Luglio Agosto 2017 - Nefrologia e social networks

Medicina e Nefrologia dai Social Networks

LA (DIS)INFORMAZIONE DIGITALE

F. Cianciotta, V. Di Leo, V. Montinaro

Le nostre conoscenze ed opinioni riguardanti il mondo e la sua evoluzione sono il frutto dell’acquisizione di informazioni ottenute per la maggior parte attraverso libri, giornali, televisione e, più di recente, attraverso Internet. Attualmente, il 35% della popolazione mondiale è connesso a internet e il 26% ha almeno un account su un social network (specialmente Facebook). Tuttavia, il World Economic Forum del 2013 ha rilevato che la “disinformazione digitale di massa è uno dei principali rischi per la società moderna”, ridimensionando l’iniziale entusiasmo circa l’uso di nuove tecnologie nell’ambito della comunicazione. A tal proposito D. Mocanu e colleghi hanno condotto uno studio, focalizzando la loro attenzione sui gruppi Facebook, a sfondo politico, creati nel contesto delle elezioni Italiane del 2013. Gli autori hanno riportato in quest’occasione una proliferazione sia di pagine politiche sia di pagine di “informazione alternativa”, queste ultime nate con l’obiettivo di sfruttare il social network per trasmettere e amplificare il malcontento pubblico.

Sulla base dei “like” alle pagine o ai post pubblicati, hanno individuato 3 classi di utenti (a. utenti legati alla discussione politica, b. utenti vicini alle notizie alternative, c. utenti legati alle notizie trasmesse sui tradizionali mezzi d’informazione come giornali, televisione e radio) e 3 tipologie di pagine/post, a seconda dell’informazione trasmessa (politica, alternativa e neutrale) (Figura 1). I post sulle pagine di informazione alternativa e sulle pagine degli attivisti politici riscuotevano maggior successo tra le rispettive classi di utenti (rispettivamente 45% e 49%). Le pagine dei comuni mezzi d’informazione (“mainstream news”) presentavano una distribuzione bilanciata di consensi tra le varie classi di utenti, rispecchiando la neutralità dell’informazione. Infine, gli utenti legati alle notizie trasmesse dai tradizionali mezzi di comunicazione consultavano meno le pagine sia di informazione politica che d’informazione alternativa.

Lo studio, infine, ha evidenziato come, nel dibattito pubblico su Facebook, gli utenti più responsivi alle “bufale” e alla satira siano soprattutto i frequentatori di pagine di informazione alternativa (56%) poiché più critici nei confronti dei media tradizionali, ritenendoli corrotti, manipolati ed incapaci di dare notizie affidabili (Figura 2). Il pericolo concreto consiste nel fatto che più elevato è il numero di affermazioni prive di fondamento, più utenti sono tratti in inganno nella selezione dei contenuti, nonostante le ripetute segnalazioni sul web della loro non veridicità. Le false informazioni sono particolarmente persuasive sui social media, promuovendo così una sorta di “collective credulity”.

Tutto questo ha un corrispettivo anche nel mondo medico. Nel loro articolo, M. Del Vicario e colleghi identificano, nell’ambito di Facebook, due possibili tipologie di notizie: scientifiche e cospiratorie. Da un lato, le teorie cospiratorie semplificano la causa, riducono la complessità della realtà e vengono formulate in maniera tale da tollerare un certo livello di incertezza, essendo cosi più appetibili ad un pubblico “meno esperto”. D’altra parte le informazioni scientifiche diffondono i progressi scientifici e mostrano il processo del pensiero scientifico. La differenza principale tra i due tipi di notizie riguarda la possibilità di verificarne il contenuto. Le informazioni scientifiche e i loro dati, metodi e risultati sono facilmente identificabili e disponibili; viceversa, le origini delle teorie cospiratorie, sono spesso sconosciute e il loro contenuto è fortemente divergente dalle pratiche raccomandate. Un esempio di questa rivalità tra consumatori di notizie scientifiche e di notizie cospiratorie, è alla base di un dibattito scientifico e politico tuttora molto acceso, che riguarda i vaccini. Le campagne anti-vaccinali segnalano i vaccini come pericolosi e gridano al complotto delle aziende che li producono. Ciò, in associazione all’assenza di obbligatorietà, fino a qualche anno fa, per alcune vaccinazioni tra cui il vaccino Morbillo-Parotite-Rosolia, può aver contribuito al diffondersi, in Italia, di una vera e propria epidemia di morbillo, con più di tremila casi diagnosticati dall’inizio dell’anno, di cui l’89% dei soggetti colpiti non era vaccinato e il 7%, invece, aveva effettuato una singola dose vaccinale.

Vi è una moltitudine di meccanismi alla base delle dinamiche sociali digitali e dell’accettazione delle false credenze che, una volta acquisite, sono difficilmente correggibili. Nell’ambito delle chat, dei blog o delle pagine web di cui si è followers, la selettiva esposizione ai messaggi è il primo determinante nella diffusione dei contenuti e genera la formazione di cluster omogenei ed è proprio l’omogeneità ad essere il principale responsabile della divulgazione delle idee, secondo quanto affermano M. Del Vicario e colleghi. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tende a “condividere” sui social network informazioni derivanti da utenti che frequentano gli stessi blog o le stesse chat (i cosiddetti “amici”) creando una “memoria di convergenza”, un tipo di memoria collettiva connessa all’appartenenza a gruppi di interesse. L’aggregazione in comunità di interesse può inoltre rinforzare pregiudizi, segregazione e polarizzazione promuovendo, cosi, la disinformazione di massa.

Occorre inoltre evidenziare che molte volte, a prescindere dall’appartenenza ad un gruppo, la difficoltà nel discriminare il vero dal falso deriva dal fatto che l’ingannevole messaggio è frutto del lavoro di veri e propri esperti del marketing, della pubblicità e dei media.

Dall’altro lato i social network stanno elaborando stratagemmi per contrastare il fenomeno della disinformazione digitale; ad esempio, Google sta sviluppando uno score di attendibilità per classificare i risultati delle “domande” e, similmente, Facebook ha proposto un approccio comunità-guidato per correggere i contenuti contrassegnati come “falsi”. L’uso di questi sistemi di “segnalazione” appare, però, attualmente controverso in quanto si corre il rischio di minacciare la libera circolazione di notizie.

Approfondimenti:

Il trattamento ottimale nella terapia di induzione della nefrite lupica. Nuove idee da una Network Metanalysis

V. Montinaro

Grossi passi avanti sono stati fatti per la terapia di induzione e mantenimento della nefrite lupica (NL), dopo l’introduzione negli anni ’50 dei corticosteroidi e poi dei derivati della mostarda azotata (con la sua evoluzione rappresentata dalla ciclofosfamide); infatti, molti pazienti oggi riescono a ottenere una remissione significativa dei sintomi della NL e a mantenere un buon controllo della malattia a lungo termine. Sebbene diversi studi siano stati pubblicati circa l’uso di ciclofosfamide ev, micofenolato mofetil (MMF) o inibitori della calcineurina, non abbiamo ancora delle evidenze chiare su quale regime terapeutico sia migliore per indurre la remissione della NL, che può essere molto aggressiva e portare il paziente rapidamente alla ESRD o a morte.

Un tentativo di analizzare le evidenze disponibili in letteratura è stato fatto di recente da Suetonia Palmer e collaboratori (senior Giovanni Strippoli) delle Università di Sidney e Università di Bari, oltre ad altre istituzioni, con un approccio di network metanalysis, in cui sono stati analizzati e comparati i risultati di efficacia e tollerabilità di regimi basati su ciclofosfamide orale, MMF con o senza inibitori della calcineurina, azatioprina, rituximab e plasmaferesi, verso la ciclofosfamide ev. L’analisi ha incluso complessivamente 53 studi per un totale di 4222 soggetti.

I risultati dell’analisi indicherebbero che MMF da solo o in associazione a inibitori della calcineurina è superiore a ciclofosfamide ev nell’indurre remissione della NL. Tuttavia, non si osservava un effetto più favorevole di MMF sugli endpoint di outcome come raddoppio della creatininemia, o mortalità. Inoltre, MMF era meglio tollerato rispetto alla ciclofosfamide ev (meno infertilità e alopecia) e funzionava meglio nella fase di mantenimento rispetto alla azatioprina.

Bisogna tuttavia rilevare che i risultati dell’analisi erano probabilmente fortemente condizionati dai due più grossi studi che hanno impiegato MMF soprattutto in popolazioni afro-americane (studio ALMS e uno studio di Ginzler e coll.), nelle quali è risaputo che tale farmaco ha un vantaggio rispetto ad altri regimi. Difatti, la metanalisi non ha potuto valutare l’effetto della razza nel determinismo della risposta alla terapia. Nella pratica clinica quotidiana, molti centri che hanno trattato individualmente e complessivamente più pazienti del numero medio dei pazienti per singolo studio della metanalisi (circa 80), hanno un feeling clinico che ciclofosfamide ev o per os, sia più efficace di MMF e soprattutto induca una remissione più duratura, soprattutto nelle forme di NL con aspetti di gravità istologica. Tale dato della minor ricorrenza di flare renali di NL era anche evidenziato nello studio ALMS, che riportava che i pazienti trattati con MMF avevano un’incidenza di recidiva del 21% rispetto all’11% di quelli trattati con ciclofosfamide ev.

Sebbene lo studio di Palmer e coll. introduca una importante riflessione sull’impatto dei singoli schemi di terapia di induzione e mantenimento della NL, probabilmente, dato anche la eterogenea manifestazione della malattia e l’impossibilità a condurre trial monocentrici o multicentrici con numeri elevati di pazienti per la bassa prevalenza della NL nella popolazione generale, in questo campo specifico, siamo a un bivio fra Medicina basata sulle evidenze e Medicina di precisione da adattare al singolo paziente.

Crediti: https://ajkdblog.org/2017/05/25/the-good-news-and-the-good-news-about-the-treatment-of-lupus-nephritis/

Approfondimento:

  • Palmer SC, Tunnicliffe DJ, Singh-Grewal D, Mavridis D, Tonelli M, Johnson DW, Craig JC, Tong A, Strippoli GF.: Induction and Maintenance Immunosuppression Treatment of Proliferative Lupus Nephritis: A Network Meta-analysis of Randomized Trials. Am J Kidney Dis. 2017 Feb 20. pii: S0272-6386(17)30036-7. doi: 10.1053/j.ajkd.2016.12.008.
  • http://www.ajkd.org/article/S0272-6386(17)30036-7/abstract

 

suPAR come fattore predittivo di mortalità e outcome clinici nei pazienti diabetici in emodialisi

M. Giliberti

Il recettore solubile dell’attivatore urochinasico del plasminogeno (suPAR) è un biomarker d’infiammazione subclinica. Si forma dal clivaggio del recettore di membrana, che interviene nel meccanismo della fibrinolisi, prendendo parte all’attivazione del plasminogeno in plasmina.

Il suPAR sembra essere coinvolto nella patogenesi della glomerulosclerosi focale e segmentaria. Il recettore solubile lega la beta3-integrina, una delle principali proteine che ancora i podociti alla membrana basale glomerulare, e determina cambiamenti strutturali podocitari, che provocano alterazione della permeabilità della barriera di filtrazione glomerulare. Più recentemente è stata riportata una correlazione tra i livelli ematici di suPAR e la malattia renale cronica (CKD) e tra suPAR e patologie cardiovascolari, come la malattia coronarica, lo scompenso cardiaco e l’infarto del miocardio.

In un recente lavoro pubblicato su Clinical Journal of the American Society of Nephrology, Christiane Drechsler e collaboratori, hanno riportato i risultati di uno studio condotto in una sottopopolazione di 1175 pazienti affetti da diabete mellito di tipo II in emodialisi, facenti parte dello studio tedesco 4D (Die Deutsche Diabetes Dialyze Studie), uno studio prospettico, randomizzato e controllato che valutava gli effetti di atorvastatina 20 mg/die vs placebo. Già altri studi avevano evidenziato che il suPAR plasmatico aumenta con la riduzione del GFR. In questo interessante lavoro gli autori hanno riscontrato l’esistenza di un’ampia variabilità dei livelli di suPAR nel plasma dei pazienti in dialisi, nonostante la proteina non venga rimossa durante la dialisi. Questa espressione differenziale dei livelli plasmatici di suPAR era associata a diverse caratteristiche cliniche e agli outcomes. È emerso che alti livelli di suPAR al basale (momento dell’arruolamento) sono associati ad elevato rischio di mortalità per tutte le cause nei pazienti in dialisi; inoltre più alti livelli di suPAR correlavano con un maggiore rischio di morte improvvisa, di scompenso cardiaco e di stroke. Non c’era invece associazione tra livelli ematici di suPAR e rischio di infarto del miocardio o rischio di morte per causa infettiva. Alti livelli di questo biomarker nei pazienti con ESRD rimangono quindi associati ad outcomes clinici sfavorevoli! È evidente che altri meccanismi patogenetici, oltre quello connesso al declino della funzione renale, sono alla base dell’incremento dei livelli di suPAR in corso di patologia cardio-vascolare e che tali meccanismi possano avere un ruolo nell’outcome del paziente. Sono necessari studi che indaghino questi meccanismi e che ci aiutino a capire se il suPAR può essere target terapeutico, in futuro, per la prevenzione della malattia renale cronica e delle complicanze cardio-vascolari.

Crediti: https://twitter.com/CJASN/status/863111001637625856

Approfondimenti:

  • Drechsler C, Hayek SS, Wei C, Sever S, Genser B, Krane V, Meinitzer A, März W, Wanner C, Reiser J.: Soluble Urokinase Plasminogen Activator Receptor and Outcomes in Patients with Diabetes on Hemodialysis. Clin J Am Soc Nephrol. 2017 May 11. pii: CJN.10881016. doi: 10.2215/CJN.10881016. [Epub ahead of print]
  • http://cjasn.asnjournals.org/content/early/2017/05/11/CJN.10881016.abstract

 

Ruolo dei DAA anti-HCV nel trapianto di rene da donatore cadavere HCV-positivo in ricevente HCV-negativo: un incoraggiante studio pilota

P. Gallo

I farmaci anti-HCV ad azione antivirale diretta (DAA) potrebbero presto essere utili anche nella riduzione dei tempi di attesa in lista per trapianto di rene. Ogni anno negli USA, almeno 500 reni ritenuti in ottime condizioni con il Kidney Donor Profile Index, vengono scartati perché provenienti da donatori HCV positivi. Lo stesso si verifica in Italia, con un numero di reni scartati di circa 100 per anno.

Nel 2016, un team di ricercatori della University of Pennsylvania ha condotto uno studio pilota open-label (ClinicalTrials.gov number, NCT02743897) in cui 10 pazienti HCV-negativi, in trattamento dialitico, hanno ricevuto un trapianto di rene da donatore cadavere portatore di infezione viremica con HCV genotipo 1.

L’età media dei partecipanti era compresa tra i 40 e i 65 anni ed il tempo minimo d’attesa in lista per trapianto renale era di 18 mesi. I pazienti ed i loro familiari sono stati sottoposti ad un percorso didattico-informativo e successivamente hanno sottoscritto il consenso informato. Una volta arruolati i pazienti, il team selezionava i reni considerati in condizioni ottimali e verificava il genotipo dell’HCV del donatore. Il tempo medio di attesa dall’arruolamento al trapianto è stato di 58 giorni. Dopo tre giorni dal trapianto, tutti i riceventi presentavano eterogenei livelli rilevabili di HCV-RNA nel sangue e sono stati sottoposti ad un ciclo di terapia di 12 settimane con un regime DAA basato su Elbasvir-Grazoprevir, con incoraggianti risultati rappresentati dall’eradicazione della viremia in tutti i riceventi.

Il Prof. David Goldberg, Epidemiologo Clinico della University of Pennsylvania, ha presentato i dati dello studio pilota, pubblicati sul New England Journal of Medicine, al congresso americano sui trapianti tenutosi a Chicaco nel Maggio 2017: “I reni dei pazienti affetti da epatite C sono stati finora scartati perché ritenuti danneggiati o perché legati a rischio infettivo troppo elevato. Abbiamo intrapreso questo trial nella speranza di poter allargare il pool dei donatori d’organo; se gli studi futuri confermeranno tali dati, l’utilizzo di reni da donatore HCV-positivo può diventare una concreta opzione per chi rischia di non ricevere mai un trapianto”.

Il Prof. Reese, co-autore del trial: “Nonostante il rischio di rimanere potenzialmente infetti dall’HCV per il resto della loro vita se la terapia non fosse stata di successo, i pazienti stessi hanno accettato al fine di interrompere il trattamento dialitico e tornare ad una vita normale”.

Alla luce dei risultati incoraggianti, il team ha ottenuto la possibilità di estendere lo studio ad altri 10 pazienti e sta elaborando un nuovo trial che utilizza lo stesso approccio terapeutico nei riceventi di trapianto cardiaco ed in futuro promette studi analoghi per i trapianti di polmone e di fegato.

 

Crediti: https://www.pennmedicine.org/news/news-releases/2017/april/penn-team-eradicates-hep-c-in-10-patients-after-transplants-from-infected-donors

Approfondimento:

 

STOP ECULIZUMAB nella Sindrome emolitico-uremica atipica: perché no?

V.Colucci

La sindrome emolitico-uremica atipica (aSEU) è una patologia rara e potenzialmente fatale, dovuta ad una incontrollata attivazione del complemento per via alternativa. È caratterizzata clinicamente da una triade di segni quali l’anemia emolitica microangiopatica, la piastrinopenia e il danno d’organo, in particolare la compromissione della funzione renale. Il rene infatti è l’organo più sensibile al processo di tale malattia ma non l’unico ad esserne interessato. La prognosi dei pazienti affetti da SEUa fino a non molto tempo fa era drammatica, con una percentuale superiore al 79% dei soggetti che andavano incontro a morte, entravano in dialisi o sviluppavano danni renali irreversibili. L’introduzione dell’eculizumab ha migliorato notevolmente l’outcome di questi pazienti. Tale anticorpo monoclonale anti-C5, prevenendo la formazione del complesso terminale C5b-C9, blocca l’inappropriata attività del complemento risultando molto efficace nel controllo della SEUa. Se da un lato è indiscussa la necessità di avviare questa terapia quanto prima, dall’altro non vi è ancora un unanime parere su quando interromperla, una volta ottenuta la remissione della malattia. In letteratura sono descritte ancora limitate esperienze circa la sospensione del farmaco tra cui quella di Gianluigi Ardissino, dell’Ospedale Maggiore di Milano, che nel 2015 ha pubblicato su American Journal of Kidney Diseases uno studio su 16 pazienti in remissione di malattia dopo trattamento con eculizumab. In seguito all’interruzione del farmaco i soggetti sono stati strettamente monitorati, 5 di loro sono andati incontro a ripresa di malattia ma il precoce ripristino della terapia ha permesso la normalizzazione del quadro clinico. M. Marcia et al, attingendo al Global aHUS Registry, ha pubblicato sul Clinical Kidney Journal un’analisi sui pazienti trattati con eculizumab da cui è emerso il rischio di sviluppare gravi danni d’organo in seguito alla discontinuazione del farmaco e quindi ad un flare di SEUa; d’altra parte esiste la necessità di individuare quanto prima dei markers di attività di malattia che permettano di riconoscere le forme subcliniche di microangiopatia trombotica. Fakhouri et al. ha inoltre pubblicato uno studio sulla popolazione francese affetta da SEUa da cui è stata rilevata la correlazione tra alcune mutazioni genetiche dei fattori del complemento (fattore H e MCP) e il rischio di ripresa della patologia alla sospensione del trattamento. Nei pazienti senza tali varianti geniche, invece, l’interruzione dell’eculizumab appare meno rischiosa. Ad oggi ci sono quindi interessanti spunti perché il clinico possa valutare la possibilità di sospendere l’eculizumab una volta ottenuta la remissione. Fattori critici per tale decisione sono: il miglioramento della qualità della vita del paziente, la limitazione degli effetti collaterali del farmaco, la riduzione dei costi per la sanità, ma soprattutto un’attenta valutazione (clinica e genetica) caso per caso.

Approfondimento:

 

La sicurezza del Rituximab versus Steroidi e Ciclofosfamide per la Glomerulonefrite Membranosa Idiopatica

S. Matino

La glomerulonefrite membranosa è responsabile del 50% delle sindromi nefrosiche dell’adulto. E’ in prevalenza idiopatica, mentre le forme secondarie costituiscono il 20 – 30%. La malattia colpisce con maggiore incidenza gli uomini di oltre 40 anni di età. In Italia, nonostante rappresenti il 21% delle glomerulonefriti primitive, è una malattia relativamente rara.

Le attuali linee guida raccomandano una terapia di prima linea basata su Steroidi e Ciclofosfamide (St-Cp), secondo il “ciclo Ponticelli”  e, in seconda battuta, su Ciclosporina. Il ciclo Ponticelli riduce la progressione verso ESRD, ma non è privo di effetti collaterali. Nell’era dei farmaci biologici e della ‘target therapy’ il Rituximab (RTX), anticorpo monoclonale anti CD20, sempre più utilizzato nelle malattie renali immuno-mediate, rappresenta una valida alternativa in questa patologia.

Un importante studio osservazionale retrospettivo è stato condotto da Giuseppe Remuzzi e collaboratori dell’IRCCS Mario Negri di Bergamo e l’Università di Nijmegen in Olanda, dove le due coorti di 100 e 103 pazienti, provenienti rispettivamente da Bergamo e Nijmegen, paragonabili per le caratteristiche cliniche ed epidemiologiche, erano state trattate con il nuovo farmaco biologico (la prima) oppure sottoposte a ciclo terapeutico classico St-Cp (la seconda). I due gruppi sono stati confrontati riguardo il tempo di insorgenza di un qualsiasi effetto collaterale, la frequenza degli effetti collaterali gravi o non gravi, l’ottenimento di una remissione parziale o completa, il raggiungimento di almeno due situazioni tra il raddoppio della creatinina sierica, ESRD o morte.

Dai risultati è emerso che l’incidenza cumulativa di effetti collaterali è maggiore nel gruppo St-Cp. Gli eventi fatali nel gruppo trattato con RTX erano 4 (ictus, IMA, cr polmonare) di cui nessuno correlato con rapporto causa-effetto al farmaco; al contrario 9 eventi fatali si registravano nel gruppo trattato con St-Cp, di cui 5 dovuti al quadro di immunosoppressione. Una più alta percentuale di effetti collaterali gravi (46 vs 11) è stata osservata nel gruppo St-Cp, la maggior parte correlati alla terapia effettuata (mielotossicità, tromboembolia, osteonecrosi, iperglicemia e tumori solidi e del sangue). Invece, i pazienti trattati con RTX presentavano le stesse co-morbidità della popolazione generale, indipendentemente dal meccanismo d’azione del farmaco. Tale differenza nel profilo di sicurezza dei due trattamenti può essere spiegata in parte dalla dose cumulativa di Ciclofosfamide, troppo alta secondo le linee guida KDIGO, e dalla presenza di due immunosoppressori nello schema St-Cp.

Per quanto riguarda la risposta terapeutica, la remissione parziale si osservava in 89 pazienti trattati con St-Cp e in 64 pazienti trattati con RTX, ma il raggiungimento di una remissione totale, dato fortemente predittivo di riduzione del rischio di evoluzione verso ESRD, era pressoché sovrapponibile tra i due gruppi. Inoltre, l’entità di almeno due eventi fra raddoppio della creatininemia, ESRD o morte era paragonabile nei due gruppi.

In conclusione, l’efficacia e il profilo di sicurezza dimostrati dal Rituximab, lo portano ad essere proposto come farmaco immunosoppressivo di prima linea nel trattamento della Glomerulonefrite Membranosa Idiopatica con sindrome nefrosica.

Crediti: https://twitter.com/JASN_News/status/861944397604192256

Approfondimento:

  • van den Brand JAJG, Ruggenenti P, Chianca A, Hofstra JM, Perna A, Ruggiero B, Wetzels JFM, Remuzzi G.: Safety of Rituximab Compared with Steroids and Cyclophosphamide for Idiopathic Membranous Nephropathy. J Am Soc Nephrol. 2017 May 9. pii: ASN.2016091022. doi: 10.1681/ASN.2016091022. [Epub ahead of print]
  • http://jasn.asnjournals.org/content/early/2017/05/08/ASN.2016091022.abstract

 

Un cortisonico topico ad assorbimento intestinale (budesonide) riduce la proteinuria e stabilizza l’eGFR nei pazienti con nefropatia a depositi mesangiali di IgA

C. Villani

La glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA (IgAN) è la forma più frequente di glomerulonefrite primitiva. Il 25-50% dei pazienti che ne sono affetti evolve verso l’insufficienza renale cronica terminale (ESRD). La presenza di ipertensione arteriosa, di insufficienza renale all’esordio, di lesioni istologiche croniche e una proteinuria massiva sono in genere ritenuti fattori prognostici negativi. Ma qual è il trattamento farmacologico migliore? A tal riguardo non sono disponibili dati univoci. Nel corso degli anni, diversi approcci terapeutici, prevalentemente basati sui corticosteroidi, hanno dimostrato efficacia clinica nel rallentare l’evoluzione; però essi sono risultati non più efficaci della terapia di supporto in altri studi.

Recentemente è stata proposta un’alternativa ai corticosteroidi per via sistemica: si tratta della budesonide a rilascio controllato (TRF-budesonide), corticosteroide orale ad elevata attività locale, che è assorbito a livello dell’ileo distale e mira a limitare la risposta immunitaria della mucosa intestinale, agendo sui meccanismi immunologici responsabili della formazione di immunocomplessi IgA circolanti. Inoltre, grazie al suo basso grado di assorbimento, il farmaco può causare, rispetto ai corticosteroidi sistemici ad alto dosaggio, meno effetti collaterali e di minore gravità.

Lo studio randomizzato controllato in doppio cieco NEFIGAN ha valutato l’efficacia della TRF-budesonide associata a inibitori del sistema renina-angiotensina, verso la terapia di supporto con ACEi o ARB a dosaggio ottimale.

I criteri di inclusione erano rappresentati da una velocità di filtrazione glomerulare (eGFR) > 45 ml/min/1,73 m2 e una proteinuria espressa come uPCR > 0,5 g/g oppure proteinuria 24/h > 0,75g/die. Sono stati arruolati 150 pazienti affetti da IgAN. Di questi, 48 pazienti sono stati randomizzati nel braccio che prevedeva l’assunzione di 16 mg/die di budesonide e 51 pazienti nel gruppo trattato con 8 mg/die di budesonide, associata, in entrambi i casi, ad ACEi o ARB titolati fino al massimo dosaggio consentito. Altri 51 pazienti erano assegnati al gruppo placebo/inibitori del sistema renina-angiotensina.

Dopo 9 mesi di trattamento, il valore medio dell’ uPCR si riduceva del 27,3% nel gruppo da 16 mg di budesonide e del 21,5% nel gruppo da 8 mg. Di contro, nel gruppo placebo si assisteva ad un lieve incremento del 2,7% dell’ uPCR. La stessa entità di riduzione dell’escrezione urinaria di proteine si registrava anche valutando la proteinuria delle 24 ore o il rapporto albuminuria/creatininuria (uACR). Inoltre, l’eGFR dei pazienti in trattamento con budesonide restava stabile per tutto il periodo dello studio; mentre nei pazienti del gruppo placebo questo si riduceva del 10%. Nei gruppi trattati con TRF-budesonide, si sono osservati 13 eventi avversi gravi, di cui solo due probabilmente riconducibili al farmaco (tromboembolia e riduzione dell’eGFR); globalmente il profilo di sicurezza era accettabile e certo non peggiore dei corticosteroidi sistemici.

Questo studio sottolinea la possibilità che la TRF-budesonide, attraverso la riduzione della proteinuria e la stabilizzazione dell’ eGFR nei pazienti con IgAN può ridurre la progressione verso l’ ESRD e rappresentare una valida alternativa ai corticosteroidi sistemici, che non sono scevri da effetti tossici.

Crediti: http://www.renalandurologynews.com/chronic-kidney-disease-ckd/iga-nephropathy-targeted-release-budesonide-reduces-urinary-protein/article/667385/

Approfondimento:

  • Fellström BC, Barratt J, Cook H, Coppo R, Feehally J, de Fijter JW, Floege J, Hetzel G, Jardine AG, Locatelli F, Maes BD, Mercer A, Ortiz F, Praga M, Sørensen SS, Tesar V, Del Vecchio L; NEFIGAN Trial Investigators. Targeted-release budesonide versus placebo in patients with IgA nephropathy (NEFIGAN): a double-blind, randomised, placebo-controlled phase 2b trial. Lancet. 2017 May 27;389(10084):2117-2127. doi: 10.1016/S0140-6736(17)30550-0. Epub 2017 Mar 28.
  • http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(17)30550-0/fulltext

 

Vancomicina 3.0 – nuovo superantibiotico per trattare i ceppi resistenti di Stafilococchi e Enterococchi

V. Montinaro

Il problema della resistenza dei microrganismi agli antibiotici è un problema crescente e probabilmente, nel prossimo futuro, sarà causa di un numero di morti sempre in aumento. Dati recenti dei CDC di Atlanta stimano in circa 23.000 le morti annue negli USA per infezioni resistenti ai comuni antibiotici. Da questa premessa, risultano fortemente auspicabili le ricerche sulla definizione di nuove molecole ad attività specifica su ceppi resistenti di microrganismi. Recentemente, dati promettenti sono stati pubblicati circa una nuova versione di un vecchio antibiotico: la vancomicina. Questo antibiotico già in uso nel 1958, ha una specifica attività verso lo stafilococco aureo, specie su quei ceppi meticillino-resistenti e sull’enterococco. E’ difatti considerata una terapia di ultima spiaggia quando non ci sono altre alternative. Tuttavia, ceppi di stafilococchi resistenti alla vancomicina (versione 1.0) si diffondono e hanno posto il problema di trovare qualche alternativa efficace. L’effetto di questo antibiotico si realizza inibendo la sintesi della parete batterica, andando a legarsi a peptidi che hanno una coda terminale con due residui di D-alanina (D-ala). I batteri hanno escogitato una strategia per diventare resistenti alla vancomicina, laddove sostituisco una D-alanina con un residuo di D-acido lattico (D-lac). In queste condizioni, nulla può fare la vancomicina 1.0 per bloccare la replicazione batterica.

Già nel 2011, Dale Boger, un chimico della Scripps Clinic di San Diego aveva sintetizzato una variante della vancomicina (2.0) che era capace di legarsi a peptidi batterici modificati che terminavano con i due residui D-ala-D-lac. Successivamente, altre due modifiche strutturali sono state realizzate. Recentemente, sempre Boger ha pubblicato un lavoro su Proceedings of the National Academy of Science USA che descrive come sia riuscito a incorporare tutte queste tre variazioni molecolari in una nuova forma di vancomicina (3.0) che risulta essere 25.000 volte più potente su ceppi di stafilococco meticillino-resistenti o enterococchi resistenti alla vecchia vancomicina. Inoltre, i passaggi in coltura (fino a 50 volte) di questi ceppi di batteri non hanno dimostrato alcun meccanismo di resistenza al nuovo antibiotico. Il segreto nell’alta efficacia e bassissima propensione a sviluppare resistenza sta nel fatto che la molecola agisce su tre distinti meccanismi che si vicariano l’un l’altro ed è, pertanto, molto difficile per i batteri riuscire a ingegnare un meccanismo globale che superi la triplice azione della nuova Vancomicina 3.0. E’ questo antibiotico pronto per l’uso nell’uomo? Purtroppo no, sarà necessario prima uno sforzo a ridurre i passaggi di chimica industriale necessari a produrre la molecola in un modo più facile. Inoltre, bisognerà cominciare a testarla sugli animali e poi, finalmente si potranno disegnare studi sull’uomo. Qualche anno ancora di pazienza per poter pensare a un impiego clinico della Vancomicina 3.0.

Crediti: http://www.sciencemag.org/news/2017/05/superantibiotic-25000-times-more-potent-its-predecessor

Approfondimento: