Luglio Agosto 2016 - In depth review

Insufficienza Renale Acuta: il plus valore e la competenza del nefrologo, unitamente ad una buona organizzazione, possono migliorare la prognosi

Abstract

L’epidemiologia dell’Insufficienza Renale Acuta (IRA) è cambiata radicalmente negli ultimi 15 anni: abbiamo osservato un incremento esponenziale dei casi, ma la mortalità e disabilità residua sono rimaste elevate in particolare nei pazienti che necessitano di essere trattati con la dialisi.

I pazienti che sopravvivono in seguito ad IRA mostrano un aumentato rischio di continuare il trattamento dialitico una volta dimessi dall’ospedale, un peggioramento della funzione renale negli anni a venire, un aumentato rischio cardiovascolare ed una diminuita aspettativa di vita.

Nonostante la prognosi severa dell’IRA, le difficoltà nella terapia, l’elevata richiesta di risorse e di carico di lavoro, nonostante che i costi sono alti, molti aspetti della patologia non sono stati sufficientemente studiati. In primo luogo manca un registro nazionale e ciò ha un impatto sulle strategie che il Sistema Sanitario deve proporre. Si rende necessaria una formazione specifica che dovrebbe essere pianificata già all’interno del percorso universitario, prevedendo una frequenza dei futuri specialisti nelle terapie intensive. Ancor più evidente è la necessità di stabilire quali sono le caratteristiche organizzative e le dotazioni organiche e strumentali di quelle strutture che si occupano d’insufficienza renale acuta.

Il trattamento dell’IRA non si basa esclusivamente sulla dialisi e tecnologia ad essa collegata, ma anche sulle capacità professionali, sul volume di attività che affronta una struttura ed i medici che vi operano, sulla esperienza clinica dei professionisti, su modelli avanzati di organizzazione, sulla continuità dei processi delle attività mediche come sistemi a “staff-chiuso” sembrano garantire.

Il progresso nella conoscenza e nelle tecnologie ha solo parzialmente modificato l’esito e la prognosi dell’IRA, per cui sono necessarie quanto prima nuove strategie basate sull’aumento della percezione della malattia, sul miglioramento delle capacità professionali, sulla revisione ed aggiornamento delle strutture organizzative.

Parole chiave: insufficienza renale acuta, organizzazione, prognosi

 

Introduzione

L’insufficienza renale acuta (IRA) è una condizione clinica complessa che ha alla base un danno renale acuto (AKI) ed un’elevata mortalità intraospedaliera e disabilità residua. La sua incidenza è cresciuta esponenzialmente negli anni, e le risorse tecnologiche e organizzative richieste sono aumentate e divenute più complesse.

D’altra parte, di fronte ad una crescita esponenziale dell’IRA, in particolare negli ospedali ad alta intensità di cura, quella che qualche autore ha chiamato una manifestazione epidemica della malattia [1] [2] (full text) [3], i dati di monitoraggio sono difficili da ottenere e disomogenei, così come lo è il modo di affrontarla, anche nella strutturazione dell’organizzazione sanitaria coinvolta nel processo di cura.

Che il paziente necessiti una terapia intensiva per le condizioni critiche, o di reparti non intensivi, i modelli di assistenza sono quanto mai variabili, e gli indicatori di esito, cioè la mortalità, la necessità di continuare il trattamento dialitico, ed il recupero della funzione renale, sono molte volte non valutati e quindi sconosciuti nelle singole realtà.

Guardando cosa avviene dopo il ricovero ospedaliero, la situazione diviene ancora più complessa: di fronte alla conoscenza che i pazienti affetti da insufficienza renale acuta negli anni a seguire sono gravati da un maggior tasso di re-ospedalizzazione [4], da una maggiore mortalità[5] (full text) [6] (full text), da una più veloce progressione della malattia renale [7] (full text) [8], da un maggiore rischio di nefropatia “de novo” [9] (full text) [10], da eventi cardiovascolari come infarto del miocardio ed ictus [11] (full text) [12] (full text) [13] (full text), fino anche probabilmente da un più alto tasso di patologie neoplastiche [14], poco si fa per seguirli in percorsi ambulatoriali specialistici dedicati [15] (full text).

È sconfortante osservare come di fronte ad una patologia di rilievo quale l’insufficienza renale acuta, la conoscenza epidemiologica e l’organizzazione dell’assistenza sanitaria in senso ampio sono tuttora frammentarie. Se queste affermazioni sono vere, come si cercherà di illustrare di seguito, le conseguenze sono importanti perché significa che occorre iniziare un processo di ristrutturazione della comunità medica e dell’organizzazione sanitaria per affrontare adeguatamente il problema sia in termini qualitativi, che quantitativi.

Abbiamo allora voluto gettare le basi cliniche per un processo di revisione critica dell’organizzazione assistenziale dei pazienti con IRA (Tabella 1).

A) L’epidemiologia dell’Insufficienza Renale Acuta

Non è facile definire la reale incidenza di IRA e come questa sia variata nel tempo.

Un primo problema riguarda la fonte del dato. Occorre considerare che molti studi, in particolare quelli pubblicati prima del 2004, anno della pubblicazione dei criteri RIFLE di diagnosi e classificazione per gradi dell’Insufficienza Renale Acuta [16] (full text), in seguito modificati dalla classificazione AKIN [17] (full text), e più recentemente dalle Linee Guida KDIGO[18], valutano l’incidenza dai dati amministrativi della codifica di IRA nelle schede di dimissione ospedaliera (SDO).

Questa metodologia, come vedremo di seguito, può comportare un importante bias interpretativo legato ad una ridotta sensibilità diagnostica [19] (full text).

In una recente meta-analisi Susantitaphong et al [20] (full text) ha valutato 312 studi pubblicati dopo il 2004 che utilizzavano per la diagnosi di IRA sia il criterio amministrativo, sia quello delle KDIGO: l’incidenza media di IRA era del 10.7 % (95 % CI 9,6 – 11,9). Restringendo il dato ai 154 studi che utilizzavano la definizione delle KDIGO, l’incidenza aumentava al 23.2 % (95 % CI 21-25,7), mentre era del 2.9 % (95 % CI 2,3 – 3,7) se si consideravano i 28 studi basati sulla codifica delle SDO.

La meta-analisi di Susantitaphong et al. chiarisce come la percezione dell’IRA non possa essere adeguatamente valutata dalla codifica nella scheda di dimissione. Occorre, cioè, tenere presente quello che potremmo chiamare il “sommerso” nella diagnosi d’insufficienza renale acuta, cioè quei casi che pur presenti durante il ricovero ospedaliero non sono riconosciuti o non compaiono nelle schede di dimissione. Lo studio effettuato dal gruppo di Kerr [21] (full text) è interessante proprio a questo proposito. Gli Autori hanno analizzato i report delle schede di dimissione ospedaliera nazionali (HES), ed hanno analizzato i dati di laboratorio degli ospedali della Fondazione Universitaria dell’East-Kent (EKHUFT) classificando l’IRA secondo lo schema Acute Kidney Injury Network (AKIN). Le schede di diagnosi nazionali mostravano un’incidenza di IRA del 3.24%, mentre i dati di laboratorio del singolo ente EKHUFT mostravano un’incidenza del 16.26%, che, corretta per età e sesso della popolazione, a livello nazionale portavano la stima d’incidenza dell’Insufficienza Renale Acuta in ospedale a 14,15-14,65%.

La variazione d’incidenza dell’IRA nel tempo è stata studiata da Waikar et al. [22] (full text) utilizzando il dato amministrativo delle SDO ospedaliere in cui questa era codificata come diagnosi principale o secondaria. Gli Autori hanno osservato in Nord-America, nel periodo 1988-2002 un incremento dell’incidenza di IRA da 610 a 2880 pazienti per milione di popolazione (pmp) equivalente ad un incremento di circa 4 volte.

L’osservazione dell’aumento dell’incidenza di IRA negli anni è stata confermata anche nello studio di HSU et al. [23] (full text) sulla popolazione californiana, utilizzando il criterio diagnostico dell’incremento della creatinina (0.5 mg/dl e 1.0 e 1.5 mg/dl per i pazienti con creatinina basale ≤ 1.9. tra 2 e 4.9 e ≥ 5 mg/dl rispettivamente), ed essa aumentava da 3227 nel 1996 a 5224 pmp nel 2003.

Per quanto riguarda l’IRA necessitante del trattamento dialitico (AKI-D), molti studi hanno confermato un importante incremento negli anni. In questo caso il maggiore rimborso legato all’impiego della dialisi riduce il rischio di sotto-codifica dell’IRA, con una conseguente accettabile accuratezza diagnostica anche del dato amministrativo derivante dalla scheda di dimissione ospedaliera [24] (full text).

Lo studio già citato di Waikar et al. [22] (full text)evidenzia come nel caso di AKI-D l’incidenza sia cresciuta da 40 a 270 pmp. dal 1988 al 2002.

Simile è stata l’osservazione del gruppo di Hsu [23] (full text), che ha riportato un aumento dell’incidenza nel periodo 1996-2003 di AKI-D da 195 a 295 casi pmp. Successivamente lo stesso gruppo ha osservato che l’AKI-D nel 2009 era arrivata ad una incidenza di 533 casi pmp [25] (full text).

In definitiva il numero di casi di Insufficienza Renale Acuta che sono stati trattati con la dialisi, in Nord-America, è triplicato nell’arco di 10 anni.

In Europa abbiamo poche informazioni, particolarmente quelle di tipo dinamico che considerano le variazioni annuali. Liano, con uno studio osservazionale di 9 mesi fra 1991 e 1992, riporta una incidenza di IRA di 249 casi pmp, ed AKI-D di 89 casi pmp [26]. Nel 2000 Metcalfe in Scozia ha osservato un’incidenza di AKI-D uguale a 203 casi pmp [27] (full text), e due anni dopo Prescot ha segnalato 286 casi pmp [28] (full text). Secondo Hegarty nel 2007 il trattamento dialitico si è reso necessario in 72 casi pmp se considerato danno d’organo singolo, altrimenti nel contesto di una patologia multiorgano, quindi di pazienti notevolmente più gravi, i casi sono stati 380 pmp [29] (full text). In Italia lo studio di Mariano eseguito nelle terapie intensive del nord-ovest ha mostrato nel 2007 un’incidenza di AKI-D equivalente a 173 casi pmp [30].

Il nostro studio prospettico monocentrico eseguito a Perugia dal 2007 al 2012 in pazienti con AKI-D ha mostrato un incremento da 209 a 410 casi pmp, di cui circa un terzo erano pazienti ricoverati in terapia intensiva [31].

In sintesi, in Europa nel periodo 1992-2012 il numero dei pazienti trattati con dialisi in seguito ad Insufficienza Renale Acuta è quadruplicato, passando da 90 a circa 400 casi pmp.

La maggiore ragione di questo evidente aumento nel tempo dell’incidenza di IRA e di AKI-D nel mondo va trovata nell’aumentato numero di ricoveri in soggetti a rischio per la presenza di comorbidità e condizioni che possono complicarsi con una insufficienza renale acuta.

È noto, infatti, l’aumento delle ospedalizzazioni in soggetti con malattia renale cronica, diabete, scompenso cardiaco, sepsi, malattia neoplastica ed infarto acuto, spesso associati ad età avanzata[32]. In questi pazienti, rispetto al passato, si assiste anche ad un maggiore ricorso a procedure cardiologiche invasive, ad interventi cardiochirurgici, di chirurgia vascolare e di chirurgia maggiore che possono con maggiore frequenza associarsi a peggioramento acuto della funzione renale [33] (full text) [34].

Ovviamente l’aumento della casistica si è accompagnato ad aumento del consumo di risorse: nel nostro studio già citato [31] abbiamo documento nel singolo centro il raddoppio del numero di dialisi e delle ore di trattamento nell’arco temporale di sei anni, e parallelamente abbiamo osservato che meno del 50% dei pazienti ricevevano una dose dialitica considerata adeguata.

Un’altra conseguenza dell’incremento della casistica è che il carico di attività rivolta all’IRA riguarda in modo particolare in pazienti ricoverati in reparti diversi dalla Nefrologia. Abbiamo, infatti, osservato che il numero dei pazienti non critici con AKI-D ricoverati in Nefrologia è diminuito rispetto a coloro ricoverati in reparti non specialisti, passando da un rapporto 1:1 nel 2007 a 1:2,4 nel 2012.

Similmente il gruppo di Khole ha osservato in Inghilterra, fra il 1998 e 2013, una diminuzione di ricovero dei pazienti con IRA che necessitavano il trattamento dialitico nelle Nefrologie, ed un contemporaneo incremento del ricovero negli altri reparti [35].

Questi dati pongono in evidenza il problema dell’adeguamento delle dimensioni e delle risorse dei reparti di Nefrologia che, in generale, non sono aumentate proporzionalmente all’incremento delle richieste assistenziali per far fronte all’aumento del numero di dialisi eseguite in pazienti acuti.

B) Perché migliorare la conoscenza dell’incidenza dell’insufficienza renale acuta

L’insufficienza renale acuta nei pazienti non critici comporta una serie di effetti negativi: maggiore durata del ricovero e della necessità di trasferire i pazienti nelle terapie intensive, aumento della mortalità e morbilità, oltre che una aumentata necessità in post-ricovero di strutture assistenziali una volta dimessi [36] (full text) [37]. La necessità di incrementare la conoscenza della reale incidenza dell’insufficienza renale acuta, significa migliorarne la prognosi e conseguentemente i costi sociali [38], e l’introduzione di sistemi di rilevamento automatico dai parametri di laboratorio quando si accompagnano a precocità dell’inizio del percorso diagnostico e terapeutico si associa ad un migliore risultato clinico [39] (full text) [40] (full text).

Le linee guida NICE redatte nel 2014, proprio nell’intento di migliorare la conoscenza dell’IRA, al punto 3 riportano: “Acute kidney injury can be a ‘silent’ condition with no external signs or symptoms. Because many episodes of acute kidney injury are preventable, identifying people who are at risk and monitoring their clinical condition is important. Changes in serum creatinine level and urine output are indicators of risk, and it is important that these biomarkers are monitored alongside a ‘track and trigger’ system. Recognising and responding to these changes will ensure appropriate and quick intervention to prevent acute kidney injury developing.” [41].

C) L’organizzazione dell’ospedale e l’outcome

Considerato le differenze nell’organizzazione delle strutture sanitarie che devono rispondere all’IRA, una domanda che sorge spontanea è se differenti percorsi organizzativi possono influenzare l’outcome.

Abraham et al. [42] (full text), con uno studio condotto in Inghilterra, hanno osservato differenze nella mortalità ospedaliera ed a 30 giorni fra ospedali dotati di strutture di nefrologia con trapianto renale, solo reparto di nefrologia ed ospedali senza la nefrologia ma che potevano ricorrere alla consulenza nefrologica. Questi ultimi ospedali avevano una mortalità ospedaliera aggiustata più elevata, il 31,5%, rispetto agli ospedali dotati di trapianto di rene, dove la mortalità era il 27,3%. La mortalità inoltre era più elevata nelle regioni in cui il numero di nefrologi per milione di popolazione era più basso. Essi osservavano infine che il rischio di mortalità per IRA negli ospedali non dotati di personale specializzato era incrementato del 55%. Quest’osservazione è stata rafforzata dal gruppo di Meran [43], che, analizzando i dati di due distretti inglesi dove non era presente un servizio ospedaliero di Nefrologia se non in consulenza, riporta l’intervento del nefrologo solo nel 8,3% dei casi caratterizzati prevalentemente da una giovane età, una malattia renale cronica ed un grado più severo di IRA. Altro dato preoccupante era che il 10,5% dei casi ospedalieri di IRA non erano riconosciuti. Nella fase successiva alla dimissione solo 8,1% dei pazienti era stato rivisto dal nefrologo e ben il 34,2% non aveva una precisa programmazione post dimissione. I pazienti cui non era stata riconosciuta la presenza di IRA durante il ricovero ospedaliero, dopo 14 mesi dalla dimissione presentavano la progressione verso l’insufficienza renale cronica nel 42% dei casi, mentre per i pazienti con IRA riconosciuta la progressione avveniva nel 16,5% dei casi.

Solo una parte dei pazienti con IRA è visitata dal nefrologo, e questo accade anche nei grandi centri ospedalieri dotati dello specialista.

Lo studio condotto da Meier eseguito in un centro universitario Svizzero ha mostrato, in effetti, che l’incidenza di IRA nei pazienti non critici era il 4,12%, e solo un quarto circa dei pazienti riceveva una consulenza Nefrologica durante il ricovero [44] (full text).

Non solo la presenza nel Nefrologo in Ospedale e la sua consulenza hanno un significato sulla progressione della malattia e sull’esito del ricovero, ma anche la precocità dell’intervento specialistico ha un ruolo. Lo stesso Meier ha osservato sui pazienti non critici una minore mortalità ospedaliera se la prima visita nefrologica era eseguita entro cinque giorni dallo sviluppo dell’insufficienza renale acuta. I pazienti che avevano avuto un intervento nefrologico precoce avevano minore necessità di trattamenti dialitici d’emergenza, il 24% contro il 31% di coloro con un intervento tardivo, ed una minore necessità di continuare il trattamento dialitico dopo la dimissione, il 2,6% contro il 7,2%. Il recupero funzionale era migliore nei pazienti con intervento precoce del nefrologo, così come la durata della degenza e la mortalità ospedaliera: per tutte le classi AKIN rispettivamente il 7,6% contro il 10,5% per intervento tardivo, e il 25,3% nei pazienti che non avevano mai avuto una visita nefrologica.

L’intervento nefrologico precoce sembra essere in grado anche di incidere sulla progressione del deterioramento della funzione renale: lo studio prospettico non randomizzato condotto da Balasubramian [45] ha osservato che se la prima visita specialistica avveniva entro 18 ore dal riscontro dell’insufficienza renale acuta, l’incremento di 2,5 volte della creatinina serica era presente nel 3,3% dei pazienti rispetto al 12,9% nel rimanente gruppo di pazienti che erano stati valutati più tardivamente.

Dall’insieme dei dati della letteratura emerge chiaramente che l’intervento precoce del Nefrologo dipende da vari fattori, e l’organizzazione è uno di questi. I centri che hanno il nefrologo presente 24 ore al giorno per 7 giorni/settimana, e che hanno la possibilità di erogare il trattamento dialitico nelle forme e tempi più adatti alle singole necessità sembrano rappresentare l’obiettivo di sviluppo di una adeguata assistenza sanitaria per una patologia così importante.

Non da ultimo va detto che, considerato l’effetto negativo sulla prognosi renale a medio-lungo termine dopo un episodio di IRA, è auspicabile che questi pazienti siano sottoposti ad un attento follow-up nefrologico nel periodo successivo alla dimissione.

In questo campo vi è senza dubbio un ampio spazio di miglioramento se consideriamo gli studi già citati [43] [43] ed il report del USRDS che evidenzia che solo il 20 % dei pazienti vengono valutati dal nefrologo ad un anno dall’episodio di IRA [46].

Il follow-up ambulatoriale di questi pazienti meriterebbe di essere effettuato in un ambulatorio dedicato, come avviene in alcune realtà [47] (full text) [48] e contribuirebbe a riconoscere e a trattare adeguatamente le complicanze, quali lo sviluppo di proteinuria e l’ipertensione, che si è visto essere frequenti dopo IRA, e che rappresentano i principali fattori di rischio di progressione verso la CKD [49] [50].

D) La formazione professionale

Sicuramente il processo di miglioramento deve partire dagli strumenti già a disposizione, e fra questi la formazione e le capacità professionali di chi è chiamato ad erogare l’assistenza.

La conoscenza, il “professional skill”, è un elemento fondamentale: Stevens ha osservato che i pazienti con IRA ricoverati in ambiente chirurgico, invece che medico, erano sottoposti un minore intervento diagnostico per immagini e studio dell’equilibrio acido-base, evidentemente perché le competenze chirurgiche e mediche sono differenti [51] (full text).

Il gruppo di Aitken [52] (full text) ha studiato la qualità del processo assistenziale valutando il ritardo del riconoscimento dell’insufficienza renale acuta ed i provvedimenti terapeutici. Essi hanno osservato che in circa la metà dei pazienti il ricovero in ospedale avveniva al di fuori del normale orario lavorativo, e che circa il 30% di essi veniva inizialmente valutato da giovani medici con meno di due anni di esperienza. Il ritardo nella diagnosi di IRA era presente nel 25% circa dei casi, e le cause erano state studiate in circa il 50% dei pazienti. Fra esse: inesperienza clinica (10.7%); inadeguata revisione clinica del caso (21.45); inadeguata osservazione (7.1%); inadeguate indagini diagnostiche (14.3%) e revisioni cliniche non frequenti (3.6%).

Muniraju [53] ha condotto uno studio nell’area di Newcastle e sembra confermare il deficit di conoscenze nei medici in formazione delle discipline di medicina non specialistica, indicando la necessità di implementare l’attività educazionale e con questa rivedere gli aspetti organizzativi. Bond asserisce che questo fenomeno non è presente solo nei giovani medici, ma anche nei professionisti non specialisti più anziani [54]. Conway [55] ha osservato che nell’ambito dei ricoveri per urgenze/emergenze mediche la competenza clinica definita sulla base degli anni di esperienza correla inversamente con la mortalità e la durata del ricovero ospedaliero. Questo potrebbe essere applicabile anche all’insufficienza renale acuta, se si considera che in questi casi il ricovero che avviene durante il fine settimana rappresenta un fattore di rischio indipendente di mortalità, particolarmente nei piccoli e medi ospedali [56] (full text). Evidentemente queste strutture hanno a disposizione meno risorse, ed il personale esperto potrebbe essere meno presente sabato e domenica, spiegando quindi la maggiore mortalità. Il fenomeno è presente non solo nel caso dell’insufficienza renale acuta, ma in generale nei pazienti particolarmente gravi [57] (full text) [58] [59] (full text). Questa ipotesi sembra essere confermata da Wilson: a differenza di altri studi non osserva un aumento della mortalità nei pazienti ricoverati per insufficienza renale acuta la domenica, ma questo potrebbe essere spiegato dal fatto che lo studio è stato condotto in un ospedale universitario dove il nefrologo era presente e dove la dialisi poteva essere iniziata in qualsiasi momento, sette giorni su sette della settimana [60] (full text).

E) Il Volume di attività

Tutti gli ospedali sono uguali nella capacità di assistere i pazienti con AKI? Esiste una relazione fra volume di attività ed esito clinico? Lo studio di Vaara, anche se condotto nelle terapie intensive, mostra che la mortalità nei pazienti critici con Insufficienza Renale Acuta è maggiore nelle strutture piccolo-medie [61]. Bell ha eseguito un’indagine nel Regno Unito che ha mostrato una minore mortalità ed un minor tasso di re-ospedalizzazione negli ospedali di maggiori dimensioni con un alto volume di ricoveri per pazienti acuti e con elevato numero di consulenti specialisti esperti [62] (full text). Questo studio analizza il ruolo che ha una buona organizzazione, caratterizzata da un ciclo di lavoro continuo, cioè una continuità assistenziale, e dalla presenza di specialisti esperti. Oh e collaboratori hanno osservato che se il team nefrologico è ben formato, cioè se i medici ed infermieri sono adeguatamente esercitati per affrontare questa patologia sia nel percorso diagnostico che terapeutico, la mortalità nei pazienti critici è ridotta[63] (full text).

F) Il modello “close staff”

Il concetto chiave è quello di un team di esperti dedicati, quello che si chiama “close-staff model”. L’insufficienza renale acuta è un evento che coinvolge vari organi e sistemi, dove training e capacità professionali non omogenee all’interno del gruppo di lavoro possono indure ad un differente approccio diagnostico, gestione dei liquidi e della terapia farmacologica, strategie nutrizionali, decisione su quando e come iniziare o quando sospendere la terapia sostitutiva, e per ultimo proporre, o non proporre, un adeguato monitoraggio post dimissione dei pazienti. Già quasi 30 anni fa lo studio di Held [64] mostrava che una organizzazione di tipo “open-staff”, dove più medici e con differente capacità ed esperienza partecipavano al processo assistenziale del nefropatico, si traduceva in una aumentata mortalità ospedaliera. Il paradosso che potrebbe porsi è che di fronte alla richiesta di un reparto non specialistico della consulenza per un paziente con insufficienza renale acuta vari specialisti, con più o meno esperienza, si alternano nel processo di consulenza apponendo suggerimenti, diagnosi o giudizi finanche discordanti in quanto un processo di revisione clinica comune, alla presenza di esperti, non viene effettuato. Il reparto di Medicina Generale, od il reparto specialistico che si occupa di altre patologie, affida quindi parte importante del processo assistenziale non ad un gruppo ristretto di nefrologi, esperto per settore come l’IRA, ma ad un gruppo allargato che potrebbe suggerire percorsi discordanti.

Questa ipotesi è stata testata dal nostro studio prospettico monocentrico eseguito a Perugia, in fase di pubblicazione, presentato in via preliminare al congresso ERA-EDTA 2016; esso confronta pazienti non critici affetti da IRA necessitante del trattamento dialitico ricoverati in Nefrologia e presso le Medicine della stessa Azienda Ospedaliera. I pazienti sono stati divisi in due gruppi attraverso un incrocio tipo “propensity score” con rapporto 1:1, dove venivano considerati i vari fattori di rischio di mortalità per patologia acuta e le comorbidità, al fine di rendere omogenei i due gruppi studiati e di ridurre il rischio di bias statistici dovuto ai motivi del ricovero ospedaliero. I risultati dello studio hanno indicato che i pazienti ricoverati presso le Medicine avevano un rischio relativo indipendente di mortalità di oltre due volte superiore rispetto ai pazienti ricoverati presso la Nefrologia. Il modello organizzativo era differente, “open-staff” per le Medicine, “close-staff” per la Nefrologia [65].

È quindi fondamentale l’adozione di un approccio quanto più basato sulla collaborazione fra specialisti di discipline diverse, convergenti nel loro interesse nei confronti di una problematica clinica comune.

Un esempio appropriato dei risultati positivi ottenuti da un approccio multidisciplinare specializzato ci proviene dalla riduzione dell’incidenza di IRA da mezzo di contrasto che è stata ottenuta con l’utilizzo di protocolli di prevenzione attuati in condivisione tra cardiologi e nefrologi [65] [66].

G) La revisione critica dell’attività svolta

Per tutte le attività è necessario monitorare nel tempo se gli obiettivi sono stati raggiunti, e per questo è necessario raccogliere dati, analizzarli, proporli, ed alla fine confrontarsi con i vari soggetti attori per adottare le strategie tese al miglioramento. Per quanto riguarda l’insufficienza renale acuta in Italia non è presente un registro nazionale, per cui dati quantitativi sull’incidenza non sono disponibili, così come non lo sono i dati qualitativi sull’esito del processo assistenziale e sulla verifica dei vari processi interni all’organizzazione sanitaria che eroga il servizio. I pochi dati epidemiologici riguardano popolazioni selezionate per patologie [67] [68] [69] [70], studi monocentrici [31] e studi condotti sulle terapie intensive [30] [71] (full text) [72] (full text). Quest’aspetto non è secondario se si considera l’effetto sulla salute del cittadino e sui costi sociali. Di grande interesse sono invece i report inglesi effettuati su larga scala. In particolare nel 2009 è stato publicato il “National Confidential Enquiry into Patients Outcome and Death – a review of the care of patients who died in hospital with a primary diagnosis of acute kidney injury” (NCEPOD) da J. Stewart, G. Findlay, N. Smith, K. Kelly e M. Mason [73]. Lo scopo di questo studio i cui dati riguardano l’anno 2007, nell’intervallo 1 gennaio-31 marzo, era quello di esaminare il processo assistenziale nei pazienti deceduti negli ospedali inglesi in seguito ad IRA, analizzando i dati forniti da parte di una commissione di esperti. Il risultato è interessante ed importante per la progettazione della organizzazione dei servizi ospedalieri. Se analizziamo il dato “possibilità di evitare lo sviluppo di IRA”, secondo NCEPOD esso era circa il 14%, e nel nostro studio di Perugia[31] si osservava che il 13% dei pazienti con IRA che necessitavano il trattamento dialitico avevano come causa di malattia deidratazione e concomitante uso di farmaci anti-infiammatori non steroidei e/o inibitori del sistema renina-angiotensina – casi in cui poteva evitare lo sviluppo di AKI grave se appropriatamente seguiti dal medico. Questa è la dimostrazione che la revisione ed il confronto appaiono essere necessari nella pratica medica per capire gli errori. Sempre dai dati NCEPOD il 47% dei pazienti veniva inizialmente valutato da medici con formazione nefrologica non avanzata, e solo il 47% di essi mostrava una buona pratica clinica, ma dato ancor più interessante è che la buona pratica clinica era presente solo nel 65% dei medici più anziani, quindi specialisti con maggiore esperienza clinica.

Per quanto riguarda l’intervento del nefrologo, una buona pratica clinica era presente nel 54% dei casi, e nel 60% delle prescrizioni della terapia sostitutiva.

Qual è la validità e l’utilità di una revisione critica di un report come quello del NCEPOD? Innanzitutto è la verifica di cosa e di come si sta facendo, perché questo è il senso dell’audit clinico, da cui deriva lo “spazio per il miglioramento” sia “clinico” che “organizzativo”. Ed in effetti lo studio NCEPOD riporta per ogni singolo aspetto il “room for improvement – clinical/organisational/clinical&organisational”. Inoltre da quest’attività di revisione derivano le “linee guida” o le “migliori pratiche cliniche” cui dovrebbero riferirsi sia i singoli specialisti che chi ha il compito di progettare l’organizzazione. Nel report NCEPOD sono riportate le raccomandazioni che riguardano la pratica del singolo professionista, come lo studio dei fattori di rischio, e dell’equilibrio acido-base, ma soprattutto sono indicati gli aspetti organizzativi: 1) un ricovero per un problema clinico acuto deve ricevere la adeguata revisione di uno specialista esperto entro 12 ore, 2) devono essere presenti in ospedale un numero sufficiente di posti degenza in terapia intensiva e nel reparto di nefrologia, 3) le unità interessate all’assistenza del paziente con insufficienza renale acuta devono essere in grado di erogare la appropriata terapia dialitica in ogni momento, 4) gli ospedali per acuti devono avere il nefrologo o un servizio nefrologico a distanza adeguata, e 5) devono avere la possibilità di eseguire un’ecografia renale 7 giorni su 7. Sono quindi delle indicazioni organizzative importanti ma tarate su quanto era disponibile come conoscenza nel 2009.

H) I costi

L’insufficienza renale acuta ha dei costi notevoli, che sono legati alla durata del ricovero ospedaliero, necessità di terapie intensive, costi di dialisi in acuto e cronico per i pazienti che sopravvivono, costi per disabilità a lungo termine. Lo studio eseguito da Kerr [21] (full text) stima che il costo annuo per la cura ospedaliera dell’insufficienza renale acuta si attesta circa al 1% del budget del sistema sanitario nazionale. La stima si riferisce ai pazienti incidenti negli anni 2010-2011, ed i dati epidemiologici ci dicono che la casistica è in incremento rapido, per cui potremmo ipotizzare una spesa al 2015 tra 1,5 e 2% del budget.

Anche se il punto di vista è molto ampio, su scala mondiale e pertanto non applicabile alla realtà europea, lo studio di Susantitaphong [20] (full text)dimostra che con l’aumentare del rapporto percentuale spesa sanitaria/prodotto interno lordo diminuisce la mortalità per AKI, per un incremento del 1% del rapporto si osserva una diminuzione del 1,36%. L’Italia ha un rapporto Spesa Sanitaria/PIL fra i più bassi in Europa, fra 15 paesi è al terz’ultimo posto con il 9,1% circa, seguita da Irlanda e Spagna. Questo significa senza dubbio riorganizzare il modello assistenziale sfruttando al massimo le risorse già disponibili, ma anche investire ora per non investire nel futuro quando le complicazioni dell’AKI peseranno sulle patologie croniche.

I) Il modello organizzativo attuale

Il decreto Balduzzi stabilisce una nefrologia ogni circa 600.000 abitanti, e di conseguenza esse dovrebbero essere circa 110 mentre oggi ne sono censite 315 (dati presentati a Rimini congresso SIN 2015).

Di esse, sempre secondo i dati del censimento 142 hanno degenze autonome, mentre solo 42 hanno la guardia h24. In questa realtà si potrebbe ipotizzare la realizzazione di un sistema a rete nodale, del tipo “Hub e Spoke”, che permetta, anzi obblighi, ad inviare pazienti acuti in centri di rifermento. Altro dato che emerge dai dati del censimento è che solo un terzo dei trattamenti per acuti è effettuato in terapie intensive e quindi i due terzi sono svolti nelle nefrologie, che però hanno solo 43 posti attrezzati. Se ne deduce che la maggior parte dei trattamenti sono effettuati in sala dialisi normale, dove manca tutto il materiale necessario per la sorveglianza di un paziente con IRA.

Altra considerazione è da fare per l’IRA che NON richieda dialisi. È stato sopra esposto come la diagnosi di IRA sai negletta, non segnalata e quasi mai riconosciuta. Spesso il non riconoscimento è dovuto al mancato coinvolgimento del nefrologo, e quando questo avviene, l’intervento è tardivo con conseguenze alle volte tragiche [74]. Molte volte la dialisi è il punto finale di un’IRA non riconosciuta o riconosciuta tardivamente con spese in termini sociali, economici ed organizzativi. Anche le diagnosi ICD9 sono mancanti. Un lavoro non ancora pubblicato, ma presentato a Rimini durante il congresso della Società Italiana di Nefrologia del 2015 e disponibile nello slide kit di Grandagolo 2016, Guastoni [75]segnalava che valutando l’IRA tramite ICD9 in Lombardia si avevano circa l’1% di incidenza sul totale dei ricoveri lombardi, mentre un’indagine sull’ospedale di Legnano, utilizzando dati di laboratorio, si era potuto osservare che circa il 43% dei pazienti avevano una qualche grado di insufficienza renale acuta. Questa discrepanza è un dato preoccupante che impone nuovi modelli, partendo dal riconoscimento del ruolo del nefrologo.

In conclusione

L’insufficienza Renale Acuta è una patologia con incidenza in aumento, accompagnata ad elevata mortalità e disabilità residua, presente per un terzo circa nelle terapie intensive e per i rimanenti 2/3 negli altri reparti ospedalieri.

In Italia non sono presenti sistemi di rilevamento epidemilogico su larga scala che potrebbero dare indicazioni sulle necessità d’investimento specifico.

Questo è un aspetto importante da considerare e risolvere.

Sicuramente il processo di miglioramento dell’esito assistenziale non è dovuto esclusivamente all’aggiornamento tecnologico, cioè alle tecniche dialitiche, ma è legato ad una riorganizzazione strutturale dei servizi dedicati, così come ad una implementazione della conoscenza e capacità professionale.

I settori su cui lavorare sono la creazione di centri di riferimento deputati a trattare l’IRA, dotati di adeguati posti letto e volumi di attività, dotazioni strumentali diagnostiche e personale formato presente 24 ore per 7 giorni la settimana. Possono essere messi in atto processi informatici di rilevazione precoce della patologia, processi di monitoraggio come i registri, attività di revisione clinica, attività di follow-up dedicato post dimissione.

Questo significa probabilmente un costo maggiore nel breve termine ma un minore impegno di risorse nel medio-lungo termine, e soprattutto un migliore trattamento ed una migliore prognosi per i pazienti che incorrono in un danno renale acuto.

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[73] http://www.ncepod.org.uk/2009report1/Downloads/AKI_report.pdf

[74] Antonino Cartabellotta, Biagio Di Iorio: Diagnosi e valutazione dell’insufficienza renale acuta. Evidence 2014;6(2): e1000068 doi: 10.4470/E1000068

[75] https://askit.accmed.org/grandangolo-2016-in-nefrologia-dialisi-e-trapianto

Tabella 1
Fattori che possono portare al miglioramento della prognosi dell’Insufficienza Renale Acuta: Competenze del medico e dell’organizzazione sanitaria

Competenze del Nefrologo
  • Conoscenza epidemiologica
  • Riscontro precoce della patologia
  • Esperienza clinica:

basi fisiopatologiche

capacità diagnostiche

capacità terapeutiche

  • Volume di attività adeguato
  • Conoscenza delle tecniche di lavoro in team
  • Aggiornamento specifico continuo
Competenze della organizzazione
  • Definire le corrette procedure assistenziali
  • Definire le linee guida
  • Capacità di garantire la consulenza nefrologica a tutti i pazienti affetti da IRA
  • Capacità di garantire precocemente la possibilità dell’intervento specialistico nefrologico
  • Presenza del Nefrologo durante le 24 ore di 7 giorni la settimana
  • Capacità di diagnostica ecografica durante le 24 ore di 7 giorni la settimana
  • Riferimento della casistica presso centri ospedalieri ad elevata complessità assistenziale ed elevato volume di attività (HUB & SPOKE)
  • Modello di organizzazione tipo “close staff”
  • Capacità di garantire il follow-up post-dimissione in ambulatorio dedicato
  • Formazione continua

Programmazione del ricambio generazionale degli specialisti medici ed infermieri del Team

Revisione: discussione dei casi affrontati dall’equipe con specialista esperto, in ambito multidisciplinare quando indicato

  • Audit: verifica dell’andamento epidemiologico e dei risultati aziendali ottenuti – analisi delle criticità.