Gentili Signore e Signori,
Sono Reginald Green, il papà di Nicholas Green, il bambino Californiano di 7 anni che fu colpito da un proiettile ed ucciso durante un tentativo di rapina lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria nel 1994 e i cui organi e cornee furono donati a sette persone molto malate.
Nei successivi dieci anni i tassi della donazione degli organi in Italia, che erano stati i più bassi dell’Europa Occidentale con l’eccezione della Grecia, triplicarono. Ovviamente un incremento di tale portata deve avere un certo numero di cause, ma poiché nessun’altra nazione al mondo è andata neanche vicina ad un così eclatante tasso di crescita, appare chiaro come la storia di un bambino, ed il modo in cui sua madre Maggie ed io abbiamo l’abbiamo raccontata a platee di ogni strato della società, inclusi i più conosciuti chirurghi dei trapianti, politici locali e nazionali, parroci di campagna e cardinali, bambini delle elementari, sia stata la ragione preminente. Ovunque abbiamo raccontato la stessa storia; e ovunque, chi l’ha ascoltata, vi ha trovato qualcosa di rilevante per le proprie credenze.
Spero che perdonerete questa auto-promozione ma volevo stabilire il contesto per la campagna che abbiamo lanciato l’anno scorso per una discussione nazionale riguardo al fatto se la clausola sulla privacy che regola la donazione degli organi stia apportando più male che bene.
L’attenzione pubblica stimolata dalla campagna ha portato il Centro Nazionale Trapianti a ricorrere al parere del Comitato Nazionale di Bioetica. Qui sotto ci sono le prove che vorrei sottoporvi e che spero possano aiutare a guidare il Comitato verso una soluzione dei problemi delle famiglie dei donatori di organi e i loro riceventi che vogliono comunicare fra loro, ma non hanno la possibilità di farlo sotto le norme attuali – neanche tramite lettere anonime. Vi ringrazio per questa opportunità.
Credo che l’articolo della legge quadro che regola la donazione degli organi (n.91/99, art. 18) e che riguarda la privacy delle famiglie coinvolte in un trapianto e che è stata all’epoca emanata con le migliori intenzioni stia nuocendo alla salute e alla felicità di famiglie che sono molto vulnerabili. Negare alle famiglie dei donatori ed ai riceventi l’opportunità di avere un contatto fra loro li priva anche di un’esperienza che molte migliaia di quelle che lo hanno avuto descrivono come uno degli eventi più gratificanti delle loro vite. Sia terapeutico che edificante.
Da un lato ci sono le famiglie dei donatori che hanno sofferto l’improvvisa perdita di uno dei loro membri, spesso in circostanze tra le più angosciose – violenza, suicidio, insensati incidenti stradali – e che spesso coinvolgono donatori che sono dolorosamente giovani. Eppure, in un momento in cui la tentazione di rinchiudersi in se stessi o nell’amarezza era quasi irresistibile, hanno steso le braccia e hanno salvato la vita di persone che non avevano mai incontrato. Si tratta chiaramente di persone forti, ma quei tragici ricordi sono con loro ogni giorno.
Dall’altra parte ci sono riceventi che hanno resistito a malattie quasi terminali, spesso per anni, non sapendo mai se si sarebbero svegliati il mattino successivo. In aggiunta a questa costante tensione, non avevano il minimo controllo sul quando o se si fossero salvate. Il loro sollievo, la gratitudine al ricevere un trapianto è sempre temperata dal sapere che i loro corpi, già indeboliti dalla malattia originaria, combattono una battaglia senza fine di fronte alla possibilità di rigetto del loro nuovo organo contro cui potrebbero soccombere in qualsiasi momento.
Mi sembra evidente che negare a queste persone qualcosa che vogliono, spesso ferventemente, dovrebbe essere fatto solo quando esiste la grande possibilità che realizzare i loro desideri farebbe con certezza loro male in modo significativo.
Mi riferisco solo a quelle famiglie che hanno espresso il desiderio di comunicare con l’altra parte. Le famiglie che vogliono essere lasciate sole e mettersi il trapianto alle spalle devono – assolutamente – avere garantita la loro privacy.
Attualmente, alle famiglie dei donatori vengono date solamente le informazioni di base sui riceventi, come l’età e il sesso e se il trapianto ha funzionato. La connessione con i riceventi finisce qui, fredda ed impersonale. Possono solo immaginare come siano le vite di coloro le cui vite hanno salvato e quello che immaginano è spesso molto diverso dalla realtà. Per il resto delle loro vite, vivranno nell’ignoranza. Per alcuni di loro questa è una vita di cronico malessere. Altri sono pervasi da un sentimento che la loro esistenza sia incompleta.
I riceventi spesso soffrono di un senso di colpa, a volte forte, sapendo che sono vivi solo perché qualcun altro è morto. Alcuni naturalmente rifuggono dall’incontrare la famiglia del proprio donatore. Altri invece non desiderano nient’altro al mondo che l’opportunità di ringraziarli direttamente.
Nella pratica, ad alcune famiglie vengono date maggiori informazioni che ad altre – alcuni medici dei trapianti mi hanno detto che piegano un po’ la legge. Ad altre famiglie invece non viene detto proprio nulla. Trovo difficile difendere un sistema dove famiglie diverse sono trattate così difformemente su una materia che è di tale profondo interesse per loro.
Fino a pochi mesi fa, la visione quasi universale di molti dirigenti della comunità del settore sanitario era che un cambiamento della legge che impedisce al personale sanitario di divulgare nulla se non le informazioni più basilari era fuori questione. Non solo questo. Molti affermavano che qualsiasi contatto fra le due parti potesse generare dei seri danni psicologici alle famiglie coinvolte.
Solo un anno fa, le richieste anche solo di discutere questa materia erano trattate come un’irritante intromissione dilettantesca. Lo so perché è così che sono state trattate le mie. Per 23 anni mi sono astenuto dal parlare di questa materia perché, in quanto straniero, pensavo che data questa opposizione il mio intervenire potesse nuocere alla causa di una riforma.
Proprio in questo periodo, comunque, è accaduto qualcosa che ha fatto comprendere a milioni di persone che un articolo della legge del 1999 stava nuocendo alle stesse persone che intendeva aiutare.
Ciò che ha cambiato questa cosa è stato un articolo del BBC World Service sulla morte di Andrea Mongiardo, il ricevente del cuore di mio figlio, che raccontava come, sebbene prima di ricevere il trapianto, quando aveva 15 anni, “lottasse per sopravvivere” (come disse il suo medico), dopo aveva invece goduto di ulteriori 22 anni. Il servizio della BBC ha prodotto 4 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo. Ci hanno scritto persone dall’Uruguay e dall’India. Nel primo giorno di pubblicazione in Brasile, quarantamila persone l’hanno letto online.
È stata una cosa enorme, ovviamente, ma in sé solo uno dei notevoli risultati dell’interesse che la storia di Nicholas ha suscitato dal giorno in cui è stato ucciso. (Un film per la televisione, “Il Dono di Nicholas”, con Jamie Lee Curtis ed Alan Bates, basato su un libro che ho scritto, è stato visto da più di 100 milioni di persone nel mondo). Quello che ha fatto la differenza sostanziale questa volta è che fra le persone che hanno letto l’intervista online c’è stata una coppia inglese, David e Debbie Marteau, il cui figlio ventunenne Jack era rimasto ucciso durante un investimento con omissione di soccorso a Palermo, e che è rimasta colpita dalle similitudini tra la loro situazione e la nostra. Diversamente da noi, però, il cui recupero era stato aiutato dall’incontrare tutti i riceventi di nostro figlio, loro erano affranti perché non potevano ottenere nessuna informazione sui loro riceventi, neanche l’età o se fossero ancora vivi.
Così, all’epoca mi hanno chiesto se potevo aiutarli, e insieme a uno o due amici Italiani con cui lavoro da anni per promuovere la donazione degli organi, abbiamo provato a cercare anche un brandello di informazione a cui i Marteau potessero aggrapparsi, ovunque potessimo pensare avremmo potuto trovarlo. Come è stato per loro, anche noi ci siamo scontrati contro un solido muro. Alcune persone del mondo della Sanità sembravano persino spaventate di parlarci di questa cosa.
Quel muro di mattoni è più lungo ed alto di quanto si pensi. Di fatto, lo stesso manto di segretezza è accaduto a Maggie ed a me. Poiché Nicholas fu ucciso cinque anni prima dell’emanazione della legge del 1999, siamo riusciti a mantenere una relazione con i suoi riceventi che ha arricchito tutte le nostre vite. (Una dei riceventi ha anche chiamato il suo primo figlio ‘Nicholas’). Così, abbiamo visto con i nostri occhi il risultato del sacrificio di nostro figlio e trovo impossibile descrivere quanto queste relazioni abbiano significato per noi: con alcuni di loro queste relazioni sono state più strette che con altri, proprio come le amicizie in un gruppo di persone, ma abbiamo potuto vedere in tutti loro la vita che altrimenti non sarebbe stata possibile se avessimo preso una decisione diversa.
Da parte loro, i riceventi hanno constatato in prima persona che non ce l’abbiamo con loro perché sono vivi, e che di fatto non possono farci regalo più grande che quello di vivere una vita felice ed in salute. È stato il miglior tonico che loro potessero avere.
Parecchi anni fa, in ogni modo, ci siamo preoccupati non avendo più avuto notizie da una di loro da molto tempo. Ho provato più volte a scoprire se le fosse accaduto qualcosa. Nessuno sembrava avere alcuna informazione. “Non possiamo aiutarvi”, ci fu detto. “La legge dice che qualsiasi contatto tra le due parti è illegale”. Questo era notevolmente inesatto – la legge impediva solo il rilascio di informazioni – ma questo è quanto la maggior parte delle persone credeva. Ed in questo caso, veniva applicata persino se già conoscevamo il ricevente! In seguito abbiamo scoperto che la ragazza era morta, ma solo perché ho incontrato un dottore che la conosceva e che era disponibile a parlare – un evento fortuito che nessuna famiglia italiana può attendersi ed un altro esempio della casualità di come le diverse famiglie siano trattate. Maggie ed io siamo stati rattristati dalla notizia, ma non è mai venuto in mente a nessuno di noi di pensare che il dono di Nicholas fosse andato perso: ricordo come fosse raggiante quando la incontrammo due anni dopo il trapianto e le diedi uno dei nostri gemelli da prendere in braccio.
Queste sono state quindi le circostanze in cui pensai di contattare il Giornale Italiano di Nefrologia, dove conoscevamo due medici dalla mente aperta, il Prof. Natale De Santo ed il Dott. Biagio Di Iorio. Loro furono disponibili a considerare la pubblicazione di un mio articolo finalizzato ad aprire una discussione nazionale sull’articolo 18 della legge sui trapianti, che fu pubblicato nel luglio 2017. Lo inoltrai ad alcune delle maggiori testate in Italia (tra le altre l’Ansa, Il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Giornale, Libero, Vanity Fair, la RAI con UnoMattina) le quali hanno tutte valutato, sebbene diverse fra loro per tipologia di lettori/spettatori, che la materia fosse di sufficiente interesse pubblico da coprirla con articoli e servizi di primo piano.
Attraverso questi articoli ed un ulteriore gruppo di piccoli giornali, siti web, pagine Facebook e social media, milioni di Italiani hanno appreso, generalmente per la prima volta, che c’era un aspetto cupo in materia di privacy, nella donazione, e molti ne sono rimasti turbati.
Fino a questo punto, l’opinione medica dominante era rimasta dell’idea che qualsiasi contatto potesse causare degli sconvolgimenti emotivi. Alcuni avevano paura che questo sarebbe successo se le famiglie avessero scoperto che l’altra parte non viveva all’altezza delle proprie aspettative. Alcuni parlavano del rischio che la famiglia del donatore potesse chiedere del denaro al ricevente. Altri dicevano di temere che la salute della famiglia del donatore ne avrebbe sofferto se fosse morto il ricevente.
Non ho mai visto alcuna prova statistica di questi timori. Una manciata di incidenti vengono raccontati vagamente, ma solo una manciata – e finora anche questi sono tutti anonimi e non possono essere controllati. Sono anche vaghi, senza quei dettagli di cui qualsiasi medico avrebbe bisogno per fare anche solo una diagnosi preliminare. Anche tra questi pochi, la maggior parte se non tutti devono essere avvenuti prima del 1999, quando le tecniche per eliminare i rischi nei contatti fra le parti erano ancora agli albori. Infine, e significativamente, queste erano esattamente le stesse paure espresse trent’anni fa negli Stati Uniti prima che i contatti divenissero invece la norma. Questi timori si sono dimostrati enormemente esagerati. Nella stragrande maggioranza delle migliaia e migliaia di casi nei contatti negli Stati Uniti, per le famiglie di ogni tipo – di ogni età, religione, e colore – i risultati sono stati terapeutici per entrambe le parti. Questa è una prova statistica che manca nel caso di chi si oppone ai contatti.
No, questo non avviene perché gli Americani o i loro sistemi differiscono così tanto dai loro corrispettivi Italiani. Infatti una grande parte delle famiglie la cui salute e felicità è stata aiutata dal contatto con l’altro lato è di origine italiana.
Nelle ultime settimane ne abbiamo avuto una prova lampante. Tre fra i chirurghi italiani dei trapianti più rinomati che lavorano negli Stati Uniti – i Professori Ignazio Marino, Cataldo Doria e Cristiano Quintini – hanno fatto delle dichiarazioni fortemente a favore dei contatti (Vedere l’allegato B). La loro testimonianza è importante ovviamente, perché hanno potuto vedere da sé i risultati di una pratica più liberale.
Il secondo argomento principale di coloro che si oppongono al cambiamento è che ricevono solo poche richieste dalle famiglie italiane e concludono quindi che non siano interessate. Credo che l’enorme numero di tali richieste negli Stati Uniti, dove i contatti sono permessi, sia una risposta sufficiente.
Oltre a questo, per favore domandatevi: se non conosceste nessuno che ha avuto un tale tipo di contatto, e vi fosse stato detto che i contatti erano vietati ed il vostro dottore vi avesse detto che tali contatti possono causare un notevole disagio emotivo all’altra parte, voi – o chiunque altro conoscete – avreste richiesto con insistenza al vostro ospedale, o al Centro Nazionale Trapianti un’esenzione alle regole che si applicano a tutti gli altri?
Le organizzazioni che più di qualsiasi altre al mondo hanno avuto la maggior esperienza su come hanno funzionato le comunicazioni fra le due parti di un trapianto sono le 58 Organ Procurement Organizations (OPOs) che negli Stati Uniti sono responsabili di fronte al Governo per la supervisione della donazione degli organi nei loro Stati o aree di competenza: queste coprono ogni tipo di paziente immaginabile e lavorano a stretto contatto con ogni tipo di ospedale, dalle piccole unità rurali fino ai centri trapianti più avanzati del mondo; tra di loro ci sono la Cleveland Clinic, la University of Pennsylvania Medical Center, la Mayo Clinic, i centri medici della University of California a Los Angeles e San Francisco e così via.
Ognuna di queste OPO, che può coprire un’area con una popolazione di milioni di abitanti, non solo sostiene i contatti tra le parti, ma li incoraggia. In un (Allegato A), ho elencato i commenti di un campione dei CEO di queste organizzazioni su come i contatti funzionano nei loro Stati. Come potrete vedere, uno di loro dice che la metà dei riceventi nella loro zona popolosa ha avuto contatti con la famiglia del loro donatore; un altro dice che in 38 anni riesce a ricordare sono due casi dove le parti si sono incontrate e ci sono stati problemi significativi – due in 38 anni!; un terzo afferma che nella sua area, che ha una popolazione equivalente ad un quarto quella dell’Italia, ogni anno vengono scambiate 1200 lettere fra le parti.
Questi grandi numeri hanno sorpreso ogni italiano a cui li ho mostrati e dietro la maggioranza di questi numeri ci sono storie profondamente personali di soddisfazione all’avere avuto ed avere un contatto. L’allegato C e l’allegato D ne sono un esempio. Se i membri del comitato volessero maggiori dettagli, sarei felice di fornire loro gli indirizzi e-mail delle persone di riferimento presso ognuna delle 58 OPO.
So, ovviamente, che quello che può funzionare bene in una nazione non necessariamente può essere trasferito nella totalità dei dettagli in un’altra. Ma il dolore americano non è così dissimile da quello italiano per cui un sistema che funziona con un così evidente successo non possa essere adattato da un’altra parte.
Nel frattempo, mentre i media ed il pubblico hanno osservato la problematica più da vicino, si sono accumulate le prove dei problemi psicologici delle famiglie a cui non è stato permesso contattarsi l’un l’altro a causa della clausola sulla privacy. In un caso ben pubblicizzato, Mario Bartoli, un operatore portuale in pensione di Livorno, è diventato talmente ansioso di sentire battere ancora il cuore del figlio 17enne che ha lanciato una campagna pubblica per trovare il ricevente – solo per scoprire dopo un lungo periodo che questo era già deceduto, un risultato straziante per tutte le persone coinvolte. Una petizione lanciata da Marco Galbiati, di Lecco, per modificare la legge del 1999, per incontrare tutti i riceventi degli organi di suo figlio quindicenne Riccardo, ha raccolto più di 38000 firme in poche settimane, un risultato sorprendente per un uomo che ha lavorato largamente da solo su una materia, la donazione degli organi, a cui la maggior parte delle persone raramente, se non mai, pensa. Dall’altra parte, la bellissima relazione tra Fabrizio Frizzi e Valeria Favorito a cui donò il suo midollo osseo ha mostrato a tutta l’Italia quanto di conforto possano essere questi contatti, anche quando qualcuno muore.
La mia sensazione è che la legge non abbia bisogno di essere cambiata. Tenendo a mente che questa impedisce al personale sanitario solamente di rivelare informazioni personali, le autorità avrebbero bisogno di seguire semplicemente il sistema che ha passato il test del tempo in America.
Il personale potrebbe dire alle famiglie che se lo vogliono possono scrivere delle lettere anonime alla controparte, lettere che saranno monitorate dagli ospedali (o qualcun altro) per assicurarsi che non possa nascere alcun problema (come un’indebita intensità di emozioni). Se l’altra parte non desidera rispondere, il processo si ferma lì e nessuno ha idea dell’identità dell’altro – proprio come ora. Qualora invece la famiglia volesse rispondere, continuando la corrispondenza, risponderà anche essa in modo anonimo ed anche in questo caso sorvegliata dall’ospedale. Se tutto va bene, come accade generalmente, la conversazione fra le parti può procedere con lettere firmate, forse telefonate ed eventualmente, ma solo se entrambi lo vogliono e sono totalmente a proprio agio con questa cosa, con incontri di persona. Trovo difficile immaginare una famiglia, che è consapevole che il centro trapianti la controlla, e che si comporta in modo inappropriato in queste condizioni. E qualora lo dovesse fare, l’intero sistema sanitario potrebbe far valere la sua forza per mettere fine a questa situazione.
Le cose possono andare male? Certamente, cosa può non andare male nella vita? Ma potete immaginare che tonico possa essere ricevere anche solo una lettera anonima da un ricevente che dice “Ho ricevuto un nuovo cuore, grazie a voi. Mi dispiace per la vostra perdita. Ma volevo sapeste cosa avete fatto per me: prima del trapianto potevo a malapena camminare fino alla porta del mio appartamento. Ora posso di nuovo giocare a calcio ed ho un lavoro.”
A proposito, questa non è un’invenzione. Queste parole, o qualcosa di molto simile, hanno portato sollievo a migliaia di famiglie donatrici. E, di fatto, è quello che il ricevente del cuore di Nicholas ci ha detto essere successo a lui.
Reg Green, maggio 2018 (rfdgreen@gmail.com)
Nota: Non so se i membri del comitato sono a conoscenza che anni fa abbiamo costruito un monumento commemorativo dedicato ai bambini a Bodega Bay, in California, dove vivevamo con Nicholas. Il pezzo centrale è una magnifica campana che Papa Giovanni Paolo II autorizzò la Fonderia Marinelli a costruire e che lui benedisse prima che fosse spedita dall’Italia. Sopra ci sono incisi i nomi di Nicholas e dei sette riceventi. La torre campanaria fu inaugurata tre anni prima dell’emanazione della legge del 1999, ma il Papa evidentemente riteneva che il fatto che le due parti di un trapianto si conoscessero fosse un’esperienza edificante.