Il rigetto acuto anticorpo-mediato (AMR) è un’entità clinico-patologica conosciuta sin dagli albori della trapiantologia, quando veniva descritto come causa di rigetti iperacuti ed accelerati in grado di determinare la perdita dell’organo trapiantato nell’arco di pochi giorni o addirittura di poche ore dopo l’intervento. Da subito si era capito che alla base di questi processi vi era la presenza di anticorpi preformati con specificità diretta contro antigeni espressi sulle cellule del donatore [1].
Con il progredire della capacità di definire la compatibilità immunologica tra donatore e ricevente e la consensuale messa a punto di tecniche sempre più sensibili nel riconoscere la presenza di anticorpi (Ab) anti-HLA preformati, unitamente all’avvento di farmaci antirigetto sempre più efficaci, la problematica del rigetto anticorpo-mediato, noto inizialmente solo come causa di rigetti iperacuti ed accelerati, è rimasta misconosciuta e trascurata per molto tempo. Solo sul finire degli anni ‘90 e poi nel corso dell’ultimo ventennio, con il progredire delle conoscenze dei processi fisiopatologici implicati nella risposta umorale, questo tipo di rigetto è stato progressivamente inquadrato e sempre meglio definito.
Risale ai primi anni ‘90 l’intuizione relativa al ruolo svolto dagli Ab anti-HLA in certe forme di rigetto, morfologicamente caratterizzate dalla presenza di infiltrati polimorfonucleati neutrofili nei capillari peritubulari (CPT) [2]. Tale intuizione veniva successivamente confermata dal consensuale riscontro della frazione C4d del complemento in quegli stessi capillari [3]. Tale dato suggeriva un’attivazione della cascata complementare, plausibilmente mediata dagli Ab donatore specifici (DSA) [3]. Solo nel 1997 l’AMR è stato introdotto come entità anatomopatologica autonoma nella classificazione di BANFF [4]. Da allora, questa forma di rigetto è stata oggetto di studi che hanno portato ad un suo inquadramento sempre più preciso nelle classificazioni clinico-patologiche che si sono susseguite negli anni ad opera degli studi collaborativi di BANFF, sino alla definizione più recente del 2019 [5].
Sulla base della classificazione di BANFF, che è universalmente riconosciuta, per poter diagnosticare con certezza un rigetto acuto anticorpo-mediato devono essere rispettati tre criteri fondamentali (Figura 1):
- evidenza istologica di danno tissutale;
- segni indiretti di recente interazione tra anticorpi anti-donatore specifici (DSA) ed endotelio;
- riscontro di DSA circolanti.
Nella sostanza, il danno tissutale considerato tipico di AMR è rappresentato da alterazioni infiammatorie del microcircolo, ovvero localizzate a livello dei capillari glomerulari (glomerulite) e peritubulari (capillarite). Tuttavia, anche lesioni infiammatorie a carico delle arteriole di maggior calibro (arterite), segni di microangiopatia trombotica, e la presenza di sofferenza tubulare acuta in assenza di una causa nota sono considerati elementi patologici riconducibili ad AMR [5] (Figura 2).
Per quanto riguarda il secondo criterio, la presenza della frazione C4d del complemento nei capillari peritubulari è considerata la prova tipica di un’attivazione anticorpo-mediata della cascata complementare da parte di DSA ai danni dell’endotelio capillare (Figura 2). Tuttavia, in assenza di depositi di C4d, anche il semplice riscontro di una intensa infiammazione del microcircolo può essere considerata prova indiretta di danno endoteliale anticorpo-mediato, come pure la presenza di determinati trascritti genici nel tessuto renale, quando disponibili e sufficientemente validati [5]. Si tratta dei cosiddetti AMR-C4d negativi, entità nosologica riconosciuta dal 2013 [6].
Il terzo criterio è ovviamente rappresentato dalla presenza di DSA, che possono essere classicamente diretti contro gli HLA, ma anche contro altri antigeni non-HLA, non sempre facilmente individuabili [5].
È da sottolineare come nel tempo l’elemento anatomopatologico delle alterazioni del microcircolo ha progressivamente assunto un ruolo sempre più importante nella definizione diagnostica di rigetto umorale. In effetti, a causa dell’andamento ondivago dell’attivazione del complemento, il deposito di C4d, ritenuto inizialmente criterio necessario per formulare una diagnosi corretta di AMR, dal 2013 non è più considerato indispensabile, a favore di elementi morfologici come le lesioni del microcircolo nonché, quando disponibili, la presenza di markers genetici validati, per quanto questi ultimi non siano ancora utilizzabili routinariamente ed in maniera estesa nella pratica clinica comune [6].
Anche la presenza di DSA anti-HLA non è più considerata un elemento indispensabile per la diagnosi, in quanto è riconosciuta la possibilità che altri DSA non anti-HLA possano guidare la risposta immunologica del rigetto umorale [6]. Nella pratica comune, tuttavia, non è sempre possibile disporre di pannelli in grado di identificare tutti gli anticorpi potenzialmente in grado di causare un rigetto umorale ed in tal senso le capacità diagnostiche attuali sono ancora limitate. Numerosi sono gli sforzi della comunità scientifica volti allo studio dell’espressione genica, quale mezzo surrogato per riconoscere l’attività patologica di DSA non-HLA, ma questo rappresenta una risorsa non ancora facilmente utilizzabile nella pratica comune.
Per quanto riguarda la definizione del rigetto cronico anticorpo-mediato, l’elemento cardine è rappresentato dal riscontro delle tipiche lesioni glomerulari rilevabili in microscopia ottica (in elettronica anche nelle fasi iniziali) e che definiscono la cosiddetta glomerulopatia cronica da trapianto. Tale entità è definita dallo sdoppiamento delle membrane basali del glomerulo, che può associarsi o meno a multi-slaminamento delle membrane basali dei capillari tubulari e ad arteriopatia cronica, caratterizzata da fibro-sclerosi intimale con infiltrati leucocitari (Figura 3).
Nella maggior parte degli studi l’incidenza dell’AMR acuto varia dal 3% al 12% [7]. Questa notevole variabilità dipende da vari fattori: il diverso intervallo di osservazione nelle varie casistiche, la continua evoluzione e modifica dei criteri diagnostici utilizzati nell’ultimo ventennio, le diverse politiche di gestione della biopsia renale con attivazione o meno di programmi di biopsie protocollari e conseguente inclusione o meno di rigetti umorali subclinici. A questo ha ulteriormente contribuito la poca chiarezza nella definizione del rischio immunologico delle popolazioni incluse negli studi e nella definizione degli schemi immunosoppressivi di induzione e di mantenimento adottati (in particolare l’uso o meno di depletori linfocitari e/o di schemi privi di steroide).
È noto che lo sviluppo di un rigetto acuto porta con sé un incrementato rischio di perdita del trapianto nel medio e lungo termine. Se questo è vero in generale, lo è ancora di più quando il rigetto è anticorpo-mediato, in particolare nel lungo termine. Un recente studio basato sui dati di registro di dialisi e trapianto di Australia e Nuova Zelanda (13.614 pazienti trapiantati tra il 1997 ed il 2017) mostra come il rigetto acuto aumenta il rischio di perdita dell’organo di quasi 1,4 volte e si associa ad aumentato rischio di decesso con rene funzionante (HR: 1,2) per causa cardiovascolare (HR: 1,3) e per neoplasia (HR: 1,35) [8]. In questa ampia casistica, i pazienti con AMR, rispetto a quelli con rigetto senza componente umorale, mostrano un aumentato rischio di perdita dell’organo, che incrementa progressivamente nel tempo, sino a divenire statisticamente evidente dopo i 5 anni post-trapianto (Figura 4) [8].
Come mostra un recente studio monocentrico di Parajuli S e Djamali A (Università del Wisconsin), il rigetto acuto rappresenta la causa più comune di perdita del trapianto. Non solo è la principale causa di perdita precoce (entro i primi 6 anni), ma rappresenta anche un’importante causa di perdita del rene trapiantato nel lungo termine (oltre i 6 anni post-trapianto), seconda solo al rigetto cronico (Figura 5) [9]. Questo lavoro ha considerato 329 pazienti trapiantati nel periodo 2006-2016 e ha analizzato istologicamente le cause di perdita dell’organo osservate nel corso del follow-up. Entro i primi 6 anni, i fallimenti del trapianto erano sostenuti nel 48% dei casi da rigetto acuto; dopo il sesto anno, la perdita del trapianto era causata da rigetto acuto nel 26% dei casi e da rigetto cronico nel 32% dei casi. Ma considerando che l’80% dei rigetti acuti erano di tipo anticorpo-mediato o misto e che il 70% dei rigetti cronici avevano una genesi umorale, è facile comprendere come il rigetto mediato da anticorpi donatore-specifici, debba essere considerato in assoluto la causa principale di fallimento del trapianto.
Dunque, ogni passo in direzione di una più efficace prevenzione e terapia di questa entità clinica comporta un passo in avanti nel miglioramento della sopravvivenza del trapianto. Purtroppo, allo stato attuale non sono ancora disponibili terapie realmente efficaci nel prevenire e trattare il rigetto anticorpo-mediato e da tempo la comunità scientifica richiede studi randomizzati volti a testare nuovi approcci terapeutici. D’altra parte, la ricerca di nuove terapie richiede un’approfondita conoscenza dei processi patogenetici che sono alla base dello sviluppo di questo tipo di rigetto e nel corso delle ultime due decadi molte nozioni sono state acquisite in tal senso.
Da tempo sappiamo che il primo evento alla base dei processi che portano alla genesi dell’AMR è rappresentato dallo sviluppo di anticorpi anti-donatore specifici (DSA). Classicamente si tratta di anticorpi diretti contro antigeni HLA espressi prevalentemente dalle cellule endoteliali del donatore e riconosciuti al momento del trapianto dal sistema immunitario del ricevente. È noto che la probabilità di sviluppare questi anticorpi tenda a crescere nel tempo. Nel 2015 Wiebe ha documentato come in 508 pazienti a rischio immunologico standard, l’incidenza di DSA passasse dal 2% al 10% tra il primo ed il quinto anno post-trapianto, incrementasse progressivamente fino a quasi il 20% al decimo anno per crescere ulteriormente negli anni successivi (Figura 6) [10]. In questo lavoro il fattore di rischio più importante per lo sviluppo di DSA (oltre al tempo) si dimostrava essere la scarsa compliance alla terapia. Gran parte della letteratura sull’argomento conferma questi dati [11-18], suggerendo, oltre alla non aderenza alla terapia, anche altri fattori di rischio per lo sviluppo di DSA de novo, come il numero elevato di mismatch HLA con il donatore (in particolare per i loci DR e DQ), l’uso di schemi di minimizzazione dell’immunosoppressione e l’esposizione ad eventi in grado di incrementare l’immunogenicità del trapianto attraverso lo sviluppo di infiammazione tissutale, quali infezioni virali, rigetto cellulare, danno da ischemia-riperfusione [16-18].
Alla comparsa di DSA la funzione dell’organo può essere ottimale e mantenersi tale per molto tempo. È nel medio e lungo termine (dopo almeno 5 anni dal rilievo) che la loro presenza si associa ad un peggioramento della sopravvivenza del trapianto [18]. Tale dato temporale supporta l’ipotesi patogenetica alla base della storia naturale del rigetto umorale. Questa ipotesi prevede una prima fase del tutto asintomatica il cui unico segno è rappresentato dalla presenza di DSA circolanti, una seconda fase subclinica, in cui compaiono le stigmate morfologiche del rigetto umorale, in assenza di segni di disfunzione dell’organo e quindi rilevabile solo tramite uno studio istologico, ed infine una terza ed ultima fase in cui la progressione delle lesioni istologiche porta alla disfunzione progressiva sino alla perdita del trapianto in tempi molto variabili (Figura 7).
Si tratta quindi di capire quali possano essere i fattori di rischio di sviluppo e progressione del processo immunologico che porta alla perdita dell’organo. Innanzitutto, esistono DSA con un diverso potenziale patogeno, in grado di determinare un danno più o meno grave attraverso differenti processi immunologici. In particolare, una prima distinzione va fatta tra DSA in grado di legare o meno il complemento. I DSA che legano il complemento sono tipicamente immunoglobuline (IgG) di classe 1 e 3, più spesso diretti contro gli antigeni HLA di classe I (espressi su tutte le cellule nucleate) ed in grado di attivare la cascata complementare. Essi sono usualmente causa di rigetti acuti precoci e caratterizzati dalla presenza della frazione C4d del complemento a livello dei capillari peritubulari [19, 20]. I DSA che non legano il complemento sono invece IgG di classe 2 e 4, più frequentemente dirette contro gli antigeni HLA di classe II espressi fisiologicamente sulle cellule dendritiche, linfociti B e macrofagi e solo in seguito ad un insulto infiammatorio anche su altre cellule, in particolare sulle cellule endoteliali [20-22]. Questi anticorpi hanno un tempo di latenza più lungo e svolgono la loro azione o attraverso un danno diretto sulle cellule endoteliali o mediato da cellule NK, macrofagi e neutrofili, reclutati ed attivati attraverso il frammento Fc dell’immunoglobulina. Questo rigetto si manifesta in assenza di depositi di C4d. A questi anticorpi vengono attribuiti la maggior parte dei rigetti cronici, per definizione scarsamente o per nulla responsivi alle terapie (Figura 8) [23]. Si tratta di una entità nosologica definitivamente accettata solo dal 2013, in quanto in precedenza la presenza di C4d era considerata condizione sine qua non per la diagnosi di AMR.
Bisogna sottolineare che entrambi i processi possono coesistere e prevalere l’uno sull’altro in modo variabile nel corso del tempo a seconda della risposta ai trattamenti antirigetto. Tuttavia, diversi studi dimostrano la maggior patogenicità dei DSA capaci di legare ed attivare il complemento. In un’ampia coorte studiata da Loupy et al., la presenza di DSA che legano la frazione C1q correlava con aumentata incidenza di AMR e con la presenza di lesioni istologiche più severe in termini di infiammazione totale, infiammazione del microcircolo, endoarterite, glomerulopatia cronica da trapianto e C4d positività, oltre che con aumentato rischio di disfunzione e perdita dell’organo [24]. Altri lavori hanno poi confermato la correlazione tra DSA leganti C1q e l’aumentato rischio di AMR e fallimento del trapianto [25, 26]. Allo stesso modo studi successivi hanno documentato una correlazione tra DSA leganti la frazione C3d del complemento e perdita del trapianto. Tale correlazione risultava ancor più accurata rispetto a quanto visto con i DSA leganti C1q [27, 28]. Inoltre, in uno studio del 2016, Lefaucheur e collaboratori, hanno documentato in una coorte di 125 pazienti con DSA circolanti una correlazione diretta tra la presenza di un DSA dominante appartenente alla sottoclasse IgG3 e rigetto acuto anticorpo-mediato clinicamente evidente e precoce perdita del trapianto. In effetti la sottoclasse IgG3 è quella in grado di legare con maggior affinità il complemento. Al contrario, la sottoclasse IgG4, che non è in grado di attivare il complemento, si associava a rigetto subclinico, comparsa di glomerulopatia cronica da trapianto e più tardivo sviluppo di disfunzione e perdita dell’organo [29].
Il potenziale patogeno dei DSA dipende anche dal titolo dell’anticorpo circolante, anche se in minor misura rispetto alla sua abilità di legare o meno il complemento. Esiste una correlazione tra il titolo dei DSA, la loro capacità di attivare il complemento ed il rischio di sviluppare AMR [27, 30]. Tuttavia, tale correlazione non può essere considerata assoluta, in quanto la metodica (Luminex) con la quale viene misurato il titolo di questi anticorpi è semiquantitativa, espressa attraverso l’intensità media di fluorescenza (MFI) e gravata da alcuni limiti tecnici dovuti a cross-reazioni tra epitopi comuni e con frammenti denaturati di HLA in presenza di multipli DSA. Esistono comunque dei cutoffs comunemente accettati per considerare significativo un titolo di DSA, che sono rappresentati dal valore di 3000 per i DSA di classe I e 5000 per quelli di classe II [23].
Accanto ai classici DSA anti HLA, nel corso degli anni sono state identificate svariate famiglie di autoanticorpi che possono essere implicate nel processo di rigetto del trapianto renale, anche se in alcuni casi con ruoli non ben definiti. Tra questi ricordiamo i MICA e MICB diretti contro antigeni correlati alla catena A e B del complesso maggiore di istocompatibilità di classe I (loci B e C) [31], gli anticorpi diretti contro antigeni non HLA e non gruppo sanguigno delle cellule endoteliali (anti-ECA) [32], quelli diretti contro il recettore tipo A dell’endotelina (anti-ETAR)[33], gli anti-recettore tipo 1 dell’angiotensina 2 (anti-AT1R) [34], gli anticorpi specifici per il frammento C terminale del perlecano (LG3)[35] e gli anticorpi neutralizzanti naturali (Nabs) polireattivi [36]. Alcuni di questi DSA non-HLA risultano di particolare interesse ed aiutano a comprendere alcuni passaggi nei processi patogenetici che guidano il rigetto anticorpo-mediato. Si tratta di auto-anticorpi diretti contro antigeni criptici, come il perlecano/LG3, l’AT1R o altri antigeni presenti nelle cellule apoptotiche. In seguito ad un insulto aspecifico come quello da ischemia-riperfusione, così frequente al momento del trapianto, ma anche in seguito a qualunque altro processo in grado di determinare danno tissutale, come un rigetto cellulare o un processo flogistico di natura infettiva, questi antigeni “nascosti” all’interno delle cellule possono venire esposti al riconoscimento da parte del sistema immunitario con conseguente sviluppo di autoanticorpi. L’interazione di questi auto-anticorpi (che possono anche essere naturalmente preformati), con i rispettivi antigeni target, innesca quei processi, in parte mediati dall’attivazione della cascata complementare, che portano all’amplificazione della reazione infiammatoria e conseguente incremento del danno tissutale. Un circolo vizioso modulato da un processo immunologico che definisce tipicamente il rigetto anticorpo-mediato (Figura 9) [37].
Tra gli anticorpi più recentemente indentificati vi sono gli anticorpi naturali (Nabs). Si tratta di anticorpi capaci di interagire con multipli auto-antigeni di natura proteica e lipidica resi immunogenici dal legame covalente con malondialdeide, sostanza generata da processi di perossidazione. Recenti studi hanno documentato un’associazione significativa tra presenza di Nabs e peggiore outcome renale, maggior frequenza e severità delle lesioni infiammatorie del microcircolo e dei depositi di C4d nei capillari peritubulari [38]. Meno recenti invece sono le segnalazioni di rigetto steroide-resistente, associato ad ipertensione maligna e morfologicamente caratterizzato da severa endoarterite, necrosi fibrinoide, microtrombi e secondaria necrosi ischemica corticale, in assenza di DSA anti-HLA. In una serie di 16 casi pubblicata nel 2005, gli autori dimostravano la presenza di anticorpi anti-recettore 1 dell’angiotensina II. Gli autoanticorpi erano IgG di classe 1 e 3 e capaci di attivare il recettore. Erano stati ritenuti responsabili dello sviluppo di queste severe forme di rigetto vascolare, con perdita dell’organo nel 70% dei casi entro 3 anni [34].
Ad oggi non è ancora chiaro quale sia il trattamento ottimale del rigetto anticorpo-mediato. Ciò è dovuto, almeno in parte, alla continua evoluzione della definizione di rigetto umorale, così come all’incompleta conoscenza dei processi immuno-patogenetici che sottendono lo sviluppo e la progressione di questo tipo di rigetto. Le terapie che oggi vengono comunemente considerate standard per la gestione del rigetto umorale, si basano su studi di bassa qualità, eterogenei, spesso non randomizzati e non conclusivi. Le stesse linee guida di trattamento risalgono al 2009 (KDIGO) e da allora non sono mai state aggiornate. Esse propongono terapie basate sull’impiego variamente combinato di farmaci e procedure come, glucocorticoidi, anticorpi depletori linfocitari, plasmaferesi, IG-vena ad alte dosi e Rituximab [39, 40]. Gli obiettivi dichiarati di questi trattamenti sono, da un lato, quello di favorire la rimozione dei DSA, dall’altro quello di bloccare il perpetuarsi della loro produzione, agendo a vari livelli del processo immunologico che guida il rigetto umorale.
Gli steroidi ad alte dosi vengono consigliati per ridurre aspecificamente l’infiammazione innescata dai DSA, ma anche con l’intento di ridurre la produzione stessa dei DSA attraverso la soppressione delle cellule T. Con lo stesso intento sono stati impiegati poco frequentemente gli anticorpi depletori linfocitari, per la loro azione di soppressione e decremento dei linfociti T. Le Ig-vena ad alte dosi sono tra i farmaci più impiegati in quanto capaci di agire a più livelli, interferendo con i processi di produzione degli anticorpi, ma anche modulando e bloccando l’azione patogena diretta e complemento-mediata dei DSA circolanti. Oltre a questi trattamenti farmacologici, gli schemi di terapia standard prevedono il ricorso alle metodiche di rimozione diretta dei DSA, come plasmaferesi/plasma-exchange ed immunoadsorbimento. In anni più recenti sono stati introdotti nuovi farmaci. L’anticorpo monoclonale anti-CD 20 (rituximab) ha come target le cellule B di cui è in grado di bloccare i processi di maturazione in plasmacellule, deputate alla secrezione di immunoglobuline. Un inibitore di proteosoma (bortezomib) è in grado di indurre apoptosi delle plasmacellule stesse, determinandone una progressiva deplezione. Altre terapie sono mirate ad intervenire a valle della produzione degli anticorpi, agendo mediante l’interruzione della cascata complementare attraverso la quale alcuni DSA esprimono il loro potenziale dannoso. A questo gruppo appartengono gli inibitori del fattore 1 del complemento (C1q) e l’Eculizumab, anticorpo monoclonale anti-frazione C5 del complemento, in grado di bloccare la cascata complementare prima della formazione del complesso di attacco alla membrana (MAC), effettore finale del danno cellulare [40] (Figura 10).
La criticità principale relativa alla terapia del rigetto umorale è rappresentata dal fatto che i dati di letteratura non supportano una chiara evidenza di efficacia, neanche per quei trattamenti considerati standard (Figura 11). Non esistono infatti studi randomizzati e controllati che dimostrino con certezza il beneficio delle IG-vena impiegate in questo contesto [41]. Per quanto riguarda le plasmaferesi, i dati favorevoli emersi da un unico studio randomizzato [42] non sono stati confermati in altri lavori [43-45]. Anche l’impiego di rituximab o di bortezomib in associazione a IG-vena e plasmaferesi non ha dato i risultati sperati. Nella maggior parte degli studi che hanno valutato l’efficacia di questi protocolli, non è stato evidenziato alcun beneficio derivato dall’uso di questi nuovi farmaci [46-48].
Qualche aspettativa è stata recentemente riposta nei farmaci inibitori del complemento. Alcuni studi disponibili in letteratura mostrano un beneficio fornito dall’uso di inibitori del C1q nel prevenire lo sviluppo di glomerulopatia cronica da trapianto [49], nel migliorare la funzione renale e ridurre i DSA leganti il complemento [50]. Tuttavia, si tratta per lo più di piccoli studi pilota, con numerosità limitata del campione e breve follow-up.
Al di là di singoli casi o piccole serie di pazienti, non vi sono studi significativi che attestino l’utilità di Eculizumab, in particolare quando impiegato come terapia di salvataggio dopo fallimento delle terapie standard o per trattare rigetti umorali tardivi o rigetti umorali cronici [51]. In merito agli anticorpi monoclonali anti-complementari, è possibile che l’inefficacia evidenziata in molti studi sia stata condizionata da un non corretto uso. Lefauscheur ed al. nel 2018 hanno messo in luce come l’efficacia di trattamenti come IG-vena + plasmaferesi prevalga nei rigetti sostenuti da DSA non leganti il complemento (C1q negativi). Al contrario, l’efficacia di Eculizumab risulta superiore a quella di plasmaferesi + IG-vena nei casi in cui il rigetto sia sostenuto dalla presenza di DSA C1q positivi [52]. Questi dati sembrano pertanto suggerire come Eculizumab o l’inibitore della C1 esterasi Berinert, debbano essere farmaci da utilizzare solo nei casi selezionati di rigetto, sostenuti da anticorpi capaci di legare il complemento.
Un altro elemento che sembra giocare un ruolo chiave nella risposta alla terapia con inibitore complementare è rappresentato dal fattore tempo. In un recente lavoro di Tan et al. sono stati trattati 15 pazienti con AMR ad insorgenza precoce. L’impiego tempestivo di Eculizumab, associato a IG-vena ed a plasmaferesi nelle forme più severe, si era associato ad una risposta clinica ed istologica favorevole nel 70% dei casi [53]. In questa esperienza l’Eculizumab si è rivelato efficace nella maggior parte dei casi di rigetto precoce (diagnosticato entro il primo mese post-trapianto) caratterizzato da lesioni istologiche lievi e trattato entro 48 ore dalla diagnosi. Considerando che sono proprio i rigetti precoci ad essere il più delle volte sostenuti da DSA anti HLA di classe I e che più spesso la sottoclasse di questi anticorpi è la IgG3, che è quella con maggior capacità legante il C1q, si comprende come è proprio in questi casi che ci si aspetta un beneficio dall’uso di terapie che agiscono bloccando la cascata complementare.
Conclusioni
Il rigetto acuto anticorpo-mediato rappresenta direttamente o indirettamente (attraverso il successivo sviluppo di rigetto cronico) la causa principale di fallimento del trapianto di rene, sia nel breve che nel lungo periodo.
Gli anticorpi implicati nel rigetto umorale non sono rappresentati solo da DSA anti-HLA, ma possono essere diretti anche contro altre famiglie di antigeni non-HLA. Sempre più numerose sono le evidenze che suggeriscono un ruolo di questi ultimi nella catena di eventi che determinano o amplificano un danno tissutale innescato primitivamente da processi infiammatori aspecifici, come quelli da ischemia/riperfusione, da infezione o da rigetto acuto cellulare.
I meccanismi patogenetici con cui i DSA determinano danno tissutale possono essere complemento-mediati oppure diretti e cellulo-mediati.
La severità e l’andamento di un rigetto acuto umorale può dipendere da vari fattori DSA correlati:
- il target antigenico (HLA di classe I, HLA di classe II, non-HLA);
- la coesistenza o meno di DSA anti-HLA e non HLA (fattore prognostico sfavorevole);
- la sottoclasse IgG del DSA dominante (capace di fissare o meno il complemento);
- il titolo dei DSA (significativo se MFI>5000).
Il numero dei mismatch, in particolare dei loci DR e DQ dovrebbe essere maggiormente valorizzato nella selezione del candidato al trapianto, quale misura atta a prevenire l’insorgere di un rigetto acuto mediato da DSA anti HLA.
Il monitoraggio dei DSA circolanti deve costituire parte integrante della gestione del paziente trapiantato di rene, quale misura atta a permettere una diagnosi tempestiva di rigetto anticorpo-mediato.
Non esistono trial controllati che documentino con risultati univoci l’efficacia di farmaci e procedure attualmente riconosciute quali terapie standard del rigetto acuto anticorpo-mediato. A tutt’oggi non esistono studi mirati a verificare l’utilità o meno di depletori linfocitari come le globuline anti-timociti, sinora poco impiegati nel trattamento di questa forma di rigetto acuto. Recenti dati, da confermare con trial controllati, sembrano suggerire il ruolo favorevole dell’Eculizumab nel trattamento delle forme precoci di rigetto acuto anticorpo-mediato.
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