Supplemento S73 - Articoli originali

Un mondo che invecchia: prospettive demografiche e medicina del futuro

Abstract

L’invecchiamento, insieme alla denatalità, è un fenomeno demografico che caratterizza l’attuale assetto sociale del Paese e che si accentuerà ulteriormente nel futuro, con effetti ancor più dirompenti sotto il profilo epidemiologico. Una radicale revisione dell’attuale approccio della medicina e dell’assetto dei servizi sanitari e sociali appare pertanto fondamentale. Sarà prima di tutto imprescindibile sviluppare la prevenzione, per garantire elevati livelli di autosufficienza anche nelle fasi avanzate della terza età e, allo stesso tempo, appare necessario un ulteriore forte investimento per nuove soluzioni assistenziali efficaci e a basso costo, centrate sul domicilio e sul territorio e in grado di inglobare efficacemente le reti di sostegno informali.

Parole chiave: Invecchiamento, cronicità, dimensione soggettiva della terza età, prevenzione, innovazione dei modelli di cura e assistenza.

Un paese di grandi vecchi 

Il fenomeno dell’invecchiamento rappresenta un tema centrale che ha già ampiamente dimostrato di condizionare, in Europa ed in tutto l’Occidente, per la sua portata ed i suoi ritmi, sia il welfare che l’assetto produttivo ed il mondo dell’economia, e tuttavia è un fenomeno che ormai da tempo attende di essere posto realmente al centro dell’agenda dell’intervento politico e sociale. 

L’Italia è oggi uno dei paesi più vecchi e longevi dell’Unione Europea e del mondo: la quota di 65enni e oltre sul totale della popolazione, secondo dati Istat ed Eurostat, era pari al 21,4% a gennaio 2014, rispetto al 18,5% dell’Unione a 28. L’unico dato paragonabile in Europa è quello della Germania (20,8%), mentre a livello mondiale siamo secondi solo al Giappone (22,6% nel 2015) (fig. 1).

Come altri paesi occidentali, l’Italia si trova da tempo nella fase compiuta della transizione demografica, caratterizzata da tassi di natalità e mortalità particolarmente bassi.

Tuttavia, al momento, la situazione dell’invecchiamento appare ancora differenziata tra le varie zone del paese: si assiste infatti al prevalere (con una unica eccezione) di tutti gli indicatori della longevità al Centro Nord, ma si intravedono già nuovi scenari di progressiva e più accelerata senilizzazione al Sud. 

Le regioni più anziane sono la Liguria (in cui gli over64 nel 2016 costituiscono il 28,2% della popolazione totale), il Friuli Venezia Giulia (25,5%) e la Toscana (24,9%), mentre Campania (17,9%), Trentino Alto Adige (20,1%) e Sicilia (20,2%) sono le regioni con una presenza di anziani ancora decisamente minore (fig. 2).

Ma questo quadro consueto sta progressivamente cambiando sotto i nostri occhi, con un’accelerazione significativa del fenomeno dell’invecchiamento proprio nel Sud del Paese, che perderà quindi tutti i vantaggi di una struttura d’età della popolazione più giovane. Le previsioni già per il 2030 mostrano che in tutte le ripartizioni territoriali la quota di anziani sul totale della popolazione sfiorerà il 27%.

Ma il dato peculiare del nostro paese è l’aumento dell’aspettativa di vita che determina un incremento significativo non solo degli anziani tout court ma proprio dei grandi vecchi: a fronte di una aspettativa di vita alla nascita nel 2016 di 85,1 anni per le donne e 80,6 per gli uomini, l’incidenza delle persone di 80 anni e oltre sul totale degli anziani è pari al 30,1% (fig. 3 e fig. 4).

Più anziani, soprattutto donne, che vivono di più, quindi, come i numeri sull’aspettativa di vita anche in prospettiva fanno ben intravedere, e questo non potrà che avere un impatto anche sotto il profilo epidemiologico.

Infatti, nonostante i miglioramenti complessivi dei livelli di salute della popolazione e degli anziani in particolare, è probabile che si debba assistere ad un aumento dell’incidenza e della prevalenza delle malattie cronico-degenerative, a forte impatto assistenziale, che si accompagna tendenzialmente ad un incremento della disabilità.

Il nesso crescente tra età e non autosufficienza è inequivocabile: i dati Istat mostrano che la quota di persone con limitazioni funzionali sale al 19,8% tra gli anziani, a fronte del 5,5% relativo alla popolazione complessiva e raggiunge il 43,2% tra le persone con 80 anni e più (tab. 1). 

Eppure sarebbe estremamente riduttivo e per molti versi inappropriato definire l’attuale situazione e lo scenario futuro basandosi esclusivamente sull’equazione semplicistica anziano= malato=persona bisognosa di assistenza.

Già oggi gli italiani che anagraficamente entrano nella terza età presentano caratteristiche fisiche e socioculturali migliori di quelle delle generazioni anziane che li hanno preceduti.

Considerando il livello di istruzione come indicatore del livello socio-economico generale, si evidenzia una progressiva anche se lenta riduzione tra gli over 64 della percentuale di chi ha i livelli di istruzione più bassi e la crescita di quelle con i titoli di studio più elevati. Dal 2004 al 2016 gli over 64 in possesso della laurea sono passati dal 3,6% al 6,3% e quelli con il diploma dal 7,8% al 13,1%.

Inoltre, nel nuovo assetto della condizione anziana diventa sempre più rilevante la dimensione soggettiva, a partire dalla stessa autodefinizione di anziano (secondo una recente ricerca del Censis anche tra chi ha 70 anni e più la quota di chi non si sente anziano è maggioritaria, pari al 55,4%) e la stessa percezione del proprio livello di salute appare molto condizionato dalle caratteristiche individuali, tra cui hanno un peso strategico proprio le condizioni culturali ed economiche.

Tuttavia, nonostante anche la condizione di salute in questa fascia di età possa tendere a migliorare, rimane il fatto che a caratterizzare questa fascia d’età in modo significativo sia la presenza di situazioni di cronicità. L’indagine sulla condizione di salute dell’Istat del 2016 mette in luce che quasi la metà degli over 64enni è affetto da almeno due malattie croniche e la percentuale sale al 65,4% tra chi ha 75 anni e più.

Il tratto essenziale delle malattie prevalenti della terza età continua dunque ad essere il loro carattere cronico degenerativo, da cui deriva la necessità di un approccio di cura basato sia sul controllo continuo delle patologie che su una significativa componente assistenziale.

Il quadro dell’offerta territoriale e domiciliare appare tuttavia fortemente carente e differenziata sul territorio nazionale. Ne è un esempio la situazione dell’Assistenza domiciliare integrata (ADI) che assisteva nel 2016 solo il 2,78% degli anziani con forti oscillazioni regionali (fig. 5). 

A garantire, pur tra molte difficoltà, il mantenimento degli equilibri complessivi del nostro welfare, nonostante i primi effetti dell’invecchiamento progressivo della popolazione siano già ampiamente in atto, è stata certamente la capacità di adattamento e di autoregolazione delle famiglie italiane, in particolare la capacità di trovare all’interno della famiglia risorse disponibili a sostenere i diversi membri nei casi di difficoltà. 

Ad occupare un ruolo assolutamente centrale in questo modello sono naturalmente i caregiver, ossia quei familiari (spesso si tratta dei coniugi delle persone non autosufficienti, ma ancor più spesso si tratta di figli e soprattutto di figlie) che si prendono la responsabilità di organizzare, gestire e supervisionare le cure, e che spesso prestano gran parte dell’assistenza in prima persona, con il sempre più frequente accompagnamento di una badante. Ad oggi si stima che siano circa 1 milione le badanti che aiutano le famiglie a far fronte ai bisogni di assistenza continuativa di un proprio componente, e si tratta di un dato spesso sottostimato, per la forte presenza di situazioni di irregolarità delle badanti, in grandissima parte straniere.

La diffusione traversale in tutto il territorio nazionale di questa forma di autogestione familiare è un ulteriore indicatore della carenza delle risposte istituzionali alle diverse condizioni di non autosufficienza. Ma è anche un importante segnale della propensione molto diffusa tra le famiglie a ritenere la casa come il luogo più adeguato, quando le condizioni lo consentono, a garantire cura e sostegno al proprio familiare in difficoltà. A condizione però che la scelta della permanenza al proprio domicilio sia sostenuta dalla presenza e dal supporto non sporadico di una rete integrata di servizi, ospedalieri ma soprattutto territoriali, in grado di garantire un processo di cura, di assistenza e di inserimento sociale adeguato.

Il viraggio verso una reale territorializzazione dei servizi ma anche verso un reale impegno per la prevenzione e l’intervento precoce sulle malattie croniche, appare ormai ineludibile.

Infatti, anche il modello attuale di assistenza fondato sul forte ruolo familiare nell’assistenza ai propri cari, alla luce delle prospettive di consistente invecchiamento della popolazione, della riduzione della popolazione attiva e di una crescente molecolarizzazione delle strutture familiari, potrebbe conoscere una grave crisi. 

Le dinamiche demografiche configurano un nuovo assetto sociale in cui sarà importante contribuire con tutti i mezzi ad assicurare, prima di tutto, elevati livelli di autosufficienza, anche nelle fasi avanzate della terza età, per quote crescenti di popolazione. In secondo luogo, diventa indispensabile individuare soluzioni a basso costo che riducano i rischi di ospedalizzazione e istituzionalizzazione e siano in grado di rispondere alle esigenze assistenziali, presumibilmente comunque crescenti, di anziani con problemi di autonomia, attraverso una diffusa presenza a domicilio e sul territorio di servizi e prestazioni.