Luglio Agosto 2020 - In depth review

Il trattamento dell’anemia del paziente con malattia renale cronica: dopo un viaggio lungo oltre 30 anni quali evidenze supportano la scelta motivata di un ESA?

Abstract

Gli Agenti Stimolanti l’Eritropoiesi (ESA) sono farmaci efficaci e ben tollerati per il trattamento dell’anemia nei pazienti con malattia renale cronica. Negli anni, la ricerca scientifica e la pratica clinica si sono focalizzati principalmente sul target di emoglobina da raggiungere, fino a valori nel range di normalità. Si è passati poi ad un approccio più cauto di correzione parziale dell’anemia.

Si è rivolta invece poca attenzione alle possibili differenze tra le diverse molecole di ESA. Nonostante presentino un comune meccanismo di azione sul recettore dell’eritropoietina, esse hanno peculiari caratteristiche farmacodinamiche che potrebbero dare segnali diversi di attivazione del recettore, con possibili differenze cliniche.

Alcuni studi e metanalisi, effettuati in passato, non hanno evidenziato differenze significative in tal senso tra i vari ESA. Più recentemente, uno studio osservazionale del registro di dialisi giapponese ha evidenziato un rischio di mortalità da ogni causa maggiore del 20% nei pazienti trattati con ESA a lunga emivita rispetto ai pazienti trattati con quelli a breve emivita; la differenza di rischio era più elevata nei pazienti che avevano ricevuto dosi più elevate di ESA. Tali risultati non sono stati confermati da un recente trial randomizzato che non ha dimostrato differenze significative nel rischio di morte da tutte le cause o di eventi cardiovascolari per la metossipolietilenglicole epoetina beta rispetto agli ESA a breve emivita o alla darbepoetina alfa. Infine, i dati di uno studio osservazionale italiano, effettuato in fase conservativa, hanno evidenziato un’associazione tra l’uso di alte dosi di ESA e un maggior rischio di CKD terminale, limitata al solo uso degli ESA a breve emivita.

In conclusione, la pari sicurezza degli ESA a lunga e a breve emivita è supportata da un trial randomizzato disegnato ad hoc per testare questa ipotesi. Gli studi osservazionali debbono essere considerati solo come generatori di ipotesi, per il rischio di bias prescrittivo.

Parole chiave: anemia, agenti stimolanti l’eritropoiesi, ESA, mortalità, malattia renale cronica, lunga emivita, breve emivita

Introduzione

Dalla pubblicazione dello storico lavoro di Eschbach più di 30 anni fa [1], il trattamento dell’anemia con i farmaci stimolanti l’eritropoiesi (Erythropoiesis Stimulating Agents, ESAs) ha rivoluzionato la qualità della vita dei pazienti con malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD). In quegli anni i pazienti erano gravemente anemici e spesso sopravvivevano con livelli di emoglobina anche inferiori a 5 g/dL, ricorrendo a periodiche trasfusioni, con alto rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e con conseguente accumulo di grandi quantità di ferro. Nei casi più gravi i nefrologi erano costretti ad intervenire con un trattamento chelante a base di desferriossamina, a sua volta gravato da serie complicanze come la mucoviscidosi. Improvvisamente, grazie all’utilizzo dell’eritropoietina, i pazienti ricominciarono a vivere. Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti cronici, che si fecero trascinare fino a una correzione troppo rapida dei valori di emoglobina, portando a complicanze come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni.

Probabilmente l’uso degli ESA non si è mai del tutto “purificato” da quel “peccato originale”, anche se oggi si usa molta più cautela rispetto a quegli anni e i rialzi pressori sono impercettibili in quanto la correzione dell’anemia inizia gradualmente ed a livelli di emoglobina non inferiori a 10 g/dL, per mantenersi su un target di 10-12 g/dL, come suggerito dal “position statement” pubblicato sull’argomento dalla European Renal Best Practice (ERBP) [2].

Non c’è dubbio che gli ESA siano farmaci efficaci, in grado di correggere l’anemia e mantenere adeguati livelli di emoglobina nella maggioranza dei pazienti con CKD, migliorando il loro senso di fatica e, più in generale, la loro qualità di vita. Inoltre, riducono drasticamente la necessità trasfusionale, vantaggio non da poco, anche in previsione di un trapianto. Di più, gli studi osservazionali hanno evidenziato una chiara associazione positiva tra livelli di emoglobina e sopravvivenza, spingendo l’industria farmaceutica impegnata nel settore a disegnare trial randomizzati, con l’intento di dimostrare i vantaggi di una completa normalizzazione dei livelli di emoglobina. Gli entusiasmi vennero ancora una volta pesantemente frenati. Un trial randomizzato con pazienti in dialisi [3] e ben tre trial randomizzati con pazienti in fase conservativa [4,5,6], tra cui molti diabetici (20% nel CREATE [4], 50% nel CHOIR [6] e 100% nel TREAT [5]), hanno complessivamente dimostrato che l’uso degli ESA, con l’intento di raggiungere livelli di emoglobina più elevati rispetto alla pratica clinica di allora, poteva avere un effetto neutro od addirittura aumentare il rischio di morte od eventi cardiovascolari.

È importante sottolineare che in seguito, si è dimostrato che l’aumento del rischio di complicanze si verificava nei pazienti che non erano in grado di raggiungere i target di emoglobina prefissati dai trial, indipendentemente dal fatto che fosse il target più alto o più basso, e nonostante l’uso di dosaggi anche elevati di ESA per raggiungerli. Questo ha suggerito l’ipotesi che la scarsa risposta eritropoietica agli ESA e, di conseguenza, la necessità di dosi più elevati di ESA, rappresentassero dei fattori prognostici negativi più importanti rispetto al raggiungere valori di emoglobina più elevati [7,8]. Un ulteriore motivo di preoccupazione era il rischio d’insorgenza di neoplasia o la progressione di un’eventuale neoplasia già in essere [5], il tutto associato al fatto che cercare di raggiungere valori di emoglobina più elevati non si era tradotto in un chiaro e clinicamente significativo miglioramento della qualità della vita (anche se una attenta rianalisi dei dati dello studio TREAT ha mostrato un significativo miglioramento [Dr. Parfrey’s personal communication]). Come conclusione dell’analisi di questi importanti trial, le linee-guida internazionali (KDIGO [9], ERBP [2], NICE [10], KDOQI e CARI [12]) sono state tutte concordi nel suggerire un approccio cauto, bilanciando i pro e i contro del trattamento in modo personalizzato e correggendo solo parzialmente l’anemia con gli ESA. Generalmente in Europa si suggerisce un valore target di emoglobina compreso tra 10 e 12 g/dL, mentre le linee-guida KDIGO [9] e KDOQI [11] hanno un atteggiamento più rigido, suggerendo valori di emoglobina <10 g/dL per iniziare il trattamento con ESA e la sospensione della terapia nei pazienti in fase conservativa od in dialisi la cui emoglobina superi 11,5 g/dL. Vi è peraltro comune accordo che non si debba intenzionalmente cercare di raggiungere valori di emoglobina > 13 g/dL.

È interessante sottolineare che i risultati di questi trial sono arrivati insieme al cambiamento della politica di rimborso degli ESA negli Stati Uniti, il cosiddetto “bundle” (tutto incluso). Esso prevede che il pagamento del trattamento con ESA sia incluso nella tariffa forfettaria per il rimborso del costo complessivo del trattamento del paziente con CKD in dialisi, provocando, di fatto, un’influenza economica sulle indicazioni al trattamento e sulle dosi da usare per mantenere i livelli di emoglobina a un target prefissato. In precedenza, il rimborso del trattamento con ESA costituiva una notevole fonte remunerativa, essendo il trattamento ben rimborsato; con l’introduzione del “bundle”, trattare il paziente con ESA si è tradotto in una perdita economica secca, legata al costo del trattamento, senza rimborso aggiuntivo. Ed ecco che le linee-guida KDIGO [9] e KDOQI [11] hanno fornito un grandissimo supporto scientifico ad un trattamento con ESA estremamente conservativo, dettato da esigenze economiche.

 

ESA a breve e lunga emivita

L’eritropoietina alfa è stato il primo ESA ad entrare in commercio alla fine degli anni 80, subito seguito dall’eritropoietina beta. Entrambi i farmaci venivano somministrati endovena 3 volte alla settimana. Successivamente, considerata la diversa emivita del farmaco nelle due vie di somministrazione (circa 8 ore endovena e 24 ore sottocute), è stata dimostrata la possibilità di somministrare entrambi i farmaci anche sottocute, con una riduzione dei dosaggi del 30% [13], e, aspetto rilevante, facilitandone l’uso anche nei pazienti in fase conservativa.

Da subito si è sentita la necessità di ridurre la frequenza di somministrazione dei primi ESA con emivita breve, in modo da ridurre il disagio del paziente nel ricevere iniezioni sottocutanee e, nei pazienti in emodialisi, il carico di lavoro degli operatori sanitari. La ricerca scientifica è quindi riuscita ad allungare l’emivita dell’eritropoietina alfa, modificando la catena aminoacidica e di carboidrati, con l’introduzione di due aminoacidi azotati aggiuntivi, portandoli da 3 a 5, e di un maggior numero di catene di acido sialico. È stata così sviluppata la darbepoetina alfa, con emivita di circa 24 ore se somministrata endovena e di 48-105 ore se somministrata per via sottocutanea [14], con l’indicazione ad una frequenza di somministrazione di una volta alla settimana. Si è subito assistito ad un rincorrersi, tra le aziende del settore, nel ridurre la frequenza di somministrazione degli ESA, con la dimostrazione della possibilità di somministrare due volte e poi una volta alla settimana anche l’epoetina beta [15] ed alfa (in epoca recente tale frequenza di somministrazione è stata ulteriormente estesa fino ad arrivare a quattro settimane). In questa continua riconcorsa, la ditta produttrice della darbepoetina alfa ha immediatamente rilanciato, ottenendo l’indicazione alla somministrazione ogni 15 giorni e poi ogni quattro settimane.

Nel mentre, mediante pegilazione, è stata creata una variante a lunga emivita (130 ore circa sia per via endovenosa che sottocutanea) dell’epoetina beta, la metossipolietilenglicole epoetina beta, con indicazione a somministrazione ogni quattro settimane in fase di mantenimento [17].

Gli ESA a lunga emivita presentano il potenziale vantaggio di semplificare il trattamento, riducendo drasticamente il numero delle iniezioni. Questo è apprezzato non solo dai pazienti in fase conservativa, in dialisi peritoneale, o nei portatori di trapianto renale, ma anche dai centri di emodialisi, offrendo la possibilità della somministrazione endovena (nelle linee ematiche), senza necessità di aumentare la dose del farmaco rispetto al dosaggio teorico somministrato per via sottocutanea e, nel contempo, riducendo il carico di lavoro infermieristico e i problemi legati all’approvvigionamento e allo stoccaggio nei frigoriferi di grandi volumi di confezioni di ESA. Tutto ciò facilita anche la conservazione della catena del freddo, non solo per la maggiore stabilità degli ESA a lunga emivita a temperatura ambiente, come si evince dal foglietto illustrativo delle caratteristiche dei prodotti, ma anche per minor necessità per il paziente in fase conservativa di portare con sé il farmaco, in caso di spostamenti, specie nella stagione calda, la più pericolosa nell’alterare la catena del freddo.

 

Gli ESA sono simili ma differenti

Il peso molecolare, il contenuto in carboidrati e, più in generale, la struttura tridimensionale, contribuiscono alle differenze osservate in termini di farmacocinetica (e quindi di emivita) e farmacodinamica (differente legame recettoriale) dei vari ESA. Tutte le molecole di ESA condividono lo stesso meccanismo d’azione, cioè la stimolazione del recettore dell’eritropoietina (EPOR). Si tratta di una glicoproteina di 65 kilo Dalton, che appartiene alla classe 1 della famiglia dei recettori delle citochine; è espressa prevalentemente sulle cellule progenitrici dei globuli rossi, ma anche in molti altri tessuti, dove l’eritropoietina esercita effetti pleiotropici al di là della sola stimolazione dell’eritropoiesi [18]. Maggiore è il peso molecolare e il contenuto di carboidrati della molecola di ESA, minore è la sua affinità per il EPOR. La minor affinità recettoriale causa a sua volta una più lunga emivita del farmaco, che si traduce in differenti cinetiche di attivazione ed internalizzazione degli EPOR.

Gli effetti pleiotropici dell’eritropoietina potrebbero essere influenzati dalla concentrazione serica dell’eritropoietina e dalla cinetica di attivazione dell’EPOR. Ad esempio, vi sono dati in Letteratura, che indicano come basse dosi di eritropoietina, contrariamente alle alte dosi, migliorano gli esiti dell’infarto miocardico a livello sperimentale [19]. A livello clinico i dati sono tuttavia meno incoraggianti [20,21]. Sembrerebbe ragionevole rispettare le originali raccomandazioni di utilizzo dei vari ESA sulla frequenza di somministrazione, basate sulla loro specifica farmacocinetica e farmacodinamica, per evitare eccessivi picchi in alto ed in basso della concentrazione serica.

 

Confronto tra i vari ESA

La correzione parziale dell’anemia con gli ESA è stata una rivoluzione importante per i pazienti con CKD, data la loro buona tollerabilità ed efficacia nella maggior parte dei casi. Già dai primi anni del loro utilizzo, è risultato evidente che per ottimizzare la terapia con ESA fosse necessario affiancare la correzione di un’eventuale carenza marziale e poi mantenere nel tempo adeguate scorte di ferro (forse anche il ferro si trascina il suo “peccato originale”, figlio degli elevati accumuli corporei a seguito delle numerose necessarie trasfusioni nell’epoca pre-ESA).

In tutti questi anni ci si è concentrati più sul target di emoglobina da raggiungere e sulle dosi di ESA da utilizzare invece che sul confronto tra i diversi ESA, dando per scontato che non ci fossero differenze, visto che il meccanismo di azione era comune a tutte le molecole. Certamente vi sono stati confronti, ma più che altro erano finalizzati a testare la capacità dei vari ESA di correggere più o meno rapidamente l’anemia e di mantenere una stabilità dei valori di emoglobina, riducendo la sua frequente oscillazione [22,23].

È opportuno sottolineare che la maggior rapidità nella correzione dell’anemia, oltre a non esser obbligatoriamente sempre un vantaggio, vista l’esperienza negativa dei primi anni di utilizzo degli ESA, è legata soprattutto alle dosi dei farmaci che si scelgono per il confronto. Tutti gli ESA sono generalmente in grado di aumentare i livelli di emoglobina, anche a limiti sopra-fisiologici (con tutte le conseguenze negative che ben conosciamo). Pertanto, se nel confronto si vuole dimostrare una più rapida correzione dell’anemia, come prova di maggior efficacia del farmaco in valutazione, si sceglierà una dose leggermente più alta del nuovo farmaco; se, al contrario, si vuole dimostrare una correzione più dolce, si sceglierà una dose leggermente più bassa del farmaco in studio rispetto al farmaco di riferimento.

 

Mortalità: quali differenze tra gli ESA?

Il primo lavoro che ha confrontato l’effetto di diversi ESA su endpoint clinici, compresa la mortalità, è stata un’analisi aggregata di studi registrativi del metossipolietilenglicole epoetina beta [24] in pazienti sia in dialisi che non. Esso non ha dimostrato sostanziali differenze tra i 1789 pazienti trattati con il metossipolietilenglicole epoetina beta e i 948 pazienti trattati con gli ESA di confronto (eritropoietina alfa e beta), sia rispetto alla mortalità, che a tutte le complicanze cliniche considerate. Questi risultati sono stati successivamente confermati dai risultati di due meta-analisi [25,26].

Altri studi hanno paragonato la sicurezza e l’efficacia della darbepoetina alfa con l’epoetina alfa, con risultati inconclusivi per via di importanti limiti nei disegni e nella dimensione del campione [27].

Recentemente è stato pubblicato un ampio studio osservazionale di coorte, utilizzando i dati del registro giapponese [28], che ha confrontato il rischio di morte da ogni causa associato all’uso di ESA a breve emivita (36,3%) verso ESA a lunga emivita (darbepoetina alfa, 50%; metossipolietilenglicole epoetina beta, 13,7%) in 194.698 pazienti in emodialisi. Il modello di Cox, non aggiustato per i fattori di rischio presenti al basale nelle due popolazioni, ha evidenziato un rischio associato di mortalità da ogni causa maggiore del 20% nei pazienti trattati con ESA a lunga emivita rispetto ai pazienti trattati con quelli a breve emivita. Tale associazione si attenuava (11%), pur rimanendo ancora significativa, dopo aggiustamento per i dati basali demografici e clinici, per gli indicatori dei vari centri partecipanti allo studio e dopo aver preso in considerazione solo le due coorti con caratteristiche clinico-demografiche simili (propensity-score matched cohort). Da sottolineare che la differenza di rischio era più elevata nei pazienti che avevano ricevuto dosi più elevate di ESA e con più elevato indice di resistenza all’eritropoietina (erytropoiesis resistance index, ERI). L’uso degli ESA a lunga emivita era anche associato a un rischio più elevato (9-15%) di mortalità per cause cardiovascolari, infezioni e neoplasie.

Gli autori hanno ipotizzato che l’attivazione degli EPOR da parte dei diversi ESA, possa interessare vie diverse rispetto a quella dell’eritropoiesi, anche considerando che gli ESA a lunga emivita, essendo somministrati a dosi singole più elevate, comportano picchi di concentrazione più elevati e potrebbero esercitare uno stimolo più intenso e continuo sugli EPOR [28]. Tuttavia, questa ipotesi non sembra plausibile, considerato che il picco di concentrazione degli ESA a lunga emivita non è più elevato rispetto a quello degli ESA a breve emivita. Anzi, se l’intervallo di tempo tra una somministrazione e l’altra di un ESA a breve emivita viene prolungato (ancor più se off-label), aumentando di conseguenza la dose singola, avviene esattamente il contrario, e cioè un picco di concentrazione serica più elevato. Inoltre, il fattore di conversione tra ESA a breve e a lunga emivita non è lineare, visto che gli ESA a lunga emivita sono più efficaci a dosi più elevate, rispetto a dosi equivalenti di ESA a breve emivita [29].

Infine, nello studio del registro giapponese, i pazienti che hanno utilizzato darbepoetina alfa presentavano una mortalità da ogni causa, da cause cardiache e da neoplasie, più elevata [28]. Questo dato è in contraddizione rispetto all’interpretazione della possibile causa fornita dagli autori [28], secondo cui la differenza nelle proprietà di legame recettoriale fosse responsabile degli effetti negativi e considerando che l’affinità recettoriale della darbepoetina alfa è intermedia tra quella degli ESA a breve emivita e quella del metossipolietilenglicole epoetina beta. In base all’interpretazione degli autori, la mortalità e il rischio di neoplasie avrebbero infatti dovuto essere più elevati nei pazienti trattati con metossipolietilenglicole epoetina beta. Un altro aspetto importante da sottolineare è che i picchi di concentrazione serica degli ESA sono influenzati dalla frequenza di somministrazione dei vari ESA, a maggior ragione quando un ESA viene utilizzato con intervalli di somministrazione troppo lunghi (specialmente se “off-label”) rispetto alla propria emivita. Purtroppo, nello studio giapponese non è disponibile l’informazione sulla frequenza di somministrazione dei vari ESA [28].

In conclusione, questo studio osservazionale ha numerosi punti di forza, tra i quali la numerosità del campione, con omogenee caratteristiche dei pazienti (solo Giapponesi); questo ha favorito una possibile distribuzione basale bilanciata tra i pazienti trattati con ESA a emivita breve o lunga. Tuttavia, esso presenta almeno due importanti limiti. Il primo è intrinseco al disegno osservazionale, con possibili “bias” di selezione nella prescrizione degli ESA, sia a livello dei pazienti che a livello dei centri partecipanti allo studio. È ben noto che uno studio osservazionale può solo evidenziare associazioni e non può assolutamente dimostrare una relazione causa-effetto, perché, anche dopo aver applicato sofisticati aggiustamenti statistici per i vari fattori di rischio delle due popolazioni a confronto, non possono essere esclusi fattori confondenti residui.

Il secondo limite è paradossalmente uno degli stessi punti di forza dello studio. Dato che lo studio è stato effettuato nella sola popolazione giapponese, non è automaticamente applicabile ad altre popolazioni, anche se con caratteristiche simili, come quelle asiatiche, né tantomeno alla popolazione europea. Infatti, i pazienti giapponesi con CKD differiscono notevolmente dai pazienti occidentali per molti aspetti, quali la più piccola taglia corporea, le diverse abitudini alimentari e una maggior aspettativa di vita. Il Giappone ha anche una differente politica di somministrazione di ferro ed ESA e la sua popolazione presenta una migliore risposta agli ESA, per via di un più basso livello di infiammazione [29], aldilà dei fattori genetici ed alimentari. Inoltre, molti pazienti sono stati esclusi dall’analisi perché non erano disponibili informazioni sul tipo di ESA prescritto o perché avevano ricevuto un trattamento con più di un ESA. Infine, le analisi aggiustate per le varie covariate sono state effettuate solo nel 61% dei pazienti considerati, per mancanza di dati, soprattutto su anamnesi positiva per malattie cardio-vascolari e valori di saturazione della transferrina (TSAT). È da notare che in Giappone le autorità regolatorie consentono come dose massima rimborsabile 9000 IU/settimana per l’epoetina alfa e beta e 250 µg/4 settimane per il metossipolietilenglicole epoetina beta, mentre la darbepoetina alfa è approvata anche a dosi superiori ai 60 µg, favorendo così un “bias by indication”, cioè la prescrizione di darbepoetina alfa ai pazienti che necessitano di dosi più elevate di ESA, verosimilmente perché più infiammati.

Pertanto, il risultato di questo studio giapponese può essere considerato solo come generatore di ipotesi, che debbono essere successivamente confermate da studi randomizzati controllati.

A distanza di qualche mese, è stato pubblicato un ampio studio randomizzato di non inferiorità, finalizzato proprio a confrontare la mortalità per ogni causa e il rischio cardiovascolare della metossipolietilenglicole epoetina beta rispetto agli ESA a breve emivita o alla darbepoetina alfa [31]. Si tratta di uno studio di sicurezza post-registrazione (PASS), richiesto dalle autorità regolatorie, la statunitense “Food and Drug Administration” (FDA) e la “European Medicines Agency” (EMA), in considerazione dell’incertezza sulla sicurezza nell’uso degli ESA, in seguito ai risultati, appena allora pubblicati, di maggiori rischi, anche mortali, randomizzando i pazienti con anemia da CKD, nel gruppo con una più completa correzione del grado di anemia.

2818 pazienti con CKD, in dialisi e non, sono stati randomizzati a metossipolietilenglicole epoetina beta od a continuare il trattamento con un altro ESA (darbepoetina alfa, 43,8%; epoetina alfa, 20%; epoetina beta, 36.1%) e sono stati seguiti per un periodo mediano di 3,4 anni, con periodo massimo di osservazione di 8,4 anni. Il metossipolietilenglicole epoetina beta è risultato non inferiore rispetto agli altri ESA con emivita più corta, sia per quanto riguarda la mortalità per tutte le cause, sia per il rischio di eventi cardio-vascolari maggiori. Pertanto, questo studio randomizzato, con adeguata numerosità del campione e con un follow-up sino a più di 8 anni, ha smentito, con metodologia rigorosa, i risultati dello studio osservazionale giapponese di una possibile maggior mortalità per ogni causa con l’utilizzo degli ESA a lunga emivita [28,31]. Il risultato dello studio PASS [31] è peraltro in accordo con il risultato di precedenti meta-analisi [25,26,27,32,33].

Lo studio PASS [31] aveva valutato l’effetto dell’uso di un ESA a lunga emivita rispetto a quelli a più breve emivita, anche in una sottopopolazione di 451 pazienti con CKD in fase conservativa, non evidenziando differenze significative tra gli ESA. Il dato concorda con il risultato ottenuto sulla popolazione complessiva arruolata nello studio e sul numeroso gruppo di pazienti in emodialisi.

Più recentemente, Minutolo et al. [34] hanno valutato il possibile rischio di eventi avversi associato all’uso dei diversi ESA in pazienti con CKD in fase conservativa.

Gli autori hanno studiato una coorte di 702 pazienti con CKD, provenienti da quattro studi osservazionali, selezionando i pazienti trattati con ESA a breve emivita (epoetina alfa/beta, N=299) o a lunga emivita (darbepoetina alfa e metossipolietilenglicole epoetina beta, N=403). È stato quindi utilizzato il “multivariable Cox proportional hazards model” per valutare il rischio relativo di morte renale (necessità di dialisi, trapianto o morte per qualsiasi causa) rispetto all’utilizzo degli ESA a breve o lunga emivita. Durante un follow-up mediano di 3,61 anni (IQR 2.14-6.31), sono state osservate 401 morti renali [166 eventi (72.4%) nel gruppo trattato con ESA a breve emivita e 235 (58.3%) in chi era trattato con ESA a lunga emivita].

Questo studio osservazionale, effettuato in pazienti in fase conservativa sotto controllo specialistico nefrologico, evidenzia un’associazione tra l’uso di alte dosi di ESA e più elevato rischio di CKD terminale, limitata al solo uso degli ESA a breve emivita; questo maggior rischio è risultato indipendente da noti fattori di rischio di CKD terminale. Trattandosi di uno studio osservazionale dovrà essere seguito da studi con adeguato disegno sperimentale e numerosità del campione, per confermare questi risultati e chiarire se la causa di questo maggior rischio di CKD terminale con l’uso degli ESA a breve emivita ad alte dosi trovi spiegazione fisiopatologica nella loro più frequente prescrizione ad inappropriati intervalli di somministrazione (nel 66% dei casi) rispetto agli ESA a lunga emivita (somministrati sempre con un intervallo compatibile con le loro proprietà farmacocinetiche). Come nello studio giapponese, il limite maggiore di questo studio è intrinseco al disegno osservazionale, che può evidenziare solo associazioni e non dimostrazioni, e pertanto deve essere considerato solo come generatore di ipotesi.

 

Il target di emoglobina può avere un ruolo nel profilo di efficacia e sicurezza dei singoli ESA?

Come sopra riportato, sin dall’ introduzione nella pratica clinica degli ESA, è sempre stata posta maggiore attenzione al target di emoglobina da raggiungere rispetto alla scelta dell’ESA per raggiungere tale target.

Nello studio di registro giapponese, Sakaguchi et al. [28] hanno anche analizzato gli effetti dell’utilizzo dei diversi ESA a differenti livelli raggiunti di emoglobina. I pazienti che utilizzavano gli ESA a lunga emivita presentavano un rischio più elevato di mortalità da ogni causa rispetto ai pazienti trattati con gli ESA a breve emivita per livelli di emoglobina raggiunti <11 g/dL; la differenza non era più statisticamente significativa per valori di emoglobina tra 11 e 11,9 g/dL.

Un’analisi secondaria, prevista a priori dal protocollo dello studio PASS, ha evidenziato che i pazienti con una media di emoglobina negli ultimi 3 mesi <10 g/dL avevano un rischio di raggiungere l’endpoint primario (mortalità per ogni causa ed eventi cardio-vascolari maggiori) tre volte maggiore rispetto al gruppo di pazienti con valori di emoglobina di riferimento (10–11 g/dL) [31]. Inoltre, nei pazienti che avevano raggiunto valori di emoglobina tra 11 e ≤12 o ≥12 g/dL, il rischio era inferiore in modo statisticamente significativo rispetto al gruppo di pazienti che avevano raggiunto i livelli di emoglobina di 10–11 g/dL. Tuttavia, non era stata fatta un’analisi specifica, prendendo in considerazione l’effetto dei singoli ESA in studio, ai differenti livelli di emoglobina raggiunti.

Come precedentemente discusso, il ruolo dei livelli di emoglobina raggiunti non dovrebbe essere analizzato separatamente dalla dose di ESA e ferro utilizzati per raggiungerli.

È ben noto che i pazienti che raggiungono livelli subottimali di emoglobina sono, generalmente, pazienti più infiammati e quindi ipo-responsivi agli ESA. D’altra parte, lo stesso ESA potrebbe avere un diverso profilo di sicurezza ed efficacia a dosi diverse ed in differenti categorie di pazienti [28].

Come sopra discusso, Minutolo et al. [34] non hanno mostrato una significativa associazione tra rischio di CKD terminale e mortalità e tipo di molecola utilizzata (a lunga o breve emivita). Tuttavia, questa associazione era modificata da un’interazione significativa tra tipo e dose di ESA. Per dosi più elevate di ESA (>105 UI/settimana), l’associazione con il rischio di perdere la funzione renale e la mortalità era significativamente e progressivamente più elevata con l’utilizzo degli ESA a breve emivita. È stata inoltre evidenziata un’associazione tra mortalità più elevata e il trattamento con ESA a breve emivita rispetto a quelli a lunga emivita nel terzile più elevato di dosi di ESA.

È interessante il confronto dei dosaggi di ESA tra lo studio italiano [34] e quello giapponese [28]. Le dosi assolute di ESA utilizzate nella popolazione giapponese in emodialisi erano, come atteso, più elevate per la darbepoetina alfa (30±24 e 23±13 µg/settimana, rispettivamente) e metossipolietilenglicole epoetina beta (111±70 e 93±49 µg/mese, rispettivamente), mentre erano sorprendentemente più basse per gli ESA a breve emivita (4.546±2.786 e 5.251±4.013 IU/settimana, rispettivamente). Questi dati suggeriscono un possibile bias di selezione nella prescrizione degli ESA, vista la probabile minor percentuale di pazienti ipo-responsivi agli ESA nel gruppo assegnato al trattamento con ESA a breve emivita, che potrebbe spiegare la miglior sopravvivenza di questo gruppo di pazienti riportata dallo studio giapponese. I limiti di dosaggi autorizzati dalle autorità regolatorie giapponesi per gli ESA a breve emivita e per il metossipolietilenglicole epoetina beta (n.b. i pazienti trattati con metossipolietilenglicole epoetina beta sono relativamente pochi), ma non per la darbepoetina alfa, supportano questa interpretazione. Inoltre, la mancanza di dati sui dosaggi di ESA normalizzati per il peso corporeo, rende impossibile ogni confronto, anche perché, nello studio giapponese, non sono disponibili informazioni sulla distribuzione della carenza di ferro (compreso il tipo di ferro utilizzato, la dose e la modalità di somministrazione nei vari gruppi di pazienti trattati con i vari ESA). È noto, infatti, che questi fattori sono fortemente associati con eventi avversi, direttamente o indirettamente collegati alla risposta agli ESA [35,36].

Tra le possibili interpretazioni dei risultati ottenuti, Minutolo et al. [34] escludono un ruolo dei livelli di emoglobina raggiunti, perché erano simili, o un diverso approccio alla terapia con ferro, anch’essa simile nei pazienti trattati con ESA a breve o a lunga emivita, così come differenze nella prevalenza di comorbidità o nel peso dei fattori di progressione della CKD, quali proteinuria, controllo pressorio, uso di bloccanti del sistema renina angiotensina e di tutti gli altri fattori potenzialmente associati alla resistenza all’eritropoietina. Secondo gli autori, l’eccessivo lungo intervallo di somministrazione tra le dosi degli ESA a breve emivita, inappropriato rispetto all’emivita dei farmaci, potrebbe essere una possibile spiegazione.

In effetti, Besarab et al. [37] hanno dimostrato che allungare gli intervalli di somministrazione dell’epoetina non consente di mantenere, nell’intervallo tra le dosi, costanti livelli circolanti del farmaco sufficienti per un effetto eritropoietico, con attivazione di meccanismi di neocitolisi ed apoptosi dei precursori eritroidi nel midollo osseo.

A conferma di ciò, nello studio di Minutolo et al. [34], nel più alto terzile di dosi di ESA, gli ESA a breve emivita venivano somministrati, nella maggioranza dei pazienti (65.8%), con un intervallo improprio rispetto alla frequenza di somministrazione inizialmente raccomandata (≥7 giorni), mentre, come atteso, gli ESA a lunga emivita erano prescritti ad intervalli appropriati in tutti i pazienti (darbepoetina ogni 7-14 giorni e metossipolietilenglicole epoetina beta ogni 14-28 giorni). Secondo l’interpretazione degli autori, è possibile che nel gruppo di pazienti trattati con ESA a breve emivita, si siano verificati più pronunciati episodici ipossici, dovuti all’eccessivo aumento dell’intervallo di somministrazione del farmaco, con possibile più rapida perdita della funzione renale. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dagli autori giapponesi [28], l’uso inappropriato degli ESA a breve emivita con lunghi intervalli inter-dose, specialmente quando somministrati ad alte dosi, induce la comparsa di picchi elevati di concentrazione, che potrebbero attivare i recettori dell’eritropoietina nelle cellule e nei tessuti non sede di eritropoiesi (Tabella 1).

 

Dosi di ESA
Terzili di dose
1 2 3 Totale
Sagakuci et al [28]
Epoetina α/β (UI/settimana) 1.960±854 4.169±1.041 7.618±2.071 4.546±2.786
Darbepoetina (μg/settimana) 12,0±4,0 24,9±7,6 56,1±26,3 30,4±23,8
Fattore di conversione (Epoetina/darbepoetina) 1:163 1:167 1:136 1:150
MPEG-β (μg/mese) 48,0±18,9 98,1±24,2 181,6±65,4 110,6±69,5
Fattore di conversione (Epoetina /MPEG-β) 1:163 1:170 1:168 1:164
Minutolo et al [34]
Epoetina α/β (UI/settimana) 2.501±1,021 4.340±926 8.947±4,958 5.251±4.013
Darbepoetina (μg/settimana) 12±4 21±5 37±11 23±13
Fattore di conversione (Epoetina/darbepoetina) 1:208 1:207 1:242 1:228
MPEG-β (μg/mese) 50±16 88±21 142±48 93±49
Fattore di conversione (Epoetina /MPEG-β) 1:200 1:197 1:252 1:226
Locatelli et al [31] *
Epoetina α/β (UI/settimana) 3.604–5.345
Darbepoetina (μg/settimana) 13.3–23.3
Fattore di conversione (Epoetina/darbepoetina) 1:228-1:271
MPEG-β (μg/settimana) 18.8–28.0
Fattore di conversione (Epoetina /MPEG-β) 1:191-1:192
I valori sono medie ± deviazioni standard.

* I dati sono riportati come range. MPEG-β metossi-polietilen-glicol-beta

Tabella 1: Dosi di ESA nei terzili e in totale e rapporto di conversione tra diversi farmaci in tre studi condotti in diverse aree geografiche

 

Conclusioni

Dopo 30 anni dall’introduzione in commercio del primo ESA, siamo ancora alla ricerca dell’ESA ideale. In anni recenti, l’attenzione si è spostata dalla sola ricerca del target ottimale di emoglobina, alla risposta ottimale al trattamento con ESA, superando il semplice concetto del target di emoglobina ogni costo. Si è poi passati alla ricerca dell’ESA più appropriato in base alle caratteristiche cliniche dei pazienti, assicurando contemporaneamente adeguate scorte marziali, e passando dall’uso del ferro come semplice integratore delle carenze (uso fisiologico) all’uso del ferro ad alte dosi, con livelli serici di ferritina sino a 700 μg/L (uso farmacologico).

Lo studio PASS [31], randomizzato e con un numeroso campione, ha dimostrato la pari sicurezza degli ESA a lunga e a più breve emivita, consentendo di ottenere i vantaggi della riduzione della frequenza di somministrazione propria degli ESA a lunga emivita, senza effetti negativi. Inoltre, un recentissimo studio osservazionale italiano [34] sembra suggerire un vantaggio nel rallentare la progressione della malattia renale verso la necessità di terapia dialitica sostitutiva degli ESA a lunga emivita nei pazienti con CKD in fase conservativa che necessitano più elevate dosi di ESA.

A breve dovrebbero essere disponibili nuovi farmaci per il trattamento dell’anemia. Si tratta della nuova classe degli inibitori del dominio della prolil-idrossilasi (PHD), in grado di stimolare la produzione di eritropoietina endogena, simulando una condizione d’ipossia. Questi farmaci favoriscono anche l’assorbimento intestinale e la mobilizzazione del ferro dal sistema reticolo-endoteliale. Gli inibitori del PHD dovrebbero offrire nuove opportunità di trattamento dell’anemia, specialmente nei pazienti infiammati con insufficiente risposta agli attuali ESA. Ovviamente la loro efficacia e, soprattutto, la loro sicurezza, dovranno essere valutate a lungo termine, anche se, i dati sinora disponibili, sono incoraggianti. 

 

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