Supplemento S83 - In depth review

Quasi quarant’anni di terapia eritropoietinica: successi e limiti

Abstract

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica; se severa e non trattata comporta un peggioramento della qualità della vita e un aumentato rischio di ricorrere a emotrasfusioni.
Partendo dagli studi di fisiopatologia iniziati alla fine dell’Ottocento e poi proseguiti nel XX secolo, si è arrivati prima all’identificazione dell’eritropoietina, poi alla sua purificazione, identificazione del gene coinvolto e infine alla sintesi dell’eritropoietina ricombinante umana e dei suoi analoghi “long-acting”.
Oggi la terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), spesso in associazione alla terapia marziale, rappresenta lo standard di cura dei pazienti con malattia renale cronica e anemia. Recentemente agli ESA si sono aggiuntigli inibitori della HIF-PHD. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.
Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA e HIF-PHD deve essere personalizzata sia in termine di target di emoglobina, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

Parole chiave: anemia, malattia renale cronica, eritropoietina, agenti stimolanti l’eritropoiesi malattia cardiovascolare, inibitori della HIF-PHD

Introduzione

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica (MRC). Essa è una condizione multifattoriale, determinata principalmente da una carenza relativa di eritropoietina dai reni malati rispetto al grado di anemia. Oltre a ciò, è spesso presente una carenza marziale, relativa o assoluta, e uno stato infiammatorio cronico che contribuisce a un ridotto assorbimento intestinale di ferro e al sequestro dei depositi marziali e a una ridotta sensibilità del midollo osseo allo stimolo eritropoietico, sia esso endogeno o esogeno. Infine, diversi dati in letteratura hanno evidenziato la presenza di una ridotta sopravvivenza eritrocitaria, il contributo negativo di un aumento dello stress ossidativo, dell’iperparatiroidismo secondario, se di grado severo e dell’accumulo di tossine uremiche aggravato dai pazienti in dialisi da una dose dialitica insufficiente. Inoltre, nei pazienti in emodialisi, contribuiscono alla carenza marziale le perdite di sangue che rimane sequestrato nelle linee e filtri di dialisi dopo la reinfusione al termine della seduta dialitica. Infine, sono da considerare i frequenti prelievi ematici, le aumentate perdite gastro-intestinali, molto frequenti e spesso occulte nei pazienti con MRC, specialmente in emodialisi, la frequente malnutrizione, spesso severa, la carenza di folati e vitamina B12 e le frequenti neoplasie.

La comparsa di anemia è influenzata dalla severità della MRC; si stima che circa l’80% dei pazienti in dialisi nei sia affetto, con la conseguente necessità di ricevere una terapia con agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA) e/o ferro.

Si parla di anemia quando i valori di emoglobina (Hb) scendono al di sotto del limite di normalità definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In particolare, nei pazienti con MRC si parla di anemia nei soggetti con concentrazione di Hb <13.0 g/dL negli uomini e <12.0 g/dL nelle donne [1].

In ambito nefrologico è ancora oggetto di dibattito quando e se l’anemia non di grado severo debba essere trattata. I dati di numerosi studi osservazionali hanno evidenziato con chiarezza che i pazienti con valori di Hb normali in assenza di terapia hanno la prognosi migliore. D’atra parte, una lieve anemia nella MRC viene considerata quasi parafisiologica e in parte protettiva dal rischio di trombosi o eventi cardiovascolari. Al contrario, la presenza di anemia severa si associa ad un aumento della mortalità cardiovascolare o da tutte le cause, del rischio di ospedalizzazione e della necessità di dovere ricorrere a emotrasfusioni. Sappiamo inoltre che l’anemia, quando severa, può peggiorare in modo significativo la qualità della vita e contribuire alla comparsa di cardiopatia.

Oggi gli ESA e la terapia marziale rappresentano il “gold standard” della terapia dell’anemia nella MRC. Ad esse si sono aggiunti solo da poco tempo gli inibitori della HIF-PHD [2]. Quest’ultimi si differenziano dagli ESA perché stimolano la produzione dell’eritropoietina endogena, sono somministrati per via orale e non parenterale, non necessitano della conservazione in frigorifero, potrebbero essere più efficaci nei pazienti infiammati e, infine, potrebbero aumentare l’assorbimento del ferro e la sua disponibilità dai siti di deposito.

 

La scoperta dell’eritropoietina

La storia dell’eritropoietina ha origine agli inizi del secolo scorso (1905), quando Carnot e Deflandre ipotizzarono l’esistenza di un fattor umorale, capace di regolare la sintesi dei globuli rossi. Trent’anni dopo (1936), Hjort dimostrò e confermò l’esistenza di questo fattore.

Negli anni ’50, Erslev dimostrò che la trasfusione di grandi quantità di plasma da ratti anemici in ratti normali determinava un aumento significativo dei reticolociti e, a seguire, dell’ematocrito [3]. L’EPO umana è stata infine purificata per la prima volta nel 1977 dalle urine di un paziente affetto da anemia aplastica [4]; il suo gene è stato poi clonato nel 1984 con la tecnica del DNA ricombinante [5, 6]. Veniva presto notato che l’eritropoietina ottenuta dal lievito o da Escherichia coli aveva una debole attività o era inefficace, mentre quella prodotta dal criceto cinese aveva un’attività nettamente superiore, a causa di differenti pattern di glicosilazione. Fu proprio quest’ultima modalità che venne scelta per lo sviluppo clinico dell’eritropoietina ricombinante umana (HuEPO) per la cura dell’anemia.

L’introduzione della rHuEPO nella pratica clinica alla fine degli anni ’80 ha rappresentato un’importante svolta nel trattamento dell’anemia dei pazienti con MRC. L’epoetina alfa, la prima a essere stata introdotta, è una glicoproteina di 34000 dalton, composta, come l’ormone nativo, da 165 aminoacidi. La parte proteica rappresenta il 60% del peso della molecola, mentre la componente polisaccaridica ne rappresenta il 40%. Sono inoltre presenti siti di glicosilazione che determinano una struttura globulare compatta contenente quattro alfa eliche.

 

Dagli albori della terapia con eritropoietina alla ricerca del target di emoglobina ottimale

Negli anni ’60 i pazienti con MRC si presentavano con sintomi di estrema stanchezza, dovuti alla severa anemia, associata ad una progressiva ritenzione di tossine uremiche. In quegli anni, il trattamento dell’anemia risultava complicato e molto insoddisfacente, ed erano spesso necessarie ripetute trasfusioni per consentire una correzione dell’anemia che, tuttavia, era solo in grado di consentire una sopravvivenza, ma era associata ad una pessima qualità di vita. Inoltre, le necessarie periodiche trasfusioni comportavano un elevato rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e causavano enorme accumulo di ferro nel reticolo-endotelio, fegato compreso. Il ferro accumulato doveva a sua volta essere rimosso, per evitare i danni d’organo da eccessivo accumulo. Tuttavia, i chelanti del ferro, a base di desferriossamina, erano gravati da serie complicanze come la mucoviscidosi.

La pubblicazione del lavoro di Eschbach quasi 40 anni fa [7], relativo al trattamento dell’anemia con gli ESA, ha rivoluzionato la qualità̀ della vita dei pazienti con MRC. Si può quindi immaginare l’enorme entusiasmo con cui fu accolta da medici, infermieri e poi soprattutto dai pazienti, la possibilità di poter utilizzare l’eritropoietina ricombinante per il trattamento dell’anemia renale, in una prima fase per i soli pazienti in dialisi, ma successivamente anche per i pazienti in terapia conservativa. Pazienti che a malapena sopravvivevano con livelli di Hb anche inferiori a 5 g/dl, con una stanchezza indicibile e con innumerevoli sintomi, allora attribuiti all’intossicazione uremica, tornavano a vivere, vedendo sparire, o almeno drasticamente ridursi molti dei loro sintomi. Un’iniezione di eritropoietina nelle linee dei filtri di dialisi, 3 volte alla settimana, bastava a procurare ai pazienti un recupero di relativo benessere, comunque incomparabile rispetto alla situazione clinica precedente.

Un’intuizione ad utilizzare la somministrazione sottocute del farmaco anziché endovenosa, facilitò l’estensione dell’uso del farmaco anche ai pazienti in terapia conservativa, in dialisi peritoneale e successivamente anche ai trapiantati di rene, qualora la loro funzione renale si fosse deteriorata. La somministrazione sottocute evidenziò anche un altro vantaggio, per via di una più bassa concentrazione ematica dell’eritropoietina (alti dosaggi, come noto, sono potenzialmente associati a danneggiamento dell’endotelio dei vasi sanguigni) ed una più prolungata persistenza in circolo, consentendo la riduzione della frequenza di somministrazione a due ed anche una sola volta alla settimana, oltretutto con un risparmio del 30% della dose [8]. Tutto questo ha portato ad un radicale cambio di paradigma rispetto a quanto si era fatto sino ad allora. Era, infatti, necessaria una contemporanea somministrazione di ferro, non solo per la nota frequente carenza di ferro nei pazienti con MRC che non ricevevano più trasfusioni, perché non più necessarie, ma anche per la necessità di avere ferro sufficiente per produrre un’ulteriore quantità di globuli rossi per mantenere gli adeguati livelli di Hb, consentiti dal trattamento con eritropoietina.

Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti, che si arrivò ad una correzione troppo rapida ed eccessiva dei valori di Hb, con conseguenti complicanze, come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni. Oggi si usa più cautela rispetto a quegli anni e i rialzi pressori sono spesso impercettibili, in quanto la correzione dell’anemia inizia gradualmente ed a livelli di Hb solitamente non inferiori a 10 g/dL, per raggiungere e mantenere un target di 10-12 g/dL, come suggerito dal “position statement” pubblicato sull’argomento dalla European Renal Best Practice (ERBP) [9].

Non c’è dubbio quindi che gli ESA siano farmaci efficaci, in grado di correggere l’anemia e mantenere adeguati livelli di Hb nella maggioranza dei pazienti con CKD, migliorando il loro senso di fatica e, più in generale, la loro qualità̀ di vita, riducendo drasticamente la necessità trasfusionale, vantaggio non da poco, anche in previsione di un eventuale successivo trapianto. Inoltre, gli studi osservazionali hanno evidenziato una chiara associazione positiva tra livelli di Hb e sopravvivenza, suggerendo l’esecuzione di trial randomizzati, con l’intento di dimostrare i vantaggi di una completa normalizzazione dei livelli di Hb. Ma i risultati hanno deluso le notevoli aspettative. Un trial randomizzato con pazienti in dialisi [10] e ben tre trial randomizzati con pazienti in fase conservativa [11-13], tra cui molti diabetici (20% nel CREATE [11], 50% nel CHOIR [12] e 100% nel TREAT [13]), hanno complessivamente dimostrato che l’uso degli ESA, con l’intento di raggiungere livelli di Hb più̀ elevati rispetto alla pratica clinica di allora, poteva avere un effetto neutro o addirittura aumentare il rischio di morte o eventi cardiovascolari.

Molto interessante è stata l’osservazione che l’aumento del rischio di complicanze si verificava soprattutto nei pazienti che non erano in grado di raggiungere i target di Hb prefissati dai trial, indipendentemente dal fatto che fosse il target più̀ alto o più̀ basso, nonostante (o forse anche per questo) l’uso di dosaggi elevati di ESA per cercare di raggiungere i target. È stato quindi ipotizzato che l’ipo-responsività agli ESA e, di conseguenza l’uso di dosi elevate di ESA, fossero fattori prognostici negativi più̀ significativi rispetto al raggiungimento di valori di Hb più elevati [14, 15]. Preoccupante era anche il rischio d’insorgenza di neoplasia o la progressione di un’eventuale neoplasia già̀ in essere [13]. D’altra parte, cercare di raggiungere valori di Hb più̀ elevati non aveva prodotto un chiaro e clinicamente significativo miglioramento della qualità̀ della vita (anche se una rianalisi dei dati dello studio TREAT ha mostrato un significativo miglioramento [16]). Di conseguenza le linee-guida internazionali (KDIGO [1], ERBP [9], NICE [17], KDOQI [18] e CARI [19]) sono state tutte concordi nel suggerire un approccio cauto, bilanciando i pro e i contro del trattamento in modo personalizzato e correggendo solo parzialmente l’anemia con gli ESA. In Europa si suggerisce un valore target di Hb compreso tra 10 g/dL e 12 g/dL [9], mentre le linee-guida KDIGO [1] e KDOQI [18] hanno un atteggiamento più conservativo, suggerendo valori di Hb <10 g/dL per iniziare il trattamento con ESA e la sospensione della terapia nei pazienti in fase conservativa o in dialisi la cui Hb superi 11,5 g/dL. Vi è, comunque, comune accordo che non si debba intenzionalmente cercare di raggiungere intenzionalmente valori di Hb >13 g/dL.

Nel valutare le scelte non uniformi dei target di Hb, vale la pena ricordare che la pubblicazione di questi trial è stata contemporanea al cambiamento della politica di rimborso del trattamento dialitico negli Stati Uniti, applicando il “bundle” (tutto incluso). Il rimborso dell’ESA è ora incluso nella tariffa forfettaria per il rimborso del costo del trattamento del paziente con CKD in dialisi, provocando una possibile influenza economica sulle indicazioni al trattamento, dosi da usare e target da raggiungere. L’introduzione del “bundle” ha fatto sì che trattare il paziente con ESA si traducesse in una perdita economica per la struttura, a causa del costo del farmaco, senza rimborso aggiuntivo.

 

Indicazioni attuali alla terapia con ESA sull’inizio della terapia

Il trattamento con ESA deve essere avviato dopo avere appurato la presenza di adeguate riserve marziali, vitaminiche ed esclusa la presenza di sanguinamenti attivi o altre cause di anemia potenzialmente curabili.

Il timing ottimale su quando iniziare la terapia con ESA è un argomento ancora controverso, come confermato dal fatto che le diverse linee guida-position papers danno indicazioni tra loro diverse.

Le linee guida KDIGO del 2012 sconsigliano di iniziare il trattamento con ESA in pazienti con MRC di stadio V per valori superiori a 10 g/dL, senza indicare una soglia oltre la quale si debba iniziare necessariamente la terapia con ESA. Per i pazienti in dialisi viene consigliato d’iniziare la terapia con ESA per valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

L’anno successivo è stato pubblicato il position paper dell’ERBP, che si discosta dalle Linee Guida KDIGO in alcuni punti. In particolare, viene consigliato in generale d’iniziare la terapia con ESA nei pazienti con valori di Hb <10 g/dL. Veniva inoltre consigliato di tenere in considerazione il tasso di caduta della concentrazione di Hb, la precedente risposta alla terapia con ferro, il rischio di dover ricorrere a una trasfusione, i rischi correlati alla terapia con ESA e alla presenza di sintomi attribuibili all’anemia. Come nelle KDIGO, nel caso dei pazienti in emodialisi le ERBP consigliano di iniziare la terapia con ESA in caso di valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

Sempre nel 2013 le linee guida KDOQI e della società canadese di nefrologia hanno fornito i medesimi valori come cut-off per cominciare la terapia con ESA.

Il gruppo di lavoro del National Institute for Health and care excellence (NICE) suggeriscono di iniziare il trattamento con ESA a valori di Hb <11 g/dL indifferentemente dalla classe di MRC o se fosse in terapia conservativa o in dialisi.

Nel 2025 sarà probabilmente disponibile la versione aggiornata delle linee guida KDIGO sulla terapia dell’anemia. Non si prevedono modifiche sostanziali su quando iniziare la terapia con ESA o sul target di Hb a cui mantenere i pazienti durante la terapia, ma ci saranno indicazioni relative agli HIF-PHD inibitori.

 

L’eritropoietina ricombinante umana, i suoi biosimilari e le molecole long-acting

L’epoetina alfa e l’epoetina beta sono praticamente uguali all’eritropoetina endogena, di cui conservano la medesima struttura aminoacidica, mentre differiscono minimamente nella componente glucidica. Per la loro relativamente breve emivita (8 ore se somministrate endovena, 24 ore se somministrate per via sottocutanea), vengono definite “short-acting”. Dai primi studi di registrazione, inizialmente il loro uso era raccomandato con somministrazioni trisettimanali, soprattutto se in fase di correzione. Si è poi visto che, in realtà, possono essere somministrati anche in modo più dilazionato, fino a una volta al mese, soprattutto nei pazienti con basse necessità di dosaggio. Tuttavia, la frequenza dilazionata viene ottenuta spesso a prezzo di un aumento della dose somministrata e di escursioni al di sopra ma anche al di sotto della zona ottimale di stimolo alla produzione di Hb (aumentato rischio cardiovascolare legato alle elevate concentrazioni ematiche e, all’opposto, apoptosi dei globuli rossi quando si scende al disotto di determinati livelli di concentrazione ematica).

Dopo l’immissione in commercio delle prime due epoetine, la ricerca scientifica ha cercato di modificare la struttura dell’eritropoietina, per migliorarne la farmacocinetica e la farmacodinamica, e poterne quindi dilazionare la frequenza di somministrazione. La prima molecola “long-acting” ottenuta, in ordine cronologico, è la darbepoetina alfa. Essa si differenzia dall’eritropoietina ricombinante umana nella struttura aminoacidica per due sostituzioni; ciò permette alla molecola di avere due ulteriori catene di carboidrati attaccate con legame azotato, che ne modificano la struttura tridimensionale e ne aumentano il peso molecolare. La molecola ottenuta ha una ridotta affinità recettoriale rispetto all’eritropoietina, ma un’emivita più lunga (24 ore per via endovenosa, 48 ore per via sottocutanea, ma sono riportate in letteratura anche durate maggiori) [20]. Può essere quindi somministrata con frequenza monosettimanale, fino ad arrivare a quella mensile, senza le problematiche evidenziate per le eritropoietine “short-acting”.

La seconda molecola “long-acting” è il metossipolietilene glicol epoetina beta, ottenuta mediante pegilazione con legame covalente [21]. La molecola ha un peso molecolare ancora più elevato della darbepoetina alfa, un maggior ingombro sterico, una minore affinità recettoriale e un’emivita ancora più lunga (tra le 100 e le 130 ore, sia per via sottocutanea che endovenosa). Viene somministrata con frequenza mensile. Come per la darbepoetina alfa, e differenziandosi dalle molecole “short-acting”, se somministrata per via endovenosa, non comporta la necessità di aumentare la dose rispetto alla somministrazione endovenosa. Inoltre, le molecole “long-acting” si differenziano da quelle “short-acting” per una maggiore stabilità a temperatura ambiente e quindi possono essere conservate anche per giorni fuori dal frigorifero prima di essere somministrate, se la temperatura ambiente è ottimale. Come per l’insulina, ciò può avvenire una sola volta. Come per gli “short-acting”, le molecole “long-acting” necessitano quindi di una stretta catena del freddo, partendo dai siti produttivi, passando al trasporto e poi all’immagazzinamento della catena distributiva, fino ai luoghi dove il farmaco viene conservato prima della somministrazione.

Circa 10 anni fa, è entrata in commercio negli Stati Uniti, per brevissimo tempo, un’altra molecola “long-acting”, la peginesatide. Essa si differenzia dagli altri ESA perché non è ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante, dato che è una molecola di sintesi. Si tratta di un piccolo peptide, in grado di essere riconosciuto dal recettore dell’eritropoietina e determinarne l’attivazione, a cui è stata aggiunta una catena di carboidrati mediante pegilazione, per aumentarne l’emivita e renderlo utilizzabile in ambito clinico [22]. Il farmaco era estremamente interessante, perché aveva le caratteristiche delle molecole “long-acting”, ma con un processo produttivo molto più semplice ed economico, senza necessità di essere conservato in frigorifero e con un prezzo finale di vendita negli Stati Uniti persino inferiore o simile a quello dei biosimilari. Purtroppo, il farmaco è stato ritirato dal commercio solo dopo qualche mese a seguito di alcune severe reazioni allergiche, anche mortali [23]. Inoltre, nei pazienti con MRC in fase conservativa I pazienti randomizzati a peginesatide avevano avuto un rischio aumentato di raggiungere endpoint cardiovascolari (in particolare morte, angina instabile e aritmie) rispetto a quelli assegnati al trattamento con darbepoetina alfa [24]. In epoca recente, lo sviluppo clinico del farmaco è stato ripreso da una compagnia cinese [25].

In generale, la terapia con ESA è costosa. Al termine della durata del brevetto prima dell’epoetina alfa, poi dell’epoetina beta e della darbepoetina alfa, sono stati sviluppati diversi biosimilari di queste molecole, con il fine ultimo di potere abbassare i costi della terapia. Questo ha comportato a sua volta una riduzione del prezzo di vendita anche delle molecole “originator”, con un risparmio economico significativo. Allo scadere del brevetto, infatti, la struttura della molecola viene resa nota e quindi copiabile. Al contrario, il processo produttivo resta esclusivo dello sviluppatore del farmaco. Ne consegue che i produttori di biosimilari hanno dovuto sviluppare a loro volta i processi produttivi delle molecole, che in quanto biosimilari e non farmaci generici, hanno caratteristiche simili, ma non identiche alla molecola “originator”. In Europa e negli Stati Uniti la “European Medicine Agency (EMA) e la “Food and Drug Administration” (FDA) hanno sviluppato una precisa e stretta regolamentazione per lo sviluppo ed immissione in commercio dei farmaci biosimilari (definizione riservata dall’EMA ai farmaci approvati, mentre quelli non approvati sono definite copie), garantendo un profilo di sicurezza ed efficacia accettabili e stabilendo un range massimo di variabilità rispetto alla molecola “originator” [26]. Tuttavia, proprio perché il processo produttivo non è identico a quello del suo “originator”, piccole differenze possono portare alla produzione di lotti con efficacia diversa (sia maggiore che minore) o con una maggiore immunogenicità, con conseguente rischio di sviluppare una rara complicanza della terapia con ESA, l’aplasia midollare della serie rossa. Tale complicanza, non esclusiva dei biosimilari, ma descritta anche per gli “originator”, è stata principalmente riportata quando il farmaco viene somministrato per via sottocutanea [27]. Al contrario, il rischio di sviluppare aplasia midollare della serie rossa dopo somministrazione endovenosa è praticamente nullo. In generale quindi, è preferibile evitare di sostituire la molecola di ESA in corso di terapia con somministrazione sottocutanea, se non in presenza di motivazioni cliniche rilevanti. Al contrario il passaggio da una molecola ad un’altra risulta essere una pratica meno rischiosa, e ormai diffusa in ambito clinico, nei pazienti che ricevono il farmaco per via endovenosa (ad esempio quando iniziano il trattamento emodialitico sostitutivo) [28].

Pur se con differente affinità recettoriale ed emivita, tutti gli ESA hanno il medesimo meccanismo d’azione, riconoscendo tutti il recettore dell’eritropoietina e determinandone l’attivazione. Tuttavia, proprio le differenze farmacocinetiche e farmacodinamiche delle molecole potrebbero comportare sottili differenze nella modalità di attivazione del recettore, che potrebbero portare all’attivazione di diverse cascate enzimatiche [29]. Inoltre, i diversi picchi ematici di eritropoietina potrebbero comportare l’attivazione del recettore dell’eritropoietina su tessuti diversi, con differenti effetti pleiotropici (sia positivi che negativi). I nefrologi si sono concentrati per quasi due decenni sull’individuazione del target migliore di Hb a cui mirare con la terapia con ESA e hanno considerato solo in modo marginale la possibilità che le diverse molecole di ESA potessero avere un profilo di sicurezza tra loro differente. Peraltro, alcuni studi e metanalisi non avevano evidenziato segnali di rischio in tal senso [30]. Tuttavia, uno studio osservazionale giapponese di registro, su circa 200.000 pazienti, ha riportato un aumento del rischio di morte per ogni causa e per cause cardiovascolari nei pazienti trattati con molecole “long-acting” rispetto a quelle “short-acting” [31]. Questo era particolarmente vero nei soggetti trattati con elevate dosi di ESA. Lo studio però presentava una serie di bias che ne complicano l’interpretazione. In particolare, per motivi di rimborsabilità, i pazienti con elevati necessità di dose di ESA short acting (9.000 U.I./settimana) erano obbligatoriamente (autorità regolatorie giapponesi) passati a long acting. Inoltre, una quota importante di pazienti era stata esclusa dall’analisi per assenza di informazioni sulla terapia in corso con eritropoietina [31].

Risultati sovrapponibili sono stati ottenuti dallo studio DOPPS (Dialysis Outcomes and Practice Patterns Study), ma per il solo Giappone, ovviamente, essendo il database lo stesso. Al contrario, il rischio di morte era sovrapponibile, o addirittura inferiore, tra le molecole “short-acting” e “long-acting” nei pazienti americani ed europei.

Anche uno studio randomizzato, effettuato per fine registrativi di farmacovigilanza su una popolazione mista di pazienti in dialisi e non, non ha dimostrato differenze nel rischio di sviluppare eventi cardiovascolari o morte tra il trattamento con metossipolietilene glicol epoetina beta o altri ESA [32]. Dati opposti sono stati ottenuti da un altro studio osservazionale italiano, effettuato in pazienti con MRC in fase conservativa, con evidenza di un possibile aumento del rischio di morte e rischio di dialisi nei trattati con molecole “short-acting” ad alto dosaggio [33].

Recentemente, un’analisi di circa 60.000 pazienti emodializzati con Medicare negli Stati Uniti ha mostrato, come lo studio italiano sopracitato, un aumento del rischio di morte in chi riceveva le molecole “short-acting” rispetto alle “long-acting”, senza nessuna differenza sul rischio di endpoint cardiovascolari maggiori (MACE) [34].

Complessivamente, come anche dimostrato da una recente metanalisi, l’utilizzo delle singole molecole di ESA non sembra avere relazione con il rischio di morte ed eventi cardiovascolari se vengono rispettate le frequenze di somministrazione autorizzate [35]; i dati disponibili a supporto di possibili differenze sembrano essere influenzati principalmente da bias prescrittivi.

 

Le ombre della terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi

La terapia con ESA è, ormai da decenni, largamente diffusa nel mondo per la cura dell’anemia nei pazienti con MRC. Il farmaco si è dimostrato nel tempo relativamente sicuro e ben tollerato, anche grazie all’acquisizione da parte dei clinici di una maggiore esperienza nell’utilizzo di queste molecole.

Il recettore per l’eritropoietina umana, quando attivato dall’ormone, viene internalizzato, subisce un processo di degradazione dell’eritropoietina ad esso legato e viene nuovamente reso disponibile in superficie per un nuovo legame, evitando la saturazione dei recettori in superficie. Questa particolare cinetica è condizionata dalla concentrazione dell’ormone, rendendo possibile un’attivazione massiccia in caso di anemia severa [36]. Al contrario, però, manca un sistema di protezione in caso di utilizzo dell’eritropoietina esogena, soprattutto quando utilizzata ad alte dosi.

È noto che il recettore dell’eritropoietina è presente in diversi tessuti, tra cui il sistema nervoso centrale, l’endotelio, i cardiomiociti e le cellule lisce muscolari. Negli anni sono stati ipotizzati numerosi effetti pleiotropici, una parte di questi protettivi sia a livello cardiaco [37, 38] che neurologico [39-41].

D’altro canto, diversi dati sperimentali sono a supporto di una possibile azione dell’eritropoietina, soprattutto se somministrata ad alte dosi, nell’accentuare il rischio di trombosi ed eventi cardiovascolari, in modo indipendente dal solo aumento della viscosità ematica dato dalla correzione dell’anemia. Ad esempio, nelle cellule endoteliali, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione di attivazione endoteliale, aumento dell’angiogenesi e produzione di endotelina 1 [42, 43]. Il meccanismo potrebbe essere accentuato dalla presenza di ischemia [44]. Il recettore dell’eritropoietina è espresso anche sui megacariociti, dove potrebbe accelerarne sia la maturazione e l’attività pro-trombotica [45]. È ancora oggi controverso come e in quale misura queste evidenze sperimentali possano contribuire ad un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA. Sebbene i primi studi effettuati con gli ESA non fossero finalizzati a dimostrare un effetto cardiovascolare, non hanno messo in luce un aumentato rischio di morte rispetto a placebo per valori di Hb intorno ai 10 g/dL [46]. Al contrario, la correzione dell’anemia severa comporta vantaggi in termini di miglioramento della qualità della vita, riduzione della necessità di emotrasfusioni e riduzione della massa ventricolare sinistra [47].

L’utilizzo degli ESA negli anni ’90 e 2000 in trial randomizzati, come trattato nella precedente sezione sul target ottimale di Hb a cui mirare con la terapia, ha invece messo in luce con chiarezza un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA a target di Hb prossimi alla normalizzazione. Risultano essere a particolare rischio di complicanze i pazienti affetti da diabete, con precedenti eventi cardiovascolari, o affetti da arteriopatia agli arti inferiori. È inoltre emerso che la presenza d’infiammazione e d’iporesponsività alla terapia con ESA possano rappresentare ulteriori ed importanti fattori di rischio per le complicanze trombotiche e cardiovascolari in corso di terapia [48-50].

Un’altra ombra della terapia con ESA riguarda un possibile effetto pro-oncogenico. Tale preoccupazione nasce in primis dal fatto che l’eritropoietina è un fattore di crescita. Oltre a ciò, negli anni la ricerca di base ha dimostrato l’espressione del recettore dell’eritropoietina nelle cellule tumorali; restano però ancora dubbi sull’entità della loro attivazione, soprattutto in corso di terapia con ESA, e il loro ruolo prognostico [51]. Inoltre, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione sul “vascular endothelial growth factor” [52], contribuendo all’angiogenesi, con effetto di aumento della rapidità di crescita del tumore e della sua diffusione a distanza.

L’interpretazione dei dati sperimentali è resa ulteriormente complicata dal fatto che l’espressione del recettore dell’eritropoietina è influenzata dal tipo di tumore.

Infine, la terapia con ESA ha verosimilmente un effetto protrombotico, che potenzierebbe quello già di per sé aumentato dei pazienti oncologici [53].

Negli anni 2000 diversi trial randomizzati e metanalisi hanno evidenziato una possibile riduzione della sopravvivenza [54] o un aumento della crescita tumorale per alcuni tumori solidi in pazienti anemici trattati con ESA con un target di Hb prossimo alla normalità. Altre metanalisi non hanno confermato il dato [55, 56]. Sulla scorta di queste esperienze, oggi nei pazienti oncologici la terapia con ESA è riservata solo ai pazienti sottoposti a chemioterapia, mirando a target di Hb più bassi [57, 58].

I dati in letteratura su un possibile effetto prooncologici degli ESA nei pazienti con MRC sono limitati e poco conclusivi [13, 59]. La loro interpretazione è ulteriormente complicata dal fatto che la MRC di per sé è associata ad un aumento della prevalenza di neoplasie, in parte a causa di una riduzione delle difese immunitarie nei pazienti uremici [60]. A titolo precauzionale, è consigliato di soppesare il rischio beneficio nel singolo paziente oncologico con MRC di un’eventuale terapia con ESA, soprassedendo, ove possibile, nei pazienti dove si prevede una possibile cura della malattia oncologica [61].

 

Alternative terapeutiche e prospettive future

Da un paio di anni sono diventati disponibili nuove molecole per la cura dell’anemia nei pazienti con malattia renale cronica, gli inibitori delle HIF-PHD (hypoxia inducible factor prolyl hydroxylases). Queste molecole si differenziano dagli ESA perché agiscono andando a stimolare l’eritropoietina endogena, dimostrandosi efficaci anche nelle fasi più avanzate della MRC, fino ai pazienti anefrici. Date le ombre sui possibili rischi cardiovascolari degli ESA, gli enti regolatori (EMA e FDA) hanno imposto per la loro registrazione l’esecuzione di diversi trial randomizzati di fase 3, finalizzati non solo a dimostrare l’efficacia delle molecole (superiorità rispetto al placebo o non inferiorità rispetto agli altri ESA), ma anche a garantirne la sicurezza, soprattutto dal punto di vista cardiovascolare. A tale scopo sono stati arruolati nel mondo decine di migliaia di pazienti.

Delle sei molecole oggi disponibili nel mondo, tre sono state sviluppate solo in India o Estremo Oriente (molidustat, desidustat, enarodustat) e non sono quindi disponibili per uso clinico negli Stati Uniti o Europa. Le altre tre molecole (roxadustat, vadadustat, daprodustat) hanno avuto destini diversi in termini di approvazione e successiva commercializzazione in Europa e Stati Uniti, principalmente sulla base dei diversi risultati dei singoli trial clinici e di alcuni segnali di possibile aumento degli eventi cardiovascolari o delle trombosi emersi da analisi secondarie. Ad oggi, il roxadustat è in commercio in Europa sia per i pazienti in dialisi che per quelli in fase conservativa. Il vadadustat è approvato e in fase di commercializzazione in Europa e Stati Uniti solo per i pazienti in dialisi prevalenti. Analogamente, il daprodustat è stato approvato solo per i pazienti in dialisi da entrambi gli enti regolatori, ma non è stato commercializzato in Europa per una scelta aziendale.

Nonostante le aspettative verso questa nuova classe di farmaci fossero molte, soprattutto in termini di un miglior profilo di sicurezza cardiovascolare rispetto agli ESA, i risultati dei trials non hanno confermato l’ipotesi iniziale, ponendoli solo come una possibile alternativa terapeutica agli ESA, con un profilo di sicurezza a questi sovrapponibili nella maggior parte dei casi [62-64].

Dal punto di vista pratico, gli inibitori delle HIF-PHD si differenziano dagli ESA perché vengono somministrati per via orale e perché sono conservati a temperatura ambiente. Inoltre, grazie alla loro azione di stimolazione del sistema HIF, potrebbero aumentare l’assorbimento e la disponibilità del ferro ed essere più efficaci nei pazienti infiammati iporesponsivi agli ESA [65, 66].

Dal punto di vista delle prospettive future, dopo anni di intensa ricerca e sviluppo clinico per gli HIF-PHD inibitori, il panorama scientifico nel campo della terapia dell’anemia nei pazienti con MRC ha subito un notevole rallentamento, sia in termini di finanziamenti che di numero di nuove molecole innovative in sviluppo [67]. Ad oggi la strategia più promettente, e con maggiori possibilità di entrare nel breve-medio termine in commercio, sembra essere quella che va ad agire su alcune interleuchine, riducendo l’infiammazione e quindi migliorando gli outcome cardiovascolari. L’effetto antinfiammatorio comporta anche il miglioramento dell’anemia e/o la risposta agli ESA [68].

 

Conclusioni

La terapia con ESA, e in epoca recente con gli HIF-PHD inibitori, rappresentano una rivoluzione scientifica che ha permesso il trattamento dell’anemia sintomatica in milioni di persone nel mondo. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.

Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA o HIF-PHD inibitore deve essere personalizzata il più possibile, sia in termine di target di Hb, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

 

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