Novembre Dicembre 2018 - Nefrologia e social networks

Medicina e Nefrologia dai Social Networks

1) Bolo-terapia corticosteroidea endovenosa vs terapia corticosteroidea orale in pazienti affetti da IgAN e malattia renale cronica avanzata: i risultati di uno studio multicentrico giapponese.

P.Gallo 

I corticosteroidi sono largamente utilizzati, sin dagli anni ’80, allo scopo di ridurre i valori di proteinuria nei pazienti affetti da Glomerulonefrite a depositi di IgA (IgAN). La gran parte dei trial clinici randomizzati e studi retrospettivi volti a valutare l’efficacia dei corticosteroidi nella IgAN includevano pazienti con eGFR > 50 ml/min, per cui è ancora oggi controverso il ruolo dei corticosteroidi nei pazienti con IgAN e ridotta funzionalità renale.

In un recente studio retrospettivo multicentrico di Tsunoda e coll. effettuato in Giappone, 1923 pazienti con diagnosi istologica di IgAN, effettuata tra il 1981 ed il 2013, sono stati suddivisi in tre gruppi:

  • Gruppo “steroid pulse (SP)”: pazienti trattati con bolo terapia con metilprednisolone e.v. per almeno tre giorni consecutivi, seguita da steroidi per os;
  • Gruppo “oral steroid (OS)”: pazienti trattati solo con corticosteroidi per os;
  • Gruppo “no steroid (NS)”: pazienti che non hanno ricevuto alcun corticosteroide.

Dei 1923 pazienti totali, sono stati analizzati 764 pazienti con malattia renale cronica agli stadi G3-G4 e follow-up mediano di 70 mesi. L’età media del campione in esame era 50,3 ± 13,6 anni, la uPCR (rapporto proteinuria/creatininuria) al momento della biopsia era in media 950 mg/g; i pazienti con malattia renale cronica stadio G3a erano 397 (52,0%), stadio G3b erano 236 (30,9%), stadio G4 erano 131 (17,1%). Per ogni sottogruppo in esame, la modalità di trattamento è riassunta nella Tabella 1. Dato significativo era il 27% circa dei pazienti totali in terapia con ACE-inibitore o Sartano.Analizzando le curve di sopravvivenza renale dei pazienti con malattia renale cronica suddivisa in stadi e stratificata per valore di uPCR, tra i pazienti con uPCR maggiore di 1000 mg/g, quelli trattati con bolo-terapia steroidea mostravano migliore sopravvivenza renale (p < 0,001) rispetto ai pazienti trattati con solo terapia corticosteroidea orale o senza steroide. D’altro canto, nei pazienti con uPCR minore di 1000 mg/d non c’erano differenze significative dell’outcome renale tra i tre gruppi. Includendo nell’analisi i soli pazienti con uPCR maggiore di 1000 mg/g ed in terapia con ACE-inibitore o sartano, il gruppo SP mostrava migliore sopravvivenza renale al follow-up rispetto agli altri due gruppi CS ed NS.

Questo studio è tra i pochi ad avere un follow-up mediano superiore a 5 anni ed ha il pregio di estendere l’analisi anche a gradi di malattia renale cronica quali G3b e G4 trattati con corticosteroide. Questo lungo periodo di follow-up è importante nell’ottica di una migliore definizione prognostica di una patologia, quale la glomerulonefrite a depositi di IgA, che nella maggior parte dei casi porta all’ESRD in un tempo lungo. Inoltre, questo studio ha valutato la differente risposta tra bolo-terapia endovenosa corticosteroidea e la sola terapia orale.

Questo studio può comunque mostrare alcune limitazioni, per esempio comorbidità quali il diabete mellito o infezioni che avrebbero portato ad evitare la terapia steroidea o l’aver incluso nell’analisi dei casi di IgAN a rapida evolutività che non possono rientrare nei criteri di “glomerulonefrite cronica”; inoltre non sono state evidenziate le eventuali reazioni avverse alla terapia corticosteroidea.

Un dato significativamente differente dalle nostre pratiche cliniche è che solo il 27% del campione studiato era in terapia con ACE-inibitore o Sartano. Gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS), maggiormente utilizzati in Europa e Stati Uniti nei pazienti affetti da glomerulonefriti croniche, in Giappone erano fino a qualche anno fa indicati solo per il trattamento dell’ipertensione o della nefropatia diabetica, essendo invece inutilizzati in molti pazienti normotesi ed affetti da glomerulonefrite non diabetica. Dopo la pubblicazione delle linee guida KDIGO, tuttavia, anche in Giappone è stato incrementato l’uso di inibitori del sistema RAAS nelle glomerulonefriti. Poiché il beneficio della bolo-terapia steroidea endovenosa era evidente anche nel sottogruppo dei pazienti che assumevano terapia con inibitori del sistema RAAS, quest’ultimo fattore potrebbe essere una limitazione nell’interpretazione dei risultati, risultando confondente nel farci capire se il merito del miglior outcome renale sia attribuibile più agli inibitori del sistema RAAS o piuttosto alla bolo-terapia corticosteroidea endovenosa.

In conclusione, la bolo-terapia corticosteroidea endovenosa sembrerebbe essere associata ad una migliore prognosi renale nei casi di IgAN con uPCR maggiore di 1000 mg/g, anche in quei pazienti che, al momento della diagnosi, risultato affetti da malattia renale cronica stadi G3 e G4.

Approfondimento: Articolo originale su BMC Nephrology: https://bmcnephrol.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12882-018-1019-x?fbclid=IwAR3n4iayFpvD9ph4K61GXhc8Vqcp6vF7wf8jNl5xkmesLNPbbqjiXagaw7I#Methods

Impatto sulla Web Community: https://biomedcentral.altmetric.com/details/48751260

 

2) Ruolo del Complemento prodotto in situ e dell’immunità adattativa nel processo di fibrosi renale

E. Cataldo

La fibrosi renale (FR) è un processo cronico e progressivo, caratterizzato dalla deposizione di matrice patologica nello spazio interstiziale e nella parete dei capillari glomerulari, che determina una graduale perdita della funzione renale. Rappresenta una tappa terminale del processo di invecchiamento renale ed un end-point comune di vari tipi di malattia renale cronica. Nel processo di fibrogenesi, un ruolo fondamentale è svolto dai miofibroblasti, che derivano dalla differenziazione di precursori midollari, o dalla transizione epitelio-mesenchimale di cellule endoteliali o periciti. Diversi studi hanno dimostrato che qualunque sia il citotipo di partenza, il processo di fibrogenesi coinvolge sia l’immunità naturale sia quella adattativa.

Fra i mediatori dell’immunità naturale, il Complemento gioca un ruolo chiave. Nel danno tubulo- interstiziale renale associato a diverse condizioni patologiche e nel processo di FR esiste una correlazione diretta tra il grado di deposizione di C3 a livello interstiziale e l’estensione della fibrosi. Inoltre, il C3 secreto in situ nel tubulo-interstizio sembra essere un fattore patogenetico più significativo rispetto al C3 circolante. Tuttavia, il meccanismo specifico di produzione del C3 da parte delle cellule infiammatorie interstiziali non è ancora stato adeguatamente studiato.

Liu e collaboratori dell’Università di Wuhan (Cina), in un recente studio sperimentale, hanno analizzato i meccanismi attraverso i quali il C3 prodotto localmente nel tubulo-interstizio induce il processo di FR. A tale scopo, è stato utilizzato un modello murino di FR da ostruzione ureterale unilaterale (UUO), ed un modello umano di FR da IgAN, analizzando campioni bioptici di 41 pazienti tra i 18 e i 63 anni (20 M, 21 F). E’ nota, infatti, un’aberrante attivazione del sistema del Complemento in corso di IgAN, come dimostrato dall’incremento dell’espressione del C3 in circolo e su tessuto renale.

E’ stato osservato che l’intensità del C3a interstiziale all’immunoistochimica nei campioni bioptici di pazienti con IgAN correlava positivamente con il grado di FR e con i livelli di azoto ureico (BUN), di creatininemia, di rapporto albuminuria/creatininuria (ACR). La doppia positività all’immunofluorescenza (IF) per il C3a e markers specifici dei macrofagi nel tubulo interstizio, inoltre, suggeriva che il C3a fosse prodotto localmente dal sistema monocito-macrofagico.

Risultati analoghi sono stati ottenuti nel modello murino: l’espressione interstiziale e tubulare di C3a correlava positivamente con il grado di FR, a 7 e 14 giorni dall’ UUO, con una doppia positività per il C3a e markers macrofagici all’IF. In particolare, è stato dimostrato che il C3a è prodotto principalmente dai macrofagi di derivazione midollare, attivati secondo la via classica (M1): la deplezione macrofagica indotta dall’iniezione di formulazioni liposomiali di clodronato nei topi con UUO, infatti, determina una riduzione del C3a e della FR.

A conferma del ruolo patogenetico del C3a nella genesi della FR, Liu e collaboratori hanno dimostrato una riduzione del grado di fibrosi e dell’infiltrato infiammatorio tubulo-interstiziale nei topi trattati con un inibitore peptidico del C3 (Cp40) e con un antagonista selettivo del recettore per il C3a (SB290157), rispetto ai topi wild-type. Nei topi con UUO, inoltre, è stato descritto un incremento dei livelli sierici di IL-17 A e dell’espressione del suo mRNA a livello renale: l’IL-17 A rappresenterebbe, quindi, un mediatore locale della risposta fibrogenica. Il C3a prodotto localmente, agendo sul recettore C3aR espresso sulle cellule T CD4+ tubulo-interstiziali, attiverebbe la produzione di questa citochina, amplificando il processo di FR: il trattamento dei topi UUO con gli inibitori del C3a (Cp40 e SB290157) determinava, infatti, una riduzione dei livelli di IL-17 e della FR.

Lo studio di Liu L et al. conferma, quindi, il coinvolgimento sia dell’immunità innata che adattativa nel processo di FR, già descritto in letteratura. Lo stesso Liu L, in uno studio pubblicato nel 2012, condotto sempre su campioni bioptici di pazienti con IgAN e su modelli murini di UUO, aveva evidenziato il ruolo determinante dei linfociti T CD4+ nella FR. Il suo ultimo lavoro ha chiarito i meccanismi che portano alla produzione locale di C3a ed alla conseguente attivazione dei linfociti Th17, principali produttori del mediatore profibrotico IL-17 A.

La maggiore comprensione dei meccanismi patogenetici della FR consente di studiare approcci terapeutici a bersaglio molecolare mirato: l’inibizione della pathway del C3a/C3aR potrebbe, infatti, rallentare la progressione della FR, fornendo quindi un’alternativa terapeutica ad una condizione altrimenti progressiva ed irreversibile.

Approfondimento: Articolo originale su Frontiers in Immunology: https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fimmu.2018.02385/full

Impatto sulla Web Community: http://loop-impact.frontiersin.org/impact/article/400643#totalviews/views

 

3) Un nuovo score per la valutazione dell’attività clinica delle vasculiti ANCA-correlate

D. Gianfreda, P. Suavo-Bulzis

Le vasculiti necrotizzanti ANCA-associate sono entità eterogenee con ampia variabilità nel decorso clinico e nella prognosi. Tantissime e di diversa gravità sono le manifestazioni sistemiche, tuttavia, il coinvolgimento renale è ancora associato a morbilità e mortalità significative e, nonostante l’utilizzo di terapie mirate ed intensive, l’ESRD e la morte per complicanze infettive sono frequenti. Sebbene l’analisi istopatologica della biopsia renale fornisca ancora importanti informazioni circa lo stato di attività e di cronicità della malattia, attualmente non vi sono criteri generali che permettano di prevedere l’outcome renale dei pazienti affetti e quindi di poter selezionare quei pazienti che necessitano di una terapia immunosoppressiva più aggressiva, allo scopo di ottenere un recupero della funzione renale, risparmiando i rischi di una immunosoppressione intensa a coloro invece che non ne beneficerebbero. Recentemente è stata introdotta una classificazione istologica (classificazione di Berden), derivante da studi condotti dall’ European Vasculitis Study, che divide il coinvolgimento renale delle vasculiti ANCA associate in quattro gruppi, ovvero focale, con crescents, misto e sclerotico. Vari studi hanno però dimostrato uno scarso potere predittivo di questa classificazione.

Silke R. Brix et al. hanno condotto uno studio multicentrico tedesco, osservazionale, per individuare fattori predittivi di ESRD in pazienti affetti da glomerulonefrite necrotizzante ANCA-associata. Nello studio sono stati inclusi pazienti con diagnosi di granulomatosi con poliangioite o di poliangite microscopica, in assenza di altre malattie glomerulari coesistenti. Tutti i pazienti arruolati allo studio presentavano alla biopsia renale un quadro di glomerulonefrite necrotizzante con o senza semilune e, dal punto di vista immunologico, una positività degli ANCA nel siero; i pazienti, inoltre, dovevano avere un follow-up di almeno un anno. L’analisi è stata dapprima condotta su una coorte prospettica costituita da 115 pazienti e ripetuta su una corte retrospettiva di validazione con 90 pazienti. Le due coorti erano simili per caratteristiche cliniche, follow-up (rispettivamente 34 vs 31 mesi), outcome renale e trattamento.

Tra tutte le lesioni glomerulari, la necrosi, le lesioni crescentiche e sclerotiche e, di conseguenza, la percentuale di glomeruli normali mostravano la migliore accuratezza predittiva per l’ESRD. Le lesioni dei vasi preglomerulari e peritubulari non avevano, invece, alcuna importanza nel predirre l’ESRD. Infine, anche il grado di atrofia tubulare/fibrosi interstiziale è risultato significativo. Più in dettaglio, l’analisi univariata ha attribuito al numero di glomeruli normali, grado di atrofia tubulare/fibrosi interstiziale (IF/TA) ed eGFR alla diagnosi un valore predittivo per insorgenza di ESRD; mentre l’analisi multivariata ha considerato però fattore predittivo indipendente solo il numero di glomeruli sani, laddove gli altri paramenti, seppur considerati influenti sull’outcome del paziente, non sono risultati fattori predittivi indipendenti. Gli autori hanno inoltre diviso i pazienti in tre fasce di rischio, in base ad uno score che aveva come items la percentuale di glomeruli normali nella biopsia, la percentuale di IF/TA e il valore di eGRF. Una sotto-analisi ha inoltre quantificato in 7 glomeruli il minimo necessario per poter interpretare le biopsie. Il GFR stimato al momento della biopsia si è rivelato l’unico parametro clinico statisticamente significativo per predire il danno renale.

Gli autori hanno inoltre sottolineato i limiti dello studio ed in particolare la natura retrospettiva dello stesso, il fatto che sia stato condotto esclusivamente in centri della Germania e che una quota rilevante di pazienti fosse già in ESRD alla diagnosi.

I risultati ottenuti da questo studio possono essere utilizzati nella pratica clinica per indirizzare un trattamento più aggressivo verso i pazienti con maggiori possibilità di recupero, e una terapia più blanda verso i pazienti che andranno comunque in breve tempo in ESRD.

Approfondimento: Articolo originale su Kidney International: https://www.kidney-international.org/article/S0085-2538(18)30552-0/fulltext

Impatto sulla Web Community: https://plu.mx/plum/a/?doi=10.1016/j.kint.2018.07.020&theme=plum-jbs-theme&hideUsage=true

 

4) Aspirina nella prevenzione primaria cardiovascolare: evitare l’ischemia o procurare l’emorragia?

M. Taurisano

Come ormai ben noto, è indubbio il valore della terapia con Aspirina nella prevenzione secondaria di eventi cardiovascolari. Tuttavia, il suo ruolo nella prevenzione primaria, in modo particolare in soggetti di età avanzata, non risulta essere chiaro. Spesso, nella pratica clinica quotidiana, è di uso comune la prescrizione di Aspirina in soggetti di età avanzata, con nessuno o pochi fattori di rischio per eventi ischemici accertati a scapito di un incremento del rischio emorragico.

A far chiarezza su ciò si è posto lo studio ASPREE (ASPirine in Reducing Events in the Elderly). Pianificato come trial randomizzato, in doppio cieco, versus placebo ha arruolato 19.114 partecipanti, 9525 assegnati a ricevere 100 mg di Aspirina, 9589 placebo. I pazienti arruolati presentavano un’età superiore ai 70 anni e non presentavano episodi di malattia coronarica o cerebrovascolare o condizioni di rischio di sanguinamento.

L’importante numerosità campionaria ha premesso di costituire due campioni omogenei, in assenza di differenze statisticamente significative per quanto riguarda: sesso, età, etnia, presenza di obesità, abitudine tabagica, diabete, ipertensione, dislipidemia, malattia renale cronica.

I due gruppi sono stati seguiti per una mediana di follow-up di 4,7 anni riguardo alla realizzazione di end-point quali: eventi cardiovascolari (infarto miocardico fatale o non fatale, ospedalizzazione per scompenso cardiaco, stroke ischemico fatale o non fatale) ed eventi emorragici maggiori tra cui stroke emorragico e sanguinamento sintomatico intra ed extracranico (gastro-intestinale o in altre sedi).

I risultati ottenuti, dopo un periodo di osservazione medio di 4,7 anni, hanno dimostrato un tasso di eventi ischemici cardiovascolari di 10,7 per 1000 persone nel gruppo di trattamento con Aspirina e di 11,3 eventi per 1000 persone nel gruppo placebo, in assenza di significatività statistica. Sull’altro fronte il tasso di eventi emorragici maggiori risulta essere di 8,6 eventi per 1000 persone nel gruppo Aspirina rispetto ai 6,2 eventi per 1000 persone nel gruppo placebo (p < 0,001). Vi è dunque un maggior numero statisticamente significativo di eventi emorragici nel gruppo Aspirina.

Quindi, in definitiva, l’utilizzo di Aspirina in prevenzione primaria in soggetti di età avanzata non riduce il rischio di eventi ischemici maggiori, ma ne incrementa il rischio emorragico. Questi risultati andranno a modificare la pratica clinica e la consuetudine, evitando rischi inopportuni ai nostri pazienti.

Approfondimento: Articolo originale su New England Journal of Medicine:

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1805819

 

5) Sparsentan, un duplice antagonista recettoriale di endotelina e angiotensina II, sembra una promettente arma terapeutica nella glomerulosclerosi focale e segmentaria primitiva

B. Covella

La glomerulosclerosi focale e segmentaria (GSFS), patologia glomerulare eterogenea, può manifestarsi come una glomerulopatia primitiva o una malattia secondaria; attualmente per le forme primitive non sono disponibili terapie approvate dalla FDA o dall’EMA.

In un recente articolo di H. Tratchman et al. vengono presentati i risultati della prima fase dello studio multicentrico internazionale DUET: uno studio di fase 2, randomizzato, in doppio cieco, che indaga l’efficacia e la sicurezza dello Sparsentan in pazienti affetti da GFSF primaria. Sparsentan è una molecola dotata di una duplice azione di blocco sui recettori di tipo A dell’endotelina e sui recettori di tipo 1 dell’angiotensina II.

Lo studio è condotto su popolazione di Stati Uniti ed Europa, negli Stati Uniti coinvolta anche la popolazione pediatrica, i pazienti inclusi presentavano una diagnosi istologica di GSFS o altra patologia caratterizzata da mutazioni genetiche associate alla GSFS, PCR (rapporto proteinuria/creatininuria) ≥ 1 g/g ed eGFR > 30 ml/min.

Dopo un periodo di wash out da ACEi e antagonisti del recettore dell’AT1, i pazienti, randomizzati con un rapporto 2:1, sono stati suddivisi in tre gruppi di trattamento con Sparsentan 200 mg, 400 mg e 800 mg e un gruppo controllo attivo, con Irbesartan 300 mg.

Il concomitante utilizzo di immunosoppressori era permesso, eccetto che per ciclofosfamide e rituximab, se i dosaggi di questi erano mantenuti stabili da almeno 1 mese prima della randomizzazione. La prima fase dello studio, di cui vengono presentati i risultati, prevede un periodo di osservazione di 8 settimane, condotto in doppio cieco. Vengono analizzati end point primari (variazione della PCR a 8 settimane), secondari (raggiungimento della remissione parziale della GSFS a 8 settimane), terziari (variazione di pressione arteriosa, eGFR, albuminemia, indici di funzione epatica).

I risultati statisticamente significativi ottenuti sono i seguenti: una riduzione maggiore della proteinuria nell’analisi combinata dei pazienti trattati con Sparsentan, rispetto a quelli trattati con Irbesartan e dei pazienti trattati con i due dosaggi più alti di Sparsentan (400 e 800 mg) rispetto a quelli trattati con Irbesartan; una remissione parziale delle GSFS in un numero maggiore di pazienti trattati con Sparsentan rispetto a Irbesartan; un maggiore effetto antipertensivo dello Sparsentan (nell’analisi combinata e del dosaggio da 800 mg) a confronto di Irbesartan. Mentre non sono state osservate differenze di effetto sulla funzione renale, albuminemia e indici di funzionalità epatica.

I due trattamenti hanno inoltre dimostrato un simile profilo di sicurezza, eccetto che per una maggiore tendenza dello Sparsentan a provocare ipotensione arteriosa, vertigini, edemi ed effetti gastrointestinali quali vomito, diarrea e nausea e dell’Irbesartan a provocare astenia, congestione nasale, infezioni delle alte vie respiratorie, spasmi muscolari, iperpotassiemia; tendenze risultate essere non statisticamente significative.

La seconda parte dello studio è ancora in corso, dovrebbe valutare l’andamento a lungo termine della funzionalità renale dei pazienti. Prevista inoltre una terza parte, con l’intento di osservare la persistenza dell’effetto di riduzione della proteinuria e l’azione di stabilizzazione della funzione renale.

I punti di forza dello studio sono certamente la sperimentazione di un farmaco con azione combinata sui recettori di endotelina e angiotensina II in un campo clinico alternativo alla nefropatia diabetica, nell’ambito della GSFS verso la quale attualmente non possediamo agenti farmacologici riconosciuti efficaci.

Punti critici invece sono invece il limitato numero di pazienti in ciascuna coorte, il limitato numero di pazienti di etnia afro-americana, la breve durata di osservazione, fermo restando che la seconda fase di studio è ancora in corso e ne è prevista una terza.

Approfondimento: Articolo originale su JASN: https://jasn.asnjournals.org/content/29/11/2745.long

Impatto sulla Web Community: https://asnjournals.altmetric.com/details/50261170

 

6) Effetti dell’emoperfusione con Polimixina B nei pazienti con shock settico

 V. Di Leo

Il lipopolisaccardide o endotossina, è una molecola chiave nell’attivazione della risposta infiammatoria e nella patogenesi della sepsi e dello shock settico. Studi clinici hanno dimostrato come i livelli circolanti di endotossinemia siano correlati con la severità della sepsi, con il danno d’organo, con il numero di organi coinvolti, con la durata della degenza in unità di terapia intensiva e, infine, con la mortalità.

Nel corso degli anni sono stati sperimentati diversi approcci terapeutici per neutralizzare l’attività dell’endotossina e migliorare l’outcome clinico, ma nessuna terapia ha mostrato risultati clinicamente significativi. Una strategia alternativa è stata quella di rimuovere l’endotossina ematica mediante l’assorbimento selettivo del sangue su una matrice rivestita con Polimixina B.

Un gruppo di ricerca guidato da R. P. Dellinger della Rowan University, ha condotto un trial clinico multicentrico, randomizzato (EUPHRATES Trial), che coinvolgeva 55 Ospedali degli Stati Uniti d’America e del Canada, con lo scopo di valutare la capacità dell’emoperfusione con Polimixina B nel ridurre la mortalità a 28 giorni nei pazienti con shock settico ed elevati livelli di endotossinemia. I criteri d’inclusione erano rappresentati da: ipotensione arteriosa, che richiedeva terapia di supporto con noradrenalina (0,05 μg/kg/min per almeno due ore consecutive e per non più di 30 ore prima della randomizzazione); impiego di terapia antibiotica per un’infezione documentata o sospetta; uso di terapia infusionale con cristalloidi (o equivalenti) ad almeno 30 mL/Kg nelle 24 ore precedenti; la comparsa di almeno un nuovo danno d’organo per la fase acuta; livelli di endotossinemia superiori a 0,60. Sono stati arruolati 450 pazienti di cui 224 sono stati sottoposti ad emoperfusione con Polimixina B (età media 60,9 anni; 84 donne [37,5%]; APACHE II score medio 29,4), mentre 226 soggetti erano trattati con placebo (età media 58,8 anni; 93 donne; APACHE score medio 28,1). Dei 295 pazienti che presentavano un valore di score di disfunzione multi-organica (MODS) maggiore di 9, 147 pazienti appartenevano al gruppo trattato con Polimixina B e 148 al gruppo trattato con placebo.

Nello studio, pubblicato su JAMA, il trattamento con Polimixina B associato alla terapia medica non si è dimostrato efficace nel ridurre in maniera statisticamente significativa la mortalità a 28 giorni, rispetto ai pazienti trattati con placebo e con terapia medica standard. Ci sono varie ragioni che potrebbero spiegare questo dato. In primo luogo, potrebbero non esserci effetti benefici significativi quando l’emoperfusione con Polimixina B viene effettuata dopo l’inizio dello shock settico e della disfunzione d’organo. In secondo luogo, il tempo, la dose e la durata del trattamento potrebbero essere insufficienti nel modificare il decorso clinico. In ultimo, se consideriamo la compartimentazione dell’endotossina e la complessità del legame con le proteine, il dosaggio dell’endotossinemia potrebbe non riflettere la reale concentrazione dell’endotossina nell’organismo.

Approfondimento: Articolo originale su JAMA: https://jamanetwork.com/journals/jama/article-abstract/2706139

Impatto sulla Web Community: https://jamanetwork.altmetric.com/details/50438509

 

7) Il valore diagnostico degli anticorpi anti-PLA2R nella Glomerulonefrite membranosa primitiva: definizione di un nuovo valore soglia per la loro positività

V. Montinaro

La glomerulonefrite membranosa “idiopatica” o, meglio, primitiva (GNM), rappresenta la seconda forma più frequente di glomerulonefrite primitiva, dopo la nefropatia IgA. Interessa prevalentemente l’età adulta con un picco di frequenza alla quinta-sesta decade di vita; non sono rare, tuttavia, le diagnosi in pazienti anziani (>70-75 anni). Si manifesta clinicamente con sindrome nefrosica, nel 75% dei casi è una forma primitiva e nel restante 25% si può associare a varie condizioni morbose concomitanti, fra cui prevalgono infezioni, diabete, LES, neoplasie solide. Dopo decenni di ricerca sperimentale con modelli nel ratto che avevano identificato in questi animali la megalina come l’antigene target della risposta autoimmunitaria, solo nel 2009 si è riconosciuto l’antigene prevalente nella GNM umana che è rappresentato dal recettore della fosfolipasi A2 (PLA2R), espresso sui podociti. Anticorpi contro tale proteina (anti-PLA2R) sono riscontrabili nel siero della maggioranza dei pazienti con GNM; tale percentuale nei vari studi può variare da meno del 50% all’80-90% di tutti i casi di GNM in base a vari fattori, fra cui il metodo usato e l’interpretazione dei risultati. Dopo i primi metodi indaginosi o poco precisi tipo il western blot o l’immunofluorescenza indiretta su cellule transfettate con PLA2R, da qualche anno è disponibile un metodo EIA quantitativo per il dosaggio degli anti-PLA2R, ormai utilizzato nella maggior parte dei laboratori in varie parti del mondo. Tuttavia, non è ancora chiaro il livello diagnostico discriminante di tale metodo. Molti laboratori si attengono alle indicazioni da “scheda tecnica” che considera i sieri come positivi se questi presentano un valore > 20 U/ml, i sieri negativi sarebbero quelli con valore < 14 U/ml, quelli con valore 14-20 U/ml sarebbero dubbi. L’osservazione clinica ha portato, tuttavia, a mettere in dubbio la reale validità di questi cut-off.

Allo scopo di definire meglio il limite discriminante diagnostico del livello degli anti-PLA2R, abbiamo condotto uno studio su una coorte monocentrica costituita da 67 pazienti consecutivi afferenti alla U.O. di Nefrologia del Policlinico/Università di Bari, pubblicando i dati sul Journal of Nephrology. I pazienti, con un’età media di 57 anni, tutti con diagnosi istologica di GNM ed assenza di evidenze cliniche di malattie associate, sono stati arruolati e comparati con 200 pazienti affetti da altre nefropatie proteinuriche e 36 controlli normali. I livelli sierici degli anti-PLA2R rilevati al tempo della biopsia renale, sono stati misurati col test EIA (Euroimmun, Italia). Abbassando il cut-off del test a un valore di 2,7 U/ml, attraverso l’analisi con curve ROC, abbiamo potuto rilevare una sensibilità e specificità rispettivamente dell’88,1 e 96%. Pertanto questo valore di cut-off, molto più basso di quello raccomandato (14 U/ml), ha potuto notevolmente migliorare la sensibilità del test, mantenendo una elevata specificità dello stesso. Valori simili di cut-off sono stati anche riportati indipendentemente da due altri gruppi (Timmermans et al. e Liu et al.).

Si raccomanda pertanto di utilizzare questo valore di cut-off nell’interpretazione dei risultati delle misurazioni degli anti-PLA2R o, in alternativa, verificare nel proprio laboratorio e/o centro clinico, il cut-off per tale test con un numero congruo di soggetti.

Approfondimento: Articolo originale su Journal of Nephrology: https://link.springer.com/article/10.1007%2Fs40620-018-0533-z

 

8) Varianti genetiche dei fattori della via Alternativa del Complemento: un nuovo ruolo nella sindrome emolitico-uremica atipica

S. Matino

La Sindrome emolitico uremica atipica (SEUa) è una patologia rara (incidenza 0,5-2 casi/milione/anno) che si manifesta con microangiopatia trombotica caratterizzata da anemia emolitica, piastrinopenia ed insufficienza renale acuta, non scatenata da ceppi entero-emorragici di E. coli. Ad oggi, risulta difficile e complessa la definizione di SEUa “primaria” legata, nella maggioranza dei casi, a mutazioni genetiche dei fattori della via alternativa del Complemento e soprattutto differenziarla dalle forme “secondarie”, legate a una malattia associata oppure all’assunzione di farmaci che possono indurre la microangiopatia trombotica.

La SEUa in casi rari può anche essere determinata da una mutazione del gene DGKE (3%); in questa condizione è necessaria un’esposizione ad un trigger, situazione, peraltro, non infrequente anche nelle forme mediate da alterazioni genetiche del Complemento; questo avvalora l’ipotesi delle varianti genetiche come predisposizione piuttosto che come causa patogenetica diretta. In circa un 40% dei casi di SEUa, tuttavia, non è stata dimostrata alcuna mutazione genetica specifica.

In un recente studio di Fengxiao Bu et al. dell’Università dell’Iowa, è stata individuata una coorte di 510 pazienti con la diagnosi di SEUa; dopo controlli di qualità e stratificazione della popolazione, sono stati selezionati 400 pazienti su cui è stata eseguita l’analisi genetica: sono stati sequenziati 93 geni del Complemento e della coagulazione per testare l’ipotesi che i pazienti con SEUa abbiano varianti rare in specifici geni in numero maggiore rispetto ai controlli. Sono state utilizzate due coorti di controllo, una più piccola di 600 individui europei e americani e una più grande di 63.345 individui europei non finlandesi.

I risultati di entrambi i confronti, in accordo con altri studi recenti, dimostrano che i pazienti con SEUa presentano più frequentemente varianti rare nei geni CFH, C3, CD46, CFI, DGKE, codificanti per specifici domini proteici, e non nei geni CFB, PLG e THBD, suggerendo un contributo minimo di questi ultimi alla patogenesi.

Varianti rare in CFH, C3, CD46, CFI e CFB sono state identificate in 105 pazienti (26,3%), tasso inferiore rispetto a quello previsto in altri report. Questa differenza fa riflettere su una possibile inclusione nella coorte di casi di SEU “secondaria”, sull’implementazione dell’analisi di correlazione e sull’uso di un MAF (minor allele frequency) inferiore (<0,1%).

Come guida all’interpretazione delle varianti genetiche, Bu et al. concludono che è improbabile che le varianti con MAF > 0,1% siano correlate alla malattia e che l’impatto di varianti più comuni dovrebbe comunque essere interpretato con cautela.

Varianti rare multiple sono state identificate nell’11,43% dei casi (tasso atteso, 13,5%, altri tassi riportati ancora più bassi, 7% ca.); questo dimostra che i pazienti con SEUa non presentano varianti rare multiple nei geni del Complemento più di altri. Inoltre, delle 329 varianti finora considerate nella patogenesi della SEUa, dieci varianti con MAF > 0,1% non hanno mostrato una maggiore frequenza nei pazienti rispetto ai controlli e sono state declassate da patogenetiche a probabilmente benigne.

Analizzando tutti i geni del Complemento e della coagulazione, gli autori del lavoro hanno identificato numerose varianti rare nel gene VTN, che codifica per la vitronectina. Quest’ultima è una proteina multifunzionale abbondante nel siero e nella matrice extracellulare, che ricopre un ampio ruolo nella regolazione dell’attività del Complemento (inibisce la via terminale del Complemento bloccando la formazione del complesso di attacco della membrana), della coagulazione, della fibrinolisi, della cicatrizzazione delle ferite e dell’adesione cellulare. L’ipotesi patogenetica intuitiva è che le varianti genetiche compromettano la funzione della proteina, quindi la regolazione negativa della via terminale del Complemento. A conferma di questa ipotesi, è stato studiato il topo omozigote per la soppressione di VTN che appare fenotipicamente normale, ma con lievi modifiche nella stabilizzazione dei trombi, occlusione vascolare e aggregazione piastrinica. Le varianti della VTN, nella coorte di pazienti con SEUa, appaiono distribuite su vari domini che interagiscono con molteplici proteine ​​del siero. Pertanto è probabile che la variazione VTN aumenti il ​​rischio di SEUa, piuttosto che causare direttamente la malattia, e che l’associazione con la SEUa possa sottendere un meccanismo più complesso della semplice disregolazione del Complemento. In conclusione, il gene VTN è stato identificato come un nuovo gene associato alla SEU. In uno scenario così complesso, questi importanti dati genetici possono migliorare la conoscenza della patogenesi e la gestione clinica dei pazienti con SEUa.

Approfondimento: Articolo originale su JASN: https://jasn.asnjournals.org/content/early/2018/10/29/ASN.2018070759?fbclid=IwAR1Y_nVgvjTgfUiJP5iD_I6012CulFgSdTwqE5FrzxDtxVVPJezqzDDq3lY

Impatto sulla Web Community: https://asnjournals.altmetric.com/details/50489820

 

9) La Properdina, fattore regolatorio attivante della via alternativa del Complemento gioca un ruolo patogenetico indipendente in un modello di danno renale acuto

A. Montinaro

Nella concezione classica derivante dai tanti studi sperimentali effettuati negli ultimi 60 anni, il danno immunologico renale delle glomerulonefriti si realizza da un iniziale fenomeno che prevede o la deposizione di immuncomplessi circolanti oppure la reazione di autoanticorpi circolanti che riconoscono specifici antigeni presenti nelle strutture del glomerulo. Dopo questa prima fase, il principale effettore dell’immunità naturale, il sistema del Complemento, è attivato, rilascia mediatori flogistici che richiamano neutrofili, la cui attivazione produce il danno flogistico locale. Un ruolo centrale in questa sequenza di eventi è rappresentato dall’attivazione complementare e dal coinvolgimento del C3, punto nodale delle varie vie di attivazione. Nella modalità della via alternativa di attivazione, il C3, tramite il suo frammento C3b, si lega al fattore Bb, formando un complesso C3bBb, che rappresenta la convertasi, ovvero un enzima che amplifica l’attivazione di altro C3, quindi l’arruolamento dei componenti terminali C5, C6, C7, C8, C9 e formazione del complesso di attacco della membrana. La C3 convertasi della via alternativa è molto instabile e tende a decadere spontaneamente; la aiuta nel suo ruolo la Properdina che, legandosi alla prima, ne stabilizza la funzione. La Properdina è l’unico fattore regolatorio attivante della via alternativa. Ora, da qualche anno è chiaro che la Properdina svolge anche funzioni di pattern recognition molecule (PRM), una funzione che permette a queste molecole di riconoscere specifici motivi molecolari in germi o parti alterate di tessuti e cellule, in tal modo legandosi e attivando meccanismi a valle di tipo flogistico che hanno un ruolo finale protettivo.

In un recente studio di James O’Flynn et al. pubblicato su Kidney International è emersa la possibilità che la Properdina giochi un ruolo primario indipendente dal C3 nell’indurre il danno glomerulare flogistico. E’ stato utilizzato un modello sperimentale murino di nefrite acuta da anticorpi anti-membrana basale glomerulare (prodotti nel coniglio), indotta in topi wild-type o knock-out per C3 o Properdina. In questo modello gli anticorpi di classe IgG del coniglio si depositano in sede sottoepiteliale glomerulare, attivano il Complemento (dimostrato dai depositi di C3 e C9, oltre che di Properdina) e richiamano neutrofili che, attivati, producono danno renale, manifestato clinicamente da proteinuria massiva. Il dato interessante in questo studio era rappresentato dal fatto che nei topi knock-out per C3 che presentavano proteinuria massiva, era possibile dimostrare la presenza nei glomeruli di depositi di IgG di coniglio, neutrofili infiltranti e depositi di Properdina, non associati alle IgG, ma associati in parte a cellule che presentavano marcatori molecolari di apoptosi o indipendentemente da questi. Lo studio quindi enfatizza il ruolo giocato dalla Properdina come fattore patogenetico autonomo nella mediazione del danno renale, non necessariamente in subordine alla sua funzione di stabilizzazione della C3 convertasi, ma, peraltro, come fattore che esercita funzione di PRM.

E’ interessante notare che una funzione del genere era stata in qualche modo intravista già dallo scopritore di questa molecola, Louis Pillemer, circa 65 anni fa. Ed è inoltre doveroso ricordare che lo stesso Pillemer pagò con la propria vita le controversie derivanti dallo scetticismo sulle reali proprietà biologiche di questa molecola.

Approfondimento: Articolo originale su Kidney International: https://www.kidney-international.org/article/S0085-2538(18)30517-9/fulltext?fbclid=IwAR2RZvcz48RQl_sjeVP2m0ETxy8c3gKkvTBjAPbJVQDnZX5LV_OW2KbZirM

Impatto sulla Web Community: https://plu.mx/plum/a/?doi=10.1016%2Fj.kint.2018.06.030&theme=plum-jbs-theme&hideUsage=true&display-tab=summary-content

 

10) Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina e il rischio di cancro al polmone

G. D’Ettorre

Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE inibitori) sono farmaci di largo impiego in medicina, soprattutto in ambito nefrologico e cardiologico. Risultano relativamente sicuri nel breve periodo ma i dati sulla loro sicurezza nel lungo termine sono limitati. In particolare è stata avanzata l’ipotesi di un loro ruolo nell’aumentare il rischio di cancro al polmone in relazione all’accumulo di bradichinina e di sostanza P. La prima stimola la crescita tumorale, favorisce l’angiogenesi mediante il rilascio di VEGF e l’invasione tumorale attivando le metalloproteasi della matrice. La seconda si è dimostrata essere espressa nel tessuto canceroso e associata alla proliferazione tumorale e all’angiogenesi.

Alcuni studi di metanalisi non hanno mostrato un aumento nell’incidenza del cancro, ma hanno il limite di fare riferimento a studi osservazionali, piccola dimensione campionaria o con un breve follow-up (mediana 3,5 anni) e riferiti al rischio di cancro in generale e non al rischio di cancro al polmone.

Hicks e al. del Jewish General Hospital di Montréal, hanno pubblicato sul British Medical Journal uno studio che aveva l’obiettivo di determinare se l’uso degli ACE inibitori, comparati con i sartani, fosse associato a un aumento del rischio di tumore al polmone. Lo studio si basa su una coorte di 992.061 pazienti i cui dati sono stati estratti dal database di assistenza primaria “UK clinical practice research datalink e fanno riferimento al periodo dal 1 gennaio 1995 al 31 dicembre 2016. Sono stati inclusi i pazienti seguiti almeno da un anno che avevano iniziato ad assumere la classe di farmaci in oggetto come prima linea, in associazione o al posto di altri agenti antipertensivi. Sono stati esclusi i pazienti con una precedente diagnosi di cancro o che avevano ricevuto trattamenti chemio o radioterapici.

I pazienti sono stati divisi in tre gruppi: coloro che assumevano ACE inibitori da soli o in combinazione (in totale 335.135), coloro che assumevano sartani (da soli o in combinazione- in totale 29.008) e coloro che assumevano altri farmaci antipertensivi (includendo in questo gruppo coloro che passavano da ACE inibitori a sartani e viceversa per gli effetti collaterali – in totale 101.637).

I modelli statistici sono stati aggiustati per età, sesso, anno di ingresso nella coorte di studio, indice di massa corporea, abitudine tabagica (sono stati distinti: fumatori, ex fumatori, non fumatori), disturbi associati all’alcol (alcolismo, cirrosi si base alcolica, epatite su base alcolica, insufficienza epatica), storia di problemi polmonari (polmoniti, tubercolosi e BPCO), durata del trattamento antiipertensivi e l’uso di statine e sono state valutate le comorbidità in relazione alle diverse classi di farmaci assunte dai pazienti.

Il tasso di incidenza assoluto di tumori polmonari nella coorte è stato di 1,3% (IC 95% 1,2 -1,3); gli ACE inibitori determinavano un rischio aumentato del 14% (1,6 vs 1,2 su 1000 anni persona; HR 1,14, IC 95% 1,01-1,29). Il ruolo degli ACE inibitori si dimostrava dopo i 5 anni dall’inizio dell’utilizzo e aumentava con il passare del tempo (tra 5 e 10 anni, tasso di incidenza 1,22; più di 10 anni 1,31). Il follow-up è durato in media 6,4 anni (SD 4,7). L’abitudine tabagica non modificava il risultato dell’associazione così come non veniva dimostrato un ruolo protettivo dei sartani.

I limiti di questo studio sono relativi alla mancanza di informazioni su alcuni potenziali fattori confondenti come lo stato socio economico, la dieta, l’esposizione a radon e/o asbesto e la storia familiare di cancro ai polmoni. Inoltre, nonostante i dati siano stati aggiustati per l’abitudine tabagica mancavano informazioni relative alla durata e all’intensità del fumo, fattori anch’essi associati all’incidenza di cancro ai polmoni. I dati sono stati presi da un registro in cui i medici di medicina generale inserivano le loro prescrizioni per cui non è stato possibile valutare l’aderenza al trattamento dei pazienti. Infine non sono disponibili dati sul tipo di cancro di polmone diagnosticato.

Si è paventata la possibilità che un maggior numero di casi di cancro nei polmoni sia stato scoperto per una maggiore attenzione diagnostica avuta nei pazienti che assumevano ACE inibitori (ad esempio in relazione al sintomo tosse, un effetto collaterale comune a questa classe di farmaci). Uno studio di Gokhale del 2016 ha però dimostrato minime differenze sul ricorso a indagini strumentali per i pazienti che fanno uso di ACE inibitori o sartani. Nello studio di Hicks, inoltre, per avere un tempo di esposizione consistente si è tenuto conto di un periodo di latenza di un anno, sono stati presi in considerazione casi di tumore al polmone successivi e l’associazione è stata dimostrata dopo un tempo di utilizzo di almeno 5 anni per cui non è verosimile che ci sia stata una sovrastima dei casi.

L’entità del dato ottenuto con questo studio è modesta di per sé, ma assume rilevanza in relazione alla ampiezza della popolazione esposta agli ACE inibitori e a rischio di cancro del polmone.

I risultati ottenuti definiscono la necessità di valutare questa relazione sia nello studio di nuovi farmaci appartenenti a questa classe o di associazioni che li contengono, valutando anche le diverse indicazioni e i dosaggi usati in nefrologia e cardiologia, sia nello studio della progressione tumorale al fine di possibili interventi terapeutici.

Approfondimento: Articolo originale su British Medical Journal: https://www.bmj.com/content/363/bmj.k4209

Impatto sulla Web Community: https://bmj.altmetric.com/details/50196753

 

11) Irhom 2: un nuovo potenziale target terapeutico per la nefrite lupica

 P. Protopapa

La nefrite lupica (NL) rappresenta una delle principali complicanze del Lupus Eritematoso Sistemico (LES) colpendo dal 40 al 60% dei pazienti affetti ed è caratterizzata dalla deposizione glomerulare di immunocomplessi e di complemento che provocano il reclutamento e l’attivazione dei neutrofili e dei monociti, responsabili della produzione di mediatori infiammatori che amplificano il danno renale.
Recenti evidenze dimostrano il coinvolgimento in tale processo di alcune metalloproteinasi di superficie, tra le quali la metalloproteinasi 17 (ADAM17), una proteina espressa sulla superficie delle cellule mononucleate del sangue periferico, il cui ruolo è quello di operare un taglio molecolare su substrati localizzati ed ancorati sulla membrana plasmatica (tra questi i ligandi del TNF-α e dell’EGFR). Questi ultimi sono considerati importanti mediatori del danno renale in corso di LES.

Sebbene il blocco di ADAM17 possa simultaneamente arrestare più vie patogenetiche e sia stato proposto per il trattamento di malattie renali croniche non correlate alla NL, vi sono notevoli preoccupazioni sul targeting terapeutico di ADAM17, principalmente perché ADAM17 ha un ruolo fondamentale nella protezione della pelle e della barriera intestinale attraverso l’attivazione del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR).

Recentemente, sono stati scoperti 2 fattori regolatori essenziali di ADAM17, denominati “Romboidi Inattivi”: iRhom1 e iRhom2, ciascuno dei quali, in assenza dell’altro, può esercitare la protezione della pelle e della barriera intestinale ADAM17-dipendente. A livello leucocitario, iRhom2 (prodotto del gene Rhbdf2) sembra controllare la funzione di ADAM17, data la minima espressione di iRhom1 in queste cellule.

Nello specifico, iRhom2 regola la selettività del substrato di ADAM17, stimolando il rilascio di diversi ligandi di EGFR, inclusi EGF legante l’eparina (HB-EGF), ma non di TGF-α, che è cruciale per la protezione della barriera cutanea e intestinale. Queste proprietà uniche di iRhom2 hanno sollevato l’intrigante possibilità che il targeting di iRhom2 offra un vantaggio rispetto al targeting ADAM17 e consenta l’inattivazione simultanea di più percorsi, tra cui il TNF-α e l’EGFR nelle cellule effettrici coinvolte nella NL.

Negli ultimi anni, evidenze hanno dimostrato l’importanza della presenza del recettore inibitorio Fc γ IIB (Fcgr2b), un recettore per le immunoglobuline G a bassa affinità, responsabile di meccanismi di mantenimento della tolleranza, e la cui mutazione è stata associata nell’uomo al LES.

In uno studio, pubblicato nell’aprile del 2018 sulla rivista The Journal of Clinical Investigation, Qing et al. hanno posto a confronto modelli murini privi del recettore inibitorio Fc γ IIB (Fcgr2b -/-), che sviluppano una forma spontanea di LES, con modelli in cui era stata anche ridotta l’espressione di iRhom2 (Fcgr2b-/-, Rhbdf2-/-). La ridotta espressione di iRhom2 ha provocato una ridotta attivazione della via di segnalazione del TNF-α, dell’espressione del gene HB-EGF e dell’attivazione dell’EGFR a livello renale.

La carenza di iRhom2 nei topi Fcgr2b-/- ha prevenuto la patologia renale maggiore, inclusa la proteinuria, la deposizione eccessiva di matrice extracellulare, l’infiltrazione di cellule infiammatorie e il danno strutturale dei glomeruli, non influenzando l’espansione delle cellule immunitarie spleniche, la produzione di anticorpi anti-dsDNA o la deposizione renale di immunocomplessi e C3: questi elementi depongono a favore del fatto che la protezione sia stata ottenuta bloccando il braccio effettore della malattia. Inoltre, lo studio si è posto l’obiettivo di porre a confronto gli outcomes della sottoregolazione di iRhom2 con le attuali strategie terapeutiche in corso di NL. Il deficit di iRhom2 si è rivelato efficace nel ridurre marcatamente i livelli di proteinuria nei topi Fcgr2b-/-, cosa che non è avvenuta con l’uso di inibitori dell’EGFR (Erlotinib). La sottoregolazione di iRhom2 ha dimostrato la propria superiorità nel proteggere dal danno renale (proteinuria e glomerulosclerosi) verso i quali gli stessi inibitori di EGFR non si sono dimostrati efficaci.

Anche il blocco di uno stabilizzatore del recettore 1 del TNF alfa (p75TNFR-fc) è stato meno efficace rispetto a quanto osservato nei modelli murini (Fcgr2b-/-, Rhbdf2-/-) sebbene in grado di proteggere moderatamente dalla fibrosi interstiziale. La combinazione di entrambi i farmaci non è stata testata.

Complessivamente, questi risultati suggeriscono che l’inattivazione di iRhom2 nei topi Fcgr2b-/- non influisce sulle caratteristiche dell’autoimmunità nel LES, come la produzione sistemica di autoanticorpi anti-dsDNA e l’espansione delle cellule immunitarie spleniche, ma piuttosto fornisce protezione attenuando le risposte a valle della deposizione e del blocco di immunocomplessi e dell’infiltrazione di cellule infiammatorie responsabili del danno renale.

Sebbene maggiori studi si rendano necessari per chiarire le correlazioni patogenetiche tra l’HB-EGF e la NL, questo studio apre un importante orizzonte sulla possibilità di utilizzare un nuovo target in grado di limitare le vie proinfiammatorie e di rimodellamento tissutale in una delle principali complicanze di una patologia in costante aumento.

Approfondimento: Articolo originale su The Journal of Clinical Investigation:

https://www.jci.org/articles/view/97650

Commento su American Journal of Kidney Diseases:

https://www.ajkd.org/article/S0272-6386(18)30670-X/fulltext?fbclid=IwAR1cfcxU27QsXHMwiRFVKlwQjrtGIbgyZ4FHuM93XhnwAbaD_XXmaIX_7MQ

 

12) Predire il rischio di insufficienza renale cronica in pazienti nefropatici trattati da nefrologi, dopo un danno renale acuto

 G. Fontò, D. Gianfreda

Il danno renale acuto è associato a un aumentato rischio di mortalità e progressione dell’insufficienza renale cronica (IRC) anche se i valori di creatinina sierica tornano al baseline dopo l’evento acuto. Gli studi presenti in letteratura focalizzano però l’attenzione su pazienti ricoverati in reparti internistici e non specificatamente in reparti nefrologici. Sarebbe invece interessante capire l’implicazione prognostica di anche una minima variazione dei valori di creatinina sierica in pazienti nefropatici cronici.

Esistono degli indicatori che, applicati su pazienti nefropatici, consentono di guidare le scelte terapeutiche e di valutare il rischio di progressione della malattia renale cronica verso l’insufficienza renale. Tangri et al. hanno sviluppato l’equazione di rischio di insufficienza renale a 2 e a 5 anni (KFRE: kidney failure risk equation) su una coorte di pazienti nefropatici canadesi. Tale equazione però, a 4 (età, sesso, eGFR, rapporto albuminuria creatininuria) o a 8 variabili (considera ulteriori valori plasmatici: calcemia, fosforemia, bicarbonatemia e albuminemia) è difficilmente applicabile alla popolazione generale, se non utilizzando dei fattori di calibrazione regionali e, soprattutto, non tiene conto dell’episodio acuto nella valutazione prognostica finale.

Simon Sawhney et al. hanno condotto uno studio retrospettivo volto a individuare l’impatto di episodi di insufficienza renale acuta (secondo definizione KDIGO), sulla mortalità e sulla progressione dell’insufficienza renale in pazienti nefropatici. La popolazione studiata è costituita da 7491 pazienti di età maggiore di 18 anni, afferiti nei reparti di nefrologia di 41 centri nella British Columbia (Canada) dal 1gennaio 2003 al 31 luglio 2009, sopravvissuti per un periodo di osservazione di almeno due anni senza aver avuto necessità di CRRT e con filtrato glomerulare stimato (CKD-EPI) maggiore di 15 ml/min/1,73 m2. Il 13% di questi pazienti ha sviluppato AKI ed è stato confrontato con il resto della popolazione che non ha sviluppato AKI. Il follow-up mediano, iniziato dopo i primi due anni di osservazione, è stato circa di 5 anni.

Tale studio ha permesso di concludere che nei pazienti nefropatici, l’episodio acuto aumenta sia la probabilità di sviluppare insufficienza renale cronica (33,1% vs, 26,3%) che di morte (23,8% vs. 16,8%).

Nel modello di Cox, dopo aver stratificato la stessa popolazione (7491 pazienti) sulla base della eGFR in due sottogruppi (eGFR > a 30 ml/min/1,73m2 ed eGFR < a 30 ml/min/1,73 m2), l’episodio acuto risulta indipendentemente associato ad un aumentato rischio di insufficienza renale nei pazienti con eGFR > 30 ml/min/1,73 m2 (HR 1,35; IC 95% 1,07-1,70) mentre non incide sul rischio nei pazienti con eGFR < 30 ml/min/1,73 m2 (HR 1,05; IC 95% 0,91-1,21). L’episodio acuto, inoltre, aumenta la mortalità in entrambi i sottogruppi (rispettivamente HR 1,89; IC 95% 1,56-2,30 e HR 1,46; IC 95% 1,16-1,75).

L’introduzione della variabile “evento acuto” all’interno di modelli di predizione del rischio di evoluzione verso l’insufficienza renale cronica (come KFRE) non è risultata però utile né come valore prognostico né come guida nella pratica clinica e nelle scelte terapeutiche.

Approfondimento: Articolo originale su Nephrology Dialysis and Transplantation: https://academic.oup.com/ndt/advance-article/doi/10.1093/ndt/gfy294/5133052

Impatto sulla Web Community: https://oxfordjournals.altmetric.com/details/49782832