Introduzione
In due recenti messaggi pubblici Papa Francesco ha rimesso al centro del dibattito la questione della proporzionalità delle cure (discorso rivolto ai partecipanti al meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questioni del fine-vita, Roma 16 novembre 2017) e quella dei limiti del sapere tecnico-scientifico (discorso rivolto ai partecipanti alla plenaria del Pontificio consiglio della cultura, Roma 18 novembre 2017).
E, come spesso purtroppo succede nel nostro Paese, le parole del Santo Padre sono state oggetto, nell’immediato, di una non innocente strumentalizzazione politica soprattutto da parte di chi premeva sull’approvazione di quella proposta di legge (d.d.l. recante ‘Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento’) già licenziata dalla Camera ma in quel momento non ancora arrivata alla discussione in Senato; portandoci, addirittura, a credere che, in vista della prossima tornata elettorale, il ricompattamento del centro-sinistra italiano lacerato da profonde ed insanabili contraddizioni interne nonostante la messa in campo di improvvisati mediatori, sarebbe potuto avvenire a condizione che fosse finalmente approvata (oltre a quella riguardante lo ius soli) la legge sul biotestamento.
Anche se i suoi contenuti nulla hanno a che vedere con le idee espresse da Bergoglio con il Suo consueto umanesimo spirituale disciplinando essa la materia del consenso informato ed il diritto della persona di formalizzare la sua volontà in forma anticipata riguardo a future opzioni di cura. Niente a che vedere, dunque, con i contenuti dei due recenti discorsi di Papa Francesco, il quale si è limitato a ricordare: (1) che la persona umana deve essere «considerata un fine e non un mezzo» incoraggiando il maggior dialogo tra il sapere tecnico-scientifico e quello umanistico-letterario-teologico «così da superare la tragica divisione tra le due culture», essendo l’umano uno stato davvero complesso; (2) che «non tutto ciò che è tecnicamente possibile o fattibile è perciò stesso eticamente accettabile» nel senso che la scienza deve aver piena consapevolezza «dei limiti da rispettare per il bene dell’umanità» richiedendo il suo esercizio «un senso di responsabilità etica»; (3) che «occorre un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona» con la conseguenza che è «moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico (di) proporzionalità delle cure»; (4) che una cosa è provocare intenzionalmente la morte di una persona, un’altra è invece accettare di non poterla impedire con la conseguenza che, in questi casi, non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale dovendo la scelta essere oggetto di un «attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti»; (5) che l’astensione o l’interruzione terapeutica non deve essere mai causa di abbandono della persona per «il comandamento supremo della prossimità responsabile».
La responsabilità etica, la complessità della condizione dell’umano mortale, il supplemento di saggezza, l’attento discernimento e la prossimità responsabile sono concetti non scontati anche se spesso abusati nel linguaggio comune che colorano la proporzionalità della cura di forti e non equivoci significati pratici di cui mi propongo di discutere i nessi e le intersezioni con la nostra tradizione deontologica.
La complessità dell’umano
Si tratta di una questione sulla quale il sapere scientifico riflette davvero poco anche perché abbagliato dal potere della tecnica dimenticando che la finitezza e la naturalità sono gradualmente divenuti i nemici primi di quella tecnicalità che si è progressivamente impadronita del governo del corpo. Natura (umano) e tecnica (artificiale) sono così divenuti due opposti, due avversari, due temibilissimi contendenti; anche se i limiti sono una caratteristica strutturale della condizione umana, nonostante la tecnicalità si sia proprio su di essi focalizzata, spesso anche per gli interessi dell’industria, alzando gradualmente l’altezza dell’asticella del loro controllo esterno. Inesorabilmente la tecnica si è così spinta al superamento dei limiti al punto tale che essa è riuscita a superare i diversi ostacoli geografici e a controllare non solo l’inizio e la fine della vita ma anche le sue diverse espressioni essendo in grado di intervenire sul patrimonio genetico della persona, sulle rappresentazioni simboliche della corporeità, sul funzionamento organico vicario e, addirittura, sulle nostre capacità performanti cognitive. Aprendo così la strada all’artificiale: un prodotto non ancora completamente riuscito nonostante le macchine non siano più il miraggio anticipato dalla letteratura fantascientifica di avanguardia che ci ha, al momento, trasformati in un ibrido di cui si faticano sempre più a cogliere i tratti umani e quelli artificiali. La tecnicalità ha così condizionato la nostra vita intervenendo su di essa con la manipolazione genetica, il concepimento in provetta, la possibilità di usare madri e padri surrogati (forse, tra poco, anche macchine surrogate), le opzioni della chirurgia estetica, il potenziamento cognitivo, il rallentamento della morte e la crioconservazione degli esseri viventi nella speranza che il progresso delle conoscenze scopra finalmente l’elisir di lunga vita che, se e quando avverrà, decreterà la definitiva scomparsa dell’umano. Ma non solo, perché il governo del corpo e le colonizzazioni identitarie sono sottoposti oggi ad altre forme di controllo (cyber technology), molto complesse e davvero sofisticate che hanno anche monopolizzato il linguaggio comune: così la parola twittare, il surf on the web, il fast web, il mondo di Facebook, i selfie, i whatsApp di Messenger, l’universo dei cloud, il cyberbullismo, la cyber-tax che i Paesi dell’Eurozona hanno chiesto ai colossi del virtuale che sottrarrebbero al fisco mondiale 250 miliardi di Euro, il social network, l’autonomic computing, il cyber crime, il cyber attack con le intrusioni periodiche di chi esercita l’insano mestiere degli hackers che sono addirittura riusciti a rendere inservibile il sistema sanitario inglese e ad ottenere un riscatto in criptovaluta bitcoin.
C’è da chiedersi se questo nuovo lessico sia la spia di un costume o se i nuovi termini esprimano, invece, i nuovi scenari di un’umanità globalizzata che meritano una maggior considerazione nei piani educativi e formativi con l’obiettivo di portare a maturazione la consapevolezza non solo riguardo alle straordinarie opportunità del virtuale ma anche ai pericoli legati alla sua pervasività che pretende di trasformare le nostre identità nei profili del social ed in oggetti che qualcuno seleziona, incrocia, utilizza, trasferisce, scambia, vende e commercia. Così il motore di ricerca più usato al mondo, Google, viene contattato ogni minuto da due milioni di richieste immesse nella sua maschera. Facebook pubblica 41mila post ogni secondo, mentre ogni 60 secondi si cliccano 1,8 milioni di “mi piace” e 350 GB di dati passano per i server. Sono 204 milioni le e-mails spedite in media ogni minuto ed anche i siti internet continuano a crescere se si considera che ne nascono ogni minuto 571 nuovi, dai più grandi ai più piccoli. Per quanto riguarda invece la registrazione dei domini presso i registri nazionali, ogni 60 secondi ne vengono approvati 70 nuovi. In tutto il mondo si caricano circa 72 ore di video su YouTube ogni minuto; quanto a Twitter, ogni minuto vengono pubblicati 278 mila tweet da 140 caratteri (secondo i dati di Global Web Index gli utenti attivi nel mondo sarebbero ormai 288 milioni). Amazon, sito mondiale di e-commerce, raccoglie ogni 60 secondi vendite per 83mila dollari. Gli acquisti di album o di singoli brani procedono, dal catalogo online di Apple iTunes, al ritmo di 14mila pezzi. In poche decine di secondi si chiacchiera molto su Skype, 1,4 milioni di connessioni passano per il servizio VoIP. Mentre su Instagram, il social per la condivisione di immagini via cellulare, si pubblicano 3.600 foto al secondo e i dati ufficiali di Instagram stesso parlano di 8500 likes al secondo. Il mondo del lavoro e della ricerca di posizioni aziendali aperte macina pagine viste al ritmo di 11 mila al minuto: via WordPress, oggi la piattaforma più diffusa, ogni minuto si aggiungono 347 nuovi post. Su Flickr, piattaforma di pubblicazione di immagini per professionisti e amatori, si visualizzano 20 milioni di scatti. Il social network che cataloga immagini Pinterest registra 11mila utenti attivi al minuto. Su Tumblr, il sistema di pubblicazione focalizzato sulle immagini, si inseriscono 2 mila nuove foto al minuto ed anche la musica si muove velocissimamente via web: su Spotify, piattaforma per ascoltare gratuitamente le canzoni in streaming, vengono caricati 14 nuovi brani ogni minuto.
Di questo mondo virtuale conosciamo bene i vantaggi ma non i difetti, avendo esso eroso e colonizzato la nostra identità e condizionato le nostre vite con meccanismi intrusivi e pervasivi davvero insoliti, spesso senza che noi nemmeno ce ne rendiamo conto. I primi sono evidenti e ben conosciuti: la facilità di accesso alla rete, la sua straordinaria velocità, la sua incredibile potenza, la presenza in essa di notizie di ogni genere pubblicate in tempo reale che fino ad ieri venivano veicolate attraverso la carta ed i mezzi televisivi. Con cambiamenti radicali nel mondo scientifico affidati, nel tempo della nostra giovinezza, alle Riviste internazionali ed ai libri che si consultavano nelle biblioteche specializzate con tempi di ricerca estenuanti quando ora il virtuale ci permette, da casa e quando lo decidiamo noi, di accedere ai miliardi di pagine di Google anche se sono molti i dubbi che si presentano quando riflettiamo sulla loro affidabilità. Su Google si trova di tutto ed il contrario di tutto e dobbiamo stare attenti a selezionare la spazzatura, differenziando il residuo. George Bush, quando era presidente degli Stati Uniti d’America, ha ingannato il mondo anche via Internet circa la guerra contro Saddam Hussein, facendoci credere che un Paese (l’Iraq) grande produttore di petrolio, detenesse armi di distruzione di massa che avrebbero messo in pericolo la stabilità del mondo; sul Web tutti possono scrivere di tutto e non esiste nessuna autorità esterna in grado di controllare la veridicità di ogni notizia pubblicata.
Ma il pericolo non è solo l’affidabilità delle informazioni accessibili al grande pubblico se pensiamo a cosa ha portato Internet 2 con lo sviluppo del social, perché la tecnologia ha aperto la strada all’espropriazione quotidiana di noi stessi da parte di un apparato virtuale cui affidiamo ingenuamente i nostri dati personali che sono usati senza la nostra autorizzazione per scopi e finalità diverse: nobili e non nobili, non solo la sicurezza degli Stati dopo gli attentati dell’11 settembre ma soprattutto il profitto e gli interressi economici. L’identità si è così fatta profilo o selfie o twit e la metafora oggi più usata è quella del navigare nella rete, non si sa bene alla ricerca di che cosa. Mentre Ulisse navigava con l’obiettivo di riconciliarsi con gli affetti sopportando le mille peripezie inferte da Poseidone, nella modernità si naviga senza un preciso scopo se non per riempire il tempo o, peggio, per rispecchiarci nella fonte del virtuale, innamorandoci di noi stessi come narra il mito di Narciso. E diventare ignavi, di “color che visser sanza infamia e senza lodo” (Dante, Inferno), con un’identità dispersa, indefinita, frantumata, travisata, mistificata se non artefattamente costruita. Con una schizofrenia dissociativa che è sotto gli occhi di tutti, ma che non sottoponiamo ad alcuna cura. Dimenticando che tutte le informazioni che affidiamo alla rete sono immagazzinate in banche dati sottoposte ad un continuo controllo, a selezione, ad elaborazione, a diffusione: un vero e proprio ‘Grande Fratello’ che non solo ci controlla automaticamente, ma che siamo noi stessi ad implementare dimenticando la sua incredibile intelligenza che ci cataloga senza alcuna possibilità di controllare l’uso che viene fatto delle nostre informazioni e delle nostre reti di contatti; e che condizionano il nostro modo di vivere e le nostre personalità in un mondo sempre più povero di valori. L’identità si è così trasformata in comunicazione virtuale e molti di noi alimentano narcisisticamente la sfera pubblica nel tentativo di dare un significato ed un senso al nostro mondo interno che si è impoverito di sani principi e valori. Amplificando così le nostre personalità multiple che rendono attuale ciò che Pirandello, uno tra i più profondi conoscitori dell’animo umano, ha indicato nell’essere uno, centomila e, alla fine di tutto, proprio nessuno.
In un momento in cui la protezione della nostra privacy sembra essere diventata una conquista del diritto moderno, si affidano così alla rete i tratti di un’identità sempre più povera, liquida, frammentata, lacerata. Forse con la speranza che il virtuale la possa ricomporre rinunciando però allo sforzo di coerenza che qualifica le nostre esistenze. E’ come se, nell’incapacità di trovare il senso, la nostra attesa sia quella di ricomporlo attraverso i singoli pezzi che affidiamo al virtuale: chat, twitter, selfie o video che testimoniano o riprendono momenti particolari della nostra vita personale o anche professionale (si ricorderanno sicuramente i selfie dell’infermiera di Lugo pubblicata sul Web con il cadavere di un’anziana donna a cui era stata somministrata un’iniezione letale di cloruro di potassio). Nell’incapacità di affidare la nostra umanità alle relazioni interpersonali ed agli affetti solidi, ci siamo così affidati alla comunicazione di massa ed a chi incontriamo casualmente navigando sul Web. È così che questo nuovo mondo è diventato un vero e proprio oggetto con una sua specifica autonomia di pensiero predisposto secondo network pensati per scopi e finalità non autorizzate ma implicitamente ammesse. Nel Web 3 si muovono oggi 25 miliardi di oggetti selezionati, classificati e scambiati dalle macchine con una loro crescente autonomia che separerà questo nuovo continente da quello delle persone. L’autonomia si è così trasferita alla macchina che esercita su di noi una funzione di controllo senza il nostro coinvolgimento e senza alcuna consapevolezza quando le norme sul trattamento dei dati prevedono che ogni operazione deve essere preventivamente autorizzata dal titolare dei dati stessi. Con una nuova razionalità che, con la nostra colpevolezza, governerà il nostro processo di costruzione e di maturazione del sé per trasformarci in quello che Google ed il mercato vorranno farci diventare. Un sé posizionato nella dimensione elettronica che, alla fine, consente ad altri di impadronirsi del nostro essere e di penetrare la nostra sfera privata.
C’è però un’altra qualità negativa del virtuale che preoccupa molto perché la facilità di accesso intrusivo alle banche dati del Web può violare la privacy e minare la nostra stessa dignità. Se pensiamo alla facilità di accesso agli applicativi informatici che si usano in sanità, alle notizie in essi contenuti che riguardano non solo la nostra salute ed alle molte volte in cui viene violata la pertinenza del loro trattamento, questa pervasività appare con il suo vero volto. Basta inserire la nostra password, entrare in uno dei tanti applicativi e digitare, ad es., il nome del nostro Collega per intercettare notizie riservate relative alla sua salute, alle sue abitudini sessuali, ai suoi orientamenti politici, religiosi ed altro. Si violano, in questo modo, quei principi generali dell’ordinamento che tutelano l’inviolabilità del segreto e si gettano nell’immondizia i principi sanciti dall’art. 11 del Decreto lgs. n 196 del 2003: la non eccedenza e la pertinenza del trattamento rispetto alle finalità per le quali essi vengono raccolti e trattati. Con una violazione sanzionabile non solo sul piano penale ma anche su quello deontologico e su quello disciplinare (art. 11 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici).
Un’ultima caratteristica del virtuale che preoccupa: quella alla deindecizzazione dei nostri dati presenti nel Web ed il diritto all’oblio di informazioni personali e di immagini offensive.
Si ricorderà la vicenda umana di quella giovane donna che si è suicidata dopo che qualcuno aveva pubblicato sul Web alcuni filmati di sesso e che non era riuscita a farli cancellare nonostante il ricorso presentato in Tribunale. Vicenda drammatica alla quale si è associata un’altra assurdità: che i filmati hard, dopo il suo suicidio, erano tra i più cliccati della rete a causa di quella odiosa e sadica perversione che percorre tutto il virtuale. Sul diritto all’oblio è intervenuta nel 2014 la Corte di Giustizia europea che ha imposto a Google il rispetto delle regole a tutela della privacy, ben diverse da quelle in vigore negli Stati Uniti. Anche se un’inchiesta recente pubblicata sul New York Times ha evidenziato che quella sentenza non ha affatto ridimensionato Google e che essa, al contrario, ha reso il gigante dell’economia digitale ancora più potente di prima: Google si sarebbe, infatti, trasformato in un tribunale di fatto, che giudica l’ammissibilità delle richieste di cancellare questa o quella informazione dal cyber-spazio accogliendo poco meno della metà delle oltre 418.000 richieste di oblìo e cancellazione pervenute attraverso il modello scaricabile dalla rete.
La nostra finitezza e la nostra stessa naturalità sono state così assediate dalla tecnica globalizzata e dalle logiche perverse del profitto economico e, a riflettere serenamente, è davvero preoccupante la rivoluzione oggi in corso del posthuman che ha trasformato le nostre umanità in entità senza limiti che alla fine di tutto diventano oggetti selezionati, classificati e mercificati da macchine intelligenti progettate per scopi e finalità non sempre nobili.
Provocare intenzionalmente la morte ed il non impedirla
La questione è stata spesso strumentalizzata soprattutto nell’ambito bioetico con la creazione di terminologie davvero ambigue (eutanasia passiva, eutanasia indiretta, uccisione per sospensione, ecc.) che hanno provato a connotare il non-inizio e la sospensione delle cure come un temibilissimo disvalore che può mettere in discussione la sacralità e l’inviolabilità della vita umana: un valore da difendere a tutti i costi e con ogni mezzo rispetto a chi, invece, ha cercato di coglierne anche i suoi caratteri qualitativi e l’idea di benessere sotteso alla salute lungo le coordinate fatte proprie dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Un contrasto evidente e non solo apparente di cui non si trova però traccia nella nostra lunga tradizione deontologica la quale, con grande maturità e non certo da oggi, ha saputo cogliere i tratti distintivi dell’azione eutanasica rispetto alla sospensione delle cure ed alla rinuncia a terapie sproporzionate. Essendo la prima l’esito non equivoco e voluto di un comportamento professionale realizzato con l’intenzione di provocare la morte del paziente (art. 17 del Codice di deontologia medica): un atto, dunque, che si realizza alternativamente con un’azione o con un’omissione, finalizzate intenzionalmente, consapevolmente e liberamente a provocare la morte della persona o ad abbreviarne la vita, illecito non solo sul piano morale ma anche su quello deontologico e su quello giuridico. Con un’intenzione incorporata nello stesso agire anche se esso può estrinsecarsi attraverso una doppia modalità: con un facere e con un non facere finalizzato comunque a provocare o ad accelerare la morte della persona, anch’esso eticamente riprovevole e deontologicamente illecito. È così l’intenzione ciò che si esige per comprendere la legittimità dell’azione e dell’omissione perché la sua riprovevolezza è data dall’intenzione di provocare, liberamente e volutamente, la morte della persona o di abbreviarne comunque la vita.
Se volessimo tradurre la questione provando a cercare i nessi con l’attuale ordinamento essi andrebbero ricercati nell’art. 43 della legge penale (rubricato ‘Elemento psicologico del reato’) ma non è solo questo che connota l’eticità di ogni decisione morale avendo piena consapevolezza di quanto ampio sia il cono d’ombra della responsabilità colposa soprattutto dopo la recente riforma della responsabilità professionale apportata dalla legge Gelli-Bianco; la quale ha ridotto (per l’imprudenza e la negligenza) ed al contempo dilatato (per l’imperizia) il perimetro dell’irresponsabilità penale del professionista della salute al punto tale da mettere in seria discussione il diritto costituzionale al bene-salute (art. 32 Cost.).
Essendo pacifica e fuori discussione la riprovevolezza anche giuridica di un’azione professionale intenzionalmente e finalisticamente diretta a provocare la morte della persona sia pur allo scopo di alleviarne le sofferenze, molte e più complesse sono le questioni inerenti la rilevanza morale che deriva dal non inizio o dalla sospensione del trattamento. Perché in queste situazioni ciò che serve è capire i reali obiettivi morali dei protagonisti: se l’intenzione è quella di provocare o di accelerare la morte della persona l’omissione è da ritenersi eticamente (e giuridicamente) illecita, mentre se la morte è la conseguenza di un’omissione intenzionalmente finalizzata al perseguimento di altri scopi (ad es. il controllo del dolore) non è certo in discussione la legittimità del non facere né sul piano etico, né su quello giuridico, né su quello deontologico. Come ha ricordato agli sbadati interpreti, Papa Francesco il quale ha evidenziato, come già aveva fatto Carlo Maria Martini, che il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2278) distingue il provocare la morte ed il non poterla impedire con «una differenza di prospettiva (che) restituisce l’umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere».
Proporzionalità e sproporzionalità della cura
Si tratta di una questione molto complessa la quale viene, di regola, trasbordata nell’accanimento diagnostico e terapeutico. Concetto davvero ambiguo, sfuggente, improprio e dal carattere emozionale negativo nonostante il suo diffuso utilizzo nel linguaggio professionale e in quello comune come ha osservato il Comitato nazionale di bioetica che, qualche anno fa, ha suggerito il suo abbandono proponendo, al suo posto, il termine di accanimento clinico: idea che, tuttavia, non risolve né le ambiguità semantiche né le loro dense opacità e che ci invitano a chiarire il perimetro della questione.
A partire da una premessa: l’accanimento (terapeutico o clinico che esso sia, non importa) è, infatti, il principale prodotto della tecnica, dello scientismo e della possibilità di intervenire artificialmente sulla naturalità dei processi biologici con le molte opzioni rianimatorie e farmacologiche che sono oggi a nostra disposizione; esso non fa parte della naturalità biologica che viene modificata dalla tecnica al punto tale che è sempre più difficile distinguere ciò che è naturale da ciò che è artificiale, ciò che qualifica la finitezza umana e ciò che la altera, ciò che è fisiologico da ciò che di fisiologico non ha nulla o ben poco, anche se il progresso delle conoscenze ha alzato le asticelle di questi opposti. Accanimento stà così ad indicare il potere della tecnica di intervenire sulla naturalità dei processi biologici (del nascere, del vivere, del soffrire e del morire), l’esteriorità di questo intervento, la sua intrinseca tecnicalità e, soprattutto, la sproporzione e l’asimmetria che esiste tra la sua gravosità (sotto vari aspetti che comprendono i rischi e l’importanza degli effetti collaterali, il peso nonché il carico assistenziale e, naturalmente, anche i costi sociali) e i benefici attesi; ci accaniamo, così, se, in una determinata situazione clinica, iniziamo o non interrompiamo con colpevole puntiglio e con irragionevole ostinazione un determinato trattamento medico che, purtroppo, non si propone nessun scopo né di guarigione né di miglioramento della qualità della vita di quella persona in quella specifica situazione, ma il solo proseguimento artificiale (innaturale) della vita medesima. Così almeno si esprimeva il Codice di deontologia medica nella sua precedente versione (quella del 2008) visti i contenuti dell’art. 16 (rubricato, appunto, ‘Accanimento diagnostico-terapeutico’): «Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita». L’ostinazione, la caparbietà e la mancanza di ragionevole fondatezza riguardo al beneficio atteso erano contenuti che davano una chiarezza non equivoca all’accanimento diagnostico-terapeutico ed è davvero difficile capire le ragioni del perché queste previsioni siano state espulse dalla nuova versione del Codice (maggio 2014) in cui gli unici riferimenti utili a capire ciò di cui si parla sono la proporzionalità etica, l’efficacia e l’appropriatezza. L’espulsione coinvolge anche lo stesso accanimento diagnostico-terapeutico a cui la nuova versione del Codice opera, tuttavia, un richiamo indiretto in due punti. Nell’art 16 (‘Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati’): «Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte». E nell’art. 39 (“Assistenza al paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza”): «Il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita. Il medico, in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente, prosegue nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento».
Se guardiamo a queste previsioni con uno sguardo d’insieme, con la sussidiarietà che esse hanno rispetto alle regole generali dell’ordinamento e senza perderci nei vicoli della parafrasi linguistica, dobbiamo osservare che la nuova versione del Codice, pur mai citando espressamente l’accanimento diagnostico-terapeutico e la diade ordinario/straordinario, invita il medico a non intraprendere ed a desistere da «interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati», tenendo comunque conto della volontà anche previa della persona, precisando al contempo: (a) che le misure di sostegno vitale possono diventare un’opzione terapeutica sproporzionata, cioè inutile e futile; (b) che il loro non inizio e la loro sospensione non realizzano mai «un comportamento finalizzato a provocare la morte» della persona; (c) che questa prassi non può però mai trasferirsi nell’abbandono dovendo il medico proseguire nel trattamento del dolore e nel sostegno palliativo fino alla morte della persona accertata nelle forme e con le modalità previste dalla legislazione vigente.
L’intervenuto cambio di prospettiva della deontologia medica è di tutta evidenza. Ciò che nella precedente versione del Codice era stigmatizzato in termini di ostinata e caparbia reiterazione di trattamenti medici fondatamente irragionevoli trasmigra, nella nuova versione approvata (tra stridenti contrasti) dalla FNOMCeo nel maggio del 2014, sul piano dell’appropriatezza clinica e della proporzionalità etica al punto da coinvolgere anche la terapie di sostegno vitale e con due sole eccezioni: il controllo del dolore e la palliazione che il medico è tenuto a proseguire anche nel caso di intervenuta incoscienza del paziente prolungandoli fino alla morte. E con la precisazione – non certo irrilevante agli effetti pratici – che sospendere o non iniziare una terapia futile, inappropriata o sproporzionata non configura mai quella forma dubitativa di eutanasia passiva di cui qualche interprete si ostina purtroppo ad ammettere la condanna non solo sul piano morale. L’eutanasia è così provocare direttamente ed intenzionalmente la morte di chi si affida alle cure del medico sia pur con un’intenzione euristicamente buona e l’intenzione morale (o l’elemento psicologico dell’illecito se vogliamo usare il lessico del linguaggio penale) non può essere certo annullata dall’effetto prodotto dalla sospensione (o dal non inizio) di misure terapeutiche eticamente non proporzionate e clinicamente non appropriate. Anche se la nuova versione del Codice non precisa in che cosa consiste la sproporzionalità etica e nonostante l’appropriatezza non sia un’idea semplice da rappresentare essendo spesso confusa con il rapporto costo/beneficio (appropriateness) come ci vogliono far credere la gran parte dei management aziendali. Ricordando a questi sbadati savant che proprio un economista [Adam Smith, 1999] ne ha definito le caratteristiche indicandola come «ciò che è giusto e conveniente fare» (propriety) nel solo interesse di salute della persona e non certo per contenere i costi della cura. Propriety è così ciò che è appropriato alle circostanze, un qualcuno legato ad un qualcun altro da simpatia, una qualità morale che non è da confondere con l’empatia e dalla quale si ricavano sempre delle utilità a beneficio di qualcuno. In questa accezione, la propriety riguarda fondamentalmente i comportamenti ed i sentimenti in rapporto a quelle circostanze che per noi medici si storicizzano nel bisogno dell’altro e nella promozione del bene-salute: dunque, regole cooperative basate sulla reciprocità e sul mutuo riconoscimento che non possiamo confondere con le linee-guida e con le buone pratiche clinico-assistenziali approvate ed implementate nel rispetto di quanto previsto dalla legge Gelli-Bianco; che, se pur valgono ai fini della parziale depenalizzazione della colpa, non sono da considerare con la legge del tutto o nulla come è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità. Le astrazioni teoriche non sono, dunque, parte della propriety che non può essere decisa dentro procedure standard, all’interno di quei percorsi predefiniti e standardizzati che trasformano in teorizzazioni generiche i bisogni espressi dalle persone più vulnerabili ed il professionista in una macchina robotica a priori pre-impostata. Perché, il nostro lavoro di medici che vogliono continuare ad essere non savant si storicizza in un contesto prioritariamente clinico ed etico che non è mai fatto di sole interferenze statistico-epidemiologiche (nè di paradigmi o di luoghi comuni) essendo chiamati a confrontarci, nella quotidianità, con una complessità che è fatta di straordinarie variabilità fenotipiche (mai uguali), di attese, di desideri, di speranze e, con una parola spesso abusata, di umanità, di relazionalità e di solidarietà. E perché quasi mai queste inferenze collimano tra di loro dimostrando che tra propriety e appropriateness il divario della forbice è davvero ampio: perché esse disegnano scenari originali e perché le loro basi fondanti sono diverse. Cambia cioè il che cosa è davvero rilevante al punto tale che il professionista ed il savant mostrano avere network cognitivi diversi: mentre il secondo standardizza e proceduralizza, il primo si confronta con i bisogni (non solo di salute) di quella persona in quel determinato contesto provando a dare ad essi una risposta responsabile, non delegante e, naturalmente, sostenibile. In questa prospettiva occorre riportare l’appropriatezza clinica contrastando quelle teorie prevalenti che la trasferiscono sul piano dei rapporti rischi/benefici e di una perversa visione economicistica che poco si confronta con i bisogni reali delle persone altrettanto reali, concentrata com’è sulla sola razionalizzazione dei costi. Senza però confonderla con l’anarchia scientifica perché non c’è appropriatezza senza assunzione di una piena responsabilità nel prendere davvero sulle spalle le persone più deboli senza improvvisare e sapendo opporsi, nella concretezza dei fatti, ai proclami disinvolti dei quei savant spesso mascherati dall’appello al buon uso delle risorse e al contenimento della spesa. Perché la giustizia distributiva pretende altre coordinate di lavoro dato che le sue fondamenta restano la solidarietà, l’uguaglianza e la non discriminazione.
Sulla diade dell’eticamente proporzionato/sproporzionato si impone qualche precisazione rilevando che essa viene spesso tautologicamente sovrapposta ad un’altra diade (quella dell’ordinario/straordinario) nonostante ciò possa creare altre confusioni quando il riferimento è ai mezzi di conservazione della vita. Perché mentre la proporzionalità/sproporzionalità richiede di essere valutata in relazione alle realistiche prospettive di miglioramento ed ai risultati che si possono ragionevolmente attendere da chi ne ha le competenze, questa seconda diade risulta prioritariamente condizionata dalle reazione soggettive della persona (fisiche, psicologiche e spirituali) al trattamento, dall’onere che la stessa deve sopportare a seconda delle circostanze del momento e dal suo peso economico. La sproporzione sarebbe così il prodotto di misure terapeutiche prive di efficacia anche se non c’è accordo sul considerare il proseguimento ad oltranza della vita delle persone che non hanno più voce un obiettivo che rientra tra gli scopi dell’arte della cura. Della tecnica sicuramente si, ma non della medicina che deve continuare ad avere uno statuto assiologico prioritariamente umano perché la dignità non può essere derisa e calpestata dall’artificiale a patto che ad essa si voglia riconoscere quel significato concreto che essa ha superandone le concettualizzazioni sterili e le sue ambiguità. Rappresentandola non solo come qualità interiore ed intrinseca di ogni persona umana perché «non può esserci dignità senza libertà e viceversa» dato che, anche per l’ordinamento, la vita è un diritto personalissimo che non «può considerarsi indisponibile» per il suo titolare» [Flick, 2015]. Se non esiste il diritto di morire non c’è, insomma, nemmeno l’obbligo giuridico di vivere a tutti i costi e con ogni mezzo pur ammettendo che per qualcuno di noi potrebbe essere futile (o straordinario) ciò che per altri è invece non solo necessario ma anche ordinario e che l’esperienza di malattia può far maturare idee e decisioni che l’identità personale fatica a rappresentare simbolicamente e razionalmente quando si cimenta in ciò sul piano dell’astrazione teorica: trattamenti ritenuti teoricamente straordinari e moralmente non obbligatori quando siamo in piena salute possono, infatti, diventare ordinari nell’esperienza concreta di malattia. E viceversa, terapie ordinarie proporzionate possono diventare straordinarie nell’esperienza di malattia di ogni persona al punto da perdere il loro carattere di obbligatorietà. A dimostrazione che la nostra identità biografica non è mai una realtà ipostatica, che essa non è solo condizionata da quei criteri più o meno oggettivi cui già si è fatto cenno, che l’identità può cambiare anche repentinamente non essendo avulsa da ogni nostra esperienza di vita e che ogni variazione può incidere sulla nostra umanità e sulla nostra stessa idea di dignità. Anche in maniera drammatica perché non sempre la nostra parabola di vita ha una traiettoria lineare e perché le interruzioni, i primi ed i secondi tempi, il prima ed il dopo, il passato ed il futuro sono realtà con cui dobbiamo sempre fare conti se non vogliamo perdere la nostra integrità ed unicità.
A queste diadi la tradizione morale ha dedicato grande interesse a partire dai Libri sapienziali che hanno profondamente riflettuto sull’esperienza della precarietà della vita. Checchè se ne dica, per il pensiero cristiano la vita è un diritto fondamentale e primario della persona restando però pur sempre un bene relativo perché il solo bene assoluto resta la vita eterna [Calipari, 2006]. Essa non deve essere pertanto difesa a tutti i costi e con ogni mezzo e non esiste, nemmeno per questa Tradizione, l’obbligo generale di curarsi e di farsi curare ricorrendo a mezzi straordinari incapaci di procurare un reale beneficio oppure, come afferma il Magistero della Chiesa cattolica, nell’ipotesi in cui essi possano essere causa di un «incomodo particolarmente grave». Ed il rifiutare questi mezzi non equivale al suicidio condannato già da San Tommaso nella Summa Theologica (Quaestio 64). Lo afferma, in maniera esplicita e senza equivoci, la Dichiarazione “Una et bona” del 1980 della Congregazione per la dottrina della fede: «Significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo grandi alla famiglia o alla collettività». Con questa Dichiarazione la Chiesa Cattolica ha, dunque, affermato che la dignità umana deve essere difesa anche nel momento della morte visti i pericoli «di un tecnicismo che rischia di divenire abusivo» e che «è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi». E che il medico, in queste situazioni «non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo».
Sul che cosa di deve intendere per ordinario/straordinario e proporzionato/sproporzionato si è espresso il Documento definitivo approvato nel 1981 dal Pontificio Consiglio Cor Unum intitolato «Dans le cadre. Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti». In questo documento del Magistero della Chiesa Cattolica si distinguono: (1) i mezzi di cura ordinari; (2) quelli straordinari; (3) ed infine, i mezzi di cura minimali obbligatori. Questi ultimi sono indicati in quei mezzi (come l’alimentazione, la trasfusione di sangue, la somministrazione di farmaci per via parenterale, ecc) che normalmente e nelle condizioni abituali sono destinati a far proseguire la vita e che non possono essere interrotti configurando ciò una vera e propria opzione eutanasica. Dei primi due mezzi di cura il Documento non riporta, invece, alcuna esemplificazione, esplicitando però quali sono i criteri per distinguerli: (a) quelli oggettivi, indipendenti cioè dalla persona, come la natura dei mezzi utilizzati, il loro costo e la giustizia nella loro applicazione; (b) e quelli soggettivi, a loro volta dipendenti dal malato e dalla sue caratteristiche di base come la capacità di sopportazione, l’angoscia, il disagio provocato dalla loro applicazione. In definitiva, per decidere quali mezzi terapeutici sono moralmente accettabili in una data situazione clinica occorre sempre «stabilire la proporzione tra il mezzo ed il fine» dando un peso particolare «alla qualità della vita salvata o mantenuta dalla terapia». Con un giudizio prudente che deve essere assunto sulla scorta di «un’argomentazione razionale che tenga conto dei diversi elementi della situazione, compresa la loro incidenza sull’ambiente familiare. A dire, infine, «che non c’è obbligo morale di ricorrere a mezzi straordinari; e che, in particolare, il medico deve inchinarsi di fronte alla volontà del malato che rifiutasse tale ricorso». Questo Documento della Chiesa Cattolica conferma così l’idea che non è moralmente obbligatorio ricorrere a mezzi terapeutici straordinari, che la decisione di metterli in atto deve essere il frutto di un ragionamento razionale con cui si deve trovare un bilanciamento tra i criteri oggettivi e quelli soggettivi e che è moralmente riprovevole interrompere o non iniziare i trattamenti minimali di cura (comprese le misure di sostegno vitale) perché questo comportamento dimostrerebbe la chiara intenzione di provocare la morte del paziente. Eludendo però il dato di fatto che anche i mezzi obbligatori minimali di continuazione della vita possono peggiorare la qualità della vita stessa e che ciò può avvenire anche nell’ipotesi di persone che non hanno più voce trasfigurando nell’accanimento terapeutico come ammesso dal Codice di deontologia medica che ha circoscritto questi mezzi nel trattamento del dolore e nel suo non abbandono dovendole essere assicurati tutti i conforti palliativi, compresa l’igiene, il posizionamento ed il confort ambientale.
Si tratta di un bias di trasparente evidenza che, tuttavia, sembra ridursi in altri documenti ufficiali della Chiesa cattolica che hanno meglio esplicitato in cosa effettivamente consiste l’accanimento provando a meglio esplorare quell’«adeguatezza etica» cui si affida anche la deontologia medica: indicandola in quei «certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione clinica del malato, perchè oramai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia» (così Giovanni Paolo II nell’Enciclica «Evangelium vitae» del 1995) e «nell’uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per il malato, condannandolo ad un’agonia protratta artificialmente» e, di fatto, a non poter morire «con dignità umana e cristiana» (così la «Carta degli operatori sanitari» del 1995 del Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari). Con un salto di ragionevolezza che però non ha definitivamente risolto la questione del chi debba esaminare la loro proporzionalità/sproporzionalità nell’ipotesi in cui la persona non è più nelle condizioni di poterlo fare, soprattutto quando le idee espresse dai familiari non sono speculari.
Quali deduzioni possiamo trarre dalla discussione sin qui fatta? E come possiamo dare ad esse un’applicazione pratica nel contesto italiano visto il sempre più largo cono d’ombra dell’illecito colposo (art. 43 c.p.) amplificato non solo dall’emergere delle nuove categorie del «dolo eventuale» e della «colpa cosciente» ma anche dalla parziale depenalizzazione della colpa operata dalle due recenti riforme della colpa professionale nell’ipotesi in cui il comportamento professionale sia stato conforme alle linee-guida ed alle buone-prassi accreditate all’interno della comunità scientifica internazionale? E come ha inciso sul ruolo di garanzia del medico l’inerzia di un Parlamento che non ha fin qui dimostrato possedere – nonostante gli annunci – quella sensibilità e maturità raggiunta da altre legislazioni europee essendo ancora in discussione e sotto la lente di ingrandimento dell’opinione pubblica e della giurisdizione le prerogative stesse della dignità?
Su alcune questioni non mi sembrano esserci insuperabili visioni tra le opposte schiere dei contendenti indicate in coloro che difendono i diversi modi di concettualizzare la visione del mondo.
La prima: le misure di sostegno vitale (idratazione e alimentazione artificiale comprese) sono atti di stretta pertinenza medica richiedendo apposite competenze ed specifici skill professionali. La seconda: essendo atti medici esse sono finalizzate a perseguire un qualche scopo terapeutico (se non di guarigione, di miglioramento dello stato clinico della persona) e non già per garantire la sola prosecuzione della vita. La terza: questi mezzi terapeutici, come tutti gli altri, possono prendere la direzione dell’accanimento terapeutico e dell’ostinazione inutile ed irragionevole, come ammette anche la dottrina cristiana. La quarta: essi devono essere pertanto appropriati (non potendo l’appropriatezza essere confusa nel solo rapporto costo/beneficio) e clinicamente utili (nell’interesse di salute di quella persona in quella specifica situazione e contesto).
Su altri snodi non esiste, invece, né uniformità di vedute etiche né, purtroppo, la certezza del diritto visto il sempre più ampio cono d’ombra della colpa e che si è dilatata con l’ipotesi – per ciò che qui interessa – del «dolo eventuale» che consiste nella strutturazione di una condotta, con accettazione di un rischio di probabilissima verificazione (la morte della persona), quale conseguenza del fatto realmente voluto (la sospensione delle misure di sostegno vitale).
Sul piano prioritariamente etico, una cosa è provocare intenzionalmente la morte di una persona sia pur con finalità eutanasica e per non farla ulteriormente soffrire, un’altra è, invece, contribuire a provocarla come conseguenza di un’azione moralmente doverosa: non potendo essere confusa la sospensione di terapie inutili, futili e sproporzionate con l’eutanasia quando la morte della persona può essere la conseguenza di una omissione non certo censurabile sul piano etico che riassegna lo spazio che gli è proprio alla naturalità del processo del morire senza ad esso opporsi con interventi esterni, dal carattere straordinario e artificiale. Con un ruolo non di causa ma di concausa non certo irrilevante ai fini della rilevanza penale dei fatti in questione perché, oltre all’omicidio e del consenziente e dell’aiuto al suicidio, si fa sempre più strada una terza ipotesi criminosa sanzionata dall’ordinamento: quella del «dolo eventuale» che emerge nell’ipotesi in cui si prevede la rappresentazione di un fatto non necessariamente voluto ma di cui si accetta il rischio e la volizione dello stesso. Accettando il rischio che la morte di una persona si realizzi in conseguenza del non inizio o della sospensione di misure di sostegno vitale si accetta così di poter essere perseguiti per gli effetti dell’ordinamento penale italiano, in assenza di una norma di depenalizzazione di questo comportamento dal carattere sostanzialmente omissivo: non si fa qualcosa per provocare la morte della persona, ma si omette ciò che si potrebbe fare per prolungarne la vita quando la stessa non è più in grado di esprimere la sua volontà. Potrebbero valere, a questo riguardo, alcune attenuanti speciali comuni come l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale (art. 62 c.p.) anche se il movente richiede, in questo caso, di essere apprezzato sul piano processuale tenuto conto degli atteggiamenti etico-sociali prevalenti. In assenza di una depenalizzazione specifica potrebbero anche valere le regole della deontologia medica valorizzando la portata pedagogica del Codice e la sua natura di «disciplina» (art. 43 c.p.). E, in questa direzione, anche le previsioni del diritto europeo e comunitario evidenziando, a questo riguardo, che qualcosa di utile al dibattito è stato detto dalla Convenzione di Oviedo (in cui processo di ratifica non è stato purtroppo ancora completato dall’Italia nonostante esso sia iniziato nel 2001), dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla Guida al processo decisionale nell’ambito del trattamento medico nelle situazioni di fine vita approvata nel 2012 dal Comitato di Bioetica del Consiglio d’Europa (DH-BIO). In questa Guida, sono indicati gli aspetti da prendere in esame per valutare la proporzionalità del trattamento. Più in particolare: (a) i benefici, i rischi e i limiti del trattamento medico in base ai risultati attesi sulla salute del paziente; (b) la loro valutazione in vista delle aspettative della persona. Dal ponderato bilanciamento di questi aspetti deriva la valutazione del «beneficio complessivo», che deve tenere in massima considerazione il beneficio non solo con riferimento ai risultati del trattamento della patologia o dei sintomi, ma anche alla qualità della vita del paziente e al suo benessere psicologico ed alle esigenze spirituali. Quando il trattamento è sproporzionato ed irragionevole in relazione alla situazione globale della persona, allo sviluppo della patologia di base «il medico può legittimamente decidere, nel dialogo con il suo paziente, di non iniziare il trattamento o di interromperlo». anche se, in via generale, «non esiste alcun mezzo evidente per misurare a priori la sproporzione di un trattamento che possa applicarsi a tutte le situazioni individuali». Con una difficoltà di base che deve essere depotenziata con «la relazione di fiducia tra medici, persone che si prendono cura dei malati (carers) e pazienti […]» nel non sempre facile bilanciamento tra l’autonomia della persona ed il rispetto della dignità di quelle persone vulnerabili e non più in grado di esprimere autenticamente la loro voce ed i loro desiderata. La Guida suggerisce, a questo riguardo, un particolare modo pratico di operare per decidere sulla proporzionalità o meno delle terapie di sostegno vitale prevedendo i seguenti steep: «definire le modalità pratiche della discussione (luogo, numero dei partecipanti, numero degli incontri previsti, ecc.); stabilire un arco temporale, tenendo conto, se necessario, dell’urgenza; f identificare chi prenderà parte alla discussione, specificando ruolo e obblighi (colui che prenderà la decisione, relatore, verbalizzatore, coordinatore/ moderatore, ecc.); richiamare l’attenzione di tutti i partecipanti al fatto che essi devono essere pronti a cambiare le loro idee quando hanno ascoltato le visioni delle altre persone che prendono parte alla deliberazione».
Merita riflettere su questa collegialità nell’assunzione di una decisione che non significa, per chi deve assumerla, abdicare alla propria personale responsabilità, ma decidere di non assumerla in piena solitudine e nella penombra delle stanze di degenza. Ma sotto la luce dei riflettori di chi può anche esprimere idee contrario alle nostre dandoci così l’occasione di sottoporle al vaglio critico della ragione e, se necessario, di rivederle anche per intero. Sempre lasciando traccia nella documentazione clinica di ciò che si fa nell’interesse di quella persona e nella consapevolezza che la «sostituzione vicaria» [Bonhoeffer, 1999] ovverosia il prendere sulle nostre spalle il peso delle persone più vulnerabili significa assumerci davvero la responsabilità di ciò che facciamo e la consapevolezza dei rischi che ci assumiamo. Sempre nel rispetto della dignità umana che resta, anche a mio modo di vedere, il vero filo d’Arianna per non perderci nel complicatissimo labirinto delle tante questioni. Prestando attenzione al non trasmigrarle su piani che nulla hanno a che vedere con il grande enigma della finitezza umana che definisce però la nostra stessa identità di genere che dobbiamo onestamente rispettare e responsabilmente salvaguardare.
Competenza e capacità della persona
Nel primo dei due recenti messaggi, Papa Francesco ha ricordato che “le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità” e che “è anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendosene doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse ritenuta mancante”. Queste idee, espresse in maniera chiara e coincisa, sono state però da molti travisate e strumentalizzate per consumare la lotta politica all’epoca in atto sulla materia del biotestamento. Bergoglio si è, infatti, limitato a ricordare che la relazione di cura rappresenta l’incontro tra più autonomie e responsabilità e che la proporzionalità della cura non può essere individuata sulla base di parametri a fortiori oggettivizzanti essendo lasciata l’individuazione del peso ad ogni biografia personale: perché per qualcuno può essere sproporzionato ciò che per altri è routinario e, viceversa, per altri può apparire ordinario ciò che può essere di primo acchito interpretato come straordinario. Anche se questo non significa certo il diritto della persona di richiedere la messa in campo di strategie diagnostiche e/o terapeutiche inappropriate o inefficaci perché il care presuppone il riconoscimento ed il rispetto reciproco, senza calpestare le autonomie e le responsabilità degli altri. Papa Francesco non ha parlato di assolutizzazione dei diritti individuali ma di incontro di relazioni e non si è addentrato, se non indirettamente, in quel difficile campo delle scelte di cura che devono essere assunte quando la persona non è più in grado di assumere una decisione in piena autonomia morale (molto correttamente il riferimento fatto dal Papa è alla competenza ed alla capacità della persona senza riecheggi fuorvianti alla capacità di intendere e di volere cui fa riferimento quel d.d.l. ora diventato legge). In queste situazioni il Papa argentino opera un preciso riferimento a due imperativi categorici come Lui li definisce: quello della prossimità responsabile e quello del considerare sempre l’essere umano un fine, mai un mezzo. Se quest’ultimo imperativo etico è un qualcosa cui la riflessione filosofica ci ha abituato a partire da Kant, quello della prossimità responsabile è un concetto nuovo almeno per chi di noi non è abituato a studiare i nuovi orizzonti dell’autocomprensione umana cui ci hanno costretto le trasformazioni e le rivoluzioni di questi ultimi decenni. E che (ri)orienta la responsabilità in prospettiva diversa anche se la parabola scelta dal Papa per farci comprendere il Suo messaggio è quella del Samaritano (Luca, 25-37): alla provocazione rivoltagli da un uomo della legge per metterlo ancora una volta alla prova Gesù risponde con una storia, con interpreti anonimi. che si svolge sulla strada che da Gerusalemme (la città santa) scendeva a Gerico attraversando la terra deserta della Giudea tra anfratti e profondi burroni visto che il dislivello altimetrico tra le due città era di oltre mille metri. Su questa strada un uomo viene aggredito e derubato dai briganti per poi essere lasciato senza vestiti e mezzo morto su di essa. Tre persone lo incontrano: un sacerdote, un levita (una persona dedicata al tempio) ed un samaritano (una setta scismatica disprezzata e odiata dagli ebrei che li considerava stranieri, pagani, impuri al punto tale che erano vietati i matrimoni con gli appartenenti ad essa). Come sarebbe stato ragionevole attendersi non sono i primi due uomini del tempio che lo soccorrono pur vedendo la persona ferita in mezzo alla strada anche se, molto probabilmente, il comportamento del primo potrebbe essere in qualche modo legato al culto giudaico che vietava di toccare il cadavere (Levitico 21, 1-4); è, invece, il samaritano che si ferma, che gli si avvicina, che cura le sue ferite con l’olio per ammorbidirle e con il vino per disinfettarle, che lo trasporta in un ricovero sicuro sul suo cavallo e che il giorno dopo promette all’albergatore di saldare il debito dovuto per l’ospitalità data allo sconosciuto dopo avergli dato due denari. La parabola mostra che è un uomo migliore un eretico scismatico senza Dio che si comporta con amore verso il prossimo rispetto alle persone che, pur dedicate al tempio sacro, non mostrano avere alcuna misericordia verso il prossimo. Vedono il malcapitato, si rendono conto di quanto è successo su quella strada ma passano oltre con altezzoso disprezzo o, forse, per rispettare la tradizione. Il vero credente, per questa parabola, è chi nelle azioni segue l’esempio di Gesù e non colui che è dedicato al culto sacro nel tempio. Richiamando la parabola, il Santo Padre ha voluto così sottolineare che la carità e la misericordia non hanno confini predefiniti e che le diversità religiose non sono determinanti nella cura del prossimo pur “senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte”. Accomunando credenti e non credenti perché la prossimità responsabile non è certo una caratteristica dei primi ma di tutti coloro che riconoscono il limite dell’umano come caratteristica che ci accomuna.
Conclusioni
Le idee espresse recentemente da Papa Francesco avvicinano il limite e la speranza indicando quali sono i loro punti di intersezione, detendendo le asimmetrie che esistono tra chi interpreta la speranza se non di guarire di migliorare le sue condizioni di salute e chi è consapevole dei limiti della cura: tra chi, cioè, si appella alla speranza e chi è consapevole della finitezza delle conoscenze e della tecnica; in altre parole tra chi chiama ad un sussulto di umanità e chi la deve in qualche modo conciliare con il suo ruolo di terapeuta e con l’oggettività del modello sperimentale. L’invito che ci è stato rivolto è quello di ridurre la distanza tra questi due apparenti estremi senza estrarre dal simulacro il paternalismo medico e senza però assolutizzare l’autonomia della persona considerandoli due opposti antropologici che amplificano le solitudini radicalizzandone le asimmetrie. È così la paura e l’angoscia del limite che aziona la speranza la quale, differenziandosi dall’orgoglio, non trova mai nel care una dimensione individuale o soggettiva. La sua è, infatti, una dimensione sostanzialmente umana che si afferma e si legittima nel riconoscimento reciproco, nella costruzione della relazione e nel dare ad essa un senso ed un significato non solo tecnico. Senza riconoscimento non può esserci relazione, senza relazione non può esserci umanità e senza umanità la paura del limite si trasforma nell’angoscia priva di senso che annienta ogni nostra identità cedendo il passo alla pervasività della tecnicalità. Il limite e la speranza vengono così ad incrociarsi con la dignità e con la finitezza dell’umano che non è più un limite ma il più saliente carattere che qualifica la nostra identità di genere. Che dobbiamo difendere dalla tecnica e dal post-umano verso cui ci stiamo indirizzando seguendo le piste pericolose aperte dall’ingegneria genetica, dalle nanotecnologie, dalla medicina potenziativa, dai social e dalla spasmodica ricerca dell’immortalità.
Riscoprire il senso del limite non è così una questione banale su cui può essere fondata una morale più o meno sufficiente né un disimpegno perché è molto più semplice trasgredire il limite che rispettarlo. Rispettarlo significa, infatti, l’assunzione di una forte dose di responsabilità che richiede prudenza e mitezza aprendoci non solo a noi stessi ma soprattutto al rispetto degli altri, alla tolleranza, alla generosità, alla beneficialità, alla reciprocità ed alla solidarietà umana. Essendo l’opposto dell’arroganza che dobbiamo rappresentare come quell’opinione esagerata che molti di noi hanno di loro stessi e che non va confusa né con la pigrizia né con l’arrendevolezza. Essere miti, prudenti e rispettosi del limite non significa essere però rinunciatari e tenerci le cose che non vanno dentro di noi perché il costume italico della lagnanza continua e la ruminazione mentale non servono a nessuno, nemmeno a noi stessi. Richiamandoci esse ad essere sempre coerenti con noi stessi, a non lanciare il sasso per poi nascondere la mano, a fermarci quando ciò è necessario, a segnalare pubblicamente le discriminazioni, le ingiustizie, le disuguaglianze, le molte forme di povertà e gli sfruttamenti che non possiamo più accettare passivamente ritenendoli sempre colpa di altri. Mai però per un nostro scopo o interesse personale sapendo mettere da parte la superbia che è un segno esplicito della debolezza umana, l’egoismo e la voglia di emergere.
Non si è mai umani quando si vuole emergere anche se una certa dose di cocciutaggine e la perseveranza non sono mai un disvalore ed un qualcosa cui guardare con disprezzo; lo si è, invece, quando la dignità dell’essere umano ed il buono sono le coordinate che sanno essere la guida alla nostra carta nautica. Senza però dimenticare che la misericordia è l’espressione pratica della giustizia (anche) umana e che il rispetto della dignità della persona è il perno che aziona a giusti giri il nostro motore; e che essa esprime il significato più autentico che ci è concesso per dare un senso compiuto alla nostra vita umana e professionale senza mai dimenticare, soprattutto nei momenti di scoramento, che solo chi è misericordioso sarà degno di misericordia.