Novembre Dicembre 2017 - La patologia fratturativa nel paziente con Malattia Renale Cronica

Il trattamento del paziente fratturato con insufficienza renale cronica (CKD)

Abstract

Le fratture da fragilità si possono manifestare in tutti gli stadi della malattia renale cronica (CKD) a causa dell’osteoporosi, così come nella CKD-MBD. Come nel caso delle donne postmenopausali e degli anziani, la precoce identificazione dei pazienti con CKD e storia di fratture da fragilità è essenziale per ridurre il rischio di nuove fratture e delle loro conseguenze. Mentre il trattamento dell’osteoporosi nei pazienti con CKD stadio 1-3 non differisce sostanzialmente dai pazienti sani non-CKD, l’approccio farmacologico nei soggetti con CKD stadio 4-5/5D è differente e più complesso. In questi pazienti, prima di avviare una terapia farmacologica è imperativo determinare l’eventuale presenza di CKD-MBD, con un’istomorfometria ossea. Dopo l’implementazione di misure preventive generali non-farmacologiche volte alla riduzione del rischio di frattura e caduta, nel trattamento del paziente con CKD stadio 4-5/5D si può prendere il considerazione l’uso dei bisfosfonati e denosumab, sebbene le evidenze non siano di grado elevato. Sebbene alendronato, risedronato e denosumab abbiano dimostrato di essere efficaci (nel ridurre l’incidenza di fratture), sicuri e ben tollerati in pazienti con CKD stadio 4, il loro uso sistematico necessita ulteriori evidenze. Mentre, l’approccio farmacologico nello stadio 5/5D è stato esplorato unicamente in studi su piccole casistiche, che hanno prodotto evidenze limitate o scarse. In tutti i casi (stadio 4-5/5D), è necessario essere a conoscenza del rischio di potenziali eventi avversi quali l’ipocalcemia e la malattia adinamica dell’osso.

PAROLE CHIAVE: fratture, malattia renale cronica, osteoporosi, bisfosfonati, denosumab

Introduzione

Il trattamento del paziente affetto da osteoporosi con frattura da fragilità (osteoporosi severa) si deve basare sull’implementazione di misure generali di prevenzione non-farmacologiche e su una terapia farmacologica specifica, con l’obiettivo finale di ridurre l’incidenza di nuove fratture da fragilità (1, 2) e, indirettamente, prevenire le complicanze cliniche delle fratture (disabilità, decesso, riduzione della qualità di vita). Questo approccio, che è stato ormai ampiamente definito e caratterizzato per i pazienti affetti da osteoporosi primitiva (postmenopausale o senile) o secondaria, dovrebbe teoricamente essere implementato anche nei soggetti affetti da insufficienza renale cronica (CKD) ed osteoporosi severa con fratture da fragilità (14). In questo contesto, la prescrizione di misure preventive non-farmacologiche, quali l’implementazione di programmi di attività motoria/riabilitazione volti a migliorare le performance muscolari, l’attivazione di procedure per la riduzione del rischio di caduta, e la rimozione dei potenziali fattori di rischio per frattura da fragilità, non pone particolari problemi nel paziente affetto da CKD; mentre la terapia farmacologica specifica deve tener conto della complessità del paziente affetto da CKD, e dei potenziali rischi a essa connessi sul piano della funzione renale residua, della sicurezza scheletrica/osteometabolica e più in generale della sicurezza clinica (14).

A oggi, sono disponibili numerosi farmaci per la prevenzione delle fratture da fragilità nel paziente osteoporotico, tutti dotati di un elevato profilo di efficacia (nella prevenzione delle fratture), tollerabilità e sicurezza, come dimostrato dai numerosi studi randomizzati e controllati (RCTs) pubblicati (14). Sfortunatamente, il disegno di questi RCTs ha escluso quasi sistematicamente l’arruolamento di pazienti affetti da CKD stadio 4-5/5D, riducendo fortemente la possibilità di traslare i risultati ottenuti nelle donne postmenopausali o nei maschi ai soggetti con osteoporosi severa ed CKD (311). Le evidenze riguardanti il trattamento farmacologico del paziente con CKD e frattura da fragilità sono molto scarse, basandosi su analisi post-hoc dei suddetti RCTs o su studi condotti su piccole casistiche spesso non randomizzati e controllati. Pertanto, la scelta di un trattamento farmacologico per la prevenzione secondaria delle fratture nel paziente con CKD è veramente complessa, basandosi su scarse evidenze cliniche di efficacia e sicurezza.

Il problema del trattamento farmacologico è ulteriormente complicato dal fatto che il paziente con CKD potrebbe presentare un’osteodistrofia renale (ROD), che sul piano clinico e densitometrico è spesso indistinguibile dall’osteoporosi severa, ma sul piano del trattamento necessita di un approccio terapeutico più complesso ed integrato, non banalizzabile alla sola prescrizione di un agente farmacologico (3, 4). Anche per questo motivo numerosi esperti consigliano nei pazienti con CKD avanzata (stadio 4-5/5D) l’esecuzione di una biopsia ossea volta a caratterizzare l’eventuale ROD sottostante (Tabella 1), prima della prescrizione di un trattamento (3, 4).

In relazione a quanto descritto, l’articolo affronterà il problema del trattamento farmacologico nel paziente con CKD e frattura da fragilità distinguendo i soggetti con CKD stadio 1-3, in cui l’approccio terapeutico non differisce sostanzialmente dai pazienti osteoporotici non-CKD, dai pazienti con CKD stadio 4-5/5D, in cui il trattamento farmacologico risulta più complesso e meno definito.

 

Misure di Prevenzione Generali Non-Farmacologiche

L’implementazione delle misure generali non-farmacologiche si deve basare su una valutazione basale clinica, strumentale e laboratoristica ampia e multidimensionale volta a identificare fattori di rischio correggibili e non-modificabili.

Misure generali non-farmacologiche per la prevenzione delle fratture da fragilità nel paziente con CKD devono comprendere (1, 2, 12):

  • nutrizione adeguata ed altre misure preventive volte a minimizzare il rischio di insorgenza di sarcopenia;
  • mantenimento di un adeguato livello di attività motoria e implementazione di eventuali programmi riabilitativi finalizzati, volti a incrementare la forza muscolare e migliorare l’equilibrio statico e dinamico;
  • evitare periodi di immobilizzazione prolungata;
  • correzione degli stili di vita scorretti (eccessivo consumo di alcool, fumo, obesità);
  • programmi educazionali per la prevenzione delle cadute sia in ambiente domestico sia in ambiente esterno;
  • istruzioni per la prevenzione delle fratture vertebrali (es., mobilizzazione dei pesi);
  • rimozione (quando possibile) o appropriato “management” degli eventuali fattori di rischio per osteoporosi/frattura pre-esistenti (es., adeguato controllo del compenso glicemico nel paziente diabetico, mantenimento della dose minima efficace di corticosteroide allo scopo di ridurne il danno muscolo-scheletrico, evitare l’uso di farmaci potenzialmente associati al rischio di frattura/caduta).

L’apporto di calcio dietetico può giocare un ruolo importante nella patogenesi delle fratture osteoporotiche nella popolazione generale così come nei pazienti con CKD, particolarmente in quei soggetti a elevato rischio di basso apporto quali gli anziani fragili o i soggetti affetti da malassorbimento intestinale (1, 2). Un bilancio negativo del calcio potrebbe, infatti, produrre o peggiorare un quadro d’iperparatiroidismo secondario. In generale, le Linee Guida sulla prevenzione delle fratture da fragilità nel paziente osteoporotico non affetto da CKD raccomandano, quando possibile, di incrementare l’apporto di calcio attraverso la dieta, mentre suggeriscono di limitare l’utilizzo dei supplementi di calcio, in relazione al potenziale rischio di calcolosi renale e/o eventi cardiovascolari (ancora dibattuto) nei soggetti supplementati “farmacologicamente” (1, 2). In questo contesto, e considerando le complesse problematiche del paziente affetto da CKD, la gestione del bilancio dietetico del calcio nel paziente con CKD e frattura osteoporotica si deve necessariamente adeguare alle Linee Guida disponibili, particolarmente nel caso della CKD stadio 4-5/5D, e nel rispetto delle indicazioni/raccomandazioni riguardanti il mantenimento di valori sierici di paratormone (PTH) e fosforo appropriati (1, 2, 13, 14).

Infine, sebbene l’argomento sia ancora dibattuto, in relazione ai risultati non omogenei dei RCTs, nei pazienti a rischio di caduta molto elevato potrebbe essere indicato l’uso di protettori dell’anca per ridurre la forza dell’impatto prodotto da un’eventuale caduta a livello del bacino e della regione trocanterica (1). Questo approccio in casi selezionati ha dimostrato di ridurre (in misura moderata) il rischio di frattura del femore.

 

Vitamina D

E’ noto da anni come la prevalenza della ipovitaminosi D nella popolazione generale, particolarmente in soggetti a rischio come gli anziani, sia piuttosto elevata, soprattutto in quei paesi dove i prodotti alimentari non sono liberamente fortificati con vitamina D, e stante la ridotta produzione cutanea riscontrata con l’avanzare dell’età (1, 15). La carenza di vitamina D, attraverso meccanismi scheletrici ed extra-scheletrici, gioca un ruolo estremamente rilevante nella patogenesi dell’osteoporosi e soprattutto delle fratture osteoporotiche (1, 15). Inoltre, numerosi studi hanno dimostrato come la persistenza di una condizione di ipovitaminosi D in corso di terapia con bisfosfonati possa non solo ridurne l’effetto densitometrico, ma anche vanificarne l’efficacia anti-frattura (1, 2, 15). Pertanto, le Linee Guida delle principali Società Scientifiche (Nazionali e Internazionali) dedicate allo studio dell’osteoporosi e di altre malattie metaboliche ossee raccomandano il trattamento e la prevenzione della ipovitaminosi D in tutti i pazienti a rischio di frattura, particolarmente nei casi in cui venga prescritta una terapia farmacologica specifica (1, 2, 15).

E’ ormai accertato come il progredire dell’insufficienza renale comprometta sostanzialmente la produzione del metabolita attivo della vitamina D, il calcitriolo, determinando gran parte delle alterazioni osteometaboliche coinvolte nella patogenesi della ROD (1, 15). In generale, l’attività alfa-idrossilasica non è più in grado di assicurare livelli ormonali adeguati solo in presenza di un notevole deterioramento della funzione renale. Nei pazienti con insufficienza renale stadio 4-5/5D con valori di paratormone particolarmente elevati e in progressivo incremento, trova indicazione l’uso di calcitriolo o degli analoghi, che, riducendo i livelli di paratormone, possono produrre potenziali benefici sul piano osteometabolico, fatta eccezione dei soggetti con malattia adinamica dell’osso (1, 1315). Diverso deve essere l’approccio nel caso di ipercalcemia (13, 14).

Studi recenti, tuttavia, hanno evidenziato come la prevalenza di deficienza di vitamina D nei pazienti affetti da CKD possa raggiungere percentuali pari al 90% (1). Pertanto, la misurazione della 25-idrossi-vitamina D (25OHD) e la supplementazione con colecalciferolo è fortemente raccomandata, potendo contribuire significativamente alla riduzione del livello sierico di paratormone nei pazienti con CKD stadio 1-5/5D, anche attraverso l’attività delle 1-alfa-idrossilasi extra-renali (1, 15). In questo contesto va sottolineato come l’attività delle 1-alfa-idrossilasi extra-renali non sia legata a meccanismi di feed-back, e pertanto il potenziale effetto positivo delle 1-alfa-idrossilasi extra-renali sia strettamente vincolato ai valori sierici della 25OHD.

 

Il Trattamento Farmacologico del Paziente con CKD e Frattura da Fragilità: aspetti generali

Nella Tabella 2 sono riassunte le proprietà ideali di una terapia per il trattamento dell’osteoporosi e la prevenzione delle fratture da fragilità (16), e le implicazioni nel trattamento del paziente con CKD.

Ovviamente, per la scelta della terapia è necessario tenere conto dei dati di efficacia nella riduzione del rischio di frattura a livello di tutti i siti scheletrici, vertebrali e non vertebrali. Numerosi farmaci sono disponibili per la prevenzione delle fratture da fragilità nei soggetti osteoporotici a rischio (1, 2). Classicamente i farmaci per l’osteoporosi vengono distinti in due categorie (1, 2): i farmaci anti-riassorbitivi e i farmaci osteo-anabolici. I primi agiscono riducendo il riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti e determinano una riduzione del rimodellamento osseo, producendo anche una riduzione della neoformazione ossea ovvero dell’attività degli osteoblasti, essendo questa associata all’attività degli osteoclasti. Questi farmaci sono in grado di produrre incrementi di variabile entità della densità minerale ossea (BMD), di migliorare alcune caratteristiche micro-strutturali del tessuto minerale osseo e di conseguenza di ridurre il rischio di frattura (1, 2). Farmaci anti-riassorbitivi approvati e commercializzati per il trattamento dell’osteoporosi sono: la calcitonina, gli estrogeni, i modulatori selettivi dei recettori degli estrogeni (SERMs), il ranelato di stronzio, i bisfosfonati e il denosumab. Ognuno di questi farmaci ha un meccanismo d’azione unico e specifico che in parte ne determina anche l’efficacia maggiore o minore nella riduzione del rischio di frattura.

I farmaci osteo-anabolici agiscono incrementando la neoformazione di osso nuovo e il riassorbimento osseo, con un effetto predominante sulla neoformazione di osso nuovo (particolarmente nei primi 12 mesi di trattamento, e fino al 24° mese), che si traduce in incrementi della BMD estremamente rilevanti e significativi già dopo un anno di terapia, in un miglioramento delle caratteristiche qualitative del tessuto minerale scheletrico, e in una riduzione significativa ed assolutamente rilevante del rischio di frattura (1, 2). Il capostipite, e al momento anche unico osteo-anabolico disponibile è il teriparatide, che in studi randomizzati e controllati (e loro meta-analisi) ha dimostrato grande efficacia nella prevenzione delle fratture vertebrali e non-vertebrali (1, 2). Due nuovi osteo-anabolici, abaloparatide (meccanismo d’azione analogo al teriparatide) e romosozumab (meccanismo d’azione assolutamente nuovo, caratterizzato dall’inibizione dell’attività della sclerostina) sono in fase avanzata di sviluppo, avendo già praticamente terminato la fase III, e potrebbero a breve essere disponibili per il trattamento dell’osteoporosi severa. Al momento non è noto il loro potenziale di impiego nei pazienti con CKD, ma è verosimile, sulla base dei dati di farmacocinetica e farmacodinamica, che entrambi possano trovare impiego sia nei pazienti con CKD stadio 1-3 sia nei pazienti con CKD stadio 4-5/5D.

Si rimanda alle revisioni della letteratura ed alle Linee Guida per una più dettagliata descrizione del meccanismo d’azione e dell’efficacia dei farmaci anti-riassorbitivi e osteo-anabolici (1, 2), che esula dagli obiettivi della nostra revisione, che prenderà in esame unicamente i dati relativi ai farmaci di più comune utilizzo (Tabella 3).

L’altro aspetto estremamente determinate nella scelta della terapia farmacologica nel paziente con CKD è quello della sicurezza e tollerabilità. Negli RCTs in pazienti non-CKD quasi tutti i farmaci di più comune utilizzo nella pratica clinica hanno dimostrato un elevato profilo di sicurezza, producendo solo alcuni lievi effetti collaterali perlopiù temporanei e attesi sulla base della farmacocinetica e farmacodinamica dei singoli farmaci (1, 2,17). Solo per gli anti-riassorbitivi sono stati descritti alcuni effetti collaterali più rilevanti, ma fortunatamente molto rari, quali l’osteonecrosi della mandibola e le fratture femorali atipiche (17). Nel contesto del paziente affetto da CKD, tuttavia, alcuni aspetti riguardanti la sicurezza e la tollerabilità assumono particolare rilevanza. Come illustrato nella Tabella 2, aspetti critici riguardanti l’uso dei farmaci anti-frattura nella CKD sono (3, 4):

  • l’eventuale potenziale tossicità renale diretta (bisfosfonati);
  • la possibilità di modificare e ridurre la dose nel caso dei farmaci a prevalente/totale eliminazione renale, per evitare un’eccessiva ritenzione del farmaco;
  • il rischio, nel caso degli anti-riassorbitivi (bisfosfonati e denosumab), di favorire, precipitare o aggravare la malattia adinamica dell’osso;
  • il rischio, nel caso del teriparatide, di favorire, precipitare o aggravare una ROD ad alto turnover;
  • eventuali interferenze con altri farmaci impiegati (il paziente con CKD spesso è in polifarmacoterapia);
  • eventuali effetti significativi/negativi sui valori sierici di PTH, calcio e fosforo (es: ipocalcemia in corso di terapia con anti-riassorbitivi, incremento acuto e rilevante del PTH in corso di terapia con anti-riassorbitivi, ipercalcemia in corso di terapia con teriparatide);
  • potenziale influenza sulla progressione delle calcificazioni vascolari nel paziente con CKD stadio 4-5/5D.

Nel complesso, questi aspetti critici assumono particolare rilevanza nel paziente con CKD stadio 4-5/5D, mentre sono più spesso meno rilevanti nella maggioranza dei pazienti con CKD di stadio inferiore (Tabella 3). Pertanto, nella descrizione dei dati relativi all’efficacia e sicurezza dei farmaci si terranno separate queste due sottocategorie di pazienti (stadio 1-3 e stadio 4-5/5D).

 

Il Trattamento Farmacologico del Paziente con CKD stadio 1-3

L’approccio farmacologico nel paziente fratturato con CKD stadio 1-3 non differisce sostanzialmente da quello del soggetto affetto da osteoporosi senza CKD (14). L’unica eccezione è rappresentata dai pazienti in cui sulla base dei dati clinici e laboratoristici si sospetti una ROD (vedi Tabella 2), nel qual caso è indicata l’esecuzione di una biopsia ossea per l’analisi istomorfometrica volta a confermare l’eventuale sospetto diagnostico (34).

In numero variabile, pazienti affetti da CKD stadio 1-3 sono strati arruolati nei RCTs che hanno determinato l’efficacia e la sicurezza dei bisfosfonati (alendronato e risedronato), del teriparatide, del denosumab e del raloxifene nelle donne affette da osteoporosi postmenopausale (511). Ciò ha permesso di confermare, nei pazienti CKD stadio 1-3, i dati sull’efficacia anti-frattura, sulla sicurezza e sulla tollerabilità rilevati nelle donne con osteoporosi postmenopausale, nei maschi e nei pazienti in terapia con corticosteroidi non affetti da CKD.

Un esempio recente deriva dai risultati dello studio FREEDOM, che ha valutato l’efficacia anti-frattura del denosumab (60 mg sottocute ogni sei mesi) contro placebo in donne affette da osteoporosi postmenopausale (5, 6). Un’analisi post-hoc dei primi 3 anni dello studio FREEDOM ha dimostrato una simile efficacia anti-frattura del denosumab nelle pazienti con differente grado di compromissione della funzione renale (Figura 1). Considerando l’intera popolazione, la Odds Ratio (OR) per nuova frattura vertebrale risultava 0,30 con intervallo di confidenza 95% (95%CI) compreso tra 0,23-0,39. Nelle donne postmenopausali affette da CKD stadio 2 o 3, le rispettive OR (95%CI) risultavano 0,23 (0,15-0,34) e 0,38 (0,26-0,59). Analogamente, l’efficacia del denosumab nel ridurre il rischio di nuove fratture non-vertebrali risultava comparabile tra l’intera popolazione (OR 0,78 – 95%CI 0,66-0,93) e le donne con CKD stadio 2 (OR 0,69 – 95%CI 0,54-0,89) o stadio 3 (OR 0,88 – 95%CI 0,66-1,16). Risultati analoghi sono stati descritti in analisi post-hoc per alendronato e risedronato (Figura 2) (7, 11). Lo studio FIT ha valutato l’efficacia dell’alendronato orale giornaliero 10mg (contro placebo) sulla riduzione del rischio di frattura in donne postmenopausali osteoporotiche. In un’analisi post-hoc, l’efficacia anti-frattura dell’alendronato è stata confrontata tra le donne con filtrato glomerulare (eGFR) < 45 ml/min e quelle con eGFR >/= 45 ml/min (7). La riduzione del rischio di nuova frattura vertebrale (eGFR < 45 ml/min, OR 0,72, 95%CI 0,31-1,7; eGFR >/= 45 ml/min, OR 0,50, 95%CI 0,32-0,76) e di nuova frattura clinica (eGFR < 45 ml/min, OR 0,78, 95%CI 0,51-1,2; eGFR >/= 45 ml/min, OR 0,81, 95%CI 0,70-0,94) nel corso dei quattro anni di studio risultava simile tra i due gruppi definiti sulla base dell’eGFR.”

Complessivamente, negli studi con denosumab, alendronato e risedronato, le pazienti con CKD stadio 1-3 non avevano evidenziato significative variazioni della funzione renale, tantomeno erano state rilevate differenze significative nell’incidenza di eventi avversi (inclusi quelli renali). Per quanto riguarda l’effetto dei bisfosfonati sulla funzione renale è importante sottolineare come, anche per l’ibandronato (orale e endovenoso) e per lo zoledronato, gli studi clinici non abbiano mai evidenziato rilevanti e significativi effetti sulla funzione renale, nei pazienti con eGFR > 30-35 ml/minuto (i pazienti con valore inferiore sono stati infatti sistematicamente esclusi dagli studi con i bisfosfonati endovenosi) (8).

Anche nel caso del teriparatide, un’analisi post-hoc dello studio FPT ha chiaramente confermato l’efficacia del teriparatide nella riduzione del rischio di nuove fratture vertebrali e non vertebrali in donne postmenopausali con vario grado di CKD, ma comunque sempre con eGFR > 30 ml/min (10). Sebbene anche in questo caso il profilo di tollerabilità e sicurezza risultasse comparabile in tutti i sottogruppi definiti sulla base dell’eGFR, nelle donne con eGFR compresa tra 30-49 ml/min, era stata registrata una maggiore incidenza di iperuricemia (10), il cui significato clinico risulta comunque tutt’ora incerto.

Infine, risultati analoghi sono stati descritti anche in una post-hoc analisi dello studio MORE con il raloxifene (9). Tuttavia, va enfatizzato come, nello studio MORE, il raloxifene avesse dimostrato unicamente di ridurre significativamente il rischio di nuova frattura vertebrale rispetto al placebo, mentre non era stato descritto alcun effetto significativo sulla riduzione del rischio di nuova frattura non vertebrale (1).

In linea con quanto raccomandato dalle Linee Guida, riteniamo consigliabile limitare l’uso della calcitonina, del ranelato di stronzio e degli estrogeni, nei pazienti affetti da CKD così come nelle persone non affette da CKD, in relazione al rischio di severi eventi avversi descritti nel corso degli studi e confermati dalle analisi post-marketing (14, 17).

In conclusione, i dati disponibili relativi ai bisfosfonati, al denosumab e al teriparatide indicano che efficacia, sicurezza ed elevata tollerabilità sono mantenute anche quando questi farmaci sono impiegati in pazienti con CKD stadio 1-3. Nel caso dei bisfosfonati endovenosi, è comunque opportuno enfatizzare la necessità, nei pazienti con funzione renale ridotta, di attenersi alle corrette indicazioni di somministrazione (frequenza, durata infusione) e di garantire un’adeguata idratazione del paziente.

 

Il Trattamento Farmacologico del Paziente con CKD stadio 4-5/5D

Come già enfatizzato, il disegno dei RCTs prevedeva di escludere dagli studi pazienti con CKD stadio 4-5/5D. Nel caso dei bisfosfonati orali alendronato e risedronato (Figura 2), non era stata prevista, alla visita basale di arruolamento, la valutazione dell’eGFR in quanto la funzione renale era stata valutata con il solo dosaggio della creatinina, e pertanto una piccola quota di pazienti con eGFR compresa tra 15-30 ml/minuto era stata arruolata nei RCTs (si stima meno del 4%) (7, 11). Anche nel caso dello studio FREEDOM con denosumab, che come illustrato nella Figura 1 era stata arruolata una proporzione di pazienti con CKD stadio 4, questa rappresentava circa l’1% dell’intera popolazione (5, 6). Per questi motivi e per le considerazioni illustrate nella Tabella 2 (e precedentemente descritte), come evidenziato nella Tabella 3, sia le Linee Guida delle Società Scientifiche sia FDA/EMeA sconsigliano o controindicano all’uso dei bisfosfonati, di denosumab e del teriparatide in pazienti affetti da CKD stadio 4-5/5D (3, 4). Tali raccomandazioni derivano prevalentemente dalle criticità riguardanti la sicurezza e la tollerabilità, e dalle conoscenze relative alla farmacocinetica e farmacodinamica di questi agenti farmacologici.

Nel caso dei bisfosfonati le criticità principali sarebbero legate alla totale eliminazione renale del bisfosfonato (per filtrazione e secrezione attiva), alla potenziale tossicità per i tessuti ove raggiunge alte concentrazioni in poco tempo (segnalati casi di necrosi tubulare acuta in corso di terapia con zoledronato endovenoso), e al fatto che essendo farmaci anti-riassorbitivi potrebbero determinare nel paziente con CKD (stadio 4-5/5D) un’eccessiva soppressione del turnover scheletrico producendo, facilitando o precipitando una condizione di osso adinamico (3, 4). Quest’ultima criticità sarebbe particolarmente rilevante anche in considerazione della prolungata persistenza dell’effetto anti-riassorbitivo dopo la loro sospensione, dovuta alla loro affinità per il tessuto osseo (diversa per i differenti bisfosfonati). Il problema dell’eccessiva soppressione del turnover (e del rischio di malattia adinamica dell’osso) esiste anche per il denosumab, il cui effetto tuttavia non persiste dopo la sospensione, ma anzi produce nel paziente non-CKD un “rebound” del turnover scheletrico (3, 4). Limitazioni importanti nell’uso del denosumab riguardano anche i pazienti a rischio d’ipocalcemia e i pazienti immuno-soppressi (es., trapianto renale) (3, 4). Infine, non è stato ancora accertato l’effetto del denosumab sulle calcificazioni vascolari, potenzialmente mediato dalle variazioni sieriche dell’osteoprotegerina (3, 4).

Di significato diametralmente opposto sono invece le raccomandazioni riguardanti l’uso teriparatide, che essendo un analogo del paratormone, produce un incremento anche molto significativo del turnover scheletrico, effetto da evitare in pazienti con ROD ad elevato turnover.

E’ quindi estremamente evidente come parte delle criticità relative all’uso di questi farmaci nei pazienti con CKD stadio 4-5/5D e osteoporosi severa siano strettamente legate alla possibile presenza di una ROD (Tabella 1). Pertanto, in accordo con le Linee Guida KDIGO, è opinione degli Autori che un’eventuale terapia con denosumab, teriparatide o bisfosfonato in un paziente con CKD stadio 4-5/5D debba necessariamente essere preceduta da una biopsia ossea con istomorfometria e debba prendere in considerazione i potenziali rischi e benefici (14). Infine è opportuno enfatizzare come l’uso dei bisfosfonati e del denosumab in questi pazienti vada inquadrato nell’ambito di un approccio terapeutico “off label”.

 

I bisfosfonati nel paziente con CKD stadio 4-5/5D

Dati preliminari riguardanti l’uso dei bisfosfonati nei pazienti con CKD stadio 4-5/5D risalgono al secolo scorso, quando si esplorò la possibilità di utilizzare il clodronato endovenoso in pazienti con malattia renale cronica severa anche in emodialisi (181920). Il clodronato è un non-amino bisfosfonato dotato di bassa affinità per il tessuto osseo, il cui effetto anti-riassorbitivo pertanto svanisce abbastanza rapidamente dopo la sospensione. L’analisi dei risultati degli studi di farmacocinetica e farmacodinamica del clodronato nei pazienti con CKD stadio 4-5/5D ha permesso di definire delle dosi standard (normalmente il 25% o 50% della dose usata nei pazienti sani) da utilizzare in base all’eGFR. Sfortunatamente la gran parte di questi studi era focalizzata sull’effetto del clodronato sulla calcemia, sulla sua tollerabilità e sulla sua farmacocinetica, e nessuno studio ha analizzato in maniera approfondita l’effetto sull’incidenza di fratture o su outcomes surrogati indicativi di efficacia anti-fratturativa (quali la BMD o il turnover scheletrico).

Come precedentemente segnalato, due post-hoc analisi con alendronato e risedronato hanno permesso di definire un loro potenziale utilizzo in pazienti con eGFR compresa tra 15-30 ml/minuto (7, 11). Nella post-hoc analisi che ha analizzato i dati di nove RCTs volti a valutare l’efficacia anti-frattura del risedronato orale giornaliero 5 mg (contro placebo) (11), la riduzione del rischio di nuova frattura vertebrale in pazienti osteoporotici con CKD stadio 4 trattati con risedronato risultava significativa ed approssimativamente del 56% (Figura 2). L’effetto anti-frattura riscontrato con il risedronato nei pazienti con CKD stadio 4 risultava non dissimile e anzi maggiore rispetto ai pazienti con migliore funzionalità renale, nei quali la terapia con risedronato aveva dimostrato di produrre una riduzione significativa del rischio di nuova frattura vertebrale del 45% (eGFR 30-50 ml/minuto) e del 32% (eGFR > 50 ml/minuto) (11).

In tutti i RCTs condotti con i due bisfosfonati orali nei pazienti con CKD stadio 4, non sono stati rilevati significativi eventi avversi renali correlati alla terapia.

Sulla base dei dati descritti, riteniamo che sia plausibile (off label), in specifiche condizioni cliniche e in soggetti a rischio di frattura molto elevato, l’utilizzo di clodronato, alendronato e risedronato in pazienti con CKD stadio 4, previa valutazione istomorfometrica ossea volta a escludere la presenza di una condizione di basso turnover scheletrico. In tutti i casi è raccomandabile limitare la durata della terapia con i bisfosfonati a 2-3 anni, e successivamente considerare una “vacanza terapeutica”, applicando pertanto criteri di durata più restrittivi rispetto a quelli proposti nei pazienti osteoporotici non-CKD (3, 4, 21). Nel corso della terapia è ovviamente raccomandabile un monitoraggio serrato dei parametri clinici e sierologici, ed al termine di essa sarebbe indicata l’esecuzione di una nuova biopsia ossea con istomorfometria. Un’eventuale biopsia ossea “estemporanea” con istomorfometria nel corso del trattamento andrà inoltre considerata in tutte le situazioni in cui si sospetti lo sviluppo di una ROD, o il paziente presenti un’ipocalcemia “refrattaria” o una frattura da stress/insufficienza.

L’uso dei bisfosfonati endovenosi nei pazienti con CKD stadio 4, e l’uso di qualunque bisfosfonato nei soggetti con CKD stadio 5/5D è al momento sconsigliabile (controindicato), non sussistendo sufficienti evidenze di efficacia e sicurezza.

 

Il denosumab nel paziente con CKD stadio 4-5

Come già illustrato sono state sollevate numerose criticità relativamente all’uso del denosumab nella CKD stadio 4-5/5D (3-4). Nella Tabella 4 sono descritte le potenziali criticità e i prevedibili vantaggi nell’uso di denosumab nella CKD stadio 4-5/5D (35, 22232425).

Come già descritto e illustrato nella Figura 1 (5), in un’analisi post-hoc dello studio FREEDOM il denosumab ha dimostrato di produrre, nelle donne osteoporotiche postmenopausali con CKD stadio 4, una significativa riduzione del rischio di frattura vertebrale e non-vertebrale, simile a quanto riportato nelle donne non-CKD, e con un profilo di sicurezza e tollerabilità elevato. L’elevata sicurezza e tollerabilità è stata confermata anche in altri studi esplorativi volti a valutare le potenzialità di utilizzo del denosumab nella CKD. Questi studi hanno permesso di evidenziare come nei pazienti con CKD stadio 4 aumenti lievemente il rischio di ipocalcemia in corso di denosumab, e si manifesti frequentemente un peggioramento del valore sierico del paratormone (3, 4, 25).

Una serie di piccoli studi, perlopiù pubblicati sotto forma di “case report/series”, ha esplorato l’utilizzo del denosumab nei pazienti in emodialisi (3, 4, 222627). I risultati più rilevanti di questi studi possono essere così riassunti:

  • il denosumab può produrre un transitorio ma significativo incremento del paratormone dopo la prima somministrazione, che può essere attenuato e contrastato modulando (incrementando) la dose del calcitriolo nel corso della terapia;
  • il denosumab produce un aumentato rischio di ipocalcemia (che in alcuni reports è stata descritta come severa e prolungata), che non è chiaro se possa essere attenuato dall’uso del calcitriolo;
  • in corso di terapia si osserva un significativo decremento dei parametri di turnover scheletrico che tuttavia non raggiungono livelli critici di basso/soppresso turnover;
  • in corso di terapia si è osservato un significativo miglioramento della BMD nei siti scheletrici esaminati;
  • in corso di terapia si è osservata una riduzione del dolore lombare.

Trarre conclusioni dai dati descritti e pubblicati appare difficile, considerando i limiti degli studi disponibili. Riteniamo che nei pazienti osteoporotici a rischio di frattura molto elevato, affetti da CKD stadio 4, il denosumab possa rappresentare una potenziale strategia terapeutica, alternativa al bisfosfonato, per la riduzione del rischio di frattura. Tutti i pazienti candidati a tale terapia devono essere prima sottoposti ad una biopsia ossea (con analisi istomorfomerica). Al momento non ci sono sufficienti evidenze per consigliare l’uso del denosumab nei pazienti con CKD stadio 5/5D, anche se il suo utilizzo teoricamente in condizioni estreme (es: paziente con cascata fratturativa) potrebbe essere preso in considerazione.

 

Il teriparatide nel paziente con CKD stadio 4-5

Non ci sono dati disponibili rilevanti sull’uso del teriparatide nei pazienti con CKD stadio 4-5/5D, sebbene il suo utilizzo sia stato proposto ed esplorato in pazienti affetti da malattia adinamica dell’osso, ove sarebbe razionale una terapia con azione incentivante il “turnover” scheletrico (3, 4, 28, 29). Sebbene questa idea possa sembrare plausibile sulla base delle conoscenze relative alla fisiopatologia della malattia adinamica dell’osso e al meccanismo d’azione del teriparatide, numerosi punti critici ne limitano molto l’applicabilità. Riteniamo che le due criticità principali siano (3):

  • non è noto se e quanto l’effetto osteo-anabolico del teriparatide sia mantenuto/conservato in pazienti esposti (per brevi o lunghi periodi di tempo) a una condizione di iperparatiroidismo;
  • non è nota la sicurezza del teriparatide nei pazienti esposti anche per brevi periodi di tempo a condizioni di iperparatiroidismo.

In considerazione delle scarse evidenze in termini di efficacia e sicurezza, riteniamo che siano necessari ulteriori studi prima di poter considerare l’uso del teriparatide nei pazienti con CKD stadio 4-5/5D e ridotto turnover scheletrico.

Ad oggi il Teriparatide rimane comunque controindicato nell’insufficienza renale grave e raccomandato l’uso con precauzione nell’insufficienza renale moderata.

 

Conclusioni

Come descritto nella nostra revisione, l’aspetto più critico del trattamento del paziente affetto da CKD e osteoporosi severa con frattura da fragilità riguarda l’uso dei farmaci negli stadi CKD 4-5/5D. Sebbene i dati della letteratura supportino, nei casi in cui il rischio di frattura sia particolarmente elevato, l’uso del denosumab o eventualmente anche di un bisfosfonato orale nei pazienti con CKD stadio 4, la prescrizione dell’agente farmacologico deve seguire un protocollo di valutazione standardizzato volto a escludere la presenza di malattia adinamica dell’osso e a pesare/valutare correttamente i rischi e i benefici. Ulteriori studi disegnati “ad hoc” e Linee Guida condivise sono assolutamente necessari prima di poter definire dei percorsi terapeutici nei pazienti con osteoporosi severa e CKD stadio 4-5/5D. Questi studi dovranno non solo valutare efficacia e sicurezza dei farmaci attualmente disponibili (bisfosfonati, denosumab e teriparatide), ma dovranno testare anche i nuovi farmaci in avanzato stato di sviluppo clinico (romosozumab e abaloparatide), e considerare la plausibilità e la fattibilità di approcci terapeutici differenziati in funzione del turnover scheletrico e dell’eventuale ROD sottostante (per es., osteo-anabolico nel paziente con malattia adinamica dell’osso, anti-riassorbitivo nel paziente con elevato turnover scheletrico). Infine è necessario enfatizzare il ruolo della vitamina K, dalla quale dipende la sintesi di proteine importanti per la preservazione della qualità dell’osso, come la osteocalcina. In studi clinici, la vitamina K, sia nella sua forma K1 (o fillochinone) che nella sua forma K2 (o menchinoni: MK), ha dimostrato buoni risultati in termini di riduzione delle fratture, indipendentemente dalla densità minerale ossea, confermando l’idea che abbia un effetto prevalente sulla qualità dell’osso (30, 31). In Giappone, dove è stata descritta la più bassa incidenza di fratture d’anca in pazienti in trattamento emodialitico (32), la vitamina K è somministrata come terapia dell’osteoporosi da anni nella forma MK4 (31).

 

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