Luglio Agosto 2022 - Le nostre storie: vite di nefrologi

Intervista a Vito Cagli sulla sua vita da nefrologo e non solo

Abstract

Questa intervista descrive i numerosi e notevoli contributi che Vito Cagli, nato ad Ancona nel 1926, ha dato alla Nefrologia italiana e ad altri settori della Medicina. Tali contributi, oggi assai poco conosciuti, furono prodotti soprattutto nel lungo periodo in cui Cagli è stato vicedirettore del Centro per lo Studio e la Cura per l’Ipertensione Arteriosa e delle Malattie Renali del Policlinico Umberto I di Roma. Questa intervista contribuisce anche a far conoscere quella fase della nostra specialità che precedette l’introduzione nel nostro Paese della biopsia renale e dell’emodialisi.

Parole chiave: Storia della Nefrologia, Storia della Nefrologia italiana, Storia della ipertensione arteriosa

Introduzione

Questa intervista è nata da un suggerimento del collega e amico Attilio Losito ed è stata fatta dalla co-autrice Bianca Gualandi il 9 marzo scorso a Roma, nella casa dell’intervistato. Essa racconta la storia di vita nefrologica, e non solo, di Vito Cagli, nato ad Ancona nel 1926.

Laureatosi in Medicina presso l’Università di Roma nel 1950, Cagli si è specializzato in Medicina Interna nel 1956, e in Igiene e Tecnica Ospedaliera nel 1966. Dal 1961 al 1966 ha prestato la sua opera come assistente medico nel reparto di Medicina Interna dell’Ospedale San Giovanni di Roma. Successivamente, per molti anni, è stato vice-direttore del Centro per lo Studio e la Cura dell’Ipertensione Arteriosa e delle Malattie Renali del Policlinico Umberto I di Roma, e dal 1993 al 1999 ha diretto il Centro di Dialisi di una Casa di Cura romana.

Intensa è stata l’attività scientifica di Cagli che, a partire dal 1954, ha pubblicato oltre 300 lavori scientifici (di cui 136 riportati in “PubMed”) su quattro principali argomenti. Questi, in ordine cronologico, sono: lo studio delle proteine plasmatiche in condizioni sperimentali e cliniche; l’applicazione delle indagini chimico-cliniche allo studio delle malattie; le malattie renali e l’ipertensione arteriosa; gli aspetti antropologici in medicina. Intensa è stata anche la sua partecipazione a congressi nazionali (Figura 1) e internazionali, e la sua attività didattica in corsi universitari per medici e infermieri.

Questa intervista descrive i notevoli (ma oggi assai poco conosciuti) contributi che Vito Cagli ha dato alla Nefrologia, che solo in parte sono riportati in un articolo pubblicato nel 2009 in questo giornale di cui lo stesso Cagli è co-autore [1]. Inoltre, essa contribuisce a far conoscere più da vicino quella fase della Nefrologia italiana che precedette l’introduzione nel nostro Paese della biopsia renale e dell’emodialisi.

Figura 1: 1994. Vito Cagli interviene nella tavola rotonda su “Equilibrio acido-base e idro-elettrolitico” tenutasi all’Ospedale Fatebenefratelli di Benevento.
Figura 1: 1994. Vito Cagli interviene nella tavola rotonda su “Equilibrio acido-base e idro-elettrolitico” tenutasi all’Ospedale Fatebenefratelli di Benevento.

Quando e perché decise di fare il medico?

Francamente non me lo ricordo con precisione, perché si perde nella notte dei tempi. Ma è probabile che io abbia pensato di fare il medico fin da bambino, forse perché sono stato influenzato dal fatto che avevo un medico curante che mi piaceva molto – questa figura del medico paterno che ti salva e ti cura, che era sempre ben accolto in casa e si fermava a parlare. Tuttavia l’inconscio è profondo e il pozzo del passato, come dice Thomas Mann, non lo è da meno. Quindi è più corretto dire che non lo so perché ho voluto fare il medico. Certo, l’ho sempre voluto fare… e non mi sono pentito!

Non c’era nessun altro medico in famiglia?

No, nessuno.

In che università ha studiato medicina?

Mi iscrissi all’università a 18 anni, nel 1944. Erano tempi difficili e Ancona, la città dove ero nato e avevo vissuto con la mia famiglia, era sotto i bombardamenti, a causa dei quali fummo costretti a trasferirci, come sfollati, a Fermo. L’Università di Bologna era la più gettonata e frequentata da noi anconetani e dai marchigiani in genere, ma io per varie ragioni finii con l’iscrivermi all’Università di Perugia. In realtà, avrei voluto iscrivermi a Roma, anche perché mi ero innamorato di una mia compagna di scuola, anche lei sfollata, che abitava a Roma. Ma i miei genitori titubavano molto, io ero giovane e loro pensavano “se va a Roma chissà cosa combina”. Quindi, feci il primo anno di Medicina a Perugia, e devo dire che mi ci trovai molto bene. Poi al secondo anno riuscii finalmente a raggiungere l’ambita meta di Roma, dove rimasi fino alla laurea, che conseguii nel 1950.

A quel tempo l’Università di Roma era una sola, la Sapienza, con la sede di Medicina al Policlinico Umberto I, dove mi recavo tutte le mattine a piedi da qui, dove abito ancora adesso. E devo dire che vista retrospettivamente, era veramente una bella Facoltà, con molte persone di notevole spessore.

Su quale argomento fece la tesi?

L’argomento della tesi di laurea mi fu assegnato dall’aiuto della Clinica Medica, Ferdinando Corelli, che io ho amato molto perché era un medico “ottocentesco”, se vogliamo, ma di grande capacità clinica. La mia tesi era su “Le emorragie da dicumarolo”, un anticoagulante che era stato introdotto nella pratica clinica da pochi anni e il cui uso era associato a numerosi casi di emorragie anche gravi. Conservo ancora questa mia tesi di laurea che porta le sottolineature con penna a inchiostro verde di Cesare Frugoni, che era il direttore della Clinica Medica e teneva molto al rapporto con gli studenti1. Quando si avvicinava il momento della tesi si faceva consegnare lo scritto, un po’ lo leggeva e un po’ si faceva raccontare a voce e prendeva degli appunti. Inoltre, andava sempre di persona alle sedute di laurea.

Mi sono laureato con 110 e lode e con un buon curriculum, anche se un po’ strano, perché negli esami andavo dalla lode al 23. Ma io dico sempre che la trasmissione del sapere si fa per via affettiva: chi trasmette il sapere deve sempre dare quel calore e quella spinta senza i quali la materia diventa qualcosa di freddo che uno studia senza passione. Per me è stato così. 

Dopo la laurea, in quale istituto ha iniziato la sua carriera di medico? E quali erano le figure di spicco che vi lavoravano?

Rimasi in Clinica Medica come specializzando, e questo perché fui molto colpito dalla figura di Frugoni. A questo proposito, ho un ricordo molto vivo della sua prima lezione a cui io assistetti, per due motivi. Il primo è che io ero una sorta di abusivo, in quanto facevo il quarto anno di medicina e l’insegnamento di Clinica Medica cominciava al quinto anno (ma ero riuscito a entrare come interno in Clinica Medica già al quarto anno). Il secondo e più importante motivo è che quella lezione mi fece capire quale deve essere il ruolo del medico (il cosiddetto “dramma clinico”): c’è un paziente di fronte a me, io ho degli elementi che devo acquisire con il mio lavoro, poi li devo elaborare e devo arrivare a una conclusione che mi indichi, oltre alla diagnosi, anche la terapia. In questo Frugoni era molto bravo, anche se diversi anni dopo riconobbi che la sua era una sorta di “messa in scena” voluta, in quanto nell’insegnamento ci deve essere un aspetto drammatico, teatrale, che colpisca emotivamente il discente in modo da rimanergli impresso. Senza di questo, l’insegnamento diventa una “tiritera” che sa di poco e che scivola come acqua sul corpo.

Svolse la sua attività sempre a Roma?

Sono sempre rimasto a Roma, con un’unica eccezione, quando nel 1953 mi recai per una decina di giorni a Milano nel laboratorio del professor Boselli, che era un aiuto del professor Enrico Vigliani, titolare della cattedra di Medicina del Lavoro. Lo scopo della mia visita a quel laboratorio era la messa a punto della tecnica dell’elettroforesi su carta delle proteine (Figura 2). Boselli aveva un laboratorio attrezzato e ben organizzato e mi insegnò molto bene quella tecnica, che successivamente utilizzai per numerosi studi, più di 20, i cui risultati pubblicai tra il 1954 e il 1958 su diverse riviste italiane, tra le quali il “Bollettino della Società Italiana di Biologia Sperimentale”, “Progresso Medico”, “Il Policlinico Pratico”. Su questo argomento ho pubblicato anche una monografia in collaborazione con Gian Filippo Marinoni, che fu pubblicata nel 1957 [2]. Di Boselli e del suo laboratorio conservo davvero un bel ricordo.

 

Figura 2: 1963. Vito Cagli controlla un apparecchio per elettroforesi su carta nel suo Laboratorio che era stato da poco rinnovato.
Figura 2: 1963. Vito Cagli controlla un apparecchio per elettroforesi su carta nel suo Laboratorio che era stato da poco rinnovato.

In che anni cominciò a occuparsi di malattie renali?

Nei primi anni Cinquanta; in quel periodo, credo non soltanto a Roma, le malattie renali erano poco conosciute e un po’ neglette. Eravamo rimasti fermi alle impostazioni classiche che venivano dall’Ottocento, non c’erano stati grandi avanzamenti né diagnostici né terapeutici. Gli strumenti terapeutici di cui disponevamo erano molto semplici, valevano un po’ per tutte le nefropatie senza distinzione, ed erano “le tre elle”: letto, lana, latte. Questo dice la povertà delle terapie di cui disponevamo, che talvolta erano perfino un abuso. Ricordo di aver visto e, in un certo senso salvato, dei ragazzini che venivano allettati solo perché avevano albumina in tracce nelle urine. Era dominante l’idea che l’insufficienza renale cronica che è l’esito che vogliamo evitare di qualsiasi patologia renale dipendesse molto da una mancata cura, attenta e precoce, di una anche “presunta” nefrite acuta passata inosservata. Insomma, c’era questo aspetto prudenziale legato anche al fatto che non avevamo armi terapeutiche di altro tipo.

A Roma la Nefrologia “nacque” nel 1955, con l’arrivo dall’Università di Pisa di Cataldo Cassano, in qualità di direttore dell’Istituto di Patologia Medica. Con lui arrivò anche Ernico Fiaschi che a Pisa si era occupato, con Aldo Torsoli e Giuseppe Andres, di biopsie renali [1].  Questo argomento fu ripreso a Roma con il coinvolgimento di giovani collaboratori quali Remo Naccarato, Aldo Fabbrini, Luciano Campanacci e Giulio Cinotti. Ciò portò alla pubblicazione di numerosi articoli e, nel 1960, dell’importante monografia “La Sindrome Nefrosica” [1].

Io cominciai ad occuparmi delle malattie diversi anni dopo, quando entrai nel “Centro per lo Studio e la Cura dell’ipertensione Arteriosa e delle Malattie Renali” di Roma.

Cosa ci può dire di questa sua attività?

Nel 1966 venne istituito il suddetto Centro, annesso al VII Padiglione del Policlinico Umberto I, di cui era primario Sirio Lentini, che fungeva anche da direttore del Centro. Io venni a sapere che cercavano un vice-direttore e quindi mi presentai e accettai l’incarico. Lo feci perché avevo capito che il tempo della Clinica Medica intesa come medicina in grado di affrontare in modo adeguato tutte le malattie internistiche era giunto al termine. Alcune specialità stavano già nascendo nonostante l’opposizione dei clinici medici, che erano gelosi del loro potere, e quella era la nuova strada da percorrere. Fui quindi assunto come vice-direttore (in realtà, ero io che mandavo avanti l’istituzione mentre Lentini metteva le firme) e tale vi rimasi fino alla pensione perché nel frattempo l’Università aveva acquisito tutto il Policlinico.

Partimmo da zero e feci delle cose che mai avrei pensato di dover fare. A quel tempo non c’era il Servizio Sanitario Nazionale ma diversi tipi di mutua e io dovetti fare il giro di queste, a partire dall’INAM (Istituto Nazionale Assicurazione Malattie, che era quella con il maggior numero di iscritti), per arrivare a stipulare la convenzione che il direttore avrebbe poi firmato. In sei mesi passammo da zero a diverse centinaia di pazienti, cosa che fu considerata un notevole successo. La notizia di questo Centro si sparse poi in tutto il Lazio e nelle zone vicine. Oltre all’attività amministrativa svolgevo anche un’intensa attività clinica, di laboratorio, e di ricerca, insieme con Enrico Bologna, Alfredo Bossini e altri. Pubblicammo diversi articoli, alcuni di revisione, altri con risultati originali, sia in riviste nazionali [3-7] che internazionali [810], e una monografia [11] (Figura 3).

Figura 3: Piatto anteriore della monografia sull’ipertensione arteriosa, pubblicata nel 1988.
Figura 3: Piatto anteriore della monografia sull’ipertensione arteriosa, pubblicata nel 1988.

Il 2 maggio del 1966, a Roma Paride Stefanini eseguì il primo trapianto di rene in Italia, che fu seguito nello spazio di poche settimane da altri due, uno dei quali utilizzando un rene prelevato da uno scimpanzé. Lei fu coinvolto in questo programma di trapianto? E se sì, in che modo?

 No, noi non fummo assolutamente coinvolti in questa attività. E questo in quanto in quegli anni non c’erano cattedratici di Nefrologia, mentre c’erano dei valenti cattedratici di Urologia e, come nel caso di Paride Stefanini, di Chirurgia Generale.

Stefanini era un uomo molto aperto a tutti i nuovi indirizzi della chirurgia, e il programma di trapianto l’aveva avviato lui. Ma lui e il suo gruppo erano distanti da noi. E poi c’erano il settore universitario e quello ospedaliero, con dei conflitti che nacquero e si svilupparono fino a quando l’Università inglobò tutta la parte ospedaliera, e l’Umberto I diventò interamente universitario.

Adesso parliamo dei libri di Nefrologia a cui Lei ha contribuito in vario modo. Cosa mi può dire della sua esperienza di traduttore della 2a edizione della monografia di Douglas Black “Renal Disease”?

La monografia curata da Black (professore di Medicina all’Università di Manchester) era un’opera di quasi 800 pagine, suddivisa in 29 capitoli, a cui avevano contribuito più di 30 autori, quasi tutti appartenenti a istituzioni inglesi o americane [12] (Figura 4). Era un’opera conosciuta e apprezzata anche in Italia; la necessità di tradurla nasceva dal fatto che in quegli anni l’inglese era poco praticato dalla classe medica, anche accademica.

Figura 4. Sinistra: piatto anteriore della seconda edizione inglese della monografia di Douglas Black.
Figura 4: Sinistra: piatto anteriore della seconda edizione inglese della monografia di Douglas Black. Destra: piatto anteriore dell’edizione italiana.

La traduzione di tale opera fu per me un’enorme fatica [13]. Io avevo la responsabilità di tutta la traduzione, che avevamo suddiviso in quattro parti: una io, una Enrico Bologna, una Alfredo Bossini, e una Massimo Lentini. E poi a me toccava di rivederle tutte e quindi dovevo lavorare di sera, dopo una giornata di impegni, e questo non mi piaceva. Perché io ho sempre lavorato molto ma, come ho appreso da mio padre, da un certo punto della giornata pensavo che fosse giusto fermarsi e “quello che non è fatto si farà”. Così, a lavoro compiuto, giurai che non avrei mai più fatto una cosa del genere.

Alcuni anni dopo Lei pubblicò il libro “Diagnosi e Terapia delle Nefropatie Mediche”. Quali motivazioni la spinsero a scriverlo e che impatto ebbe?

Intorno al 1960 entrai come redattore nel comitato editoriale de “Il Policlinico”, un giornale medico il cui primo numero era stato pubblicato il 15 dicembre del 1893 su iniziativa di Guido Baccelli, medico e figura straordinaria della sanità e della vita politica e culturale di Roma tra fine Ottocento e inizio Novecento2.

Per me si trattò di una bella palestra, innanzitutto perché imparai a scrivere, e infatti vi pubblicai numerosi articoli di revisione su argomenti di nefrologia, il primo dei quali sul sedimento urinario [14] e poi su altri, tra i quali la semeiotica funzionale dei reni, le proteinurie, la terapia dell’insufficienza renale cronica, le glomerulonefriti, la sindrome nefrosica [15-20].

Inoltre, fu un’esperienza importante per me perché facevano parte del comitato editoriale personaggi straordinari, non perché fossero dei grandi luminari ma perché ognuno di loro aveva le sue proprie qualità e quindi tu potevi imparare molto, perché si impara da tutti. E tra queste figure dominava la scena una specie di redattore capo non c’era questo titolo, ma di fatto era così che si chiamava Costantino Iandolo, che all’inizio era aiuto e poi divenne primario degli Ospedali Riuniti di Roma e scrisse numerosi libri di medicina.

Iandolo teneva molto al bello scrivere e mi ricordo una delle sue frasi che amava ripetere in francese (la lingua di sua madre, belga): “Caressez la phrase et elle va vous sourir” che vuol dire “Accarezzate la frase e questa vi sorriderà”. Cioè, la frase deve scorrere, deve essere qualcosa come una carezza, dolce e non spigolosa.

Iandolo era consulente per due editori, uno romano, che allora si chiamava Armando Armando e successivamente solo Armando, e l’altro milanese, Vallardi. Un giorno Iandolo mi chiese se me la sentivo di scrivere “un libro pratico di nefrologia” per Vallardi e io gli dissi di sì, perché scrivere a me piaceva molto. Ci fu una cena a tre, Iandolo, Vallardi e io in un albergo romano, e ci mettemmo d’accordo con l’editore, anche quello un personaggio che valeva la pena di conoscere, ma che purtroppo spendeva senza vedere quanto guadagnava e quindi fallì.

Assecondando la richiesta di Iandolo, produssi un libro pratico [21], come scrissi anche nella Prefazione:

“Così è nato questo libro.

Dalla osservazione tante volte ripetuta che mentre ‘il congresso’ o ‘le giornate’ discutevano di istoimmunofluorescenza o di tecnologie dialitiche, il pratico non conosceva il concetto di clearance o trattava l’insufficienza renale sostituendo il formaggio alla carne.

Dunque un libro di nefrologia per ‘non nefrologi’, scritto per aiutare il medico ad affrontare meglio che sia possibile i problemi del malato renale. Protagoniste del libro sono pertanto la diagnosi e la terapia. L’eziopatogenesi e l’anatomia patologica sono invece trattate solo quanto è sufficiente per comprendere l’essenza della malattia, per avviare correttamente le procedure diagnostiche e per impiantare su basi razionali il trattamento terapeutico.

Se il termine ‘clinica’ ha ancora oggi un senso – e crediamo che l’abbia – si può anche dire che questo è un libro di nefrologia clinica.

Esso è centrato sul malato e soprattutto su quel tipo di malato che qualsiasi medico, anche fuori dai reparti specializzati, può vedere e seguire e col quale deve saper misurare non tanto la sua cultura, quanto la sua capacità di intervenire utilmente.”

Ne risultò un volume di 344 pagine, suddiviso in quattro parti (criteri diagnostici generali; le grandi sindromi nefrologiche; le nefropatie primitive; le nefropatie secondarie) comprendenti 25 capitoli, 67 figure, 87 tabelle, e oltre 330 voci bibliografiche, 74 delle quali di autori italiani (Figura 5).

Figura 5. Piatto anteriore della monografia scritta da Vito Cagli, pubblicata nel 1976.
Figura 5: Piatto anteriore della monografia scritta da Vito Cagli, pubblicata nel 1976.

Una volta pubblicato, il libro andò benissimo. Me ne accorgevo perché, incontrandomi, gli studenti mi dicevano “Ah, professore, io ho studiato sul suo libro, quello con la copertina rossa”.

In alcuni casi, i riscontri si fa presto ad averli.

Nel 1978 fu fondato il “Gruppo Laziale di Nefrologia Medica Chirurgica”. Nell’anno successivo fu fondata la “Sezione Interregionale Abruzzo, Lazio, Marche, Molise, Umbria (ALaMMU) della Società Italiana di Nefrologia. Lei fu coinvolto in queste iniziative?

Queste attività furono il frutto di un’azione convergente da parte di figure diverse: Giulio Cinotti, il sottoscritto e Nicola Cerulli, urologo del gruppo di Ulrico Bracci e titolare della Cattedra di Nefrologia di Interesse Chirurgico. Nacque così il “Gruppo Laziale di Nefrologia Medica e Chirurgica” che, con il supporto organizzativo dell’Ente Fiuggi, organizzò il primo Corso di Aggiornamento di Nefro-Urologia, che si tenne dal 15 al 17 maggio del 1978 a Roma con il seguente programma: fisiopatologia; alcuni aspetti dell’insufficienza renale avanzata; diagnostica; tecniche radiologiche; terapia [1]. Gli Atti del Corso furono pubblicati dall’Ente Fiuggi in un volume di 285 pagine, curato da me e da Giulio Cinotti [22] (Figura 6).

Figura 6. Piatto anteriore del volume contenente gli Atti del primo Corso organizzato dal Gruppo Laziale di Nefrologia Medica Chirurgica.
Figura 6: Piatto anteriore del volume contenente gli Atti del primo Corso organizzato dal Gruppo Laziale di Nefrologia Medica Chirurgica.

Il Corso venne ripetuto, con cadenza biennale, fino al 1988. A partire dal 1990 i Corsi furono sostituiti dalle “Giornate Nefrologiche Romane”, che includevano solo argomenti nefrologici. Questo fatto contribuì a una progressiva separazione tra Nefrologia e Urologia.

Questa separazione della Nefrologia dall’Urologia ebbe qualche impatto?

Gli urologi se la presero un po’ a male. Ci volle del tempo perché le cose si sistemassero. Infatti, in quegli anni molti pazienti si rivolgevano all’urologo indipendentemente dal fatto che la malattia renale da cui erano affetti fosse di natura chirurgica o no. La parola “nefrologo” era quasi sconosciuta, e molti pazienti non sapevano neppure cosa significasse.

Nel 1980 fu fondata la Sezione Interregionale Abruzzo, Lazio, Marche, Molise, Umbria (ALaMMU) della Società Italiana di Nefrologia. Può dirci qualcosa di questa esperienza?

Come risulta dall’atto notarile stilato il 29 novembre del 1980, io fui tra i soci fondatori di questa società scientifica, insieme con altri nefrologi (Piero Pacchiarotti, Giorgio Splendiani, Maurizio Brigante, Vittorio Mioli, Alberto Albertazzi, Giulio Cinotti) e il chirurgo trapiantologo Carlo Casciani [23]. L’idea era quella di una Società basata sulla condivisione di obiettivi e programmi tra cinque Regioni dell’Italia centrale. Nel corso del tempo si rivelò molto attiva mediante l’organizzazione di congressi annuali (non solo per nefrologi ma anche per infermieri), seguiti dalla pubblicazione degli atti; l’istituzione di borse di studio per giovani nefrologi; l’organizzazione di corsi formativi, tra i quali uno sulle biopsie renali e uno sull’anemia in pazienti affetti da patologia renale e cardiaca.

Sempre nel 1980 fu istituita all’Università La Sapienza la prima scuola di specializzazione di Nefrologia del Lazio, diretta dall’urologo Ulrico Bracci e Giulio Cinotti, che fu seguita nel 1981 dalla II Scuola sotto la direzione di Sirio Lentini. In che modo queste scuole contribuirono alla crescita della nefrologia locale e nazionale?

Contribuirono molto. Quando io mi laureai, in Clinica Medica c’era la sola specializzazione di Medicina Interna, che in realtà era una non-specializzazione, una sorta di ripasso a più alto livello della medicina studiata nel corso di laurea. La figura dell’internista doveva essere quella di un medico con un elevato livello di competenza che abbracciasse tutti i principali campi della medicina interna. Giovanni Di Guglielmo, direttore dal 1951 al 1956 dell’istituto di Clinica Medica della Sapienza di Roma, fondò la Scuola di specializzazione in Ematologia, e così cominciò questa nuova strada delle specializzazioni in campo internistico. All’inizio i posti nelle scuole di specializzazione erano meno di quelli richiesti, e questo succedeva perché ormai il medico sapeva che, se voleva minimamente emergere, doveva specializzarsi.

Tra il 1991 e il 2020 Lei ha pubblicato ben 19 libri che trattano di medicina come scienza che si deve confrontare con la filosofia e la psicoanalisi, di personaggi come Casanova e Thomas Mann, e di letteratura. Come mai si è occupato di argomenti così vasti e anche lontani da quello che era la sua professione?

Guardi, io credo di non avere scritto neanche una riga, mai, di cose non attinenti alla medicina. Sono i medici che sono divenuti incapaci di tener conto di quello che mi pare dicesse già Galeno “Nullus medicus nisi philosophus”: “Nessun è medico se non è filosofo”.

Noi abbiamo a che fare con la morte. Vogliamo chiederci che cosa rappresenta la morte per ciascuno di noi e che cosa rappresenti per ciascuna età della nostra vita? Vogliamo chiederci come posso io far stare meglio un morente? Senza le solite banalità, “ma no che stai benone, su”, la cosiddetta filosofia della pacca sulle spalle. No, non è questo. La sofferenza del corpo porta alla sofferenza anche della psiche.

Filosofia. La filosofia è tutto, è amore per il sapere, come dice la parola stessa. Parla di noi, parla della vita. Non è filosofia pura quella di cui io parlo.

Psicanalisi. Io l’ho studiata a partire da quando ero ragazzo, quando avevo più o meno 15 anni3. Se lei guarda nel mio studio vedrà due fotografie: una è quella di Sigmund Freud – cioè la psicanalisi – e l’altra è quella del grande clinico bolognese Augusto Murri4, una figura che è stata in un certo senso espulsa dalla comunità scientifica medica. E sa perché? Glielo dico con un aneddoto: a un certo punto il professor Pietro Grocco, che era il maestro di Cesare Frugoni ed era il clinico medico di Firenze, si ammalò gravemente e alcuni dei suoi assistenti gli dissero “Professore ma perché non chiamiamo Murri?” e lui sa come rispose? “Io ho bisogno di un medico, non di un filosofo”. Ecco, c’era la diffidenza. Murri in vecchiaia, era già fuori dall’insegnamento, scrisse un libro intitolato “Nosografia e psicologia” in cui testimonia il suo studio della psicanalisi.

Io penso che nell’insegnamento della medicina potrebbero contare tantissimo, se si facessero, delle conferenze che ti aiutano a pensare, che mettono il dubbio dentro di te. Perché è quel dubbio che lavora dentro di te che ti fa migliore. La formazione del medico deve essere un vero e proprio processo educativo, non solo una trasmissione di notizie tecniche del genere “ti insegno a smontare il frigorifero”, con tutto il rispetto per chi fa lavori di quel tipo. Ma per il medico non è così, perché il nostro materiale si chiama essere umano, si chiama sofferenza, dolore, patimento, si chiama in tanti modi e coinvolge tante sfere.

Ecco, io forse ho un po’ sconfinato, ma è per questo che ho scritto su tanti aspetti diversi. Lei ha detto che io ho scritto su personaggi ma no, io non ho scritto su personaggi. Casanova non è un personaggio di cui si scrive perché magari è andato a letto con tante donne. Ma perché è una vita meravigliosa, ed è una testimonianza del Settecento come non ce ne sono altre, e noi siamo figli del Settecento [24]. Perché è stato il Settecento quello che ci ha insegnato tante cose, ci ha insegnato a pensare e ci ha insegnato anche che dobbiamo avere certi valori, come la libertà, per esempio. E per quanto riguarda Thomas Mann, io ho scritto un libro su “La montagna magica” (o “La montagna incantata” secondo le diverse traduzioni) perché è una testimonianza di cose di cui i giovani non sanno nulla [25]. Oggi se accenni loro cos’era la cura della tubercolosi, cosa voleva dire la cura sanatoriale non lo sanno, perché non l’hanno vissuta. E non conoscono le dinamiche che vi si sviluppavano (io le ho viste in tanti, anche amici e colleghi): amori che nascevano, matrimoni, rotture di fidanzamenti. La vita in sanatorio era un mondo. Vogliamo escludere quel pezzo di mondo? Dice “non mi interessa più, è roba vecchia”. Possiamo anche abolire i libri di storia, se non ci piace li possiamo addirittura bruciare, ma chi ha bruciato i libri è poi stato bruciato lui stesso.

 

Ringraziamenti

Gli autori ringraziano la Dottoressa Irene Cagli, figlia del Professor Vito Cagli, per il prezioso contributo che ha dato alla realizzazione di questa intervista.

 

1 Cesare Frugoni (1881-1978) è stato direttore dell’Istituto di Clinica Medica dell’Università di Roma dal 1931 al 1951. Clinico e studioso di primissimo piano, è stato un grande caposcuola che ha formato una schiera di allievi di notevole valore e ha condotto numerose ricerche in molti settori della patologia e della clinica medica.
2 Guido Baccelli (1830-1916) fu anche il promotore del progetto di costruzione del Policlinico Umberto I, che fu iniziata nel 1903.
3  Nel 2001, Vito Cagli ha ricevuto dalla Società Psicoanalitica Italiana il premio Musatti, assegnato a quanti, senza essere psicoanalisti, abbiano contribuito alla conoscenza e alla valorizzazione della psicoanalisi.
4 Augusto Murri (1841-1932). Direttore della cattedra di Clinica Medica all’Università di Bologna, fu uno dei massimi esponenti del rinnovamento in senso pratico e positivista della medicina e tra i massimi filosofi della scienza del suo tempo.

 

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