accertato aumento del rischio di ipercalcemia nei pazienti in trattamento con PCT nei trial randomizzati controllati PRIMO e OPERA [3, 4], suggerendo di modificare le raccomandazioni terapeutiche per i pazienti con MRC in fase conservativa (ND-MRC). Nelle linee guida aggiornate non è infatti più raccomandato l’impiego routinario di PCT, calcitriolo e degli altri VDRA nella MRC negli stadi 3-5; questi agenti dovrebbero essere usati, invece, unicamente per l’IPS grave e progressivo nella MRC allo stadio 4-5 [2].

Recentemente, è stato sviluppato un calcifediolo a rilascio prolungato (Extended Release Calcifediol, ERC) come trattamento alternativo per la terapia dell’IPS e per la riduzione dei livelli di PTH in corso di ND-MRC [5]. La formulazione dell’ERC, oltre alla sua natura di vitamina D nutrizionale, ne contraddistingue le proprietà farmacocinetiche e l’azione terapeutica rispetto al PCT.

L’ERC è disponibile sotto forma di capsule a rilascio prolungato per uso orale, contenenti 30 μg di calcifediolo. Le capsule sono progettate per essere deglutite intere. Il rilascio prolungato del farmaco è garantito dall’involucro “ceroso” e lipofilo della capsula [6], tale da offrire il progressivo rilascio del principio attivo nell’arco di circa 12 ore [7], seguito dall’incremento dei livelli di 25(OH)D con steady state a 3 mesi [8]. Il materiale di riempimento della capsula è solido al di sotto dei 25°C. L’inizio di un’alta viscosità decrescente a partire da 35°C è il risultato di una transizione dallo stato ceroso solido a quello semisolido nell’intervallo di 35-50°C. Lo stato semisolido alla temperatura corporea di 37°C consente l’erosione e, poiché non ancora liquido, fornisce le condizioni affinché l’erosione costante rilasci il principio attivo.

Il PCT, o 19-nor-diidrossiergocalciferolo, è un analogo sintetico del 1,25-diidrossiergocalciferolo privo del gruppo metilene C-19 esociclico. Il PCT è disponibile in commercio in formulazione in fiale da 5 mcg (per l’utilizzo in dialisi) e in compresse da 1 mcg e 2 mcg (per l’utilizzo in MRC stadi 3-5D) [9]. Il PCT è altamente legato alle proteine plasmatiche (> 99,9%) e presenta un’escrezione principalmente per via epatobiliare, con una minima eliminazione per via renale (< 16%) e fecale (2%) [1013] e una biodisponibilità stimata intorno all’80% [14]. L’assorbimento intestinale non è alterato dalla contemporanea assunzione di cibo. La massima concentrazione di PCT viene raggiunta dopo 3 h dall’assunzione orale [10], con un tempo di eliminazione medio nei soggetti e sani e nei pazienti in dialisi pari a 5-7 e 13-30 ore rispettivamente [12]. Il PCT è metabolizzato in 3 cataboliti inattivi [24(R)-hydroxyparicalcitolo, 24,26, 24,28-dihyroxyparicalcitolo e glucuronidi] dal citocromo mitocondriale CYP24 e dagli enzimi epatici CYP3A4 e UGTIA4 [10].

L’obiettivo di questo studio di comparazione indiretta è confrontare l’efficacia di PCT e ERC rispetto al placebo nel controllo dei biomarcatori PTH e Ca in pazienti con ND-MRC.

 

Metodi

Strategia di ricerca e selezione degli studi

È stata effettuata una revisione sistematica della letteratura secondo le linee guida per il reporting di revisioni sistematiche e meta-analisi (Preferred Reporting Items for Systematic reviews and Meta-Analyses, PRISMA) [15] per individuare gli studi da inserire in questa analisi (Network Meta-Analysis, NMA). La metanalisi “a rete” o Network Meta-Analysis offre l’importante vantaggio di incorporare in un’unica analisi tutte le evidenze disponibili, consentendo quindi di gestire al meglio queste situazioni di confronto multiplo, divenute sempre più frequenti, anche in assenza di confronti diretti che renderebbero invece possibile il confronto tramite metanalisi classica.

Il database PubMed è stato consultato adottando una strategia di ricerca predefinita per MRC e esiti e opzioni terapeutiche nell’IPS. Non sono state imposte restrizioni in merito alla data di pubblicazione. Pubblicazioni non in lingua inglese nonché review, commentari o metanalisi sono stati escluse dalla ricerca. Sono stati consultati i riferimenti bibliografici di tutti gli studi conformi ai criteri di inclusione per rintracciare ulteriori pubblicazioni che non erano state individuate nella strategia di ricerca. Sono state ottenute le pubblicazioni integrali per i documenti conformi ai criteri di inclusione, così come nel caso in cui non fosse certo che i criteri di inclusione fossero soddisfatti. Due revisori hanno valutato indipendentemente l’elenco completo dei risultati emersi dalla ricerca per stabilirne l’eleggibilità.

Per poter essere incluso nella revisione della letteratura, l’articolo doveva includere una sperimentazione randomizzata e controllata, comprendente più di 20 pazienti adulti (18 anni+) con ND-MRC documentata. Almeno un gruppo di pazienti negli studi doveva aver ricevuto un trattamento con un agente terapeutico rilevante nel trattamento dell’IPS e i restanti gruppi dovevano aver ricevuto il trattamento con placebo, nessun trattamento o un trattamento con un altro agente terapeutico rilevante. Pertanto, sono state escluse le pubblicazioni che avevano confrontato differenti regimi posologici dello stesso farmaco. Se due o più pubblicazioni riportavano risultati ricavati dalla stessa sperimentazione e l’informazione dei risultati coincideva, è stata inclusa solo una delle pubblicazioni (senza alcuna perdita di dati).

Nella strategia di ricerca per la revisione della letteratura, sono state incluse tutte le opzioni terapeutiche rilevanti per il controllo dei biomarcatori correlati all’IPS (vitamina D alimentare, calcitriolo, VDRA selettivi e calciomimetici). Tuttavia, soltanto la documentazione raccolta in relazione a PCT ed ERC è stata ritenuta sufficientemente comparabile (in merito, ad esempio, ai disegni degli studi e ai regimi posologici) per poterla utilizzare in uno schema di network metanalisi.

Estrazione dei dati e valutazione della qualità

È stato creato e testato un modello standardizzato di estrazione dei dati usando un campione casuale delle pubblicazioni incluse. Due revisori hanno estratto indipendentemente tutti i dati utilizzando il modello dei dati prestabilito. Una volta estratti i dati, i due revisori hanno corretto eventuali differenze tramite il riesame congiunto della fonte. Eventuali discordanze non risolte, sono state giudicate da un revisore terzo.

Quando disponibili per l’estrazione, i parametri principali riportati erano le differenze medie o mediane (Mean or Median Difference, MD) dei valori assoluti dei biomarcatori PTH e Ca, rilevati dal basale fino alla fine dello studio, per tutti i gruppi di pazienti reclutati negli studi inclusi. L’effetto sul P, sebbene da una revisione della letteratura pubblicata non risulti altamente influenzato dalle molecole in esame, è stato valutato nell’analisi secondaria. È stata effettuata una revisione sistematica della letteratura per creare una raccolta completa delle sperimentazioni controllate randomizzate in cui sono stati valutati PCT ed ERC. Per studiare l’efficacia comparativa, i risultati di livello degli studi individuati nella revisione sistematica della letteratura sono stati sintetizzati usando metodi di network metanalisi.

Le MD e la deviazione standard delle MD, quando riportate, sono state estratte direttamente dagli studi. Quando erano indicati solo i valori dei biomarcatori registrati al basale e alla fine dello studio, la MD è stata calcolata sottraendo i valori al basale da quelli rilevati al termine del periodo di studio. In questi casi, la deviazione standard della MD è stata calcolata usando la formula riportata nel Cochrane Handbook for Systematic Reviews of Interventions, con il coefficiente di correlazione impostato sul valore conservativo 0,4 [16]. Se un valore di un biomarcatore era indicato con uno scarto interquartile (Interquartile Range, IQR) associato, la deviazione standard del valore è stata calcolata per approssimazione, dividendo l’intervallo dell’IQR per 1,35 [17]. Il numero dei pazienti in ciascun braccio della sperimentazione è stato valutato per calcolare gli errori standard in base alle deviazioni standard. Se una MD era indicata con un intervallo di confidenza, l’errore standard è stato calcolato in base all’intervallo di confidenza. I valori estratti per PTH sono stati convertiti nell’unità comune di picogrammi per millilitro (pg/ml) mentre i valori per il Ca sono stati convertiti in milligrammi per decilitro (mg/dl). I risultati illustrati graficamente non sono stati estratti. Quindi, per poter essere inclusi nelle analisi, i risultati relativi ai biomarcatori dovevano essere riportati numericamente.

Analisi statistica

L’associazione tra il trattamento e gli esiti su PTH, Ca e P è stata stimata usando le MD in tutte le analisi. È stata utilizzata una network metanalisi ad effetti random, con approccio frequentistico per sintetizzare le evidenze emerse da confronti indiretti in un singolo approccio analitico [18, 19]. Nella conduzione di una network metanalisi viene assunta la transitività, cioè si possono confrontare i trattamenti A e B usando l’evidenza indiretta se entrambi i trattamenti sono stati testati rispetto al trattamento C. Se dai confronti diretti e indiretti risulta un’evidenza, la validità dell’assunzione di transitività può essere testata valutando la consistenza dell’evidenza diretta e indiretta. Non essendo disponibili confronti diretti tra PCT ed ERC, i dati raccolti per questo studio non consentono di effettuate tali test di consistenza. Sono state utilizzate invece procedure meta-analitiche regolari per valutare l’eterogeneità dei risultati di livello degli studi usando la statistica comune.

Sono poi stati creati forest plot a partire da un modello di effetti casuali per valutare l’eterogeneità tra gli studi tramite la statistica. Sono stati utilizzati funnel plot per valutare il bias di pubblicazione e gli effetti di piccoli studi.

 

Risultati

Selezione degli studi

La strategia di ricerca ha prodotto, alla data del 31 maggio 2022, un totale di 1175 risultati. 88 studi erano eleggibili per l’inclusione nella revisione sistematica della letteratura (ossia, includevano tutte le potenziali opzioni terapeutiche per l’IPS nell’ND-MRC) e 56 studi, che avevano confrontato l’utilizzo del PCT o dell’ERC rispetto al placebo, erano eleggibili per l’inclusione nella network metanalisi. 10 studi sono stati esclusi dalle network metanalisi: 3 studi sono stati esclusi per aver un disegno di studio cross-over [2022], 1 pubblicazione è stata esclusa per non avere riportato i risultati per PTH e Ca, [23] mentre 6 pubblicazioni sono state escluse perché tutti i risultati rilevanti ricavati dalla corrispondente sperimentazione erano già riportati in altri articoli già inclusi nelle precedenti analisi [24]. Quindi le restanti 9 pubblicazioni sono state incluse nella network metanalisi. La Figura 1 mostra il diagramma PRISMA per la procedura di ricerca.

Caratteristiche degli studi e dei pazienti

La Tabella 1 riporta le informazioni sulle caratteristiche dei pazienti delle 9 pubblicazioni incluse nell’NMA. In totale 1443 pazienti sono stati randomizzati nelle 9 pubblicazioni incluse; 507 nelle pubblicazioni che hanno valutato l’ERC e 936 nelle pubblicazioni che hanno preso in esame il PCT. I livelli di PTH rilevati al basale erano più alti rispetto alla norma in tutte le pubblicazioni (media su tutti gli studi: 126,8 pg/ml).

Il peso stimato della numerosità dei pazienti negli studi è stato riportato come variazione media non aggiustata in quasi tutte le pubblicazioni e per tutti gli esiti, a eccezione di Wang [4] che ha indicato variazioni mediane di PTH e Thadhani [3] che, per tutti gli esiti, ha riportato variazioni medie dei minimi quadrati aggiustate tramite un modello comprendente trattamento, visita, interazione trattamento per visita, Paese e valore basale del biomarcatore. Una pubblicazione [25] non conteneva report numerici per il PTH, mentre un’altra pubblicazione [26] non riportava i risultati per il Ca. Unicamente 8 del totale delle pubblicazioni sono state utilizzate nelle analisi di ciascun esito.

Figura 1: Selezione degli studi.
Figura 1: Selezione degli studi.

Quattro pubblicazioni incluse (1 che ha valutato l’ERC e 3 che hanno esaminato il PCT) hanno riportato risultati ricavati da sperimentazioni a tre bracci, in cui ai pazienti in due bracci sono state somministrate differenti dosi del principio attivo (1 o 2 µg/giorno di PCT oppure 30 o 60 µg/giorno di ERC) [5, 2628]. Le 5 restanti pubblicazioni (4 che hanno valutato il PCT [3, 4, 25, 29] e 1 che ha esaminato l’ERC [8]) hanno riportato risultati ricavati da sperimentazioni a due bracci in cui era consentito titolare il dosaggio dell’agente terapeutico nel corso del periodo di studio. Lo studio di Sprague del 2014 [5] ha incluso due coorti di pazienti (studi a e b). Nello studio a 51 pazienti sono stati randomizzati in tre bracci di trattamento (placebo, ERC 60 µg/die, ERC 90 µg/die). Nello studio b 27 pazienti sono stati randomizzati in due bracci di trattamento (placebo, ERC 30 µg/die). Il lavoro originale ha riportato i dati relativi agli studi a e b relativi al gruppo placebo, mentre ha fornito i dati aggregati nei gruppi randomizzati a ERC (Tabella 1). La presente meta-analisi non ha incluso il gruppo di trattamento con ERC 90 µg/die, considerata la sua mancata applicazione nella pratica clinica. Lo studio di Sprague del 2016 [8] ha incluso due identici studi multicentrici (studio A e studio B). Nello studio A e nello studio B sono stati randomizzati 213 e 216 pazienti rispettivamente al placebo e all’ERC 30 µg/die (Tabella 1). In entrambi gli studi, a partire dalla 13° settimana di trattamento, la dose di ERC poteva essere titolata a 60 µg/die in base ai valori di PTH, 25(OH)D e Ca.


Autore (anno)
Bracci dello studio Dose Numero di pazienti Età % di donne eGFR basale (ml/min/1,73^2) PTH basale (pg/ml) Calcio basale (mg/dl) FGF-23 basale

(pg/ml)

Sprague (2014) [5] Calcifediolo ER 30 µg/giorno 13 58,2 53,8 36,7 156,3 9,3 37,5
Calcifediolo ER 60 µg/giorno 17 64,7 41,2 42,6 118,5 9,3 23,8
Placebo (studio a) NA 17 61,9 76,5 36,9 160,6 9,4 22,2
Placebo (studio b) NA 14 63,9 50,0 40,9 127,6 9,4 20,6
Placebo

(tot)

NA 31 62,8 64,5 38,7 145,7 9,4 21,5
Sprague (2016) [8] Calcifediolo ER

(studio A)

30 µg/giorno per le settimane 0-12 con possibile titolazione a 60 µg/giorno nelle settimane 13-26 in base ai livelli di PTH, 25(OH)D e calcio 141 65,1 50,4 30,3 146,8 9,2
Calcifediolo ER

(studio B)

30 µg/giorno per le settimane 0-12 con possibile titolazione a 60 µg/giorno nelle settimane 13-26 in base ai livelli di PTH, 25(OH)D e calcio 144 66,8 49,3 30,9 148,9 9,3
Calcifediolo ER 30 µg/giorno per le settimane 0-12 con possibile titolazione a 60 µg/giorno nelle settimane 13-26 in base ai livelli di PTH, 25(OH)D e calcio 285 66,0 49,8 30,6 147,2 9,2 41,3
Placebo

(studio A)

NA 72 64,4 45,8 32,3 142,2 9,2
Placebo

(studio B)

NA 72 65,3 54,2 31,8 155,6 9,3
Placebo NA 144 64,9 50,0 32,0 148,9 9,2 38,3
Riquadro riassuntivo A: 507 (somma) 63,7 (media) 52,0 (media) 36,3 (media) 144,0 (media) 9,3 (media)  
Alborzi (2008) [26] Paracalcitolo 1 µg/giorno 8 72,6 25,0 47,5 66,8 9,5
Paracalcitolo 2 µg/giorno 8 67,5 25,0 47,4 76,0 9,5
Placebo NA 8 68,4 0,0 44,0 124,9 9,3
Coyne (2006) [25] Paracalcitolo Dose iniziale 1 µg/giorno o 2 µg tre volte alla settimana se PTH <500 pg/ml oppure 2 µg/giorno o 4 µg tre volte alla settimana se PTH ≥500 pg/ml, con successiva titolazione della dose in base ai livelli di PTH, calcio (dose giornaliera media pari a 1,36 µg/giorno) 107 63,6 32,0 23,1 265,0 9,3
Placebo NA 113 61,8 33,0 23,0 280,0 9,4
Coyne (2013) [27] Paracalcitolo 1 µg/giorno 93 64,0 29,0 40,0 97,0 9,3
Paracalcitolo 2 µg/giorno 95 65,0 27,0 42,0 91,0 9,4
Placebo NA 93 65,0 35,0 39,0 105,0 9,3
Lundwall (2015) [28] Paracalcitolo 1 µg/giorno 12 66,1 8,0 38,9 68,8 9,1
Paracalcitolo 2 µg/giorno 12 70,8 33,0 42,1 66,0 9,1
Placebo NA 12 59,1 25,0 41,6 87,7 9,1
Thadhani (2012) [3] Paracalcitolo Dose iniziale 2 µg/giorno con possibile titolazione verso il basso a 1 µg/giorno in base ai livelli di calcio 115 64,0 31,3 36,0 100,0 9,6
Placebo NA 112 66,0 29,5 31,0 106,0 9,6
Wang (2014) [4] Paracalcitolo Dose iniziale 1 µg/giorno se PTH <500 pg/ml o 2 µg/giorno se PTH ≥500 pg/ml, con successiva titolazione della dose in base ai livelli di calcio 30 60,8 34,0 23,9 156,0 9,3
Placebo NA 30 62,2 53,0 19,7 158,0 9,4
Zoccali (2014) [29] Paracalcitolo Dose iniziale 2 µg/giorno con possibile titolazione verso il basso a 1 µg a giorni alterni in base ai livelli di PTH e calcio 44 60,8 41,0 34,0 102,0 9,0 64,7
Placebo NA 44 62,0 30,0 29,0 102,0 8,9 78,0
Riquadro riassuntivo B:     936 (somma) 64,7 (media) 28,9 (media) 35,4 (media) 120,7 (media) 9,3 (media)  
Riassunto di tutti gli studi:     1443 (somma) 64,4 (media) 34,9 (media) 35,7 (media) 126,8 (media) 9,3 (media)  
Tabella 1: Caratteristiche dei pazienti delle pubblicazioni incluse.

Qualità dell’evidenza

Il rischio valutato di bias delle pubblicazioni incluse era generalmente molto basso o basso, a eccezione delle due pubblicazioni di [26] e [28], ritenute rispettivamente a rischio di bias moderato ed alto. È stato riportato che tutti gli studi erano randomizzati e in doppio cieco. Nessuna sperimentazione è stata interrotta prematuramente. La procedura di randomizzazione era descritta più dettagliatamente in quattro pubblicazioni [4, 2527], mentre il metodo in cieco era definito più specificatamente in due pubblicazioni [25, 29]. La procedura di randomizzazione per lo studio condotto da Coyne (2013) [27] è descritta in de Zeeuw (2010) [24], che illustra in modo più approfondito il disegno dello studio della corrispondente sperimentazione. Il numero di abbandoni è risultato basso nelle pubblicazioni incluse e soltanto in due studi meno dell’80% dei partecipanti ha portato a termine le sperimentazioni [3, 27].

Benché sia stata riportata la sponsorizzazione da parte dell’industria farmaceutica in tutte le pubblicazioni, non sono state riscontrate asimmetrie o effetti di piccoli studi indicativi di bias di pubblicazione nei funnel plot per nessuno degli esiti. Il campione dei pazienti nelle pubblicazioni era generalmente di dimensioni da basse a moderate e il numero di pubblicazioni utilizzate nelle analisi era moderato (8 pubblicazioni, incluse nell’analisi). Nel complesso non sono stati riscontrati limiti abbastanza gravi da richiedere il declassamento delle evidenze nei domini GRADE per rischio di bias, imprecisione o bias di pubblicazione. Dunque, in generale, non è stato rilevato alcun bias di pubblicazione dalla comparazione indiretta utilizzando i 9 articoli indicati.

I forest plot delle dimensioni degli effetti di livello degli studi hanno indicato una probabile presenza di sostanziale eterogeneità (con statistiche comprese nell’intervallo dal 47,1% al 78,4%). Inoltre, la mancanza di qualsiasi confronto diretto tra PCT e ERC non ha consentito di valutare la consistenza della rete. Per tutti gli esiti, l’evidenza è stata quindi declassata da alta a bassa qualità, dati questi limiti nei domini GRADE di inconsistenza e indirectness.

 

Esiti del trattamento

Effetto sul PTH

La Figura 2 presenta il grafico di intervalli degli effetti di ERC e PCT sui livelli di PTH. Rispetto al placebo, il trattamento sia con PCT sia con ERC ha determinato diminuzioni statisticamente significative dei livelli di PTH. Il PCT ha ridotto i valori di PTH di 56,8 pg/ml (IC al 95%: da -77,9 a -35,67 pg/ml) e l’ERC ha ridotto i valori di PTH di 46,3 pg/ml (IC al 95%: da -75,1 a -17,5 pg/ml). La differenza delle MD non ha evidenziato alcuna differenza statistica nelle riduzioni dei livelli di PTH prodotte da PCT rispetto a ERC (differenza delle MD di 10,5 pg/ml, IC al 95%: da -25,3 a 46,3 pg/ml).

Effetti stimati su PTH (pg/ml) prodotti dal trattamento con PCT ed ERC
Figura 2: Effetti stimati su PTH (pg/ml) prodotti dal trattamento con PCT ed ERC, confrontati con il placebo o confrontati direttamente usando l’evidenza indiretta (ultima riga).

La Figura 3 mostra l’eterogeneità degli effetti sul PTH nei singoli studi condotti con ERC e con PCT.

Figura 3: Risultati della meta-analisi degli effetti sul PTH per studiare l’eterogeneità degli effetti.
Figura 3: Risultati della meta-analisi degli effetti sul PTH per studiare l’eterogeneità degli effetti.

Effetto sul calcio

La Figura 4 presenta il grafico di intervalli degli effetti di ERC e PCT sui livelli di Ca. Il trattamento con PCT ha aumentato significativamente i livelli di Ca rispetto al placebo (MD: 0,30 mg/dl, IC al 95%: da 0,21 a 0,40 mg/dl). L’effetto stimato del trattamento con ERC (MD: 0,10 mg/dl) non è risultato statisticamente significativo, benché di un margine piuttosto esiguo (IC al 95%: da -0,03 a 0,23 mg/dl). Stando alla differenza stimata delle MD, rispetto all’ERC, il PCT ha aumentato significativamente i livelli di Ca di 0,2 mg/dl (IC al 95%: da -0,37 a -0,04 mg/dl).

Figura 4: Effetti stimati sul Ca (mg/dl) prodotti dal trattamento con paracalcitolo (PCT) e ERC
Figura 4: Effetti stimati sul Ca (mg/dl) prodotti dal trattamento con paracalcitolo (PCT) e ERC, rispetto al placebo (prime due righe) e confrontati direttamente usando l’evidenza indiretta (ultima riga).

La Figura 5 mostra l’eterogeneità degli effetti sul Ca nei singoli studi condotti con ERC e con PCT.

Figura 5: Risultati della meta-analisi degli effetti sul Ca per studiare l’eterogeneità degli effetti.
Figura 5: Risultati della meta-analisi degli effetti sul Ca per studiare l’eterogeneità degli effetti.

Effetti sul fosforo

L’analisi secondaria ha mostrato un incremento della fosforemia statisticamente significativo, sebbene di minima rilevanza clinica, in corso di trattamento con PCT (MD 0,15 mg/dl, IC al 95%: da 0,05 a 0,25 mg/dl) (Figura 6). Al contrario, il trattamento con ERC non è risultato associato ad un incremento della fosforemia statisticamente significativo (MD 0,11 mg/dl, IC al 95%: da -0,04 a 0,26 mg/dl). L’impatto delle due molecole sui livelli di fosforemia non ha mostrato differenze statisticamente significative (MD – 0,04 mg/dl, IC al 95%: da -0,22 a 0,15 mg/dl).

Effetti stimati sul P (mg/dl) prodotti dal trattamento con PCT e ERC
Figura 6: Effetti stimati sul P (mg/dl) prodotti dal trattamento con PCT e ERC, rispetto al placebo (prime due righe) e confrontati direttamente usando l’evidenza indiretta (ultima riga).

 

Discussione

In questa network metanalisi abbiamo riscontrato riduzioni simili e non inferiori di PTH prodotte dal trattamento con ERC rispetto alla terapia con PCT, mentre il trattamento con PCT ha aumentato i livelli di Ca rispetto alla terapia con ERC. Pertanto, le riduzioni di PTH ottenute tramite il trattamento con PCT sono associate a un rischio di aumenti concomitanti dei livelli di calcemia. In una precedente metanalisi di articoli riguardanti pazienti con ND-MRC, Han et al. [30] hanno riscontrato aumenti simili dei valori di Ca e un rischio elevato di ipercalcemia in associazione al trattamento con PCT, che hanno indotto gli autori a consigliare di impiegare con cautela il PCT nella ND-MRC. La presente metanalisi ha altresì evidenziato un incremento della fosforemia statisticamente significativo, sebbene di minima rilevanza clinica, in corso di trattamento con PCT, dato non riscontrato con l’ERC. Tuttavia, l’andamento della fosforemia non è risultato significativamente diverso tra PCT ed ERC.

Non è stato possibile condurre una comparazione meta-analitica riguardo agli effetti del PCT e dell’ERC sui livelli di FGF-23 a causa della limitazione dei dati, disponibili solo nei lavori di Sprague S.M. [5, 8] e di Zoccali C. et al [29]. Il lavoro di Sprague S.M. et al del 2014 ha riscontrato un trend di FGF-23 in aumento nel braccio randomizzato a ERC (da 29,4 + 21,85 a 33,4 + 22,8 pg/ml) comparabile con il gruppo placebo (da 21,50 + 12,45 a 26,8 + 27,99 pg/ml, p = NS) [5]. L’effetto dell’ERC sui livelli di FGF-23 comparabile al placebo è stato confermato nel lavoro di Sprague S.M. et al del 2016 (da 41,4 (3,5) a 54,9 (5,2) ng/ml nel gruppo ERC aggregato, e da 38,3 (3,6) a 53,4 (7,1) ng/ ml nel gruppo placebo aggregato, p = NS) [8]. Di nota, i dati in merito all’effetto delle vitamine D nutrizionali sui livelli di FGF-23 sono a oggi contrastanti. Sebbene il trattamento con vitamina D nutrizionale con colecalciferolo ed ergocalciferolo non risulti associato ad una variazione significativa di FGF-23 in corso di MRC non-dialitica [31, 32], una recente metanalisi ha osservato un incremento significativo nei livelli di FGF-23 intatto nella popolazione generale sottoposta a supplementazione con vitamina D3 [33].

Al contrario l’incremento dei livelli di FGF-23 in corso di PCT è piuttosto consistente in letteratura. Nello studio PENNY la somministrazione di PCT è risultata associata ad un aumento significativo dei livelli di FGF-23 (+107 (44-170) pg/ml), dato non osservato nel gruppo placebo (-20 (-24 a + 24) pg/ml, p = 0,001) [29]. Tale effetto del PCT sui livelli di FGF-23 è consistente con quanto osservato in precedenza da deBoer I.H. et al in 22 pazienti con MRC stadio G3-G4, randomizzati a PCT 2 mcg/die vs placebo per 8 settimane (differenza di incremento tra PCT e placebo 73,7 %, IC al 95%: da 39,6 a 116,1 %; p < 0,001) [22] e da Larsen T. et al in 20 pazienti con MRC stadio 3-4 randomizzati a PCT 2 mcg/die vs placebo per 6 settimane (incremento dei livelli di FGF-23 nel gruppo PCT pari al 46%, IC al 95%: da 21% a 71%; p = 0,001) [21].

Il rischio di bias negli studi inclusi è stato giudicato basso, considerando i disegni degli studi di alta qualità e le popolazioni in studio relativamente grandi. I limiti principali del presente studio derivano essenzialmente dal numero ridotto di dati disponibili per l’inclusione nella network metanalisi. I dati relativi all’ERC, limitati a due pubblicazioni, appaiono più omogenei rispetto a quanto osservato nelle 7 pubblicazioni relative al PCT, il che può al momento attenuare la generalizzabilità dei risultati. Gli studi analizzati hanno principalmente incluso pazienti con MRC in stadio G3-G4. Pertanto i risultati richiedono ulteriore validazione nei pazienti con MRC stadio G5 in trattamento conservativo, che possono peraltro presentare forme più severe di IPS. È stato osservato uno sbilanciamento nella prevalenza del genere femminile nei lavori sul PCT (29%) rispetto agli studi sull’ERC (52%). Principalmente la mancanza di sperimentazioni, in cui PCT ed ERC sono stati confrontati direttamente, non consente di valutare la consistenza del network, il che determina il declassamento della qualità dell’evidenza usando l’approccio GRADE. Tuttavia, la comparabilità delle popolazioni studiate contribuisce ad attenuare i problemi posti dalla mancanza di confronti diretti.

Malgrado i limiti derivanti dal numero ristretto di dati, questa network metanalisi presenta una raccolta completa dell’evidenza riguardante l’efficacia di PCT e ERC nel controllo dei biomarcatori PTH e Ca nel trattamento del IPS in corso di MRC. Stando all’evidenza presentata, benché il PCT e l’ERC siano entrambi efficaci nel ridurre i livelli di PTH, i livelli di Ca tendevano ad aumentare in seguito al trattamento con PCT. Quindi, l’ERC può rappresentare un’opzione terapeutica altrettanto efficace, ma con un migliore profilo di sicurezza sul bilancio del Ca rispetto al PCT. Il minore impatto sui livelli di FGF-23 offerto dall’ERC rispetto al PCT, potrebbe offrirne un miglior profilo di sicurezza cardiovascolare; dato da confermare con ulteriori studi ad-hoc.

 

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Il contributo del sostegno psicologico nella gestione dell’ansia nei pazienti nefropatici e dializzati

Abstract

Introduzione: I condizionamenti indotti dalla terapia renale sostitutiva proposta ai pazienti affetti da nefropatia cronica in stadio 5 influiscono sulla loro qualità di vita. Tali situazioni modificano l’ansia di stato, che esprime una sensazione relativa ad uno specifico contesto. Questa si va a sovrapporre all’ansia di tratto, che esprime invece una condizione più duratura della personalità.
Questo studio è mirato a caratterizzare lo stato d’ansia dei pazienti uremici e dimostrare l’utilità di un supporto psicologico sia in presenza che da remoto per ridurre soprattutto l’ansia di stato.
Materiali e metodi: 23 pazienti, seguiti presso la Nefrologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza, e sottoposti ad almeno otto sedute di sostegno psicologico sono stati arruolati per questo studio. La prima e l’ultima seduta sono state effettuate in presenza, le altre sia in presenza che da remoto in base alla preferenza del paziente. Alla prima e all’ottava seduta è stato sottoposto lo State-Trait Anxiety Inventory (STAI), che misura l’ansia di tratto e di stato.
Risultati: I pazienti prima del supporto psicologico presentavano valori elevati sia di ansia di tratto che di stato. Dopo le otto sedute sia l’ansia di tratto che quella di stato si sono significativamente ridotte, sia che le sedute fossero in presenza che da remoto.
Conclusioni: Un percorso di otto sedute di supporto psicologico favorisce nel paziente nefropatico una significativa riduzione dell’ansia di tratto e ancor più dell’ansia di stato, favorendo il raggiungimento di livelli di avanzato adattamento alla nuova situazione clinica e un miglioramento della qualità della vita.

Parole chiave: supporto psicologico, insufficienza renale cronica, ansia di stato, ansia di tratto

Introduzione

La malattia renale cronica rappresenta oggi una delle malattie croniche con il maggior impatto sociale, sia per il crescente numero di pazienti, dato anche dall’allungamento della vita media, sia perché conduce il paziente a intraprendere percorsi che lo accompagnano per tutta la vita, con la scelta condivisa tra clinico e paziente che può ricadere su emodialisi, dialisi peritoneale, trapianto renale o terapia conservativa [1].

L’impatto psicologico della malattia renale cronica e delle terapie sostitutive conseguenti ad essa è ben noto, in quanto sono numerosi i fattori connessi a tali terapie che comportano una riduzione della qualità di vita associata ad un aumento delle quote di ansia e di distress psicologico nei pazienti nefropatici [2, 3].

Come stabilito dall’OMS, la salute deve corrispondere ad “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non alla semplice assenza di malattia”, e in quest’ottica il percorso di miglioramento della qualità della vita ha come obiettivo ottimizzare l’outcome clinico di molte patologie e la compliance alla terapia da parte del paziente [4, 5].

La patologia renale cronica e la qualità di vita

La qualità di vita rientra sicuramente tra i focus principali di trattamento dei pazienti affetti da patologia renale cronica. Tuttavia, con particolare riferimento ai pazienti nefropatici in dialisi, è difficile far riferimento a standard di qualità di vita condivisi data la grande variabilità interpersonale di età, del contesto socio-culturale di provenienza e della presenza di una rete familiare e sociale che li circonda. Ci si trova così a valutare il grado di soddisfazione relativo alla qualità di vita sulla base della durata della terapia dialitica, della rapidità d’accesso al trapianto renale, del peso della compliance terapeutica e di una possibile presenza di ulteriori patologie significative.

Evidenze scientifiche ci confermano oggi che la qualità della vita del paziente affetto da malattia renale cronica è anche strettamente correlata allo stato psico-emotivo del paziente, si può perciò comprendere come i condizionamenti e le restrizioni causate dalla terapia dialitica agiscano sullo stile e sulla qualità della loro vita, così come nel loro percorso terapeutico [6]. Questi condizionamenti includono la famiglia, il contesto sociale e lavorativo, la sfera sessuale, le relazioni con l’équipe di cura, l’immagine di sé, la propria autostima e la propria indipendenza, spesso perduta soprattutto con l’avanzare dell’età [7, 8]. Tali situazioni possono influire sullo stato d’ansia del paziente.

In particolare si possono distinguere due forme di ansia: l’ansia di tratto e l’ansia di stato. La prima fornisce un valore del livello d’ansia che il soggetto esperisce nella vita quotidiana, si riferisce a come ci si sente abitualmente, ad una condizione più duratura e stabile della personalità che caratterizza l’individuo in modo persistente e costante, indipendentemente da una situazione particolare [9]. L’ansia di stato invece fornisce un valore dell’ansia in uno specifico contesto ed esprime una sensazione soggettiva di preoccupazione con un conseguente aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo e perciò di intensità variabile e transitoria [10].

In tale scenario, la figura dello psicologo clinico si pone come strumento per rispondere ai bisogni emotivi dal paziente nefropatico soprattutto quando gli viene prospettata una fase pre-dialitica e dialitica del percorso di cura. Tuttavia, nonostante numerose siano le ricerche in merito, sembra non vi siano evidenze precise connesse ad un timing specifico di intervento di sostegno psicologico e i dati non dimostrano quale possa essere lo specifico momento critico nell’iter che il paziente deve affrontare [11, 12].

Obiettivi dello studio

Il primo obiettivo di questo studio è stato quello di caratterizzare lo stato d’ansia dei pazienti affetti da insufficienza renale cronica in stadio V in fase pre-dialitica e dialitica, seguiti presso l’U.O.C. di Nefrologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza. Ulteriori scopi di questo studio sono stati dimostrare l’utilità di un supporto psicologico per ridurre l’ansia di stato e definire se è possibile indicare una tempistica minima per la terapia psicologica necessaria a tal fine. Infine abbiamo valutato se colloqui in presenza o da remoto potessero apportare gli stessi benefici ai pazienti.

 

Materiali e metodi

In questo lavoro riportiamo l’attività di sostegno psicologico rivolto ai pazienti seguiti in follow-up cronico presso l’U.O.C. di Nefrologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza nel periodo compreso tra il 30 settembre 2020 e il 30 settembre 2022. Tale attività è stata svolta da uno Psicologo dedicato ai pazienti affetti da insufficienza renale cronica. Sono stati inclusi nello studio pazienti noti da almeno tre mesi alla nostra Unità Operativa e con più di 18 anni di età, che dopo essere stati informati delle modalità di svolgimento dello studio abbiano firmato il consenso informato. Lo studio è stato condotto nel rispetto della Dichiarazione di Helsinki.

Il progetto tratta di uno studio osservazionale retrospettivo che ha arruolato 23 pazienti: 5/23 presentavano un quadro di insufficienza renale cronica in stadio V in fase pre-dialitica mentre 18/23 erano pazienti prevalenti in dialisi (7 in dialisi peritoneale e 11 in trattamento extracorporeo).

I pazienti sono stati indirizzati al sostegno psicologico in base alle necessità indicate dai clinici del reparto di Nefrologia. In particolare, i pazienti in fase pre-dialitica presentavano una difficoltà nell’accettazione ad avviare il percorso verso il trattamento sostitutivo, mentre i pazienti già in trattamento dialitico lamentavano il peso del trattamento stesso e manifestavano una riduzione della compliance. Inoltre, alcuni pazienti manifestavano anche timore nei confronti della possibilità di trapianto renale.

Descrizione dell’attività clinica

Fase pre-dialitica

Durante questa fase si accompagna il paziente lungo il processo di accettazione e adattamento psico-emotivo alla malattia che in alcuni casi risulta essere bloccato da meccanismi di difesa quali la negazione o la rimozione. Queste limitazioni possono indurre il paziente a non riconoscere o comprendere fino in fondo le indicazioni e le spiegazioni presentate dai clinici rispetto al trattamento dialitico. In questa fase, lo psicologo si affianca ai medici in modo tale da essere riconosciuto dai pazienti come una figura alla quale far riferimento nelle situazioni di difficoltà di adesione alle terapie, nell’elaborazione della rabbia o nelle possibili reazioni di rifiuto. Un sostegno psicologico in fase pre-dialitica permette perciò di attivare un processo di adattamento psicologico estremamente importante per il mantenimento della compliance terapeutica nella fase successiva.

Fase dialitica

Come già evidenziato, la terapia sostitutiva impatta fortemente sulla vita sia del paziente che della sua famiglia e la sua capacità di reazione e accettazione risulta essere strettamente correlata ad alcuni fattori individuali (ad esempio struttura di personalità, rete familiare e sociale, stile di coping, esperienze pregresse di malattia) che evidenziano però reazioni simili quali stati depressivi, disturbi d’ansia, insonnia, disturbi sessuali. In questa fase la presa in carico psicologica mira a consolidare le risorse individuali e ad una ristrutturazione del proprio Sé in funzione del radicale cambiamento di stile di vita.

Percorso psicologico

Tutti i pazienti sono stati sono stati sottoposti ad almeno otto sedute di sostegno psicologico. La figura 1 riporta lo schema di programmazione delle sedute (Figura 1).

Descrizione del percorso di supporto psicologico realizzato presso l’U.O.C. di Nefrologia Dialisi e Trapianto Renale dell’Ospedale san Bortolo, Vicenza.
Figura 1: Descrizione del percorso di supporto psicologico realizzato presso l’U.O.C. di Nefrologia Dialisi e Trapianto Renale dell’Ospedale san Bortolo, Vicenza.

La prima e l’ultima seduta sono sempre state effettuate in presenza presso gli ambulatori della Nefrologia, mentre gli altri colloqui sono stati svolti sia in presenza che da remoto in base alla preferenza del paziente e alla sua possibilità di trasporto. In particolare, per i pazienti sottoposti a trattamento emodialitico le sedute psicologiche sono state effettuate nei giorni in cui il paziente non doveva essere sottoposto a terapia sostitutiva.

A tutti i pazienti, alla prima e all’ottava seduta, è stato sottoposto lo State-Trait Anxiety Inventory (STAI), un questionario composto da 40 items di autovalutazione su una scala Likert a 4 punti, che va a misurare due tipi di ansia: ansia di stato e ansia di tratto [13, 14].

Lo STAI richiede circa 15 minuti per la compilazione. Si propone al soggetto di compilare la scala di Stato per prima poiché risulta essere più sensibile alle condizioni nelle quali il test viene somministrato e il suo punteggio può essere condizionato dal clima emotivo che si può venire a creare durante la compilazione dello stesso. Gli items delle due scale sono valutati su una scala da 1 a 4 punti: per la valutazione dell’ansia di stato (X-1) i valori sono 1 = per nulla, 2 = un po’, 3 = abbastanza, 4 = moltissimo. Per la valutazione dell’ansia di tratto (X-2) i valori sono 1 = quasi mai, 2 = qualche volta, 3 = spesso, 4 = quasi sempre.

Analisi Statistica

L’analisi statistica è stata effettuata con l’utilizzo del software SPSS (SPSS Inc., Chicago, IL, USA) e del foglio di calcolo EXCEL. Le variabili non continue sono state espresse come media e deviazione standard o mediana e intervallo interquartile (IQR) in maniera adeguata alla distribuzione. Il test t o il test U Mann-Whitney è stato usato per la valutazione e la comparazione dei dati tra due gruppi a seconda della distribuzione della variabile. Un p-value inferiore a 0,05 è stato considerato statisticamente significativo.

 

Risultati

Nello studio sono stati arruolati 23 pazienti con un’età media di 59 ± 6,3 anni, di cui 12 maschi (52%) e 11 femmine. 5/23 presentavano un quadro di insufficienza renale cronica in stadio V seguiti in follow-up cronico nell’ambulatorio di pre-dialisi, con eGFR secondo CKD-EPI medio di 11 ± 3 ml/min/1.73 m2. 18/23 erano pazienti prevalenti da più di tre mesi in dialisi (7 in dialisi peritoneale e 11 in trattamento extracorporeo). Il 90% dei pazienti era affetto da ipertensione arteriosa, il 30% da diabete mellito tipo II. Le caratteristiche cliniche dei pazienti sono riportati in Tabella 1. 

Pazienti (numero) 23
Età (anni, media ± DS)

Maschi (%)

Ipertensione (%)

Diabete mellito (%)

Pazienti in lista trapianto (%)

59 ± 6,3
52
90
30
83
Malattie di base Glomerulonefrite (%) 35
ADPKD (%) 14
Nefroangiosclerosi (%) 39
Uropatia Ostruttiva (%) 4
Altro (%) 8
Emoglobina, g/l (media ± DS)

Albumina, g/dl (media ± DS)

Kt/V emodialisi (media ± DS)

wKt/V dialisi peritoneale (media ± DS)

117 ± 7,7
4,01 ± 0,2
1,33 ± 0
1,84 ± 0,4
Tabella 1: Caratteristiche cliniche e parametri biochimici dei pazienti. Legenda: DS: Deviazione Standard; ADPKD: Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease; wKt/V: total (renal and peritoneal) weekly Kt/Vurea.

Le patologie di base sono risultate essere per il 35% della popolazione studiata glomerulonefriti, per il 39% nefroangiosclerosi, per il 14% malattia del rene policistico autosomico dominante, per il 4% uropatie ostruttive e per l’8% dei casi altre patologie. L’83% dei pazienti risultava essere in lista di attesa attiva per trapianto di rene.

I valori di emoglobina medi erano di 117 ± 7,7 g/l, mentre l’albumina era di 4,01 ± 0,2 g/dl. Come indici di depurazione per i pazienti in trattamento sostitutivo abbiamo considerato il Kt/V, che per i pazienti in emodialisi era in media 1,33 ± 0,2 mentre per i pazienti in dialisi peritoneale il valore settimanale era in media 1,84 ± 0,4.

Dall’analisi dei dati risulta che tutti i pazienti prima del supporto psicologico presentavano al test STAI valori indicativi di livelli elevati sia di ansia di tratto che di stato (rispettivamente media 54,8 ± 7,3 e 60,8 ± 0,8).

I valori del test STAI somministrato ai pazienti sono stati confrontati prima e dopo le otto sedute di terapia psicologica programmate. I valori del test STAI ottenuti dopo le 8 sedute sono statisticamente inferiori sia per l’ansia di stato che per l’ansia di tratto (ansia di tratto 54,8 ± 7,3 versus 45,7 ± 9,2, p < 0,001 e ansia di stato 60,78 ± 0,8 versus 44,13 ± 6,36, p < 0,001, rispettivamente) (Figura 2).

Variazioni dei livelli di ansia di tratto e ansia di stato secondo i valori del test State-Trait Anxiety Inventory (STAI)
Figura 2: Variazioni dei livelli di ansia di tratto e ansia di stato secondo i valori del test State-Trait Anxiety Inventory (STAI), prima e dopo otto sedute di supporto psicologico.

Inoltre, abbiamo diviso la nostra popolazione in 2 gruppi basandoci sulla modalità di esecuzione delle sedute intermedie (sedute in presenza e sedute da remoto). I valori del test STAI risultano statisticamente diminuiti dopo le 8 sedute con entrambe le modalità (p = 0,02) ed i delta ottenuti pre-post seduta sono sovrapponibili nei due gruppi (p = 0,68).

Confrontando i valori di riduzione dello stato d’ansia di tratto con la riduzione dello stato d’ansia di stato si dimostra che la differenza tra prima e dopo le sedute è maggiore per l’ansia di stato in modo statisticamente significativo (delta ansia di tratto 9,1 ± 2,7 versus delta ansia di stato 16,7 ± 5,67, p < 0,001).

Dividendo la popolazione in base al genere, non è stata individuata differenza nello stato d’ansia di tratto tra maschi e femmine né prima né dopo le sedute (ansia di tratto prima delle sedute nei maschi nei confronti delle femmine rispettivamente 55,1 ± 12,0 versus 54,5 ± 7,8, p = 0,851 e ansia di tratto dopo le sedute nei maschi rispetto alle femmine 47,7 ± 7,8 versus 43,5 ± 4,2, p = 0,167, rispettivamente).

Abbiamo poi analizzato la riduzione dell’ansia di tratto prima e dopo le sedute psicologiche confrontando maschi e femmine. Riguardo l’ansia di tratto non vi è una differenza significativa dei valori prima e dopo le sedute confrontando maschi e femmine (delta ansia di tratto nei maschi nei confronti delle femmine: 7, IQR 2 – 8,25 versus 12, IQR 8 – 15; p 0,111) (Figura 3). L’ansia di stato è risultata invece maggiore nelle donne rispetto ai maschi sia prima che dopo le sedute psicologiche (ansia di stato prima delle sedute nei maschi rispetto alle femmine rispettivamente 59,0 ± 7,8 versus 62,72 ± 0,70, p = 0,032 e 46,2 ± 7,8 versus 41,9 ± 5,7, p = 0,041). La riduzione dei valori che si riferiscono all’ansia di stato tra prima e dopo le otto sedute è stata maggiore nelle donne rispetto agli uomini (delta ansia di stato tra prima e dopo le sedute nei maschi rispetto alle femmine: 14, IQR 7,5 – 15,25 versus 22, IQR 16 – 24,5; p = 0,002) (Figura 3).

Figura 3: Confronto della riduzione dei livelli di ansia di tratto e di stato ottenuta con otto sedute di supporto psicologico tra maschi e femmine secondo i valori del test State-Trait Anxiety Inventory (STAI).

 

Discussione

In questo lavoro abbiamo descritto la nostra esperienza di supporto psicologico ai pazienti affetti da insufficienza renale cronica in fase pre-dialitica e dialitica. Il primo dei colloqui previsti è stato eseguito in presenza per consentire una conoscenza più stretta tra lo psicologo e il paziente, così come l’ultimo, per poter valutare in un rapporto più diretto se fosse necessario o meno proseguire con gli incontri. Nel primo e ultimo colloquio è stato somministrato ai pazienti il test STAI per la valutazione dello stato d’ansia di tratto e di stato.

I colloqui intermedi invece sono stati eseguiti sia in presenza che da remoto, assecondando le preferenze del paziente, facilitando così l’accesso al supporto psicologico per i pazienti con difficoltà di trasporto o con scarsa disponibilità di tempo. Abbiamo constatato che l’ambiente domestico non limita la percezione da parte del paziente del supporto fornito, né riduce la possibilità di analisi da parte dello psicologo. La modalità di colloqui da remoto, attivata durante il periodo di pandemia da SARS-CoV-2, è stata pertanto trovata utile e adottata nel periodo dello studio. La modalità da remoto è stata quindi scelta da alcuni pazienti anche alla riapertura degli ambulatori, preferendo la possibilità di essere sostenuti nella narrazione della loro storia di fatica e sofferenza rimanendo al di fuori del contesto ospedaliero che rappresenta il luogo della terapia e del vincolo cronico. Proprio per questo motivo per i pazienti in trattamento emodialitico è stato preferito un giorno di non dialisi per i colloqui.

L’obiettivo di questo studio è stato valutare l’ansia di stato e l’ansia di tratto tramite la somministrazione ai pazienti del test STAI prima di iniziare le sedute psicologiche e al termine delle otto sedute. L’analisi di dati che si ricavano dal test permette infatti di effettuare una discriminazione tra l’ansia intesa come sintomo e l’ansia espressa come modalità abituale di risposta agli stimoli esterni [15]. I nostri dati mostrano un alto livello di stress iniziale confermando quanto riscontrato in letteratura secondo cui i pazienti in fase pre-dialitica e dialitica presentano un’elevata incidenza di disturbi d’ansia e depressivi [2].

I valori alla prima somministrazione del test STAI evidenziano una significativa compromissione del tono dell’umore, con tratti evidenti di depressione, rabbia, confusione, astenia, ridotta speranza nel futuro. Questo risultato è stato confermato nell’intera popolazione analizzata, nei maschi e nelle femmine. Infatti non sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra maschi e femmine. Nella nostra esperienza durante i colloqui psicologici, è emersa la difficoltà da parte dei pazienti ad accettare le limitazioni dalla terapia causate dalla malattia e dal cambiamento dell’immagine del sé, ancora più evidenti qualora la necessità di accedere alle terapie sia improvvisa o inaspettata, facendo percepire al paziente un profondo senso di rabbia dovuto alla condizione di dipendenza e al legame irreversibile con la terapia dialitica.

Dalla nostra esperienza si evince, inoltre, che un percorso di sostegno psicologico della durata minima di otto sedute può essere sufficiente per favorire un significativo calo dell’intensità dei sintomi riguardanti sia l’ansia di tratto che di stato. In particolar modo grazie a questo percorso di interventi psicologici mirati, è stata più rilevante la riduzione dell’ansia di stato, favorendo quindi il raggiungimento di livelli di adattamento avanzati rispetto alla nuova situazione clinica e di conseguenza anche psico-sociale.

Un supporto per la gestione della sintomatologia ansiosa può permettere quindi ai pazienti di vivere la malattia e la terapia in modo tale da favorire significativi miglioramenti nel loro stile di vita, trovando importanti alternative alla rassegnazione. L’adattamento infatti è un processo che va costruito nel tempo, attraverso lo sviluppo di una sinergia tra l’utilizzo delle risorse individuali del paziente (capacità di coping, senso di auto-efficacia, tratti caratteriali, ecc.) e quelle ambientali (atteggiamento degli operatori, supporto psicologico, familiare, sociale, ecc.).

Dai dati raccolti non sono state riscontrate differenze significative tra i due sessi riguardo l’ansia di tratto. Invece le donne hanno dimostrato valori di ansia di stato più alti rispecchio ai maschi, ma anche una riduzione di questa maggiore tra prima e dopo le sedute. Si può quindi dedurre che possano essere in particolare le pazienti donne a trarre un maggior beneficio dal supporto psicologico.

Le limitazioni dello studio sono legate al ristretto numero di pazienti analizzati e al fatto che si tratti di uno studio monocentrico. Questo ha comportato il fatto che non è stato possibile valutare separatamente i pazienti appartenenti alla fase pre-dialitica o in dialisi peritoneale ed extracorporea, ma potrà essere valutato in uno studio successivo che comprenda un numero maggiore di pazienti.

 

Conclusioni

Il lavoro clinico condotto dal 2020 ad oggi dimostra che un modello di cura integrato in cui si fondano la dimensione medica, quella psico-emotiva e socio-cognitiva rappresenta uno spazio di cura globale del malato cronico, favorendo la stimolazione e l’empowerment di un più avanzato adattamento alle terapie e al luogo di cura stesso. In tale contesto, i malati cronici che vivono continue esperienze di lutto e perdite, mostrano un costante bisogno di ricercare nuovi significati connessi alla loro esperienza di malattia e tale ‘ri-significarsi’ può avvenire proprio all’interno di uno spazio di ascolto e contenimento. I risultati evidenziati dimostrano il raggiungimento di una serie di obiettivi connessi alla possibilità di contenere una possibile ricaduta negativa sugli outcome assistenziali, evidenziando l’importanza dell’applicazione di strategie di sostegno psico-emotivo ai pazienti al fine di migliorare la gestione delle terapie, dello stile di vita e di salvaguardare la relazione équipe/paziente rinforzando la fiducia e l’adesione alle indicazioni terapeutiche.

 

Bibliografia

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  2. Goh ZS, Griva K. Anxiety and depression in patients with end-stage renal disease: impact and management challenges – a narrative review. Int J Nephrol Renovasc Dis. 2018;11:93-102. https://doi.org/10.2147/IJNRD.S126615.
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  4. Basic Documents: forty-ninth edition. World Health Organization (2020). https://apps.who.int/iris/handle/10665/339554.
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  6. Auneau-Enjalbert L, Hardouin JB, Blanchin M, Giral M, Morelon E, Cassuto E, et al. Comparison of longitudinal quality of life outcomes in preemptive and dialyzed patients on waiting list for kidney transplantation. Qual Life Res. 2020;29(4):959-70. https://doi.org/10.1007/s11136-019-02372-w.
  7. Spielberger C, Goruch R, Lushene R, Vagg P, Jacobs G. Manual for the state-trait inventory STAI (form Y). Mind Garden, Palo Alto, CA, USA. 1983.
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  10. Spielberger CD. Manual for the state-trait anxiety, inventory. Consulting Psychologist. 1970.
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  12. Ripamonti CA, Clerici CA. Psicologia e salute: introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il mulino, 2008.
  13. Grös DF, Antony MM, Simms LJ, McCabe RE. Psychometric properties of the state-trait inventory for cognitive and somatic anxiety (STICSA): comparison to the state-trait anxiety inventory (STAI). Psychological assessment. 2007;19(4):369. https://doi.org/10.1037/1040-3590.19.4.369
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  15. Smeraldi E, Bellodi L, Provenza M. A proposito dell’ansia. Clinica e terapia. 1991.

Studio trombofilico nei pazienti dializzati

Abstract

La malattia renale cronica è un fenotipo complesso che risulta dall’associazione di malattie renali sottostanti e di fattori ambientali e genetici. In aggiunta ai tradizionali fattori di rischio, nell’eziologia della malattia renale sono coinvolti fattori genetici tra cui i polimorfismi dei singoli nucleotidi che potrebbero giustificare l’aumentata mortalità per patologia cardiovascolare dei nostri pazienti emodializzati. I geni che influenzano lo sviluppo e la velocità di progressione della malattia renale meritano di essere definiti meglio. Noi abbiamo valutato le alterazioni dei geni della trombofilia nei pazienti emodializzati e nei soggetti donatori di sangue e abbiamo messo a confronto i risultati ottenuti. L’obiettivo del presente studio è quello di identificare dei biomarker di morbidità e di mortalità, che ci consentano di individuare i pazienti con malattia renale cronica ad alto rischio, grazie ai quali è possibile mettere in atto delle accurate strategie terapeutiche e delle strategie preventive che abbiano l’obiettivo di intensificare i controlli in questi pazienti.

Parole chiave: Polimorfismi dei singoli nucleotidi, pannel trombofilico, biomarker di mortalità, scienze omiche, malattia renale cronica, emodialisi

Introduzione

La malattia renale cronica è definita come una progressiva ed irreversibile perdita della funzione renale, evidenziata con un GFR stimato al di sotto di 60 ml/min/1,73 m2, con la persistente presenza di manifestazioni che sono suggestive di danno renale (proteinuria, sedimento urinario attivo, danni istologici, anormalità strutturali o storia di trapianto renale) o con entrambi, presenti da più di tre mesi [1].

La malattia renale cronica è da sempre considerata un problema di salute pubblica mondiale che richiede un’importante assistenza e significativi oneri economici. È noto che ad una riduzione del GFR fa seguito un incremento degli eventi cardiovascolari, delle ospedalizzazioni e complessivamente della mortalità [2]. La prevalenza della malattia renale cronica varia a seconda delle aree geografiche e per lo più varia tra il 10% e il 20 %, percentuale che aumenta gradualmente soprattutto nei paesi sviluppati [3, 4]. Questo trend potrebbe essere attribuito all’aumentato invecchiamento della popolazione a livello globale [5], oltre che all’incremento di patologie come il diabete mellito, l’ipertensione e l’obesità [6].

Nonostante i miglioramenti tecnologici in ambito dialitico, il tasso di mortalità dei pazienti in emodialisi è molto alto, soprattutto a causa delle patologie cardiovascolari, ma non solo [7]. Recenti studi dimostrano che i fattori genetici come i polimorfismi dei singoli nucleotidi influenzano significativamente la risposta immune, i livelli dei markers infiammatori, così come la prevalenza dell’aterosclerosi in questo gruppo di pazienti [8].

 

Ruolo dei polimorfismi dei singoli nucleotidi

Come accade in altre patologie multifattoriali, anche i fattori genetici sono coinvolti nella patogenesi della malattia renale. In questo contesto sono stati individuati, nei soggetti in emodialisi, diversi polimorfismi di singoli nucleotidi (SNPs), caratterizzati dalla variazione di una singola coppia di basi nella sequenza del DNA e alcuni studi hanno dimostrato l’influenza di questi SNPs sul rischio cardiovascolare nei pazienti in emodialisi [9].

Le scienze omiche, negli anni, stanno cominciando a dare grandi risultati. Queste sono discipline che permettono di indagare le diverse classi di componenti biologiche e comprendono la genomica, ovvero lo studio dell’intero set di geni, la trascrittomica o lo studio dei livelli di mRNA, la proteomica, ovvero lo studio della traduzione proteica e la metabolomica o lo studio dell’insieme dei metaboliti [10]. La genomica e lo studio dei polimorfismi dei singoli nucleotidi sono utili nella diagnosi di condizioni predisponenti a fatali eventi tromboembolici e nel determinismo di varianti genetiche correlate alla morte improvvisa come ad esempio la sindrome correlata all’allungamento congenito del tratto QT [11, 12]. I polimorfismi dei singoli nucleotidi possono interessare le regioni non codificanti che alterano la regione del promoter, introni o la sequenza trailer che si trova a valle della sequenza codificante, oppure possono interessare le regioni codificanti ed in questo caso alterano la sequenza degli esoni.

 

Materiali e metodi

Sono stati arruolati 31 pazienti in trattamento emodialitico (di cui 21 di sesso maschile e 10 di sesso femminile) e 31 soggetti donatori di sangue (di cui 22 soggetti di sesso maschile e 9 di sesso femminile). Nei nostri pazienti dializzati abbiamo riscontrato un aumento dei valori di omocisteina nel 75 % dei casi (23 pazienti su 31); questo dato lo abbiamo messo in relazione alla tipologia di filtro utilizzato e alla metodica dialitica usata. Altresì abbiamo riscontrato un aumento dei valori medi della mioglobina a prescindere dal filtro e dalla metodica utilizzati e valori di catene k/λ quasi sempre nel range di normalità (Tabella 1). Considerando che l’iperomocisteinemia spesso è associata a mutazioni del gene MTHFR abbiamo analizzato in questi pazienti i geni del pattern trombofilico riscontrando delle anomalie rispetto ai soggetti donatori.

  AN 69 ST1,6/1,6

AFBK

n. pz 6

Helixone

Plus/1,8

HDF online

n. pz 8

Poliariletersulfone

400/1,7

HD

n. pz 2

Helixone plus/2,2

HDF online

n. pz 3

Polynephron

19 H/1,9

HDF online

n. pz 6

Polynephron 17 H/1,7

HDF online

n. pz 3

Polynephron 21 H/2,1

HDF online

  n. 1 pz

AN 69

ST 2,2/2,2

AFBK

n. 2 pz

OMOCISTEINA

(vn 15-30)

(min-max)

34,6

 

(9-58)

53,8

 

(22-96)

29,5

 

(22-37)

34,3

 

(19-53)

56

 

(26-100)

52

 

(39-76)

15 34,5

 

(9-60)

MIOGLOBINA

(vn 25-72)

(min-max)

149,2

 

(86,7-306)

216,2

 

(142-385)

272

 

(173-371)

120,3

 

(115-126)

280,1

 

(203-363)

112

 

(85-137)

136 220,5

 

(143-298)

Catene kappa/lamda

(vn<1350/723)

Catene K (min-max)

Catene λ (min-max)

847,5/594

 

(630-1570)

(363-1070)

1052/534

 

(545-1720)

(257-785)

1181/571

 

(832-1530)

(400-742)

828/512,3

 

(792-889)

(443-637)

750,6/434,6

 

(458-1080)

(251-734)

667/362,3

 

(375-960)

(160-481)

1080/911 813,5/358,5

 

(743-884)

(252-465)

Tabella 1: Valori medi di omocisteina, mioglobina e catene k/λ nei pazienti dializzati.

 

Risultati dello studio

Abbiamo esaminato le principali mutazioni e polimorfismi interessanti i geni dei fattori della coagulazione (Fattore V, Fattore II e Fattore XIII) (Grafico 1), della metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR) (Grafico 2) e della cistationina beta-sintetasi (CBS) di cui non si è registrata nessuna mutazione, della Glicoproteina IIIa piastrinica (GP IIIa) dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) e dell’apolipoproteina E per i quali emergono dati sovrapponibili tra i due gruppi di pazienti, dell’inibitore dell’attivazione del plasminogeno (PAI-1) dell’angiotensinogeno (AGT) del recettore dell’angiotensina II (ATR-1) e del Beta Fibrinogeno (FGB) (Grafico 3), in 31 pazienti emodializzati e i risultati sono stati messi a confronto con 31 soggetti donatori.

La tecnica utilizzata è stata quella dell’amplificazione delle sequenze bersaglio, dopo l’isolamento del DNA, con successiva ibridazione inversa su striscia e rivelazione colorimetrica, ed il kit impiegato è stato il CVD 14.

Grafico 1: Mutazioni dei fattori della coagulazione. 
Grafico 1: Mutazioni dei fattori della coagulazione.

Grafico 2: Mutazioni del gene MTHFR.

Grafico 2: Mutazioni del gene MTHFR.
Grafico 2: Mutazioni del gene MTHFR.

 

Grafico 3: Mutazioni del gene ATR-1, AGT, FGB-455 e PAI 1.
Grafico 3: Mutazioni del gene ATR-1, AGT, FGB-455 e PAI 1.

 

Discussione

Analizzando i dati raccolti è emerso nei dializzati un aumento della variante T del gene AGT. Molti studi hanno dimostrato che mutazioni dei geni RAAS e i loro polimorfismi causano l’insorgenza di una maggiore suscettibilità a svariate malattie come l’ipertensione, il diabete mellito tipo 2, la malattia renale cronica allo stadio terminale [13]. Il gene AGT è considerato uno dei geni componenti di RAAS che include oltre ad AGT anche ACE, ACE2, AGTR1 (recettore tipo 1 dell’angiotensina II), AGTR2 (recettore tipo 2 dell’angiotensina II) e la renina (REN) [14]. Questo gene consiste di 4 introni e cinque esoni che sono localizzati sul braccio lungo del cromosoma 1. Come parte di RAAS codifica per 485 aminoacidi. Sono stati studiati due missense SNP del gene AGT (SNPs; l’rs699, Met268Thr ovvero M268T e l’rs4762, Thr207Met ovvero T207M) [15]. L’rs699 (M268T) precedentemente noto come M235T è un missense polimorfismo sull’esone 2 che codifica per la variante treonina (l’aminoacido metionina è sostituito dall’aminoacido treonina nella posizione 235) che è associata ad aumentati livelli di angiotensinogeno.

Recentemente è stata indagata, per dimostrarne il coinvolgimento nell’ESRD, la relazione tra il polimorfismo dei geni RAAS (determinante un’aumentata concentrazione dell’angiotensinogeno) e l’insufficienza renale cronica allo stadio terminale [16]. A causa dell’aumentata attività di RAAS, dopo l’induzione dell’angiotensina II iniziano la vasocostrizione e la sintesi dell’aldosterone che portano all’espansione del volume plasmatico e all’ipertensione. Il RAAS è sempre stato fortemente implicato nella patogenesi dell’ipertensione essenziale, delle patologie cardiovascolari e dell’insufficienza renale progressiva. RAAS gioca un ruolo centrale nella regolazione della pressione arteriosa, del metabolismo del sodio e dell’emodinamica renale, con le sue azioni mediate principalmente dall’angiotensina II [17]. L’angiotensina II può influenzare anche il metabolismo del glucosio attraverso dei meccanismi a cascata che interessano l’attivazione del segnale insulinico, l’adipogenesi, la circolazione sanguigna e lo stress ossidativo [18]. L’angiotensina II svolge un importante ruolo nei processi di rimodellamento tissutale, promuovendo la sintesi e la deposizione delle proteine della matrice extracellulare in diversi organi come il cuore, i vasi ed il rene, favorendo la fibrosi a sua volta responsabile del danno d’organo cardiovascolare e renale [19, 20].

Recenti studi hanno dimostrato la correlazione tra la presenza della variante rs699 del gene AGT con la cardiopatia ischemica [21] e l’arteriopatia periferica [22]. Alcuni studi suggeriscono che il polimorfismo M235T (genotipo TT) potrebbe essere un bio-marcatore utile per lo screening degli individui suscettibili all’infarto del miocardio, almeno per quanto riguarda la popolazione asiatica [23]. Studi effettuati su popolazione giapponese [24], cinese [25], italiana [26] e spagnola [27] rivelano una significativa associazione tra M235T e l’infarto del miocardio. Altri studi non hanno osservato tale associazione [28] e ciò potrebbe essere dovuto alle varianti geografiche e all’etnia, oppure perché i gruppi di pazienti selezionati non erano appropriati per gli studi genetici. Il polimorfismo del gene ATR1 (recettore tipo 1 dell’angiotensina II) è stato anch’esso analizzato per spiegare l’associazione con il tasso di progressione della malattia renale. Nei nostri pazienti è stato dimostrato un aumento del polimorfismo dell’ATR1 in eterozigosi A/C.

In letteratura sono presenti alcuni studi che indicano che la presenza dell’allele C polimorfico dell’ATR1 (genotipo AC/CC) potrebbe essere associata a più rapido peggioramento della funzione renale [29]. Altro polimorfismo da noi studiato è quello del gene PAI-1. PAI-1 è una serina proteasi con feedback negativo sulla fibrinolisi grazie al legame con l’attivatore del plasminogeno tissutale (tPA) di cui ne inibisce l’attivazione. Elevati livello di questo inibitore sono stati associati ad un maggior rischio trombotico sia di tipo arterioso (infarto miocardico e malattia coronarica) che venoso (tromboembolismo) specie nei soggetti fumatori ed ipertesi [30]. Il polimorfismo PAI-1 4G/5G è significativamente associato ad alti livelli di omocisteina soprattutto nei giovani pazienti con trombosi del seno venoso cerebrale [31]. Nei nostri pazienti dializzati è stato riscontrato un aumento dei casi del polimorfismo del gene PAI 4G/5G. I pazienti con trombosi hanno principalmente uno squilibrio tra i sistemi di coagulazione e di fibrinolisi e questo squilibrio è spesso attribuito ad alti livelli di espressione e di attività del gene PAI-1 [32]. Il polimorfismo del gene PAI-1 4G/5G è associato ad alti livelli di PAI-1 nel plasma. Diversi studi hanno valutato la relazione tra il polimorfismo PAI-1 4G/5G ed il rischio di trombosi venosa [33]. È stato dimostrato altresì che il polimorfismo 4G/5G del gene PAI-1 potrebbe essere considerato come un fattore che possa portare ad una maggiore suscettibilità al tromboembolismo venoso soprattutto nei pazienti con altri disordini genetici del pattern trombofilico [34].

Il tromboembolismo venoso è la terza maggiore causa di malattie cardiovascolari e di morte e rappresenta un problema sociale e medico rilevante per la sua alta frequenza. Il tromboembolismo venoso può essere prevenuto e trattato; per tale motivo la ricerca dei fattori di rischio è un obiettivo importante [35]. Varianti di geni che determinano un effetto pro-coagulante giocano un ruolo importante in condizioni di ipercoagulabilità. Oltre alle note varianti dei geni con attività protrombotica (fattore V di Leiden, MTHFR C677T) vi sono altre varianti che giocano un ruolo in alcune forme di trombosi venosa che includono il Fattore V H1299R, MTHFR A1298C, Fattore XIII e l’FGB 455 G>A [36].

Nei nostri pazienti dializzati è stato riscontrato anche un aumento del polimorfismo FGB-455 G/A in eterozigosi. Diversi studi hanno dimostrato che tale fattore potrebbe essere un predittore suscettibile di ictus ischemico [37]. Nei nostri pazienti emodializzati è stato riscontrato un aumento anche delle mutazioni a carico del gene MTHFR e la più comune è la mutazione C677T che potrebbe essere responsabile dell’iperomocisteinemia [38]. Vi è una chiara evidenza di iperomocisteinemia e mortalità cardiovascolare ed eventi aterotrombotici in pazienti in emodialisi [39, 40]. La malattia renale cronica rappresenta un fattore di rischio accertato per tromboembolismo (TE) arterioso e venoso. Mentre il rischio di TE risulta essere di 2,5 volte più alto nei pazienti con IRC moderata, non in dialisi, rispetto alla popolazione normale, il rischio aumenta di 5,5 volte nei pazienti con severa insufficienza renale [41]. Le complicanze trombotiche sono descritte in più del 25% dei pazienti che si sottopongono a dialisi [42] e sono a carico soprattutto dell’accesso vascolare che rappresenta l’ancora di salvezza nei pazienti in dialisi ed il suo malfunzionamento è associato ad una incrementata morbidità, mortalità e ad elevati costi. Numerosi studi sono stati pubblicati sull’associazione tra trombofilia acquisita/congenita e complicanze dell’accesso vascolare e i risultati sono stati contrastanti, ovvero alcuni studi hanno suggerito la loro significativa associazione [43], mentre in altri questa associazione non è stata documentata [44, 45]. Nel 2005 Knoll e i suoi collaboratori hanno dimostrato in uno studio prospettico canadese che 107 dei 419 pazienti in emodialisi arruolati hanno sviluppato una trombosi dell’accesso vascolare e la percentuale di trombosi aumentava nei pazienti che avevano di base una condizione di trombofilia [46]. I dati di questo studio sono in linea con i risultati ottenuti da Klamroth in Germania e con quelli documentati su pazienti svedesi [47, 48]. Le discrepanze sono principalmente dovute alla tipologia di studi differenti (retrospettivi versus prospettici), al fatto che questi studi sono stati eseguiti su piccoli campioni di pazienti, all’assenza di gruppi di controllo e al fatto che sono stati condotti su differenti fattori di rischio trombofilici. Sono sicuramente necessari studi di coorte prospettici, multicentrici, ampi, per dimostrare il ruolo della trombofilia nella trombosi dell’accesso vascolare.

Per quanto riguarda lo stato di ipercoagulabilità presente prima del trapianto renale, questa condizione può essere considerata uno dei maggiori fattori di rischio per sviluppare eventi immediati trombotici post-trapianto. Il trapianto renale può correggere con successo uno stato di ipercoagulabilità acquisita nei pazienti in emodialisi. Screening pre-trapianto per i fattori correlati all’ipercoagulabilità sono necessari per prevenire eventi protrombotici post-trapianto e sono raccomandati nei pazienti che hanno in prospettiva la possibilità di essere sottoposti a un trapianto renale [49]. Per concludere, la trombofilia congenita non è da considerare un fattore di rischio per lo sviluppo di trombosi nei pazienti con sindrome nefrosica [50], ma anche a tal riguardo sarebbero necessari ulteriori studi.

 

Conclusioni

Nonostante gli sviluppi e i miglioramenti delle tecniche dialitiche, i pazienti con malattia renale cronica allo stadio terminale continuano ad avere un aumento marcato della morbidità e mortalità cardiovascolare. Recentemente molto interesse è stato focalizzato sul ruolo dei fattori di rischio cardiovascolari non tradizionali come l’infiammazione, le calcificazioni vascolari e lo stress ossidativo. Recenti studi dimostrano che i fattori genetici, come i polimorfismi, possono influenzare significativamente la risposta immune, come anche la prevalenza dell’aterosclerosi in questi pazienti.

Sembra ipotizzabile che nel prossimo futuro test di DNA prognostici o predittivi possano fornire, alla comunità nefrologica, un più preciso approccio terapeutico e possano aiutarci nel mettere in atto delle adeguate strategie preventive. In definitiva, servono dei biomarker di morbidità e mortalità per identificare tempestivamente i pazienti ad alto rischio, perché l’aumentato rischio cardiovascolare dei nostri pazienti dializzati potrebbe essere messo in relazione, in definitiva, ad un insieme di mutazioni genetiche.

 

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  50. Fabri, V.M.S. Belangero et al. Inherited risk factors for trombophilia in children with nephrotic syndrome. Eur J Pediatr (1998) 157: 939-942. https://doi.org/10.1007/s004310050972.

La gestione terapeutica e il burden economico dei pazienti trattati con ESA affetti da insufficienza renale cronica non dipendente da dialisi con anemia: risultati da uno studio real-world in Italia

Abstract

Background. L’obiettivo dell’analisi real-world è stato valutare le caratteristiche dei pazienti con insufficienza renale cronica non dipendente da dialisi (IRC-NDD) con anemia e trattati con agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), analizzarne la farmaco-utilizzazione e il carico economico in pratica clinica italiana.
Metodi. È stata eseguita un’analisi retrospettiva basata su database amministrativi e di laboratorio riguardanti circa 1,5 milioni di assistibili. Sono stati identificati pazienti adulti con record identificanti l’IRC-NDD stadio 3a-5 e anemia nel periodo 2014-2016. Sono stati inclusi i pazienti eleggibili agli ESA (presenza di ≥ 2 valori di Hb < 11 g/dL in 6 mesi) attualmente trattati.
Risultati. Dei 101.143 pazienti IRC-NDD identificati, 40.020 presentavano anemia. Complessivamente, 25.360 pazienti anemici erano eleggibili al trattamento con ESA e 3.238 (12,8%) attualmente in trattamento sono stati inclusi. L’età media era di 76,9 anni, il 51,1% era di sesso maschile. Le comorbilità più frequentemente riscontrate riguardavano l’ipertensione (> 90% in ogni stadio), il diabete (37,8-43,2%) e le patologie cardiovascolari (20,5-28,9%). L’aderenza agli ESA è stata osservata nel 47,9% dei pazienti, con una tendenza decrescente dal 65,8% (stadio 3a) al 35% (stadio 5). Una quota consistente di pazienti non presentava visite nefrologiche durante i 2 anni di follow-up. La voce di costo maggiormente impattante era quella relativa ai farmaci (€4.391), seguita dai ricoveri per tutte le cause (€3.591) e dagli esami di laboratorio (€1.460).
Conclusioni. I risultati hanno evidenziato un’aderenza non ottimale agli ESA, con un trend di sotto-utilizzo di queste terapie nella gestione dell’anemia nell’IRC-NDD. Inoltre, l’analisi ha mostrato un elevato carico economico per i pazienti anemici IRC-NDD.

Parole chiave: anemia, database amministrativi, farmaci stimolanti l’eritropoiesi (ESA), malattia renale cronica (MRC), nefrologia, real-life

Introduzione

L’anemia è una delle complicanze comunemente riscontrate nell’insufficienza renale cronica (IRC), una condizione che colpisce prevalentemente la popolazione anziana [1]; la sua prevalenza aumenta con il progredire degli stadi dell’IRC [2, 3], ed è stata osservata fin nel 60% di pazienti affetti da IRC non dipendente da dialisi (IRC-NDD) [4]. L’anemia nell’IRC è principalmente causata da una diminuzione nella produzione di eritropoietina (EPO) e dall’alterazione dei meccanismi di rilevazione dell’ossigeno dovute alla ridotta funzionalità renale [5]. Numerosi studi osservazionali hanno evidenziato un incremento del rischio di comorbilità (soprattutto riguardo le malattie cardiovascolari e il diabete) e di mortalità associato alla presenza di anemia nei pazienti IRC; tale rischio risulta maggiore negli stati anemici più severi [2, 5, 6].

Le supplementazioni di ferro e le terapie con i farmaci stimolanti l’eritropoiesi (Erythropoiesis Stimulating Agents, ESA) rappresentano il trattamento cardine dell’anemia nell’IRC [79]. In particolare, le linee guida Internazionali raccomandano di iniziare un trattamento con ESA in caso di valori di emoglobina (hemoglobin, Hb) < 10 g/dL, mentre nella pratica clinica italiana il valore soglia utilizzato è Hb < 11 g/dL, come indicato dalla Società Italiana di Nefrologia [10] e definito nel Piano Terapeutico Italiano per la prescrizione di ESA [11, 12].

Una gestione tempestiva e adeguata dell’anemia comporta un rallentamento nella progressione dell’IRC, riduce la gravità delle condizioni di comorbilità e conseguentemente il rischio di ospedalizzazione [1315]. La normalizzazione dei livelli di Hb è risultata inoltre essere correlata ad un miglioramento della qualità della vita [16]. Tuttavia, i risultati recentemente pubblicati di uno studio prospettico multinazionale, il Chronic Kidney Disease Outcomes and Practice Patterns (CKDopps), hanno mostrato una gestione subottimale dell’anemia correlata ad IRC nei pazienti IRC-NDD afferenti a Centri Nefrologici in Brasile, Francia, Germania e Stati Uniti, soprattutto in termini di monitoraggio e di trattamento [17, 18]. Per quanto riguarda l’Italia, sono poche ad oggi le evidenze disponibili sulla reale gestione terapeutica e relativi esiti dei pazienti anemici con IRC-NDD, e gli studi pubblicati sono principalmente focalizzati su pazienti seguiti da Centri Nefrologici [1921]. In questo ambito, la presente analisi si è posta l’obiettivo di descrivere le caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti IRC-NDD nello stadio 3a-5 con anemia e trattati con ESA, di valutare la loro farmaco-utilizzazione e i costi diretti a carico del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) in un contesto real-world di pratica clinica in Italia.

 

Metodi

È stata condotta un’analisi retrospettiva osservazionale di coorte basata sui dati contenuti nei database amministrativi e di laboratorio di un campione di 5 ASL afferenti alle regioni Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Abruzzo e Puglia. Sono stati utilizzati i seguenti database: anagrafe assistibili, contenente le caratteristiche demografiche; database farmaceutici (assistenza farmaceutica territoriale, AFD e farmaci ad erogazione diretta FED), in cui sono riportate le informazioni relative ai farmaci erogati in regime di rimborsabilità da parte del SSN, come il codice Anatomical-Therapeutic-Chemical (ATC), numero di confezioni, data di prescrizione; schede di dimissione ospedaliere contenente le informazioni riguardanti i ricoveri effettuati tra cui le diagnosi codificate mediante codici ICD-9-CM e i raggruppamenti omogenei di diagnosi (DRG, dall’inglese Diagnosis Related Groups); specialistica pubblica ambulatoriale in cui sono riportati i dati riguardanti le visite specialistiche e test strumentali erogati in regime di convenzione con il SSN; database del laboratorio analisi, contenente tutte le informazioni relative agli esami di laboratorio ed in particolare: la data della richiesta, il codice e la descrizione dell’esame, l’esito dell’esame e l’unità di misura in cui è calcolato.

In ottemperanza alla normativa sulla privacy (D.lgs. 196/03 e successive modificazioni, GDPR 2016/679), ai soggetti incaricati del trattamento dei dati ai fini dell’analisi non è stato fornito alcun dato dal quale fosse possibile risalire in modo diretto o indiretto all’identità del paziente. Tutti i risultati dell’analisi comprendono solo ed esclusivamente dati aggregati mai riconducibili al singolo assistibile. L’identificativo anonimo del paziente contenuto in ogni archivio ha permesso l’integrazione tra i vari database. Il presente studio è stato notificato ai seguenti Comitati Etici Locali di ogni ASL coinvolta, che lo hanno approvato: Comitato Etico Interaziendale (data approvazione: 19/12/2019 Prot. N AslVC.Farm.19.02); Comitato Etico Interprovinciale Area 1 (data approvazione: 03/12/2019 Prot. 96/SegCE/2019); Comitato Etico Lazio 2 (data approvazione: 11/12/2019 Prot. N. 0219118); Comitato Etico Per Le Province Di L’Aquila e Teramo (data approvazione: 30/01/2020 Prof. N. 03); Comitato Etico CEUR FVG (data approvazione: 28/01/2020 Prot. CEUR-2020-Os-029).

Sono stati inclusi nello studio tutti i pazienti adulti che presentavano una diagnosi di IRC-NDD stadio 3a-5 tra gennaio 2014 e dicembre 2016 (periodo di inclusione), identificata mediante almeno un ricovero con diagnosi di dimissione con codici ICD-9-CM 585.3, 585.4, 585.5 o mediante almeno un valore di eGFR < 60ml/min/1.73m2 (calcolato con il metodo Modification of Diet in Renal Disease, MDRD, a partire dal valore di creatinina riscontrato nel database laboratorio). I pazienti sono stati classificati negli stadi 3a-5 in base al valore di eGFR in accordo alle linee guida Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) [22]. Lo stato anemico è stato definito da un valore di Hb al di sotto della soglia specificata dalle linee guida (< 13 g/dL negli uomini e < 12 g/dL nelle donne) [8].

Tra i pazienti anemici, è stata successivamente identificata una sotto-coorte di pazienti con almeno 2 valori di Hb < 11 g/dL nell’arco di 6 mesi, definiti come pazienti eleggibili al trattamento con ESA. Sono stati individuati infine tra i pazienti che presentavano almeno 2 valori di Hb < 11 g/dL in 6 mesi i soggetti che avevano ricevuto un trattamento ESA (codice ATC B03XA) durante il periodo di inclusione. La data indice del paziente è stata definita come la data di prima prescrizione per ESA riscontrata nel periodo di inclusione. L’anno precedente alla data indice è stato considerato per valutare il profilo di comorbilità (periodo di caratterizzazione), mentre il periodo di follow-up è durato 2 anni a partire dalla data indice, o a partire dalla data indice fino al primo di tali eventi: morte, dialisi, trapianto o fine disponibilità del dato. I pazienti sono stati esclusi se: i) erano in dialisi al momento dell’inclusione o prima della data di identificazione dell’IRC nel periodo di inclusione; ii) avevano una diagnosi di cancro nei 5 anni prima della data di identificazione dell’IRC nel periodo di inclusione; iii) il periodo di caratterizzazione era inferiore ad 1 anno.

Durante il periodo di caratterizzazione sono state valutate le seguenti comorbilità, identificate in base alla presenza di codici ICD-9-CM o di codici ATC relativi a trattamenti specifici, utilizzati come proxy per la diagnosi: malattie cardiovascolari (codici ICD-9-CM: 410-414, 430-438, 440, 443), ipertensione (codici ATC C02, C03, C07, C08, C09), diabete (codice ICD-9-CM: 250 o presenza di codici ATC A10), nefropatia diabetica (codice ICD-9-CM 250.4), rene policistico (codice ICD-9-CM 753.1), malattie autoimmuni (codici ICD-9-CM: 714, 720, 696, 555, 556 , presenza di codice ATC L04 o codici esenzione 006, 054, 045, 009), broncopneumopatia cronica ostruttiva BPCO (codice ATC R03), trapianto di rene (codice ICD-9-CM: V420, 556).

Durante il periodo di follow-up, la farmaco-utilizzazione è stata valutata in termini di aderenza al trattamento con ESA mediante il Medication Possession Ratio (MPR), definito come il rapporto tra le unità di trattamento dispensate (valutate come defined daily dose, DDD) durante il periodo di osservazione e la durata del periodo stesso. I pazienti con MPR ≥ 80% sono stati considerati aderenti al trattamento. L’iporesponsività è stata stimata mediante l’adozione di due algoritmi: assenza di un aumento nei valori di Hb nel primo mese di trattamento ESA rispetto ai valori iniziali o presenza di due aumenti di dosaggio ESA fino al 50% durante il periodo di osservazione. La dose media giornaliera di ESA è stata calcolata dividendo il totale delle dosi tra la prima e penultima prescrizione per il numero di giorni coperti. L’analisi economica è stata condotta nella prospettiva del SSN, e i costi sono stati riportati in Euro (€). I costi medi/mediani annualizzati diretti sono stati valutati durante il follow-up: in particolare, sono state considerate le voci di costo relative ai farmaci (è stato considerato il prezzo al pubblico database AFT o prezzo di acquisto ospedaliero database FED al momento dell’acquisto del farmaco), ai ricoveri (la tariffa della singola ospedalizzazione deriva direttamente dai DRG assegnati regionalmente) e alle prestazioni ambulatoriali (valorizzate tramite nomenclatore tariffario regionale). In una sotto-coorte di pazienti con il dato disponibile, è stato valutato inoltre il numero medio/mediano annuo di viste specialistiche nefrologiche.

L’analisi dei dati è puramente descrittiva e non sono state eseguite statistiche inferenziali. Le analisi sono state riportate nella popolazione generale in studio e stratificata per stadio di IRC. Tutte le analisi sono state eseguite utilizzando STATA SE, versione 12.0 (StataCorp LLC, College Station, TX, USA).

 

Risultati

Partendo da una popolazione di oltre 1,5 milioni di assistibili, sono stati identificati 101.143 pazienti con IRC-NDD, di cui 40.020 anemici (Figura 1).

Figura 1: Flow chart della popolazione in studio.
Figura 1: Flow chart della popolazione in studio.

Successivamente, sono stati individuati 25.360 pazienti IRC-NDD anemici con almeno 2 valori di Hb < 11g/dL nell’arco di 6 mesi, definiti come potenzialmente eleggibili al trattamento ESA; di questi, 3.238 presentavano almeno una prescrizione per ESA, e sono stati considerati nell’analisi. La quota di pazienti potenzialmente eleggibili al trattamento ESA cresceva all’aumentare degli stadi, dal 60,1% nei pazienti con stadio 3 al 79,6% in quelli con stadio 5 (Tabella I).

Stadio 3a (23.626) Stadio 3b (N=10.181) Stadio 4 (N=4.682) Stadio 5 (N=1.531) Totale (N=40.020)
Pazienti potenzialmente eleggibili al trattamento ESA (n, %) 14.203 (60,1) 6.592 (64,7) 3.347 (71,5) 1.218 (79,6) 25.360 (63,4)
Pazienti trattati con ESA (n, %) 956 (6,7) 851 (12,9) 946 (28,3) 485 (39,8) 3.238 (12,8)
Pazienti non trattati con ESA (n, %) 13.247 (93,3) 5.741 (87,1) 2.401 (71,7) 733 (60,2) 22.122 (87,2)
Tabella I: Distribuzione dei pazienti IRC-NDD con anemia ed eleggibili al trattamento ESA per stadio IRC.

La stessa tendenza è stata riscontrata nei pazienti trattati con ESA, da un minimo del 6,7% nello stadio 3a fino al 39,8% nello stadio 5. Una sotto-analisi in cui sono stati considerati i pazienti con almeno 2 valori Hb < 10 g/dL in 6 mesi, ha mostrato un andamento analogo, con una quota di pazienti trattati che oscillava da un minimo di 8,6% (stadio 3a) ad un massimo di 43,5% (Tabella Supplementare I).

Stadio 3a Stadio 3b Stadio 4 Stadio 5 Totale
Pazienti IRC-NDD con anemia 23.626 10.181 4.682 1.531 40.020
Pazienti potenzialmente eleggibili al trattamento ESA (n, %) 9.675 (41,0) 4.612 (45,3) 2.442 (52,2) 974 (63,6) 17.703 (44,2)
Pazienti trattati con ESA (n, %) 832 (8,6) 715 (15,5) 771 (31,6) 424 (43,5) 2.742 (15,5)
Tabella Supplementare I: Distribuzione dei pazienti IRC-NDD con anemia ed eleggibili al trattamento ESA con almeno 2 valori Hb < 10 g/dL nell’arco di 6 mesi per stadio IRC.

Dei 3.238 pazienti inclusi, 956 erano nello stadio 3a (età media 76,6 anni, 55% uomini), 851 nello stadio 3b (età media 79,7 anni, 50,3% uomini), 946 nello stadio 4 (età media 77,4 anni, 47,1% uomini) e 485 nello stadio 5 (età media 71,6 anni, 52,2% uomini) (Tabella II).

Stadio 3a (N=956) Stadio 3b (N=851) Stadio 4 (N=946) Stadio 5 (N=485) Totale (N=3.238)
Età (media, DS) 76,6 (10,9) 79,7 (10,6) 77,4 (12,5) 71,6 (14,3) 76,9 (12,1)
Fascia d’età: / / / / /
– 18-39 anni (n, %) 9 (0,9) 8 (0,9) 14 (1,8) 11 (2,5) 42 (1,4)
– 40-59 anni (n, %) 55 (5,9) 34 (4,5) 65 (7,2) 84 (17,5) 238 (7,6)
– 60-79 anni (n, %) 461 (50,5) 303 (38,5) 374 (41,8) 230 (47,4) 1.368 (44,3)
– ≥ 80 anni (n, %) 430 (42,6) 506 (56,1) 493 (49,3) 160 (32,6) 1.589 (46,6)
Uomini (n, %) 526 (55,0) 428 (50,3) 446 (47,1) 253 (52,2) 1.653 (51,1)
Patologie CV (n, %) 196 (20,5) 246 (28,9) 269 (28,4) 118 (24,3) 829 (25,6)
Ipertensione (n, %) 868 (90,8) 811 (95,3) 912 (96,4) 454 (93,6) 3.045 (94,0)
Diabete (n, %) 361 (37,8) 346 (40,7) 409 (43,2) 188 (38,8) 1.304 (40,3)
Nefropatia diabetica (n, %) 19 (2,0) 35 (4,1) 53 (5,6) 46 (9,5) 153 (4,7)
Rene policistico (n, %) NR 5 (0,6) 8 (0,8) 16 (3,3) 32 (1,0)
Malattie autoimmuni (n, %) 28 (2,9) 20 (2,4) 17 (1,8) 8 (1,6) 73 (2,3)
BPCO, ≥ 1 px (n, %) 510 (53,3) 433 (50,9) 464 (49,0) 224 (46,2) 1.631 (50,4)
BPCO, ≥ 2 px (n, %) 343 (35,9) 308 (36,2) 320 (33,8) 147 (30,3) 1.118 (34,5)
BPCO, ≥ 3 px (n, %) 271 (28,3) 234 (27,5) 254 (26,8) 103 (21,2) 862 (26,6)
Note: NR, non riportato per data privacy (<4 pazienti coinvolti). BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; CV, cardiovascolare; px, prescrizione.
Tabella II: Caratteristiche demografiche della coorte IRC-NDD con anemia in terapia ESA e con almeno 2 valori di Hb < 11 g/dL (totale pazienti e distribuzione per stadio IRC).

Non è stata osservata una tendenza lineare all’aumentare dello stadio IRC per le comorbidità più frequenti come le malattie cardiovascolari (range 20,5-28,9%), l’ipertensione (oltre il 90% in tutti gli stadi), e il diabete (range 37,8%-43,2%). Un trend ascendente è stato osservato per le nefropatie diabetiche, dal 2% al 9,5% passando dallo stadio 3a al 5 e per il rene policistico, che ha interessato fino al 3,3% dei pazienti in stadio 5 mentre la proporzione dei pazienti con malattie autoimmuni tendeva a diminuire dal 2,9% nello stadio 3a all’1,6% nello stadio 5.

Durante il periodo di follow-up, l’aderenza al trattamento con ESA è stata osservata nel 47,9% dei pazienti, con una tendenza discendente all’aumentare dello stadio IRC: si è passati infatti da una quota di pazienti aderenti pari al 65,8% nello stadio 3a ad un minimo del 35% nello stadio 5 (Figura 2). Tra i pazienti in trattamento, il 42,2% è risultato iporesponsivo. Il dosaggio medio giornaliero di ESA nella popolazione in studio è risultato pari a 4,7 mcg per darbepoetina alfa, 1,9 TU per epoetina alfa originator e 2,7 TU per epoetina alfa biosimilare, 2,6 per epoetina zeta, 3,2 mcg per metossipolietilenglicole-epoetina beta, 1,8 TU per epoetina beta, 2,7 TU per epoetina theta.

Figura 2: Aderenza al trattamento ESA durante il periodo di follow-up.
Figura 2: Aderenza al trattamento ESA durante il periodo di follow-up.

Gli eventi analizzati durante il follow-up sono mostrati in Tabella III: 1.415 pazienti hanno avuto anemia persistente, si sono verificati nuovi eventi cardiovascolari in 983 pazienti, 21 hanno avuto un trapianto di rene e 1.435 sono deceduti. Inoltre, circa il 48% presentava un livello CRP > 15mg/L. L’analisi di sopravvivenza nei pazienti eleggibili al trattamento con ESA ha mostrato inoltre come i pazienti non in trattamento con ESA tendevano ad avere un maggior rischio di morte rispetto ai pazienti trattati (Figura 3). 

Totale Livello di infiammazione Ipertensione Diabete Altro ESA Carenza di ferro
CRP>5mg/L CRP>10mg/L CRP>15mg/L
n 3.238 1.947 (60,1) 1.723 (53,2) 1.554 (48,0) 3.020 (93,3) 1.207 (37,3) 1.330 (41,1) 1.221 (37,7)
Trapianto di reni (n, %) 21 11 (52,4) 10 (47,6) 7 (33,3) 19 (90,5) 0 (0,0) 12 (57,1) 10 (47,6)
Morte (n, %) 1.435 932 (64,9) 846 (59,0) 769 (53,6) 1.336 (93,1) 540 (37,6) 556 (38,7) 500 (34,8)
Insorgenza di eventi CV (n, %) 983 689 (70,1) 622 (63,3) 572 (58,2) 943 (95,9) 461 (46,9) 393 (40,0) 384 (39,1)
Insorgenza di tumori (n, %) 311 194 (62,4) 172 (55,3) 155 (49,8) 279 (89,7) 108 (34,7) 109 (35,0) 113 (36,3)
Anemia persistente (n, %) 1415 871 (61,6) 782 (55,3) 705 (49,8) 1.306 (92,3) 532 (37,6) 617 (43,6) 547 (38,7)
Tabella III: Eventi durante il periodo di follow-up in base alle comorbilità, carenza di ferro e livello di infiammazione nei pazienti IRC-NDD con anemia in terapia ESA.
Figura 3: Analisi di sopravvivenza nei pazienti eleggibili al trattamento con ESA.
Figura 3: Analisi di sopravvivenza nei pazienti eleggibili al trattamento con ESA.

Il ricorso a visite nefrologiche specialistiche è stato valutato su una sotto-corte di pazienti con il dato disponibile ed è relativo al periodo di follow-up (2 anni) (Tabella IV): il numero medio di visite specialistiche per paziente variava da un minimo di 1,2 (stadio 3a) ad un massimo di 5,5 (stadio 5), in linea con la quota di pazienti senza visite nefrologiche che diminuiva dal 67,9% nei pazienti in stadio 3a al 53,9% nei pazienti con stadio 5. Di contro, i pazienti con almeno 2 visite nefrologiche aumentavano dal 22% al 40,9%.

  Stadio 3a (N=377) Stadio 3b (N=301) Stadio 4 (N=318) Stadio 5 (N=115) Totale (N=1.111)
Numero di visite nefrologiche/paziente (media, DS) 1,2 (2,7) 1,8 (3,2) 3,2 (5,0) 5,5 (8,4) 2,4 (4,6)
Numero di visite nefrologiche/paziente (mediana, Q1-Q3, min-max) 0 (0-1, 0-14) 0 (0-3, 0-13) 1 (0-5, 0-23) 0 (0-10, 0-27) 0 (0-3, 0-24)
Pazienti senza visite nefrologiche (n, %) 256 (67,9) 166 (55,1) 153 (48,1) 62 (53,9) 637 (57,3)
Pazienti con 1 visita nefrologica (n, %) 38 (10,1) 34 (11,3) 28 (8,8) 6 (5,2) 106 (9,5)
Pazienti con almeno 2 visite nefrologiche (n, %) 83 (22,0) 101 (33,6) 137 (43,1) 47 (40,9) 368 (33,1)
Tabella IV: Ricorso alle visite nefrologiche durante il follow-up.

Il costo medio annuo è stato valutato nei pazienti vivi durante il follow-up, ed è riportato in Tabella V. La voce di costo ad impatto più elevato era rappresentata dalla spesa relativa ai farmaci, pari a €4.391, con un range tra stadi IRC compreso tra €3.291 e €5.986, seguito dalla voce dei ricoveri, di circa €3.591 (da €3.735 stadio 3a a €3.260 stadio 5), dai test di laboratorio (€1.460, con un notevole aumento da €777 a €6.392 al progredire dello stadio) e dalle visite specialistiche (€129). 

  NDD-CKD anemia ESA treatment cohort
Stadio 3a (N=590) Stadio 3b (N=547) Stadio 4 (N=515) Stadio 5 (N=192) Totale (N=1.844)
Farmaci, € (media, DS) 5,986 (10.053) 3.654 (6.390) 3.291 (4.020) 4.540 (9.824) 4.391 (7.760)
 ESA, € (media, DS) 2.270 (3.625) 1.625 (2.816) 1.539 (2.301) 1.547 (2.246) 1.799 (2.942)
Ricoveri, € (media, DS) 3.735 (5.154) 3.651 (5.661) 3.488 (6.025) 3.260 (4.269) 3.591 (5.479)
Visite, € (media, DS) 107 (115) 90 (96) 114 (235) 353 (724) 129 (287)
Lab test, € (media, DS) 777 (1.746) 672 (2.644) 1.240 (4.331) 6.392 (12.843) 1.460 (5.315)
Lab test patologia-correlati, € (media, DS) 149 (176) 141 (192) 149 (192) 141 (214) 146 (189)
MEDIANE
Farmaci, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 2.765 (1.280-5.831, 11-61.421) 2.169 (990-4.113, 12-29.269) 2.160 (1.135-4.022, 12-19.041) 2.399 (1.244-4.771, 10-49.221) 2.343 (1.169-4.566, 10-39.108)
 ESA, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 1.031 (323-2.616, 6-17.320) 731 (225-1.970, 5-14.585) 883 (298-2.029, 4-12.857) 728 (286-1.913, 9-11.228) 843 (281-2.150, 4-14.910)
Ricoveri, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 1.867 (0-5.675, 0-26.218) 1.823 (0-4.873, 0-32.632) 1.867 (0-4.570, 0-30.142) 1.830 (0-4.500, 0-21.778) 1.856 (0-4.865, 0-26.218)
Visite, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 70 (23-149, 0-547) 63 (21-124, 0-435) 71 (23-124, 0-972) 86 (28-269, 0-3.310) 69 (23-136, 0-1.477)
Lab test, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 269 (89-776, 0-8.164) 166 (48-462, 0-7,344) 195 (71-534, 0-26.550) 393 (84-3.044, 0-54.340) 225 (71-656, 0-30.451)
Lab test patologia-correlati, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 105 (37-191, 0-868) 87 (31-174, 0-979) 102 (45-185, 0-849) 66 (6-172, 0-1.382) 95 (35-182, 0-861)
Tabella V: Costi medi annuali diretti per i pazienti IRC-NDD con anemia in terapia ESA vivi durante il follow-up.

 

Discussione

La presente analisi ha mostrato una fotografia della gestione dell’anemia in IRC-NDD e del carico economico dei pazienti IRC-NDD (stadio 3a-5) con anemia in terapia ESA in termini di caratteristiche demografiche e cliniche, percorsi terapeutici, accesso alle visite specialistiche nefrologiche e costi assistenziali a carico del SSN in contesti di reale pratica clinica sul territorio italiano, coinvolgendo una popolazione di circa 1,5 milioni di assistibili.

Dei 101.143 pazienti IRC-NDD identificati, circa il 40% era anemico; tale dato risulta in linea con uno studio prospettico di coorte condotto in Italia nel 2003, in cui è stata riportata una prevalenza di anemia lieve nel 41,3% dei pazienti adulti IRC-NDD (stadio 3-5), identificata durante la prima visita in 25 cliniche specialistiche [23]. Inoltre, un altro studio osservazionale italiano condotto su 755 pazienti prevalenti IRC-NDD ha valutato una prevalenza dell’anemia grave e lieve rispettivamente nel 18% e nel 44% dei casi, che è rimasta invariata dopo 6 mesi (19,3 e 43,2%), e gli autori sottolineano come questo dato possa essere associato ad una inerzia clinica nella gestione dell’anemia [19].

Dalla nostra analisi emerge come tra i pazienti eleggibili al trattamento, solo il 13% sia effettivamente in terapia con ESA. Nonostante l’analisi per singolo stadio riveli un forte incremento nei pazienti trattati con il progredire dell’IRC, dal 7% nello stadio 3a al 40% nello stadio 5, si osserva una quota residuale di 60% di pazienti in tale stadio senza un trattamento ESA. La percentuale riscontrata di pazienti trattati è risultata solo di poco maggiore nei pazienti con valori di Hb < 10 g/dL. Tali dati potrebbero suggerire la presenza di altre cause reversibili di anemia che potrebbero essere corrette utilizzando terapie alternative agli ESA, come ad esempio carenze marziali, il cui trattamento di prima linea consigliato dalle linee guida KDIGO è rappresentato dall’utilizzo di formulazioni a base di ferro [24]. Inoltre, il dato potrebbe essere sottostimato in quanto la somministrazione degli ESA avvenuta durante eventuali ricoveri potrebbe non essere tracciabile all’interno del database. Una ulteriore spiegazione potrebbe risiedere nel dato relativo alle visite nefrologiche che, seppur l’analisi sia stata condotta in un sottogruppo di pazienti con il dato disponibile, ha evidenziato come oltre la metà di questi non presentasse nemmeno una visita nefrologica (in regime di rimborsabilità). Tuttavia, il trend di sotto-utilizzo delle terapie a base di ESA è stato precedentemente descritto in letteratura sia a livello internazionale che nazionale: Alagoz e colleghi [25] hanno riscontrato un sotto-uso di ESA nei pazienti con anemia severa in Turchia, con 56 pazienti effettivamente trattati su 159 candidabili al trattamento. L’inerzia terapeutica è stata inoltre descritta da Minutolo et al. [19] con circa il 34% di pazienti IRC-NDD seguiti da Centri Nefrologici in Italia che non ricevevano una terapia ESA nonostante avessero una condizione anemica confermata nell’arco dei 6 mesi di osservazione. Tale tendenza è stata recentemente confermata dall’analisi CKDopps, che ha mostrato come un’ampia percentuale di pazienti con anemia da IRC-NDD non abbia ricevuto farmaci per l’anemia entro 1 anno [18]. Dunque la ridotta prescrizione di ESA potrebbe essere dovuta sia ad un inizio tardivo della terapia, come documentato in letteratura, sia al fatto che generalmente i prescrittori inseriscono gli ESA in base ai livelli di Hb e non in base allo stadio: la classificazione K/DOQI della CKD applicata ad una popolazione con molti anziani come quella italiana tende a sovrastimare la perdita di GFR rispetto alle effettive necessità depurative di soggetti con bassa attività metabolica e una alimentazione “mediterranea” piuttosto bilanciata. Se il basso GFR è “age-adjusted” per una perdita fisiologica di 0,75 mL/min/anno a partire dai 30 anni vi è molta meno “insufficienza renale” di quanto il valore stimato faccia ritenere in termini di effettiva depurazione (azotemia, iperpotassiemia, iperfosforemia, sovraccarico di volume) e quindi anche meno anemia di quanto non ci si attenda in base allo stadio K/DOQI. In linea con la tendenza di riduzione delle prescrizioni ESA, anche l’aderenza ai trattamenti diminuiva con il progredire della patologia. In quest’ultimo caso, l’offerta nefrologica ambulatoriale in alcune aeree è poco capillare e con lunghe liste di attesa, e ciò comporta lunghi spostamenti, difficili per persone anziane e/o disabili e di conseguenza rallenta il follow-up del paziente che, se poco seguito, potrebbe tendere ad una minor aderenza.

Riguardo al profilo di comorbilità, la quasi totalità dei pazienti era ipertesa, coerentemente con il dato emerso dallo studio IRIDE, in cui la quota dei pazienti ipertesi variava tra l’84% e 91% negli stadi 3a-5 [20] mentre la proporzione di pazienti diabetici descritta nella nostra analisi (40% circa) era in linea con il 35% riportato in una coorte trattata con ESA con Hb < 11 g/dL descritta in uno studio osservazionale svedese [26].

L’analisi di sopravvivenza trattati vs non trattati elaborata considerando i 2 anni di follow-up ha mostrato come i pazienti in trattamento tendevano ad incorrere in un rischio minore di morte rispetto ai pazienti trattati. Tuttavia, l’analisi è di carattere descrittivo e il risultato non deve essere interpretato come un nesso di causalità tra la presenza/assenza di trattamento ESA e la mortalità. Le motivazioni potrebbero risiedere in caratteristiche cliniche differenti tra i due gruppi, per cui i non trattati potrebbero presentare un profilo di rischio intrinseco maggiore rispetto ai trattati; oppure i pazienti in trattamento potrebbero essere più seguiti da Centri Nefrologici ed essere dunque più controllati. I risultati emersi da uno studio svedese indicano che l’inizio di una terapia ESA con valori Hb < 11 g/dL non è correlato ad un aumento della mortalità o di eventi cardiovascolari nei pazienti IRC-NDD, mentre quando l’Hb scende per la prima volta sotto la soglia < 10-11 g/dL l’inizio della terapia ESA è stata associata a una migliore sopravvivenza [26]. In direzione contraria sono i dati nei diversi studi clinici randomizzati sui pazienti trattati con ESA, in cui la correzione totale dell’anemia (valori Hb > 12 g/dL), rispetto alla correzione parziale (valori Hb < 12 g/dL), è risultata associata a un aumento del rischio di eventi avversi e mortalità [27]: nello studio CREATE, in cui pazienti IRC-NDD sono stati randomizzati per ricevere un trattamento ESA per la correzione totale o parziale dell’anemia, non è stata osservata una riduzione del rischio cardiovascolare nei pazienti con correzione totale, i quali hanno invece mostrato un rischio maggiore, seppur non statisticamente significativo, di morte [28]. Nello studio clinico CHOIR, i pazienti nel gruppo con il target più elevato di Hb presentavano un rischio più elevato di eventi cardiovascolari e morte rispetto a quelli nel gruppo target più basso [29]. L’analisi del consumo di risorse focalizzata sull’accesso alle visite specialistiche ha evidenziato una tendenza incrementale nel numero medio e nella quota di pazienti con visite nefrologiche in regime di rimborsabilità all’aumentare dello stadio IRC. Oltre la metà dei pazienti analizzati non presentava alcun accesso a tali visite; data l’età avanzata dei pazienti in studio, una motivazione potrebbe risiedere in una scarsa mobilità di questi, o nel fatto che una quota di pazienti potrebbe essere assistita in strutture residenziali. In uno studio prospettico italiano condotto su pazienti non seguiti da Centri Nefrologici, i pazienti CKD negli stadi 3b-5 presentavano un rischio di ESRD (End Stage Renal Disease) e morte maggiore rispetto ai pazienti ai primi stadi, suggerendo l’importanza della presa in carico di tali pazienti presso ambulatori di Nefrologia [30]. Infine, l’analisi dei costi ha evidenziato un elevato burden economico per i pazienti, dovuto soprattutto alla spesa relativa ai farmaci, di cui gli ESA incidono per circa un 40%.

Lo studio presenta dei limiti. I database amministrativi contengono le informazioni inerenti al consumo di risorse sanitarie rimborsate dal SSN, per cui i consumi a carico del paziente non sono tracciati. Per tale motivo, non è stato possibile valutare l’utilizzo di supplementazioni di ferro orale, mentre si è riscontra la somministrazione di ferro endovenoso per solo l’1,1% dei pazienti; per la stessa natura dei database amministrativi non è stato possibile tracciare il ricorso a visite specialistiche in ambito privato non rimborsato. Nei database non è riportata l’indicazione per i farmaci prescritti, per cui le terapie ESA potrebbero essere correlate a condizioni diverse dall’anemia da CKD. Al fine di minimizzare tale bias, sono stati esclusi i pazienti con precedente diagnosi di cancro. Inoltre, la presenza di prescrizione ESA potrebbe essere stata sottostimata se avvenuta in fase di ricovero, non sempre tracciabile, o all’interno di strutture di ricovero e cura per le quali il dato non è tracciato all’interno dei flussi amministrativi . Di conseguenza, anche l’aderenza ad ESA potrebbe risultare sottostimata. Inoltre, l’aderenza è calcolata sulla base delle prescrizioni dispensate, mentre non è possibile tracciare il reale utilizzo fatto dal paziente. I pazienti sono stati stimati eleggibili alla terapia ESA sulla base dei livelli di Hb, per cui il dato potrebbe essere sovrastimato in mancanza di informazioni cliniche che potrebbero rappresentare controindicazioni a tale trattamento, o di anemia dovuta ad altre cause.

 

Conclusioni

La presente analisi condotta in contesti real-world di pratica clinica in Italia ha fornito una panoramica sulla gestione terapeutica dei pazienti IRC-NDD (stadio 3a-5) anemici, con particolare riguardo ai pazienti in trattamento con ESA. I dati hanno evidenziato una tendenza al sotto-utilizzo di ESA, oltre ad una aderenza non ottimale alla terapia e hanno mostrato come in una quota significativa di pazienti non sia stato osservato il ricorso alle visite nefrologiche (in regime di rimborsabilità). Tali fattori potrebbero contribuire ad aumentare il carico complessivo della malattia, e suggeriscono la necessità di implementare azioni volte a migliorare il profilo di gestione del paziente anemico e del suo trattamento farmacologico.

 

Riconoscimenti

Elisa Giacomini ha fornito un supporto significativo come medical writer per la stesura di questo manuscript. Francesca Donà è stata ideatrice dello studio e ha lavorato nella squadra di progetto fino ai primi risultati di interim.

 

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L’inefficacia del tolvaptan correla con una prognosi negativa a breve termine nel paziente con tumore polmonare e sindrome da inappropriata antidiuresi

Abstract

Introduzione: Il tolvaptan (TVP), antagonista del recettore della vasopressina, rappresenta una opzione terapeutica della sindrome da inappropriata antidiuresi (SIAD). L’obiettivo di questo studio è stato quello di valutare gli effetti del TVP in pazienti oncologici con iponatriemia.
Metodi: Sono stati arruolati 15 pazienti oncologici affetti da SIAD. I pazienti trattati con TVP appartenevano al gruppo A, mentre pazienti iponatriemici trattati con soluzioni ipertoniche e restrizione di fluidi costituivano il gruppo B.
Risultati: Nel gruppo A, la correzione ottimale del sodio è stata ottenuta dopo 3.7±2.8 giorni. Nel gruppo B, i livelli target di sodiemia sono stati raggiunti più lentamente rispetto al gruppo A, dopo 5.2±3.1 giorni. La durata della degenza e l’incidenza di riospedalizzazione era maggiore nel gruppo B rispetto al gruppo A. Nel gruppo A, il 37% dei pazienti trattati con TVP ha avuto una recidiva di iponatriemia, nonostante il progressivo incremento della posologia del farmaco, da 7,5 mg sino a 60 mg die, con una completa mancanza di risposta al farmaco. In tali pazienti si è documentata una progressione di malattia, definita come crescita tumorale o comparsa di nuove lesioni metastatiche.
Conclusioni: Il Tolvaptan corregge l’iponatriemia correlata a una SIAD in modo più efficace e duraturo rispetto alle soluzioni ipertoniche e alla restrizione di liquidi. Tale efficacia determina un maggior numero di cicli di chemioterapia portati a termine, una minore durata della degenza, un minor tasso di recidiva dell’iponatriemia e della riospedalizzazione. Una mancata risposta al tolvaptan deve porre il sospetto di una progressione della malattia oncologica.

Parole chiave: Iponatriemia, sindrome paraneoplastica, sindrome da inappropriata antidiuresi, tolvaptan, vasopressina

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in inglese.

Introduction

The prognosis of oncologic patients is often related to the onset of electrolytic disorders, particularly if hyponatremia occurs [1]. The syndrome of inappropriate anti-diuresis (SIAD) represents the main cause of hyponatremia, even though differential diagnosis with concomitant comorbidities (heart failure, nephrotic syndrome, extracellular volume depletion, pulmonary disorders) and drugs (tricyclic antidepressants, selective serotonin reuptake inhibitors, opioids, chemotherapeutic agents and immunotherapy) needs to be carried out [2, 3].

In particular, SIAD is directly associated with malignancy as expression of a paraneoplastic endocrine effect mediated by an ectopic production of vasopressin (AVP) by cancer cells. Moreover, medications, particularly chemotherapic agents, such as vinca alkaloids, alkylating agents, and platinum compounds, which increase the AVP synthesis/release, could induce SIAD. Other drugs, such as cyclophosphamide, could enhance the water permeability of the distal tubule, in the absence of high AVP levels [1].

Fluid restriction remains the mainstay of treatment for acute and moderate hyponatremia associated with SIAD but inefficacy and frequent side effects, such as dehydration and acute kidney injury, often involving patients treated, at the same time with chemotherapy, require pharmacological interventions [4]. Demeclocycline, loop diuretics associated with sodium supplementation, and urea tablets could correct and solve hyponatremia [5]. In particular, the infusion of hypertonic saline (3%) is highly recommended in acute situations with neurological symptoms. The guidelines advise a bolus of 100–150 mL in 10 minutes, which might be repeated 2 to 3 times until serum sodium increase by 5 mmol avoiding overcorrection [6].
No more than 10 mmol in the first 24 hours or 8 mmol if there are risk factors must be reached in order to prevent severe damage to the central nervous system, such as central pontine myelinolysis, ultimately coma and death. The recommendation is to carry on the correction until symptoms’ disappearance, with careful monitoring of patient’s conditions and serum sodium concentration to avoid hyponatremia overcorrection. If the patient is symptomatic but hyponatremia occurred chronically, correction should be performed more gradually (1.5 to 2 mmol/L/h) [7].
Tolvaptan (TVP), an AVP receptor antagonist, represents a therapeutic option in these patients. It induces a net increase in free water excretion, decreasing aquaporin-2 channels in the renal collecting tubules and water re-absorption and consequently increasing serum sodium concentrations. This phenomenon causes a pure aquaresis without a rise of sodium or potassium urinary excretion [8].
Various studies have investigated the usefulness of TVP, revealing its safety and efficacy in hyponatremic patients, with additional benefits in terms of quality of life and reduced hospitalization [9, 10]. The correction of hyponatremia may also improve anti-neoplastic effects of chemotherapies [11], such as the decrease of AVP levels could reflect a neoplastic remission, or conversely, a recurrence [12].
Despite these findings, hyponatremia did not correlate with tumor burden. Although several studies have focused on hyponatremia in cancer patients, only a limited number of case reports of SIAD are available in this setting, and a limited amount of data on SIAD in cancer patients are available in the literature.
This observational, hypothesis generating study aimed to evaluate the efficacy and safety of TVP to treat and solve hyponatremia in oncologic patients with SIAD. Moreover, we compared TVP results with those obtained by intravenous (iv) therapy based on hypertonic solutions. The incidence of re-hospitalization, due to hyponatremia recurrence and consequent prognostic implication of TVP resistance was evaluated.


Patients and methods

15 adult patients, with a histologically confirmed diagnosis of solid pulmonary tumors who have developed SIAD between January 2017 and June 2020, were retrospectively enrolled in the study.
Diagnostic criteria confirmed the SIAD [13] by evaluating the volemic status, serum sodium concentration and serum osmolality, urine sodium concentration and urine osmolality, thyroid function tests, and serum cortisol. Hypovolemic and hypervolemic hyponatremia has been excluded, as well as hyponatremia due to other endocrine causes, including adrenal insufficiency or hypothyroidism.
Patients with transient hyponatremia due to drugs (i.e., antidepressants, anticonvulsants, antipsychotic), who did not feel thirsty or have difficulty drinking water, with urinary tract obstruction, with serum sodium levels <115 mEq/L associated with severe neurologic deficits, such as seizures, have been excluded from the study. Furthermore, heart failure, renal failure with a glomerular filtration rate < 60 ml/min, ascites associated with hepatic cirrhosis, nephrotic syndrome, severe arterial hypotension, evidence of urinary tract obstruction, poorly controlled diabetes mellitus, a recent history of myocardial infarction, and cerebrovascular disorders determined the exclusion from the enrolment.

Hyponatremia correction and follow-up

According to the pharmacological strategy, patients receiving TVP belonged to group A, whereas group B was characterized by hyponatremic patients treated with hypertonic saline solutions and fluid restriction. In particular, group A patients were treated with 7.5 mg/day of TVP on Day 1 and increased to 15 mg/day if no serum sodium increase was revealed. Conversely, an infusion of 1 ml/kg/h of 3% hypertonic saline was administered in group B, with serum sodium checked every 2 hours during the first 12 hours of treatment.

Patients were discharged and managed as outpatients if they met ambulatory criteria, once the maintenance dose of TVP had been determined. In particular, after the hospital discharge, all patients have been followed through a dedicated outpatient clinic system, with different timing according to clinical conditions and sodium levels. “Maintenance criteria” required weekly serum sodium evaluation before TVP administration, with a target of 2 mEq/L of sodium difference if compared with the concentration assessed at the hospital discharge or the last serum assessment. The liver function panel has been also monitored, as well as body weight and vital signs. Moreover, to avoid rapid and potentially dangerous sodium concentration increase, group A patients did not have a fluid restriction.

The current study was undertaken following the principles outlined in the Declaration of Helsinki. Written informed consent was obtained from all patients. Clinical data were collected from medical chart reviews and electronic records.

Statistical analysis

Statistical analyses were performed with NCSS for Windows (version 4.0), the MedCalc (version 11.0; MedCalc Software Acacialaan, Ostend, Belgium) software, and the GraphPad Prism (version 5.0; GraphPad Software, Inc., San Diego, CA, USA) package. Data were presented as mean ± SD for normally distributed values (at Kolmogorov-Smirnov test) and median [IQ range] for not normally distributed values. Differences between groups were established by unpaired t-test or by ANOVA followed by Bonferroni’s test for normally distributed values and by Kruskal-Wallis analysis followed by Dunn’s test for nonparametric values. Dichotomized values were compared using the χ2 test. All results were considered significant if p was < 0.05.


Results

Patients baseline characteristics

Total Group A (TVP) Group B (Hypertonic) p
Patients 15 8 7 p > 0.05
Age, y 69.7±5.9 68.6±6.8 67.4±5.2 p > 0.05
WBC, mm3 6.07±2.4 5.24±2.8 6.37±1.9 p > 0.05
eGFR 78.4±12.8 81.2±9.7 77.4±10.1 p > 0.05
Admission [Na], mmol/l 120.4±2.9 119.7±3.8 118.4±2.9 p > 0.05
Admission Serum Osmolality, mOsm/Kg 257±12.3 244.2±9.3 247±11.2 p > 0.05
Admission Urine Osmolality, mOsm/Kg 407±119.8 465±79.2 397±101 p > 0.05
Hospital stay, days 17.9±8.2 17.6±4.7 11.2±3.4 p < 0.01
Δ[Na], mmol/l/24h 7.9±4.4 8.7±3.5 7.4±4.2 p > 0.05
[Na] Target Achievement, days 6.4±3.6 3.7±2.8 5.2±3.1 p: 0.01
[Na] Hospital Discharge 143.8±1.8 143.4±2.6 144.2±2.1 p > 0.05
Hyponatremia recurrence
Outpatients management, days 22.6±10.8 26.5±6.4 11±6.4 p < 0.01
Re-hospitalization, n (%) 8 (53) 3 (37) 5 (72) p > 0.05
[Na] re-admission, mmol/l 122.7±2.8 123.9±3.4 121.4±3.7 p:0.03
Re-admission Serum Osmolality 251±9.4 262±7.9 258±4.5 p > 0.05
Re-admission urine Osmolality 504±104.8 472±93.4 408.5±79 p > 0.05
Disease progression, n (%) 5 (62) 3 (100) 2 (40) p > 0.05
Table 1: Baseline characteristics of the study cohort.

A total of 15 patients (mean age: 69.7±5.9 years) were hospitalized because of SIAD, and the median sodium level at admission was 120.4±2.9 mmol/l (range 117.4-123.2 mmol/l). The median duration of hospitalization was 17.9±8.2 days (range 9.4-22.7 days). All patients underwent chest radiograph evaluation after the admission to the hospital, excluding active findings of pulmonary infection. The mean white blood cell count was 6.07±2.4 mm3.

Hyponatremia management

Eight patients received tolvaptan for SIAD treatment (group A), whereas hypertonic solutions and fluid restriction have been the treatment for the remaining seven patients (group B).

In group A, all patients started tolvaptan at a dose of 7.5 mg/daily, with the next modifications according to sodium and osmolarity levels.

Hyponatremia has been improved in all Group A patients, without toxicity due to the drug, as revealed by normal values of liver function tests.

Serum sodium levels have been monitored over the first 24 h at regular intervals of 4-6 h to check the correction speed. A rapid correction was not observed, with a slow improvement of sodium levels within the range of 8-10 mmol/l/24h (ΔNa: 8.7±3.5 mmol/l/24h). Moreover, the correction of serum sodium, defined at 135 mmol/l, was achieved after 3.7±2.8 days. All patients required a final dose of 7 or 15 mg of TVP, before hospital discharge, as chronic therapy (Figure 1).

Figure 1: Sodium trend during tolvaptan administration.
Figure 1: Sodium trend during tolvaptan administration.

In group B, patients had a similar trend for sodium increase (ΔNa: 7.4±4.2 mmol/l/24h), but the target levels were obtained more slowly, after 5.2±3.1 days (p: 0.01) than group A. Similarly, the hospital stay was longer in group B than in group A (17.6±4.7 vs 11.2±3.4 days; p< 0.01).

Hyponatremia relapse and re-hospitalization

Serum sodium levels were similar between the two groups during the last assessment in the hospital (143.4±2.6 vs 144.2±2.1; p> 0.05). After discharge, all patients have been followed weekly, to monitor clinical conditions and sodium levels.

Group B was characterized by a higher incidence of re-hospitalization than group A. In particular, 5/7 patients (72%) required hospitalization within 11±6.4 days after the discharge, due to symptomatic hyponatremia (mean serum sodium value at the hospital admission was 121.4±3.7 mmol/l), determining drowsiness, mental confusion or fatigue. This condition was solved by repeating intravenous schemes with hypertonic solutions, with a mean hospital stay of 13.6 ±7.2 days.

In TVP group A, only 3/8 patients (37%) had hyponatremic relapses. These three patients were managed in the outpatient clinic after 26.5±6.4 days (vs 11±6.4 days; p < 0.01) since the last hospital discharge. During this period, serum sodium was maintained between 140 and 145 mmol/l, administering 7.5 or 15 mg of TVP, daily or every other day. In these three patients, severe, sudden and detrimental hyponatremia was observed (123.9±3.4 mmol/l), requiring re-hospitalization. Notwithstanding the progressive increase of doses of TVP, from 7.5 or 15 mg to 60 mg per day hyponatremia did not improve, revealing a complete lack of response to TVP.

Behind planned protocols, the unscheduled oncologic and radiologic staging was early performed. In all three patients, a growth of tumor mass or new metastatic lesions has been revealed, requiring a re-scheduling and modification of chemotherapy cycles. Only after some chemotherapy administration, sodium levels slowly increased. Figure 2 synthetizes the events occurred in a patient with TVP resistance.  

Figure 2: Management of hyponatremia and oncologic restaging in a patient with tolvaptan resistance.
Figure 2: Management of hyponatremia and oncologic restaging in a patient with tolvaptan resistance.

In the remaining five patients (63%) of group A, hyponatremic episodes were often acutely and temporarily related to chemotherapy administration, with sodium correction after adjustment of TVP dose. These patients have been managed in outpatients clinic for more than six months, without the requirement of re-hospitalization and with no progression of cancer disease revealed after scheduled follow-up. All patients completed the planned chemotherapy.

No patients discontinued the TVP treatment due to adverse events, liver dysfunction, or serum sodium concentration exceeding 145 mEq/L.


Discussion

TVP represents a safe and valid therapeutic option to treat hyponatremic oncologic patients who developed SIAD, with no rapid sodium increase observed during the study period and without side effects TVP-related, such as sodium overcorrection or hepatic toxicity. Moreover, the aquaretic approach immediately increased serum sodium concentration, reducing the length of hospitalization, if compared to alternative methods, such as hypertonic solutions, reaching sodium normalization, but in fewer patients and in a longer time.

TVP also reduced the incidence of relapse of hyponatremia and re-hospitalization rate in outpatient follow-up, with obvious positive consequences on quality of life and costs.

These positive data also derived from specific clinical management of these patients, requiring multidisciplinary approaches and strategies, through a dedicated outpatient clinic system after the hospital discharge. Our patients have been evaluated with different timing, according to sodium levels and, consequently, TVP dosage adjustment.

A specific focus on these patients determined various supplementary effects, behind the issue “natremia”. During the follow-up, no TVP patients experienced acute kidney injury in concomitance with chemotherapeutical cycles, probably due to the diminished incidence of dehydration, secondary to fluid restriction, which could be usually prescribed in patients with low sodium levels. The maintenance of serum sodium within the normal range allowed the precocious start of chemotherapeutic agents, without chemotherapy-related hyponatremia, due to the intravenous fluid overload and drug-associated AVP secretion. Behind these positive effects, related to the quick start of chemotherapy, TVP treatment facilitated the administration of chemotherapy cycles constantly and promptly, avoiding delays. Moreover, the efficacy of anticancer treatment is notably improved in patients with normal sodium levels or after its correction, as recently stated by Berardi who revealed an optimal sodium correction, an improvement of the hospitalization length and quality of life during TVP treatment [14].

Our study also suggested potential prognostic information that could be deduced from TVP patients, in whom sudden and progressive hyponatremia occurred, despite TVP dosage increase. A re-staging of these patients highlighted tumor mass growth or new metastatic lesions, suggesting cancer AVP production, requiring modification of chemotherapy cycles.

However, notwithstanding all this available evidence, the use of TVP remains limited in daily clinical practice, around 5%, according to the hyponatremia registry [15].

Adequate management of natremia is crucial due to the well-known correlation with overall survival, both in the general population and in cancer patients. Many studies revealed a close link between low sodium levels and poor prognosis, not only in small cell lung cancer [14] but also in other types of non-pulmonary tumors, including renal cell carcinoma and gastrointestinal cancer [1619].

We cannot analyze potential relationships between survival and sodium correction, acutely or during a long follow-up period, by TVP administration due to the small cohort of patients.

The present study has some limitations that should be mentioned. First, the retrospective nature of this study could result in unwanted methodological biases. The therapy choices were not randomized; therefore, conclusions about the relative efficacy of the treatments, including TVP, are limited. Confirmation in wider cohorts is indispensable to attribute general validity to our results.

These limitations did not allow us to strengthen the prognostic role of TVP failure to improve sudden hyponatremia or to evaluate the impact of TVP therapy and sodium maintenance on patients’ survival. However, our study generating hypotheses could be a starting point for further studies.

 

Conclusions

Our data demonstrated that TVP improved hyponatremia more efficiently and stably than hypertonic solutions and fluid restrictions, with a high rate of chemotherapeutical cycles concluded. Positive consequences have been obtained about the hospital stay, rate of relapse of hyponatremia, and re-hospitalization. TVP exerted its potential benefit of long-term use in an outpatient setting, improving the quality of life of SIAD oncologic patients.

 

Acknowledgments

The authors acknowledge the Nephrology nurses Carmelo Saterno and Caterina Ragno for their clinical work during the outpatient clinic management and for participating in the study collecting data.

 

Bibliography

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Malnutrizione e adeguatezza dialitica nei pazienti in dialisi peritoneale: due facce della stessa medaglia?

Abstract

Adeguatezza dialitica e uno stato di “eunutrizione” sono due elementi essenziali da considerare nella valutazione del paziente in trattamento dialitico sostitutivo.

L’inadeguatezza dialitica spesso si associa alla malnutrizione, e la combinazione di questi due fattori ne peggiora significativamente la prognosi.

Nel seguente studio, monocentrico e prospettico, è stata testata la correlazione tra markers nutrizionali e adeguatezza dialitica in una coorte di pazienti in trattamento dialitico peritoneale, seguiti stabilmente per due anni.

È stata quindi verificata l’ipotesi che la modifica della terapia dialitica volta al raggiungimento dei parametri di adeguatezza potesse contestualmente migliorare i parametri metabolici.

Pur non essendoci pazienti francamente malnutriti, il gruppo di pazienti “inadeguati” con Kt/V <1.7 aveva, alla rilevazione basale, un valore di nPCR (normalized protein catabolic rate) significativamente più basso. In questo stesso gruppo le misure terapeutiche hanno consentito, dopo circa 6 mesi, un complessivo miglioramento del Kt/V e di nPCR, con altri parametri nutrizionali (come peso corporeo, albumina, prealbuminemia, colesterolemia totale) rimasti stabili.

Al termine del periodo di follow-up il Kt/V degli “inadeguati”(<1.7) si è confermato su valori più alti rispetto al basale, raggiungendo al 12° ed al 24° mese una significatività statistica. Una precoce individuazione di uno stato di inadeguatezza dialitica ha consentito pertanto l’esecuzione tempestiva di modifiche volte al miglioramento della terapia sostitutiva, resa “adeguata”, e un temporaneo miglioramento dello stato nutrizionale del paziente per circa 6 mesi. Successivamente, nonostante il miglioramento persistente del Kt/V, si è assistito a una nuova riduzione dell’nPCR. Parole chiave: dialisi peritoneale, malnutrizione, adeguatezza dialitica

Introduzione

La malnutrizione è un’importante problematica nei pazienti con malattia renale cronica. Può insorgere già dai primi stadi, peggiorare con il progredire della malattia e influire sull’efficienza della metodica dialitica. Sin dagli stadi iniziali di CKD si verifica in una percentuale elevata di pazienti (35-70%) un inadeguato apporto di nutrienti causato da una progressiva perdita di appetito [1]. Uno stato pro-infiammatorio [2] e la riduzione dell’attività fisica, in particolar modo nelle fasi avanzate di malattia renale cronica, contribuiscono alla deplezione protido-energetica [3].

È stato dimostrato come la malnutrizione si sviluppi principalmente nei pazienti in dialisi peritoneale che perdono la funzione renale residua [4].

Gli esperti della Società Internazionale di Nutrizione Renale e Metabolismo (ISRNM) hanno introdotto già nel 2008 il termine ‘Protein-Energy Wasting’ (PEW) per descrivere uno “stato di diminuzione delle riserve corporee di proteine ​​​​e combustibili energetici (proteine ​​​​corporee e masse grasse)” [5]. Perché si possa parlare quindi di PEW, è necessario che almeno tre criteri di ciascuna delle quattro categorie (parametri biochimici, massa corporea totale, massa muscolare, intake dietetico) siano soddisfatti. 

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Denosumab e rischio fratturativo nel trapianto di rene

Abstract

Introduzione: I pazienti con trapianto di rene hanno un elevato rischio di sviluppare malattia ossea. L’anticorpo monoclonale denosumab (Den) legando RANKL, riduce l’attività osteoclastica e aumenta le densità minerale ossea (BMD), riducendo il rischio di fratture. Abbiamo studiato l’efficacia e la sicurezza di Den in pazienti con trapianto di rene che hanno sviluppato fratture ossee.
Pazienti e metodi: Tredici pazienti con trapianto renale (età 50-79 7 M e 6 F), con una media di 9,9 anni di trapianto, con funzione renale sostanzialmente conservata (eGFR 62±15 ml/min/1.73m2) che hanno sviluppato fratture low-energy (21 dorsali e 1 lombare) dopo il trapianto, sono stati sottoposti a terapia con denosumab e valutati per un periodo di due anni (4 dosi da 60 mg) con DEXA vertebro-femorale e morfometria assorbitiva (MXA).

Nel periodo di osservazione sono state raccolte le altezze vertebrali e il loro rapporto postero-anteriore (P/A) e i valori della BMD vertebrale, femorale e del radio. La terapia immunosoppressiva comprendeva CNI e MMF e 8 su 13 pazienti prendevano prednisone. Inoltre, i pazienti ricevevano una dose di 450.000 UI di colecalciferolo all’anno. Whole-PTH, 25-OH D3, fosfatasi alcalina (ALP) sono stati valutati.
Risultati: Dopo 2 anni di terapia con Den, la DEXA evidenziava un significativo aumento del T-score vertebrale (da -2.12±0.35  a -1.67±0.35; p<0.02), mentre T score femorale e radiale erano immodificati (-1.86±0.21 versus -1.84±0.23 e -3.04±0.42 versus -3.19±0.45, rispettivamente). Abbiamo trovato un ridotto tasso di incidenza di fratture vertebrali/paziente-anno rispetto al periodo pre e post Den 0.17 [95 CI 0.11-0.24] vs 0.07 [95% CI 0.02-0.3] rispettivamente. Nessuna modificazione significativa di Whole-PTH (89.3119.9 pg/ml versus 68.389.8 pg/ml), 25OH D3 (24.022.75 ug/L versus 26.672.29 ug/L) e ALP (78.4612.73 UI/L versus 56.777.14 UI/L) veniva riscontrata. Non si sono verificati effetti avversi.
Conclusioni: Il Den migliora la BMD vertebrale e sembra ridurre il rischio di fratture vertebrali low-energy nel trapianto di rene.

Parole chiave: Denosumab, frattura da fragilità, osteopatia del trapianto

Introduzione

Le fratture scheletriche costituiscono una complicanza severa e disabilitante del trapianto renale (Tx) con un’incidenza fratturativa da 5 a 34 volte (M versus F) superiore a quanto rilevato nel soggetto normale [1].

Il Tx contribuisce solo in parte a migliorare i disturbi del metabolismo minerale, perché la possibile persistenza di elevati livelli di PTH e di FGF-23 [2], l’allungamento dei tempi di mineralizzazione insensibile agli effetti della vitamina D [3] e, soprattutto, l’interferenza degli immunodepressori sul metabolismo osseo [4, 5] inducono una costante perdita della densità e della qualità minerale scheletrica, aumentando il rischio fratturativo.

Il denosumab (Den), un anticorpo monoclonale umanizzato che si lega con alta affinità al RANKL, bloccando l’interazione tra RANK e RANKL, inibisce l’osteoclastogenesi e l’attività osteoclastica con conseguente aumento della densità minerale ossea, mimando l’effetto fisiologico dell’osteoprotegerina. Il suo utilizzo nell’osteoporosi postmenopausale è ormai consolidato, con un’efficacia superiore ai bifosfonati nel migliorare la densità minerale e nel ridurre il rischio di fratture low-energy [6, 7]. Nei Pazienti sottoposti a trapianto renale, tuttavia, mancano le evidenze di una reale riduzione del rischio fratturativo, a fronte di un sensibile e documentato miglioramento della densità minerale scheletrica [8].

Nel presente studio è stato valutato, oltre alla BMD, il rischio fratturativo mediante morfometria vertebrale con DEXA dopo 2 anni di trattamento con denosumab, somministrato ad una coorte di pazienti sottoposti a trapianto di rene con fratture singole o multiple low-energy del rachide dorso-lombare, ad alto rischio di nuove fratture [9]. 

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Metodologie per il calcolo del numero di nefroni da ecografie e biopsie renali ad uso dei nefrologi

Abstract

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando è stato messo a punto dal gruppo di Neal Bricker un importante metodo di laboratorio per la stima ex vivo del numero totale di nefroni nei reni. Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nel vivente. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare, la percentuale di glomeruli in sclerosi calcolate da campioni bioptici e il volume renale. Questo ultimo può essere misurato mediante risonanza magnetica o TAC o mediante particolari metodologie ecografiche. Dal momento che la riduzione del numero di nefroni funzionanti è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con proteinuria [20]) e di ipertensione, la sua introduzione nella pratica clinica potrebbe permettere una più precisa stratificazione del rischio evolutivo nei pazienti con malattia renale e una migliore comprensione dei meccanismi che contribuiscono alla perdita di nefroni funzionanti.

Parole chiave: numero di nefroni, biopsia renale, malattia renale cronica

Introduzione

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando Damadian, Shawayri e Bricker misero a punto il primo metodo di laboratorio per la determinazione del numero di nefroni nei reni [1]. L’unità funzionale del rene, il nefrone, varia in numerosità fra varie specie, con caratteristiche che sono determinate da un adeguato sviluppo fetale [2]. Nell’uomo il numero complessivo di nefroni varia a seconda della stima: da 850.000 nefroni [3] a 1.429.000 [4], con variazioni in base all’etnia [5]. L’effetto del genere (maschile/femminile) sul numero di nefroni è meno evidente: in alcuni modelli murini (topi B6) le femmine hanno più nefroni dei maschi, mentre in altri ceppi (C3H) non vi sono differenze fra i due sessi [6]. Inoltre, variazioni nel numero di nefroni sono state associate a diverse condizioni cliniche come l’ipertensione: gli adulti ipertesi hanno infatti una media di 702.000 nefroni, inferiore a quella di soggetti normotesi con una media di 1.429.000 [4].

In corso di malattia renale cronica si verifica una perdita della funzione renale dovuta al danno di singoli nefroni e una ipertrofia ed iperfiltrazione dei nefroni residui. Quest’ultimo fenomeno può causare danno ai nefroni superstiti. Un possibile meccanismo dovuto all’iperfiltrazione consiste in un maggior fabbisogno energetico dei nefroni superstiti, una inadeguatezza dell’apporto vascolare con ipossia, ischemia, acidosi [7] (Figura 1).

malattia renale cronica
Figura 1: Nella malattia renale cronica, l’insufficienza continua dei singoli nefroni porta alla progressiva perdita della funzione renale. Questo processo risulta in parte da una risposta cellulare e molecolare alla lesione che rappresenta un tentativo di mantenere l’omeostasi ma avvia invece un programma che danneggia il nefrone. Man mano che i nefroni vengono persi, la compensazione da parte dei nefroni rimanenti esacerba la fisiopatologia glomerulare. Il fabbisogno energetico dei nefroni iperfunzionanti supera il substrato metabolico a disposizione del tubulo renale e l’inadeguatezza dell’apporto vascolare locale promuove l’ipossia/ischemia e la conseguente acidosi. In questo modo, i meccanismi attivati per mantenere l’equilibrio biologico portano alla fine alla scomparsa del nefrone.

Conoscere il numero di nefroni di un soggetto è rilevante alla luce della correlazione tra basso numero di nefroni alla nascita e un aumentato rischio di malattia renale cronica e ipertensione [7, 8], aggravato da uno stile di vita sedentario [9]. Inoltre, l’obesità, insieme ad altre condizioni alla base di lesioni renali acute o croniche, provoca una riduzione del numero di nefroni funzionanti e di conseguenza progressione della malattia renale [10]. Anche il diabete determina un deterioramento progressivo della massa nefronica [11].

Con l’età il numero di nefroni diminuisce e questo è uno dei meccanismi che determina la diminuzione della funzione renale età-dipendente [12]. Sulla base di una serie di autopsie, il tasso di perdita di nefroni per rene è stato stimato a circa 6.800 nefroni per rene all’anno [13]. Da un ulteriore studio effettuato su donatori viventi di rene, il tasso di perdita di nefroni risulta essere di circa 6.200 nefroni per rene all’anno con una velocità di perdita che aumenta con l’età [14].

Numerose condizioni, oltre all’obesità, portano ad un ridotto numero di nefroni. Forme congenite di basso numero di nefroni sono causate da basso peso alla nascita, sesso femminile (anche se, come discusso, questo dato non è replicato in modelli animali), bassa statura da adulti, reni ipoplasici, nascita pretermine, ridotta crescita intrauterina [15, 16]. Tutte le forme di malattia renale cronica (inclusa quella diabetica) si associano a una perdita di nefroni. Altri aspetti, invece, come l’ipertensione hanno una relazione causa-effetto meno chiara, poiché se l’ipertensione causa danno glomerulare, è anche noto che un ridotto numero di nefroni può causare ipertensione.

Numerosi sono stati i progressi, fino ad oggi, sulla determinazione del numero di nefroni. La micro-TAC con mezzo di contrasto permette, ad esempio, di visualizzare i singoli glomeruli (e quindi contare i nefroni) [17]. Tuttavia, è possibile avere un’adeguata stima del numero di nefroni conoscendo la densità di glomeruli da biopsie renali e il volume della corticale renale. Questa ultima è conoscibile tramite risonanza magnetica [18], ecografia e tomografia computerizzata [19].

Con la risonanza magnetica, il volume renale viene calcolato misurando i tre assi del rene, la cui forma viene approssimata a quella di un ellissoide; per impostazione predefinita vengono misurati i diametri longitudinale e trasversale del rene, e il volume renale è calcolato applicando la formula di approssimazione: volume = lunghezza × larghezza × profondità media × 0,5 [18]. Per quanto riguarda le tecniche ecografiche di calcolo del volume renale, una delle formule utilizzate è l’equazione dell’ellissoide (lunghezza × larghezza × spessore × π/6) e un’equazione aggiustata (lunghezza × larghezza × spessore × 0,674). Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) tramite il conteggio dei voxel, che è considerato il criterio standard [19].

Partendo dal volume renale che quindi può essere calcolato anche semplicemente tramite l’ecografia renale, si può facilmente ricavare il numero di nefroni, integrando i dati acquisiti con parametri bioptici quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli sclerotici [20]. Il nostro scopo, infatti, è quello di chiarire l’importanza della determinazione di questo parametro e di proporne l’introduzione nella pratica clinica con il fine di avere un determinante in più, oltre al filtrato renale (eGFR) e ai marcatori di danno renale (proteinuria), per una più precisa stratificazione del rischio di pazienti affetti da malattia renale.

 

Storia del calcolo del numero di nefroni

Uno dei più antichi metodi per la conta dei nefroni fu messo a punto nel 1965 da Damadian, Shawayri e Bricker tramite un esperimento condotto su cani, allo scopo di quantificare i nefroni con glomeruli perfusi che non contribuiscono con il loro filtrato all’urina finale. Questi sfruttarono una tecnica a doppio marcatore per il rilevamento simultaneo in vivo della perfusione glomerulare e della filtrazione glomerulare. Come marcatore di perfusione è stato utilizzato l’inchiostro di china mentre l’emoglobina è stata usata come marcatore di filtrazione. I risultati con il metodo dell’inchiostro di china in vivo su reni normali sono stati confrontati strettamente con i valori ottenuti nei reni controlaterali con la tecnica standard di perfusione di ferrocianuro in vitro [1]. Nel 1972, Jean-Piere Bonvalet, Monique Champion, Frida Wanstok e Gu Berjal ripresero il metodo di Damadian: ratti sottoposti a un dosaggio letale di anestetico venivano nefrectomizzati, i reni venivano privati della capsula e successivamente macerati in una soluzione di acido cloridrico (HCl) al 50% a 37˚ C per 105 minuti, poi mantenuti in 250 ml di acqua distillata a 4˚ C per un giorno, prima di effettuare la conta. Il giorno seguente, ogni rene veniva posto in una fiala che veniva leggermente agitata a mano per ottenere una sospensione omogenea di glomeruli e frammenti di vasi e tubuli. Aliquote da 1 ml della sospensione venivano poi riposte in celle di plexiglas, e infine i glomeruli venivano contati con un microscopio a un ingrandimento di 40x.

Tale metodo è stato utilizzato con lo scopo di valutare se l’aumento del numero di nefroni fosse responsabile dell’ipertrofia compensatoria che si verificava in ratti nefrectomizzati. I risultati mostrano che l’aumento del numero di nefroni si verificava solo nei ratti nefrectomizzati nei primi 50 giorni di vita, suggerendo che la nefrogenesi sia conservata nei ratti più giovani ma non risulta più presente nei topi di maggiore età [21].

Il metodo di Damadian [1] per la conta del numero di nefroni è stato rivisitato con un protocollo sperimentale proposto da un gruppo dell’Università del Mississippi [22]. Entrambi i metodi si basano sulla tecnica di macerazione in acidi del tessuto renale. In breve, il rene viene sminuzzato e degradato mediante una soluzione di acido cloridrico. Questo porterà all’isolamento dei glomeruli che possono così essere diluiti in un volume noto, contati in un microscopio capovolto, così da poterne stimare infine il numero totale [22].

Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nei viventi [20]. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli in sclerosi, calcolate da campioni bioptici [23], e del volume renale che può essere stimato a partire dalla risonanza magnetica con la formula dell’ellissoide che si serve delle misure dei tre assi dell’organo. Si tratta solo di una delle metodiche effettuate per calcolare il volume renale e tale formula, anche se molto utilizzata, tende a sottostimare sistematicamente il volume renale [18]. Un’altra formula che si usa per calcolare il volume renale partendo da risonanza magnetica è l’ellissoide KV-3, messa a punto da Higashihara nel 2015 con l’intento di avere una precisa stima del volume di reni policistici: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [24]. Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) ed il principio di Cavalieri. In pratica, conoscendo la distanza (d) fra le scansioni assiali, si calcola su ciascuna scansione (i) l’area del rene (Ai), ed il volume viene stimato tramite la seguente formula (principio di Cavalieri):

V = d * Σi Ai

Si sommano quindi le aree nelle varie scansioni e si moltiplica il tutto per la distanza fra una sezione e la successiva [19]. La limitazione di questa metodologia è che richiede l’uso di raggi X, è più costosa, e richiede tempo per l’analisi perché è necessario delimitare manualmente il profilo del rene su ogni immagine. Normalmente almeno dieci immagini sono necessarie per avere una stima valida del volume renale usando questa tecnica. Inoltre è possibile stimare il volume del rene con l’ecografia [25], anche se si tratta di una metodica operatore-dipendente e quindi più difficilmente riproducibile, ma sicuramente meno dispendiosa per il paziente.

 

Calcolo del numero di nefroni

L’interesse per il calcolo del numero di nefroni deriva principalmente dall’ evidenza che esistono diverse condizioni patologiche renali, come la sindrome nefrosica, nell’ambito delle quali il decadimento della funzione renale è spiegato in larga parte dalla riduzione del numero di nefroni funzionanti [20].

Per effettuare tale calcolo bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC). È possibile calcolare questo parametro partendo dal volume renale totale (VRT) misurato tramite ecografia usando la formula dell’ellissoide KV-3 proposta da Higashihara nel 2015: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [25]. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) servendosi del modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 [26]. In questo modo è possibile avere una stima di informazioni tridimensionali partendo dalle immagini istologiche in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente:

TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81 (Figura 2)

dove il denominatore 1.81 rappresenta un fattore di correzione del restringimento subito dal tessuto istologico per la perdita della perfusione sanguigna [20].

calcolo del numero di nefroni
Figura 2: Per effettuare il calcolo del numero di nefroni bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC), calcolato con l’ecografia renale. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) con il modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 che permette di stimare informazioni tridimensionali partendo dalle immagini delle biopsie in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81.

 

Numero di nefroni in differenti patologie del glomerulo

La formula descritta è stata utilizzata in una ricerca svolta dal nostro team e pubblicata [20] per stimare il numero di nefroni in diverse glomerulopatie mediante uno studio pilota trasversale retrospettivo su un campione di 107 pazienti che hanno effettuato una biopsia renale. I criteri di inclusione erano: (i) diagnosi istologica di glomerulosclerosi focale e segmentale (GSFS), nefropatia membranosa (MN), nefropatia diabetica (DN), nefropatia a lesioni minime (MCD), nefropatia da IgM (IgMN), nefropatia da IgA (IgAN), nefrite lupica; (ii) età compresa tra 20 e 60 anni. Tramite esame ecografico dei reni è stato calcolato il VRC sfruttando la formula ellissoide KV-3 e, successivamente, applicando la formula per il calcolo del numero totale di nefroni riportata di seguito: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81. Dalle biopsie renali sono stati calcolati il Vnsg e la DglomNSG con la formula di Weibel-Gomez. I risultati mostrano che (i) il numero totale di nefroni è inversamente correlato alla pressione sistolica, (ii) nelle malattie caratterizzate da proteinuria, come la GSFS, MN e la DN, la variazione dell’eGFR è direttamente correlata al numero totale di glomeruli non sclerotici (NSG); (iii) di contro, nella sindrome nefritica, non abbiamo osservato una correlazione significativa tra il numero di nefroni e la diminuzione dell’eGFR. Ciò lascia quindi ipotizzare che le alterazioni dell’eGFR che si verificano nelle sindromi nefritiche come la nefropatia da IgA (IgAN) non possono essere spiegate sulla base del numero di NSG.

Probabilmente, la velocità di filtrazione glomerulare non è modificata in maniera significativa dal processo di fusione dei pedicelli dei podociti che si verifica tipicamente nelle malattie con proteinuria: quindi, nella sindrome nefrosica la variazione dell’eGFR dipende principalmente dal numero di nefroni funzionanti. D’altra parte, la riduzione della funzione renale che si verifica nelle sindromi nefritiche non può essere spiegata semplicemente sulla base del numero di NSG e probabilmente dipende soprattutto dal coinvolgimento dell’asse mesangiale.

 

Conclusioni

La riduzione del numero di nefroni funzionanti, che può essere connessa ad una nefrogenesi incompleta o a fattori ambientali, è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica) e di ipertensione [27]. Generalmente, quando i nefroni vanno incontro a perdita di funzione, i glomeruli dei nefroni residui subiscono una serie di modifiche disadattative diventando ipertrofici, un processo che può portare a un transitorio aumento dell’eGFR ma che, con il tempo, aumenta il rischio di progressione della malattia renale [8]. Il basso numero di nefroni alla nascita rappresenta quindi un chiaro fattore di rischio cardiovascolare nella vita adulta, e soprattutto di ipertensione. Tra i fattori che, durante la vita intrauterina, influenzano la nefrogenesi, ritroviamo fattori genetici e fattori ambientali, tra cui anche la dieta materna svolgerebbe un ruolo importante [28]. Anche la denutrizione materna, l’ipossia fetale e il basso peso alla nascita svolgono un ruolo importante nel determinare una nefrogenesi insufficiente e quindi basso numero di nefroni con aumentato rischio di sviluppare malattia renale cronica in età adulta [29].

Dal momento in cui il calcolo del numero di nefroni risulta essere poco dispendioso nei pazienti che vengono sottoposti a una biopsia renale e a un’ecografia renale, suggeriamo di introdurre nella pratica clinica il calcolo sistematico in questa popolazione con il fine di avere una più precisa stima del rischio di progressione della malattia renale in questi pazienti ed eventualmente mettere in atto strategie terapeutiche e/o preventive con tempistiche più adatte in modo di rallentare la progressione della malattia renale. Una strategia efficace potrebbe essere l’ottimizzazione della dieta e la riduzione al minimo dei fattori di stress ipossico/tossico nelle donne in gravidanza e nei bambini all’inizio dello sviluppo postnatale [29].

Le evidenze sulla popolazione adulta affetta da malattia renale cronica e/o ipertensione risultano, invece, ancora scarse. Sono necessari ulteriori studi per confermare l’efficacia del numero di nefroni come parametro utile per stratificare il rischio evolutivo in queste popolazioni e per elaborare scelte terapeutiche adeguate. Infine, sarebbe utile confermare con ulteriori trial clinici che la riduzione del numero di nefroni è un evento correlato soprattutto al danno podocitario, mentre sembra meno in relazione con le patologie renali non caratterizzate da sindrome nefrosica, come dimostrato da dati preliminari sull’argomento [20].

 

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