Luglio Agosto 2016 - In depth review

Quali risultati abbiamo ottenuto sino a oggi con i chelanti del fosforo? Razionali, evidenze e mondo reale

Abstract

I chelanti del fosforo (P) sono una terapia comune in corso di chronic kidney disease and mineral bone disorder (CKD-MBD). Benché alcuni razionali di fisiopatologia sostengano l’importanza di controllare il sovraccarico di P anche mediante l’utilizzo del chelanti, le evidenze a favore di un simile intervento su obiettivi clinicamente rilevanti restano inconsistenti. L’articolo discute la discrepanza tra razionale e metodo sull’utilità della terapia chelante nei vari stadi della malattia renale cronica, con particolare attenzione alla necessità di ampliare lo sguardo verso una terapia della CKD-MBD multifattoriale, oggi possibile grazie alla varietà dei chelanti del fosforo disponibili e alla rapida evoluzione della terapia nutrizionale, delle tecniche dialitiche e della scienza infermieristica.

Introduzione

I chelanti del fosforo (P) rappresentano una classe di farmaci altamente prescritta nei pazienti nefropatici. In Italia i pazienti dializzati ricevono l’indicazione ad assumere in media 4.5 compresse di chelanti del P al giorno, con massimi vicini alle 10 compresse [1]. La consistenza delle prescrizioni, tuttavia, non solo si accompagna a un controllo della fosforemia spesso insoddisfacente [2] (full text) [3], ma poggia su indicazioni a basso grado di evidenza [4] [5]. Benché l’utilizzo dei chelanti sia sostenuto da un forte razionale fisiopatologico, gli strumenti di indagine forniti dalla evidence based medicine contemporanea non hanno dimostrato una superiorità inequivocabile della terapia chelante rispetto al placebo su importanti outcome clinici, quali sopravvivenza, ospedalizzazioni, eventi cardiovascolari e qualità della vita (hard endpoints).

È dunque necessario confrontare le nozioni di fisiopatologia a sostegno di un ottimale bilancio del P con le inconsistenti evidenze epidemiologiche a favore della terapia chelante. Saranno qui discussi il ruolo del P nella la fisiopatologia della chronic kidney disease & mineral bone disorder (CKD-MBD), il razionale della terapia chelante, alcune linee guida (LG) attuali, i risultati epidemiologici e le possibili strategie per migliorare l’impiego dei chelanti in corso insufficienza renale cronica (IRC).

Due volti della terapia chelante: razionale e metodo

I padri della nefrologia contemporanea hanno toccato con mano le conseguenze cliniche del metabolismo minerale non controllato in corso di uremia quali osteopatia, fratture, tumori bruni, calcificazioni metastatiche, eventi cardiovascolari, ipertrofia ventricolare e calcifilassi. Le nozioni di fisiopatologia, la ricerca di base e gli studi osservazionali hanno via via dimostrato una forte associazione tra la mortalità e il grado delle alterazioni del metabolismo minerale, in particolare carenza di Vitamina D, ipocalcemia, iperfosforemia e iperparatiroidismo secondario (IPS) [6] (full text), oggi racchiusi nel cluster della CKD-MBD [4]. Così, nella speranza di arginare segni e sintomi della CKD-MBD, gli sforzi terapeutici si sono orientati sulla correzione delle anomalie biochimiche, supplementando la carenza di calcio, di Vitamina D e cercando di controllare l’iperfosforemia con la terapia chelante. La gravità della patologia e una evidence based medicine ancora embrionale non avevano suggerito, però, di pianificare studi clinici che indagassero: 1) quali fossero i livelli di fosforemia più idonei nelle varie fasi di IRC per migliorare la CKD-MBD e gli hard endpoints, 2) se i chelanti del P fossero superiori al placebo sul controllo degli stessi obiettivi clinici rilevanti. Così per lungo tempo abbiamo dato per scontato che la terapia chelante fosse necessaria, che i livelli di fosforemia andassero ridotti nei pazienti in dialisi verso target non meglio precisati e che la terapia chelante potesse ridurre di per sé la gravità della CKD-MBD e gli hard endpoints. Mentre la ricerca di base e le indagini epidemiologiche svelavano l’azione diretta del P sui meccanismi di calcificazione vascolare (CV)[7] (full text) e la forte associazione tra CV e mortalità [8] (full text), la ricerca clinica deviava l’attenzione su una domanda ulteriormente particolare, ovvero se una classe di chelanti (calcium-free) fosse superiore rispetto a un’altra (calcium-based) nel controllare un outcome surrogato, quale la progressione delle CV [9] (full text) [10], e solo secondariamente nel migliorare gli hard endpoints [9] (full text) [11] [12]. La scelta di focalizzarsi sull’effetto dei chelanti contro la progressione delle CV veniva però a costituire un ulteriore salto metodologico, in quanto nessuno studio aveva precedentemente dimostrato nell’uomo se le CV fossero un effettore di mortalità [13] piuttosto che un esclusivo marcatore di malattia [14].

Le imprecisioni di metodo, avvenute in questo ambito, limitano oggi le evidenze a sostegno di una disinvolta traduzione delle conoscenze sperimentali in una pratica medica fortemente attiva nel controllo del bilancio del P.

Fisiopatologia e razionale della terapia chelante: fosforemia, bilancio del P, calcificazioni vascolari e proteinuria

Il P rappresenta un elemento essenziale nei processi vitali. Un essere umano adulto conserva circa 700 g di P, di cui solo l’1% sotto forma circolante, il restante 85% tesaurizzato nello scheletro e il 14% a livello intracellulare [15]. Il P è principalmente escreto per via renale, laddove solo il 15% della quota filtrata viene normalmente eliminata nelle urine, mentre il 75% è assorbito a livello del tubulo contorto prossimale e un restante 10% è assorbito nel tubulo distale[16]. La riduzione del filtrato glomerulare (GFR: glomerular filtration rate) già in corso di IRC stadio 3, sembra ridurre la quota di P filtrato, innescando un meccanismo fosfaturico di compenso, mediato dal fibroblast growth factor 23 (FGF23) e dal suo co-recettore Klotho, che possono limitare il riassorbimento tubulare del P [17] (full text) [18]. L’azione di compenso di FGF23, aumentando la frazione di escrezione del P (FeP), garantirebbe un bilancio fosforico neutro in corso di IRC 3-4. Poiché l’iperfosforemia si manifesta generalmente in presenza di GFR < 30 ml/min, alcune scuole di pensiero considerano la fosforemia un marcatore tardivo del sovraccarico di P, rispetto ad altri indici potenzialmente più precoci come FGF23 e la FeP [15] [19].

FGF23 tende a limitare il bilancio fosforico positivo tramite due ulteriori meccanismi di compenso: 1) l’aumento della sintesi di paratormone (PTH) e 2) l’inibizione della 1-25-a-idrossilasi [17] (full text). L’espansione del pool sistemico di P, anche in pazienti normofosforemici, costituirebbe così uno dei trigger iniziali della disregolazione endocrina tipica della CKD-MBD a lungo termine, caratterizzata da elevati livelli di FGF23, iperparatiroidismo secondario, deficit di Vitamina D attiva e ipocalcemia [15] [19] [20] (full text).

Ripetuti modelli sperimentali in vitro e in vivo hanno dimostrato come elevate concentrazioni di P possano indurre attivamente il processo di CV della tonaca media (calcificazioni di Monckeberg). Il P, capace di penetrare all’interno delle cellule muscolari lisce tramite il cotrasportatore Na-P Pit-1, è in grado di modificarne l’espressione genica, inducendone la trasformazione fenotipica in osteoblasti e condrociti [7] (full text). Tale processo è alquanto sensibile allo stato infiammatorio e alle variabili concentrazioni di promotori e inibitori del processo di calcificazione [21]. Si ritiene che le CV di Monckeberg, attraverso l’irrigidimento della parete arteriosa (arterial stiffness), comportino un progressivo aumento del lavoro cardiaco e una ridotta perfusione tissutale in fase diastolica, a loro volta responsabili di un accelerato rimodellamento e di un possibile aumento del rischio cardiovascolare [22].

L’interazione tra P e progressione dell’IRC in pazienti proteinurici è attualmente oggetto di studio. L’analisi post-hoc dello studio REIN ha dimostrato un’associazione indipendente tra l’aumento della fosforemia di 1 mg/dl e il rischio di ESRD [HR 1.84 (IC 95% 1.27-2.67) p=0.001][23] (full text). Inoltre l’effetto del ramipril contro la progressione in ESRD perdeva di significatività rispetto al placebo nei pazienti con fosforemia superiore a 4.0 mg/dl [23] (full text). Di Iorio BR et al hanno osservato un’interazione significativa tra i livelli di P (ematici e urinari) e l’effetto antiproteinurico della dieta fortemente ipo-proteica (0.3 g/Kg/die) rispetto alla dieta ipo-proteica (0.6 g/Kg/die) [24] (full text).

Nel discutere l’impatto della terapia chelante sugli hard endpoints, qualora si accetti il P come tossina endocrina [aumento di FGF23, IPS, deficit di 1-25(OH)D] e vascolare (arterial aging), con effetti proporzionati all’aumento delle sue concentrazioni sistemiche (scarsamente rappresentate dalla semplice fosforemia), non dovremmo sottovalutare le nuove acquisizioni riguardo allo stesso bilancio del P nelle varie fasi dell’IRC e alla natura multi-fattoriale della CKD-MBD [15]. Se il rischio del sovraccarico di P inizia già con valori di GFR prossimi ai 30 ml/min[25] (full text), si pone oggi il dilemma sull’utilità di controllarne il bilancio del P già in corso di IRC stadio 3-4 con la terapia nutrizionale e, potenzialmente, con la terapia chelante [19] [26] [27], al fine di prevenire le conseguenze della CKD-MBD a lungo termine.

Poiché in pre-dialisi la terapia nutrizionale può migliorare il bilancio del P consensualmente al controllo dell’apporto proteico [28] [29], la terapia chelante sembrerebbe in questo caso adiuvante per ottimizzare il bilancio del P solo in caso di fallimento della terapia nutrizionale. Nuove risposte potrebbero arrivare dallo studio COMBINE e dallo studio ANSWER. Il primo, condotto in pazienti con IRC stadio 3b-4 e fosforemia > 2.8 mg/dl, intende confrontare l’effetto a 12 mesi della nicotinamide e del carbonato di lantanio (da soli o in associazione) rispetto al placebo sui parametri del metabolismo minerale e su marcatori surrogati di danno cardiovascolare e renale[30]. Lo studio ANSWER valuterà l’azione antiproteinurica del sevelamer in pazienti già trattati con inibitori del sistema renina-angioitensina, con valori basali di fosforemia tra 2.5 e 5.5 mg/dl, GFR > 15 ml/min e proteiniuria > 500 mg/24 ore [31]. Tuttavia la terapia nutrizionale non sembra inclusa come intervento controllato.

Se in pre-dialisi la riduzione dell’apporto proteico limita di per sé l’introito di P alimentare, in dialisi le indicazioni nutrizionali ad aumentare la quota proteica e la scarsa dializzabilità del P comportano un elevato rischio di bilancio fosforico positivo, anche nei pazienti dializzati più complianti alla terapia nutrizionale [15] [28]. Il rischio di un bilancio fosforico positivo in corso di end stage renal disease (ESRD) mette quindi in serio dubbio che la terapia chelante, se non associata a terapie nutrizionali [32] (full text) e dialitiche controllate, sia efficace di per sé a garantire un bilancio del P utile per migliorare outcome clinici rilevanti [15]. Inoltre, considerando il P come uno dei molti effettori della CKD-MBD, è forse poco verosimile non solo che la terapia chelante, ma che lo stesso bilancio del P possa migliorare di per sé eventi cardiovascolari, ospedalizzazioni e sopravvivenza. In termini puramente teoretici, sarebbe lecito ipotizzare che il controllo del bilancio del P sia necessario ma non sufficiente per migliorare gli hard endpoints in dialisi e che la terapia chelante, a sua volta,sia adiuvante, necessaria ma non sufficiente per ottimizzare il bilancio del P in questi pazienti (fatta eccezione per i casi di denutrizione, dialisi quotidiana o dialisi notturna) [15] [33].

I razionali teoretici saranno ora confrontati con le linee guida e le evidenze epidemiologiche.

Terapia chelante in IRC: linee guida

Le LG della commissione Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) [4] [34] [35] e del National Institute for Health and Care Excellence (NICE) pongono oggi indicazione alla terapia chelante in predialisi così come in ESRD, tuttavia con bassi gradi di evidenza, frequenti revisioni e non poche incongruenze riguardo allo stadio di IRC ove iniziare il monitoraggio della fosforemia, ai suoi target e alla scelta del chelante.

Nel 2009 le LG KDIGO suggerivano di [4]:

  • LG 4.1.1: mantenere i livelli di fosforemia entro il range di normalità in IRC stadio 3-5 e verso il range di normalità in IRC 5D (evidenza 2C)
  • LG 4.1.4: utilizzare la terapia chelante per il controllo dell’iperfosforemia in IRC 3-5 (evidenza 2D) e in IRC 5D (evidenza 2B); orientare la scelta del chelante tenenedo in considerazione lo stadio di IRC, altre componenti della CKD-MBD, terapie concomitanti e gli effetti collaterali (non quotato)
  • LG 4.1.5: ridurre la dose di chelanti a base di calcio in IRC 3-5D in presenza di ipercalcemia (evidenza 1B), CV, osso adinamico e/o valori di PTH persistentemente bassi (evidenza 2C)
  • LG 4.1.6: evitare l’utilizzo di alluminio a lungo termine
  • LG 4.1.7: limitare l’introito alimentare di P in IRC 3-5D (evidenza 2D)
  • LG 4.1.8: aumentare la rimozione dialitica del P in caso di iperfosforemia persistente in IRC 5D (evidenza 2C)

La revisione delle LG KDIGO nel 2012 ha posticipato allo stadio di IRC 3b (GFR < 45 ml/min) l’indicazione a monitorare almeno annualmente i livelli di fosforemia (evidenza 1C) e di mantenerli entro il range di normalità (evidenza 2C) [34].

L’ultima conferenza KDIGO del 2015 [35] ha posto in discussione i punti 4.1.1, 4.1.4 e 4.1.7 delle precedenti linee guida KDIGO 2009 inerenti al controllo del P. In particolare, è stata sottolineata la necessità di: 1) nuove evidenze per meglio differenziare la scelta delle terapie chelanti in pre-dialisi rispetto all’ESRD, 2) indicazioni più dettagliate sul controllo dell’apporto nutrizionale di P, 3) revisione delle indicazioni sulla gestione del bilancio calcico nelle varie fasi di IRC e in corso di terapia con calciomimetici.

Le LG NICE del 2013 presentano alcune differenze rispetto alle LG KDIGO, suggerendo di [5]:

  • offrire calcio acetato come prima scelta per controllare la fosforemia in associazione alla terapia nutrizionale negli adulti con IRC 4-5
  • considerare il calcio carbonato qualora il calcio acetato risulti non tollerato o non palatabile
  • negli adulti con IRC 4-5 non in dialisi considerare chelanti calcium-free in caso di scarsa tolleranza verso i chelanti a base di calcio o in presenza di ipercalcemia e/o bassi livelli di PTH
  • per gli adulti con IRC 5D considerare il passaggio a/o la combinazione con chelanti calcium-free in presenza di iperfosforemia, nonostante l’aderenza alla massima dose raccomandata di chelante calcico
  • per gli adulti con IRC 5D considerare il passaggio ai chelanti privi di calcio (sevelamer HCl o lantanio carbonato) in caso di fosforemia controllata e ipercalcemia o livelli di PTH ridotti, dopo aver considerato altre cause di ipercalcemia

La revisione delle linee guida NICE nel 2014 ha rafforzato l’indicazione a non controllare i livelli di P per valori di GFR > 30 ml/min) [36].

Terapia chelante versus placebo e sopravvivenza: dati osservazionali

Il confronto tra terapia chelante e placebo sulla mortalità è oggi limitato a studi osservazionali, di cui uno condotto in pre dialisi [37] e tre in dialisi [38] (full text) [39] (full text) [40].

In una coorte di 1.188 maschi adulti con IRC non in dialisi (GFR medio 38 + 17 ml/min/1.73m2), il rischio di mortalità era ridotto del 39% (p<0.001) nei pazienti trattati con chelanti del P rispetto ai pazienti non trattati, indipendentemente dalle comorbidità e da altri parametri di laboratorio inclusa la fosforemia [37]. Da notare come i chelanti calcium-based (68%) fossero i più rappresentati, con una dose mediana di calcio elemento pari a 750 mg/die, seguiti dal selevelamer HCl in monoterapia (9%) o in associazione (23%) [37].

L’analisi del datababse USRDS, ristretta alla presenza di terapia chelante calcium-based in 3.603 pazienti incidenti in dialisi tra il 1996 e il 1997, aveva fornito risultati contrastanti [38] (full text). La riduzione del rischio di mortalità [HR 0.62 (IC 95% 0.73-0.52] osservata nel gruppo trattato con chelanti all’analisi univariata non era stata confermata alla propensity score analysis [HR 0.89 (IC 95% 1.10-0.72)], indipendentemente dal tipo di chelante utilizzato (calcio carbonato rispetto al calcio acetato) [38] (full text). Altri due studi hanno invece osservato un’associazione indipendente tra terapia chelante e sopravvivenza in dialisi. Isakova T et al hanno descritto una riduzione indipendente del rischio di mortalità a 1 anno pari al 30% (p<0.001) in 3.555 pazienti incidenti in dialisi trattati con terapia chelante, rispetto a 5.055 pazienti non trattati [39] (full text). L’associazione tra terapia chelante e minor rischio di mortalità era conservata anche nello strato con fosforemia normale (P 3.7-4.5 mg/dl) [HR 0.72 (IC 50% 0.54-0.97) p=0.03] [39] (full text). Dati più recenti dallo studio COSMOS hanno confermato l’associazione indipendente tra terapia chelante e minor rischio di mortalità per tutte le cause [HR 0.71 (IC 95% 0.61-0.82) p < 0.001] nonché per eventi cardiovascolari a 3 anni [HR 0.78 (IC 50% 0.62-0.97) p=0.029] [40]. In questo caso il vantaggio in termini di mortalità era conservato anche nei pazienti con fosforemia < 3.0 mg/dl [40]. Tutte le terapie chelanti, ad eccezione dell’alluminio, erano indipendentemente associate ad un minore ed eterogeneo rischio di mortalità cardiovascolare (HR compreso tra 0.28 e 0.73), con un vantaggio puramente descrittivo a favore dell’associazione tra sevelamer e carbonato di lantanio [40].

Le analisi statistiche utilizzate in questi studi osservazionali, seppur avanzate come la propensity score analysis, non possono annullare il rischio dell’errore sistematico da indicazione terapeutica (bias by indication), ovvero la possibilità che il migliore outcome (sopravvivenza) non sia dovuto al trattamento (chelante), bensì ad altre caratteristiche dei pazienti non misurate, che possono aver condizionato il medico nell’assegnarli a quella particolare terapia. I risultati osservazionali, seppure teoreticamente rilevanti, non possono quindi essere univocamente portati a sostegno della terapia chelante in generale, o di una specifica classe di chelanti, in corso di IRC [11].

Chelanti calcium-based versus calcium-free e calcificazioni vascolari

La mancanza di calcio inteso come substrato delle CV, il minor rischio di ipoparatiroidismo relativo con osso adinamico e la maggiore inibizione di FGF23 costituiscono oggi il razionale a favore della superiorità dei chelanti calcium-free rispetto ai chelanti calcium-based sulla progressione delle CV. È inoltre possibile che le azioni pleiotropiche di alcuni chelanti contribuiscano a tale effetto, come il potere antinfiammatorio e antiossidante (sevelamer e magnesio) [41] (full text) [42] (full text) [43] [44], l’effetto ipocolesterolemizzante (sevelamer) [43] o l’inibizione del calcium sensing receptor (magnesio) [44].

I principali trial clinici (RCT: randomized controlled trial) hanno confrontato i chelanti a base di calcio (calcio carbonato e calcio acetato) rispetto al sevelamer sulla progressione delle CV. Di questi, 3 studi sono stati condotti in pre-dialisi [45] (full text) [46] (full text) [47] (full text) e 7 in pazienti dializzati [48] (full text) [49] (full text) [50] [51] [52] [53] (full text) [54] Russo et al. avevano randomizzato 90 pazienti in IRC stadio 3-5 alla sol  terapia nutrizionale con ridotto apporto di P, o in associazione alla terapia chelante con sevelamer (1.6 g/die) versus calcio carbonato (2 g/die)[45] (full text). A 2 anni di osservazione lo score di calcificazione coronarica (CAC: coronary artery calcium score) aumentava significativamente nel gruppo trattato con calcio carbonato (p<0.001) ma non nel braccio randomizzato a sevelamer (p=ns) [45] (full text). Lo studio più recente di Block et al, dal disegno ambizioso ma limitato da una ridotta numerosità campionaria e da un breve follow up, ha fornito risultati contrastanti [46] (full text). In questo lavoro 148 pazienti con IRC stadio 3b-4 (eGFR 20-45 ml/min/1.73m2) e fosforemia compresa tra 3.5 e 5.9 mg/dl sono stati randomizzati a placebo versus terapia chelante (calcio acetato, versus lantanio carbonato, versus sevelamer carbonato), con l’endpoint primario di raggiungere una significativa riduzione della fosforemia a 9 mesi. Nel corso del follow up le dosi di chelante venivano aumentate in caso di valori di fosforemia > 3.5 mg/dl, raggiungendo dosi medie giornaliere di 1.5 g di calcio elemento, 2.7 g di lantanio carbonato e 6.3 g di sevelamer. Nonostante una significativa riduzione della fosforemia (da 4.2 a 3.9 mg/dl), osservata solo nei pazienti trattati con chelante, le CV peggioravano solo nel 17% dei pazienti del gruppo placebo rispetto al 37% del gruppo di intervento, con un peggioramento descrittivamente più marcato nel braccio con calcio acetato, peraltro associato a una riduzione del PTH potenzialmente suggestiva per un bilancio calcico positivo. Nello studio INDEPENDENT 212 pazienti con IRC stadio 3-5 sono stati randomizzati a sevelamer carbonato o calcio carbonato a dosi titolate, per mantenere i livelli di fosforemia tra 2.7 e 4.6 mg/dl in IRC 3-4 e tra 3.5 e 5.5 mg/dl in IRC 5, raggiungendo dosi medie di sevelamer e calcio carbonato di 2.184 + 592 mg/die e 2.950 + 703 mg/die rispettivamente [47] (full text). A 24 mesi di follow up il CAC migliorava in 24 pazienti trattati con sevelamer rispetto a 2 pazienti trattati con calcio, mentre la presenza di calcificazioni coronariche de novo compariva nel 12.8% del pazienti del gruppo sevelamer rispetto al 81.8% dei pazienti nel gruppo con calcio carbonato.

Sette RCT hanno confrontato il sevelamer rispetto ai chelanti calcici in pazienti dializzati. Sei di questi hanno dimostrato una minore progressione delle calcificazioni coronariche in corso di terapia con sevelamer rispetto ai chelanti calcium-based [9] (full text) [48] (full text) [49] (full text) [50] [51][52] [53] (full text)mentre nello studio di Qunibi et al. la progressione del CAC era simile nei pazienti randomizzati a calcio acetato e atorvastatina versus sevelamer [54]. In particolare, la sotto-analisi dello studio RIND ha osservato, nel gruppo di pazienti randomizzati a calcio carbonato o calcio acetato, una progressione delle CV marcatamente superiore nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici [55] (full text).

Una recente meta-analisi ha dimostrato una minore progressione delle CV in corso di terapia con lantanio carbonato rispetto a chelanti a base di calcio, includendo 11 RCT, di cui 2 condotti in pre-dialisi [10]. Gli autori hanno tuttavia segnalato la marcata eterogeneità degli studi e l’elevato rischio di errori sistematici, incluso il rischio di publication bias.

L’effetto secondario del magnesio sulle CV, quando impiegato come chelante del P, è stato indagato in pochi lavori [56] [57]. Il recente studio pilota di Tzanakis et al [56]ha osservato una minore progressione delle CV a 12 mesi, quantificate secondo il metodo semi-quantitativo proposto da Adragao T. et al [58] (full text), in 36 pazienti in dialisi randomizzati all’associazione di 235 mg di magnesio carbonato – 435 mg di calcio acetato rispetto al 600 mg di solo calcio acetato.

Non sono attualmente disponibili studi di confronto testa a testa, che abbiano confrontato nell’uomo la progressione delle CV in corso di chelanti di nuova generazione a base di ferro (PA21 e citrato ferrico) rispetto ai chelanti calcium-based.

Se molti studi, ma non tutti, sostengono un miglior controllo delle CV in corso di terapia con chelanti privi di calcio, l’eterogeneità dei lavori è comunque meritevole di attenzione, quantomeno riguardo alla formulazione e alle dosi di calcio utilizzate (spesso superiori a quelle consigliate), alla numerosità campionaria, alla durata del follow up e alle terapie di accompagnamento. I risultati dello studio EVOLVE hanno tuttavia messo in dubbio come una sola terapia (in tal caso il cinacalcet), anche se capace di ridurre la progressione delle CV [59] (full text) [60] (full text) [61], possa da sola migliorare la sopravvivenza in dialisi [62] (full text). Il ruolo delle CV come biomarcatore o come effettore del processo di invecchiamento resta infatti oggetto di un acceso dibattito [13] [14]. È tuttavia legittimo conservare l’opinione che alcune classi di pazienti, più a rischio di CV (diabetici, anziani, con infiammazione cronica, donne in menopausa), possano trarre vantaggio da una terapia chelante calcium-free a lungo termine [13] [63] (full text).

Chelanti calcium-based versus calcium-free e sopravvivenza

Dati osservazionali dal registro USRDS in più di 30.000 pazienti incidenti in dialisi, analizzati con tecnica propensity score, ha osservato una debole riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause a 4 anni (-6%, p = 0.002) nel gruppo trattato con sevelamer rispetto al calcio acetato [64]. L’effetto non era tuttavia confermato nel sottogruppo di pazienti aderente alla terapia chelante per l’intera durata dello studio [64].

La recente meta-analisi di Jamal SA et al ha presentato una significativa riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause (-12%) nei pazienti dializzati trattati con chelanti calcium free (prevalentemente sevelamer) rispetto a calcio carbonato e/o calcio acetato [12]. Questi risultati sono però oggetto di numerose critiche a causa di alcuni limiti metodologici: 1) il disegno osservazionale in 3 studi, 2) i dati di mortalità spesso non raccolti come outcome primario, 3) la ridotta incidenza di mortalità, 4) l’elevato tasso di drop out e 5) l’elevato rischio di bias.

Lo studio INDEPENDENT [65], non incluso nella meta-analisi di Jamal SA et al, ha successivamente randomizzato 466 pazienti incidenti in dialisi alla terapia con sevelamer e calcio carbonato mantenendo i livelli di fosforemia tra 2.7 e 5.5 mg/dl. Durante un follow up medio di 28 + 10 mesi, con un tasso di drop out < 5%, nel braccio con sevelamer era stata osservata una significativa riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause (-77%, p<0.001) sia per cause cardiovascolari (-89%, p<0.001) e non cardiovascolari (-95%, p = 0.004).

In pre-dialisi i dati di confronto tra chelanti calcium based e calcium free in termini di mortalità sono limitati alla prima fase dello studio INDEPENDENT, pubblicata da Di Iorio et al nel 2012 [47] (full text). In 239 pazienti con IRC stadio 3-5 il rischio di mortalità per tutte le cause era ridotto del 64% [HR 0.36 (IC 95% 0.15-0.82)] nel gruppo randomizzato a sevelamer carbonato rispetto al calcio carbonato [47] (full text).

Nella più recente meta-analisi di Patel L et al, ristretta a RCT, che hanno il rischio di mortalità era ridotto in corso di terapia con sevelamer rispetto ai chelanti calcium-based, [risk ratio 0.54 (IC 95% 0.32-0.93)] [66].

Da questi lavori emerge il segnale a favore della tarepia chelante calcium-free sulla sopravvivenza, tuttavia gravato da numerosi limiti metodologici e dalla scarsità di dati in corso di IRC 3-5.

Chelanti del P e real world setting

La terapia chelante mantiene un ruolo centrale nell’attività clinica del Nefrologo, chiamato oggi a gestire consapevolmente le incertezze, che pongono a duro confronto i razionali di fisiopatologia con le eterogenee evidenze degli studi di intervento [67]. Sebbene i target di fosforemia proposti dalle linee guida restino incerti, è altrettanto vero che mentre il 70%-90% dei pazienti in pre-dialisi raggiunge i livelli di fosforemia desiderati[2] [2] (full text) [3], solo il 50-60% dei pazienti dializzati risulta a target [68] (full text) [69].

Le barriere che ostacolano il raggiungimento degli obiettivi sono molteplici. Possiamo tentare di riassumerle in tre punti. 1) La difficile gestione del bilancio del P, specialmente in dialisi, rende i chelanti del P non “la” terapia, bensì “parte” di un intervento multifattoriale, che dovrebbe includere la terapia nutrizione e la clearance dialitica del P come indicatori di efficienza [15][32] (full text) [70]. 2) È ragionevole pensare che l’efficacia di un intervento così complesso richieda una maggiore individualizzazione, capace di accogliere negli obiettivi terapeutici anche la qualità di vita e il performance status [71] (full text) [72]. 3) Tale complessità impone quindi la necessità di una crescente consapevolezza in materia non solo da parte del medico, ma anche dell’infermiere, del paziente e del care giver [73] (full text) [74].

Recenti dati dallo studio DOPPS hanno dimostrato quattro aspetti importanti: 1) l’elevato impatto della terapia chelante sul pill burden, 2) la mancata assunzione della terapia chelante per almeno 1-3 volte nel corso dell’ultimo mese in circa il 39% dei pazienti in Italia, 3) una relazione inversamente proporzionale tra il pill burden e il potere chelante delle formulazioni utilizzate, 4) il significativo effetto centro sulla prescrizione della terapia chelante e il raggiungimento dei target [1]. I criteri per la scelta del chelante non dovrebbero quindi limitarsi ai livelli di fosforemia, considerando piuttosto le caratteristiche individuali dei pazienti in termini di comorbidità, prognosi, abitudini alimentari, condizioni socio-familiari e tolleranza verso una formulazione rispetto a un altra. La varietà dei principi attivi oggi a disposizione ben si presta a scelte personalizzate, che considerino formulazioni, potere chelante, tollerabilità ed effetti pleiotropici. I nuovi chelanti a base di ferro arricchiranno ulteriormente le opzioni terapeutiche [75].

I prossimi anni richiederanno un’ulteriore collaborazione medico-infermieristica, per ottimizzare la gestione della terapia del P e più in generale della CKD-MBD, con strategie d’intervento comuni per la valutazione funzionale del paziente, programmi di counselling nutrizionale [76]e monitoraggio dell’efficienza dialitica in tempo reale. L’evoluzione concettuale della scienza infermieristica sul fronte del case management [77] potrà forse migliorare l’efficacia di un approccio multifattoriale al trattamento della CKD-MBD.

Conclusioni

La ricerca (di base, clinica e farmaceutica) ha reso accessibile una varietà di chelanti del P non disponibili in passato. Le attuali linee guida consigliano l’utilizzo dei chelanti del P in presenza di iperfosforemia a partire dallo stadio di IRC 3b (KDIGO) [4] [34] o di IRC 4 (NICE) [5] [36]. Il grado di evidenza di tali indicazioni resta tuttavia basso a causa 1) della natura osservazionale dei dati di confronto rispetto al placebo e 2) della mancanza di studi di intervento, che abbiano confrontato la bontà dei target di fosforemia sugli hard endpoints.

Le nozioni di fisiopatologia sostengono il valore di un efficiente controllo del bilancio del P in ESRD e, con maggiori incertezze, in corso di IRC 3-4. I chelanti calcium-free sono risultati globalmente superiori rispetto ai chelanti a base di calcio sulla progressione delle CV in ripetuti RCT [9] (full text). Tuttavia la natura delle CV come biomarcatore e/o come effettore modificabile dell’invecchiamento vascolare è ancora oggetto di discussione [9] (full text) [13] [14]. Nonostante alcuni RCT abbiano mostrato una migliore sopravvivenza in corso di terapia con chelanti calcium-free (prevalentemente sevelamer) rispetto ai chelanti calcium-based [12] [66], i dati su questo target restano eterogenei e gravati da numerosi limiti metodologici [11]. Le linee giuda KDIGO [4] e NICE sono attualmente discrepanti in merito alle indicazioni sulla scelta dei chelanti calcium-free [5].

L’utilità dei chelanti del P in pre-dialisi sugli hard endpoints sarà oggetto della ricerca nei prossimi anni.

In attesa di maggiori evidenze, la pratica clinica può ragionevolmente considerare la terapia chelante come una parte essenziale di un intervento multifattoriale soprattutto in ESRD (nutrizione, dialisi, chelanti), che includa più figure (paziente, care giver, infermiere, medico) e nuovi obiettivi (qualità di vita e performance status) oltre al controllo dei tradizionali hard endpoints. Il rigore scientifico impone che il reale impatto di un simile intervento, multifattoriale e controllato, debba essere testato in futuri studi di intervento.

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