Settembre Ottobre 2019 - Nefrologo in corsia

Leptospirosi e rene: un caso clinico

Abstract

Descriviamo il caso clinico di un giovane paziente impiegato come bracciante agricolo che si presentava in pronto soccorso con febbre, cefalea, ematuria e peggioramento della funzione renale a cui si diagnosticava leptospirosi con interessamento renale. Il paziente si è presentato alla nostra attenzione lamentando dei sintomi del tutto aspecifici e la raccolta anamnestica è stata fondamentale per inquadrare il paziente, orientando verso una genesi infettiva della patologia in atto e consentendo l’esecuzione degli esami laboratoristici e di ricerca anticorpale adatti per formulare la diagnosi corretta di una patologia poco presente nel nostro paese.

Parole chiave: case report, leptospirosi, danno renale acuto, AKI

Introduzione

La leptospirosi umana è considerata una delle più diffuse e potenzialmente fatali zoonosi, è determinata da un batterio Gram negativo appartenente alla famiglia delle Spirochetales ordine Leptospiracee e si associa ad elevata morbilità e mortalità, in particolare nei pazienti di età superiore ai 60 anni [1]. Il genere Leptospira è stato suddiviso in due specie, Leptospira Biflexa e Leptospira Interrogans, includendo nella prima i batteri saprofiti e nella seconda quelli patogeni per l’uomo. L’attuale classificazione contempla una suddivisione del genere in 22 specie, di cui 10 sono considerate patogene [2]. La leptospirosi è una malattia sottorappresentata, poiché non si dispone di dati affidabili relativi all’incidenza globale. Un report del Leptospirosis Burden Epidemiology Group dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), ha stimato un’incidenza annuale di 873.000 casi in tutto il mondo e 48.600 decessi nei primi anni duemila [3]. La diffusione della malattia è globale come dimostrato dalla presenza di numerosi focolai osservati nei vari continenti [4, 5, 6].

L’infezione umana di solito viene acquisita tramite l’esposizione a fonti ambientali, come l’acqua o il suolo, contaminati dal patogeno tramite l’urina di animali portatori. La leptospirosi è principalmente una zoonosi, e gli esseri umani sono degli ospiti casuali, tuttavia si sono verificati casi, estremamente rari, di infezione da soggetti malati a soggetti responsivi, attraverso rapporti sessuali e durante l’allattamento [7, 8].

Tra le categorie a rischio rientrano coloro che per motivi di lavoro vengono a contatto con il batterio, come agricoltori, specie se impiegati in colture che richiedono grandi quantità d’acqua, allevatori di bestiame, addetti alla macellazione, veterinari, taglialegna, personale militare, tecnici di laboratorio e personale addetto ai sistemi di deflusso delle acque fognarie e piovane. Sono considerati a rischio anche i soggetti che svolgono attività ricreative, come il nuoto in acqua dolce, la canoa, il kayak, o la speleologia, che prevedono il contatto con corsi d’acqua potenzialmente contaminati [9].

I siti di ingresso del batterio includono lesioni cutanee o mucosali ed è talvolta possibile, seppur con minore incidenza, il passaggio del patogeno attraverso la congiuntiva; è stata inoltre descritta la possibilità di acquisire l’infezione per mezzo dell’ingestione di cibo contaminato con urina, o tramite aerosol [10].

Le manifestazioni cliniche durante la leptospirosi umana includono sia quadri simil-influenzali paucintomatici, dimostrabili esclusivamente tramite dosaggio anticorpale, sia quadri di interessamento multiorgano assai gravi e potenzialmente letali. Gli organi maggiormente interessati sono il fegato, i reni, i polmoni e le meningi. L’esordio è relativamente brusco e si realizza con la comparsa di febbre ad andamento continuo, continuo remittente, generalmente elevata associata a brivido, cefalea, mialgie diffuse (tipicamente lombari), iperestesia cutanea e perdita dell’appetito. Nelle forme più gravi, può subentrare compromissione del sensorio, soffusioni emorragiche congiuntivali e cutanee isolate o sovrapposte ad esantema maculare. Le forme pediatriche si presentano talvolta associate ad un quadro di colecistite e pancreatite [11].

In generale l’andamento della patologia si suddivide in due fasi:

  • 1° fase (setticemica): dura circa una settimana e si accompagna a febbre, cefalea mialgia e vomito in cui sono possibili lesioni endoteliali, vasculite sistemica con produzione di anticorpi.
  • 2° fase (localizzazione): si caratterizza per danno vascolare polidistrettuale (ischemia della corteccia renale, necrosi tubulare; distruzione della architettura epatica ed ittero, danno epatocitario e danno alveolare). È caratterizzata dal riscontro di anticorpi neutralizzanti dosabili e dalla scomparsa dei microrganismi dal torrente circolatorio.

L’incidenza di insufficienza renale acuta varia ampiamente, raggiungendo il 40-60% nella leptospirosi grave [12]. Il danno d’organo si manifesta con un interessamento prevalentemente tubulare, danno microvascolare e nefrite interstiziale. Nei casi di un’infezione cronica sostenuta dall’agente patogeno si può realizzare una progressione del danno fino alla fibrosi. Il meccanismo fisiopatologico alla base del danno renale non è del tutto chiarito, ma verosimilmente è secondario ad eziopatogenesi multifattoriale che include tossicità batterica diretta, liberazione di mediatori proinfiammatori e sviluppo di immunocomplessi [13].

Sono responsabili del danno tubulo-interstiziale diverse proteine di membrana (OMP) delle leptospire, tra queste la più importante è LipL32 che agisce attraverso uno specifico recettore (TLR2) presente sulle cellule del tubulo prossimale [14]. Il legame delle OMP al recettore TLR2 determina l’attivazione del fattore nucleare NF-kβ, con stimolazione della produzione di proteine infiammatorie come l’ossido nitrico sintetasi inducibile (iNOS), la proteina-1 chemiotattica monocitaria (CCL2/MCP-1) e il tumor necrosis factor (TNFα). Queste favoriscono il reclutamento delle cellule infiammatorie con successiva nefrite tubulo-interstiziale. È possibile affermare che i pazienti con leptospirosi grave sperimentano una tempesta di citochine, caratterizzata da alti livelli di IL-6, IL-10 TNFα. In particolare, elevati livelli di IL-6 e IL-10 sono predittori indipendenti di morte per l’effetto inibitorio sulla risposta linfocitaria Th1 [15]. Altri fattori riscontrati nella patologia come l’iperbilirubinemia, la rabdomiolisi e l’ipovolemia, partecipano al danno renale acuto e possono essere responsabili di forme oligo-anuriche.

La genesi della patologia prevede l’accesso al lume tubulare da parte delle leptospire e la colonizzazione del brush border del tubulo prossimale, spesso con persistenza del batterio per lunghi periodi. In seguito, si realizza un esteso danno tubulare con iponatremia secondaria al danno diretto verso i sistemi di riassorbimento prossimali. Taluni sottotipi batterici, oltre al danno prossimale, determinano un’inibizione del cotrasportatore Na+, K+, 2Cl del tratto ascendente dell’ansa Henle, con conseguente ipopotassiemia associata al depauperamento del sodio. Il meccanismo alla base dell’iponatriemia non è del tutto chiarito. Gli eventi fisiopatologici proposti, oltre al danno diretto, includono natriuresi e SIADH. Recenti studi molecolari hanno dimostrato la riduzione di NHE3 e dell’aquaporina 1 in sede prossimale, associata all’incremento dell’aquaporina 2 a livello del dotto collettore [16]. La poliuria sembra essere secondaria alla ridotta espressione dello scambiatore di Na+/H+ e al conseguente diminuito riassorbimento di sodio e acqua da parte del tubulo prossimale. La CKD (Chronic Kidney disease) rappresenta, in circa il 10% dei casi, la conseguenza diretta della nefrite tubulo-interstiziale secondaria all’infezione leptospirale [17, 18]; nella maggior parte dei casi si assiste al recupero pressoché completo della funzione renale, anche se spesso, durante la fase acuta della patologia, è necessario il ricorso alla terapia sostitutiva dialitica [19].

 

Caso clinico

Descriviamo il caso clinico di un ragazzo di trent’anni di origine asiatica che si presentava presso il Pronto Soccorso della fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli lamentando forti dolori addominali, mialgie diffuse, ematuria, febbricola e vomito.

Dall’anamnesi lavorativa si apprendeva che il paziente era impiegato come bracciante agricolo in una serra per la raccolta di verdure, che talvolta consumava direttamente senza alcun tipo di lavaggio. Inoltre, veniva segnalata all’attenzione dei sanitari la presenza di ratti sul luogo di lavoro. Riferiva inoltre scarso introito idrico, spesso inferiore al litro, durante l’attività lavorativa, che sovente si protraeva per l’intera giornata. Il paziente era un saltuario consumatore di oppiacei ed assumeva con regolarità dei farmaci con proprietà analgesiche, acquistati all’estero, dalla composizione chimica non meglio precisata.

I parametri vitali raccolti all’ingresso del pronto soccorso erano i seguenti: PA 135/90mmHg, FC 90 bpm, SpO2 99%, Tc 37,1 C°. Le principali obiettività risultavano nella norma. In regime di urgenza, si eseguiva un RX torace in due proiezioni, negativo per addensamenti parenchimali, impegno interstiziale e versamento pleurico. Agli esami ematochimici (Tabella 1) era evidente un quadro di insufficienza renale associato a rabdomiolisi (Creatinchinasi 1300 UI/l), ed erano inoltre presenti lieve iponatriemia ed ipocalcemia; ai limiti della norma la potassiemia. L’esame delle urine documentava emoglobinuria, albuminuria(2g/dl) e mioglobinuria (18831ng/ml), mentre non si evidenziavano segni di infezione delle vie urinarie (negativa sia la ricerca delle esterasi leucocitarie che dei nitriti). Si documentava infine positività urinaria per oppiacei.

 Ad un’ecografia completa dell’addome non si osservavano alterazioni, ad eccezione di un fegato con ecostruttura più riflettente che di norma; i reni apparivano nei limiti per dimensioni ed ecostruttura e non si evidenziava dilatazione delle cavità calico-pieliche.

In considerazione del quadro clinico, compatibile con un danno renale acuto, e per la contrazione della diuresi (<200 cc di urine in 24h), si provvedeva ad impostare terapia idratante cui si associava antibiotico-terapia empirica con ciprofloxacina. Per il mancato miglioramento degli indici di funzionalità renale e di depurazione, oltre che per la persistente oliguria, si rendeva necessario il trasferimento presso l’unità di rianimazione dove, previo posizionamento di catetere venoso centrale nella vena femorale destra, si iniziava un trattamento emodialitico continuo (CRRT) con anticoagulazione regionale con citrato per 48h. Durante la degenza in rianimazione si eseguivano ricerche sierologiche per Coxiella, Coxackie, Echovirus, Mycoplasma e ricerca degli antigeni urinari per Legionella e Micoplasma, tutti risultati negativi. Venivano inoltre eseguite sia una consulenza Neurologica, che attribuiva il quadro di rabdomiolisi alle condizioni di lavoro intenso e a possibili cause tossinfettive, sia una consulenza tossicologica, risultata non dirimente a causa dell’impossibilità di risalire con certezza ai farmaci assunti dal paziente.

Due giorni dopo l’accesso in pronto soccorso, il paziente veniva trasferito presso il reparto di medicina interna. All’ingresso in reparto lamentava persistenti mialgie diffuse. L’obiettività addominale evidenziava addome globoso, non dolente; all’obiettività toracica si repertavano crepitii basali bilaterali, mentre non si segnalava nulla a carico dell’obiettività cardiaca. Nella prima settimana di ricovero in reparto, si proseguiva il trattamento emodialitico con frequenza trisettimanale, ottenendo un miglioramento degli indici di funzionalità renale e di controllo volemico tali da consentire la sospensione del trattamento sostitutivo. In seguito, per il peggiorare degli indici di depurazione e per una nuova contrazione della diuresi, associata a marcato incremento ponderale (circa 20kg), pur in presenza di terapia diuretica (furosemide 20mg 1fl x3 die), si rendeva necessaria la programmazione di nuove sedute emodialitiche con frequenza giornaliera con rimozione media di circa 4 litri di acqua plasmatica per seduta tramite l’uso sequenziale di metodiche ultrafiltrative e della bicarbonato-dialisi. In una settimana veniva nuovamente raggiunto il peso ideale con possibilità di tornare ad un programma di trattamento dialitico trisettimanale.

A causa della comparsa di anemia (Hb 9,7 g/dl), si impostava terapia con ESA (Epoetina Alfa 2000 UI x 3 a settimana) associata a supplementazione marziale (sodio ferrigluconato 1fl x 3 a settimana). Veniva inoltre eseguita una nuova ecografia renale per valutare l’andamento clinico e morfologico dell’organo. All’esame strumentale si documentavano reni bilateralmente di dimensioni aumentate (diametro longitudinale del rene destro 12,5 cm, rene sinistro 13,2 cm) ad ecostruttura iperecogena, con arterie renali intraparenchimali a normale pattern flussimetrico ed indici di resistenza aumentati (RI 0,76 a destra); il quadro risultava compatibile con un danno renale acuto. In considerazione della storia clinica del paziente e dell’anamnesi lavorativa, appariva utile eseguire il dosaggio degli anticorpi specifici per leptospirosi che risultavano positivi sia per la classe delle IgM che per quella delle IgG (Tabella 2). Venivano inoltre dosati gli anticorpi antinucleo (ANA) e gli anticorpi anti ENA SSA/ro, risultati entrambi negativi. I fattori del complemento (C3c 106 mg/dl; C4 23,4 mg/dl) erano nella norma. A seguito dell’identificazione dell’agente patogeno, si impostava terapia specifica con ceftriaxone 2g die fino alla risoluzione del quadro e normalizzazione degli indici di flogosi. Dopo circa quattro settimane dall’inizio del ricovero, si assisteva ad una sostanziale ripresa della diuresi con poliuria (6L/die), normalizzazione della creatininemia e ripresa della funzione renale (Tabella 3). Era quindi possibile la sospensione del trattamento emodialitico con dimissione del paziente in buone condizioni fisiche ed indicazione all’esecuzione di controlli infettivologici e nefrologici nei mesi successivi.

 

Discussione

Il caso clinico da noi proposto rispecchia abbastanza fedelmente quelle che sono le manifestazioni classiche della leptospirosi. Il paziente infatti rientrava nel novero delle categorie definite a rischio di contagio che, una volta avvenuto, ha determinato delle manifestazioni cliniche particolarmente gravi sia a livello epatico (durante il ricovero AST:1985 UI/l, ALT:479 mg/dl), che renale, come evidenziato dall’andamento della creatininemia (Figura 1). La coesistenza di un interessamento epatico e renale definisce il morbo di Weil, una complicanza grave della leptospirosi prevalentemente imputabile a leptospira icterohemorragica che, oltre al danno epatico e renale, si associa spesso a compromissione del sensorio fino al coma, bradicardia riflessa, alveolite emorragica e sindrome da distress respiratorio.

La diagnosi si fonda sul sospetto clinico e vanno indagate sia le abitudini lavorative che ricreative proprie del paziente. La conferma si ottiene tramite dati di laboratorio per mezzo della ricerca degli anticorpi specifici, del test microscopico di agglutinazione (MAT) e dell’esame colturale. La ricerca anticorpale è il test più utilizzato, sia per la rapidità di esecuzione che per i bassi costi, ma deve essere effettuata non prima del 5-7 giorno di malattia [20]. Il MAT test non si presta ad una rapida esecuzione a causa delle difficoltà tecniche insite nella metodica, per la necessità di numerosi antigeni necessari al funzionamento del pannello di agglutinazione (circa 23 antigeni) e per gli alti costi che lo rendono disponibile solo in pochi centri. Anche la coltura batterica, sebbene dirimente, non è adatta alla diagnosi precoce poiché la leptospira impiega dalle due settimane ai quattro mesi per il suo sviluppo. Recentemente si è resa disponibile l’estrazione e l’amplificazione del DNA batterico tramite PCR che dimostra la presenza dell’agente causale nei primi 5 giorni di malattia [21]. L’urina rappresenta un buon campione diagnostico non invasivo tuttavia, sebbene la diagnosi tramite reazione antigene-anticorpo sia possibile [22], le leptospire vengono eliminate in modo affidabile solo durante la fase acuta tardiva rendendo preferibile l’impiego di test più precoci per la determinazione del patogeno.

Il trattamento della leptospirosi prevede l’uso di antibiotico-terapia ad alte dosi. Gli schemi terapeutici attualmente impiegati prevedono l’impiego di numerosi farmaci come la penicillina (1,5 milioni di unità endovenose [IV] ogni sei ore), doxiciclina (100 mg EV due volte al giorno), ceftriaxone (da 1 a 2 g EV una volta al giorno) o cefotaxime (1 g IV ogni sei ore). La durata del trattamento è in genere di sette giorni. La penicillina e le cefalosporine, tuttavia, mancano di attività nei confronti delle rickettsiae e quindi dovrebbero essere evitate in circostanze in cui non è possibile una chiara esclusione di una eventuale co-infezione con questo agente patogeno [23]. Diversi studi hanno mostrato un aumentata mortalità in presenza di AKI da leptospirosi, specie se associata ad elevati score nei criteri KDIGO [24], AKIN o RIFLE [25], in presenza di oliguria scarsamente responsiva al diuretico, o se si rende necessario l’impiego di una terapia sostitutiva.

Alcuni autori hanno proposto l’uso della plasmaferesi o dell’ECMO per il trattamento delle forme particolarmente aggressive, specie se associate ad emorragia alveolare o al distress respiratorio, al fine di eliminare gli auto anticorpi circolanti ed ottenere la remissione clinica [26]. Al momento, nonostante vi siano alcuni case report che documentano una guarigione clinica, non è ancora possibile includere la plasmaferesi e l’ECMO nel trattamento di routine della leptospirosi per la mancanza di solide prove cliniche; il trattamento suggerito rimane quindi prevalentemente fondato sull’antibiotico-terapia ed eventuale terapia cortico-steroidea [27].

 

Conclusioni

L’aspetto che maggiormente sottolineiamo di questo caso clinico è rappresentato dall’importanza dell’anamnesi che ha consentito un corretto inquadramento diagnostico di una così insolita patologia. Il paziente infatti si è presentato alla nostra attenzione lamentando dei sintomi del tutto aspecifici. La presenza di rabdomiolisi e mioglobinuria poteva essere un ulteriore fattore di confondimento soprattutto alla luce dell’attività lavorativa intensa cui era soggetto il paziente. La raccolta anamnestica è stata fondamentale per inquadrare il paziente, orientando verso una genesi infettiva della patologia in atto e consentendo l’esecuzione degli esami laboratoristici e di ricerca anticorpale adatti per formulare la diagnosi corretta di una patologia poco presente nel nostro paese [28].

 

 

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